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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />
Quando giunsi davanti al severo edificio del liceo Campanella a Reggio Calabria, vi trovai<br />
un’animazione insolitamente rumorosa: una quarantina di miei compagni esaminandi si erano raccolti<br />
attorno a un candidato, che per diverse ragioni aveva attratta la loro curiosità. Era un seminarista alto<br />
e forte e roseo, proprio un bel ragazzone, con una sottana azzurra dai bottoni rossi, un largo mantello a<br />
ruota ed un cappello di pelo così bel ravviato, che luccicava come l’ala di un corvo. Ma quello che<br />
soprattutto aveva dato la stura alle risa ed ai motteggi arguti dei miei compagni era un enorme<br />
vocabolario, che il seminarista si portava trionfalmente sotto il braccio, come per spaventare l’esame e<br />
gli esaminatori.<br />
Il seminarista rosso, in volto, un po’ impacciato, si guardava intorno e rispondeva con monosillabi ai<br />
motteggi che gli fioccavano addosso da ogni parte. La gazzarra fu tale che il giorno dopo quel povero<br />
figliolo pensò bene di smettere l’abito talare e si presentò vestito in borghese. Non l’avesse mai fatto!<br />
A vederlo apparire sulla piazzetta davanti al ginnasio, con un vestito marrone tagliato alla brava, una<br />
svolazzante cravatta nera, e un largo cappello da rivoluzionario, sollevammo un tale clamore di<br />
motteggi e di risa, che se non fosse intervenuta immediatamente la campana, che ci chiamava alla<br />
prova di latino, la gazzarra sarebbe andata a finire in un pugilato.<br />
Quando fummo nell’aula il seminarista me lo trovai seduto vicino; e poiché l’orgasmo dell’esame<br />
imminente mi aveva tolta la voglia di scherzare, gli domandai: - Sei ben preparato?<br />
- Abbastanza – mi rispose.<br />
E lo era di fatti: almeno più di me che un po’ per paura, un po’ per un vecchio fatto personale che<br />
avevo sempre avuto con la lingua di Cicerone, copiando sotto dettatura un brano di Quinto Curzio,<br />
invece di "penuria" mi accingevo a scrivere "pecunia aquarum". Poi ci facemmo delle confidenze.<br />
Seppi così che si chiamava Palumbo, che non aveva altri al mondo che uno zio che lo amava<br />
svisceratamente, e che si proponeva, dopo l’esame, di fargli smettere l’abito talare e mandarlo a<br />
proseguire gli studi fino all’Università di medicina. Almeno questi erano i propositi di suo zio,<br />
poveretto!<br />
L’esame andò bene, fummo promossi ambedue e ci ritrovammo coi primi di ottobre al liceo.<br />
Palumbo era diventato più disinvolto, più snodato e chiassoso, e del seminarista non gli rimanevano<br />
che le cravatte, certe grosse cravatte inverosimili, tutte a ramaglie e fiori vistosi, che sembravano<br />
ricavate da un vecchio piviale. Aveva diciotto anni, era sano e forte come un torello e voleva<br />
vendicarsi delle mortificazioni e delle privazioni subite in tanti anni di seminario: voleva divertirsi.<br />
Naturalmente divertirsi a quell’età significa soprattutto avvicinare delle donne; e quello era il tema<br />
principale dei suoi discorsi.<br />
Il mio amico Palumbo pensò che per avvicinare delle donne bisognava frequentare delle feste, e per<br />
frequentare delle feste bisognava prima di tutto saper ballare, perciò si fece presentare ad un maestro<br />
di ballo, un suonatore di bombardino, che dirigeva una banda rionale, insegnava all’orfanotrofio,<br />
suonava l’organo nella chiesa del Carmine, e per utilizzare le ore serali e guadagnare ancora qualche<br />
scudo, teneva nella sua casa una specie di sala da ballo per studenti, dove con cinque lire s’imparava<br />
perfino la quadriglia.<br />
Ma la vera attrattiva di quella sala da ballo era costituita da una figlia del maestro, una lucertolina<br />
magra, secca e nera come un baccello di veccia che faceva da ballerina per tutti i frequentatori.<br />
Non aveva di bello che due occhi neri come il pepe che sembravano due candele accese su una faccia<br />
magra e sottile, sparsa qua e là di qualche piccolino quanto un grano di sabbia; ma era vivacissima,<br />
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