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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />
riconosciuto ed egli era felice. Sarebbe stato un mendicante qualunque, l’uomo che passa e stende la<br />
mano, senza lasciare alcuna traccia del suo passaggio.<br />
Per qualche minuto si udì la ragazza canticchiare nella casa, tra un acciottolio di piatti, poi lo<br />
schioccare energico della sottana e si avvicinò di nuovo e la voce fresca gli risuonò ancora su la testa.<br />
"Ecco, prendete e mangiate".<br />
"Prendete e mangiate! Non erano quelle le parole di Gesù agli Apostoli nell’ultima cena?".<br />
Rafele allungò le mani, toccò un piatto di creta e un pezzo di pane. Un profumo di vivanda calda, gli<br />
passò come un soffio sul viso.<br />
"Grazie, figlia cara, grazie!… Per l’anima dei nostri morti".<br />
Appoggiò il piatto su le ginocchia e, scorrendo lungo l’orlo, trovò il cucchiaio di legno. Addentò il<br />
pane e si mise a mangiare. Le fave fresche fresche, morbide, condite col lardo, avevano un sapore<br />
buono di carne vegetale, e il pane, con la crosta screpolata ai margini e in mezzo liscio, era soave al<br />
tocco come un volto umano.<br />
Come era buono quel mangiare! Rafele non aveva mai gustato il sapore di un cibo come quel giorno.<br />
Ancora qualche minuto e la ragazza ritornò. Dal suo respiro greve e da una specie di controllo nella<br />
voce Rafele comprese che quella aveva qualche cosa di pesante su la testa: "State attento – disse – vi<br />
metto qui su lo scalino dell’uscio un bicchiere di vino. Io vado a portare da mangiare ai miei nella<br />
vigna.<br />
Chiuse l’uscio a chiave e si allontanò a passi svelti.<br />
Ora Rafele era solo sull’aia. Continuò a mangiare ascoltando il proprio respiro. Quando ebbe finito<br />
allungò la mano verso lo scalino e trovò il bicchiere col vino e bevve.<br />
Un piacevole calore gli inondò le viscere. Poi posò il piatto, vuoto su la soglia, e un po’ imbambolato<br />
dal calore del pasto, si rimise in ascolto. Era il suo modo di ricominciare il colloquio col mondo.<br />
Doveva essere mezzogiorno perché un gran silenzio era nell’aria.<br />
Dalla gronda sopra la sua testa scendeva un pigolio minuto di passeri nidificanti, che sembravan il<br />
gocciare melodioso di una fontana.<br />
Rafele pensava tra sé: "Io ora sono solo al mondo, non ho più nessuno e non posseggo nulla. Sono più<br />
misero del passero del tetto e del verme sotto il sasso: essi possono procurarsi il cibo ed io non lo<br />
posso più. Eppure sono contento. Da oggi la mia esistenza dipenderà dalla carità degli uomini, eppure<br />
io sono felice. Un piatto di fave e un bicchiere di vino bastano per rendermi così! Ah!, quanto poco ci<br />
vuole per far felice un mendico!".<br />
<strong>ZIA</strong> CHIARINA<br />
Tutti gli anni, quando ragazzo ritornavo dal Collegio per le vacanze estive, la persona che, dopo i miei<br />
genitori, io rivedevo con più piacere, era la zia Chiarina, una sorella di mia madre, rimasta nubile, che<br />
viveva solitaria, con un corvo e una domestica, nella vecchia casa dei nonni, in fondo il paese.<br />
La zia Chiarina non era bella ma neppure brutta: piccola, nervosa con gli occhi neri, aguzzi come due<br />
spilli, tutti fuoco e volontà, il volto pallido, un po’ macerato dai quarant’anni, i capelli nerissimi,<br />
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