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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />
Intanto avevo tirato fuori la piccola busta dei ferri chirurgici che portavo sempre con me e, allargatale<br />
sopra il canterano, avevo sfilato dalla guaina di cuoio il bisturi.<br />
- Cosa facciamo, professore? – mi chiese ancora il medico curante sempre più disorientato.<br />
- Facciamo un salasso – risposi. – Presto un catino, con l’acqua.<br />
Il catino venne, mi avvicinai al letto dove il malato, ricaduto sul guanciale, rantolava. Gli presi un<br />
braccio, glielo denudai fino all’omero, lo distesi in modo da far emergere il rilievo delle vene, e<br />
avvicinato il bisturi, ne punsi una.<br />
Un getto di sangue nero, come uno zampillo di una fontana, sprizzò lungo il petto e lo attraversò tutto,<br />
tanto che qualche spruzzo bagnò il pavimento poi attenuatosi l’impeto, il getto inondò il braccio, e in<br />
un attimo arrossò l’acqua del catino. Un po’ spaventato, il malato emise un profondo sospiro e<br />
lentamente, languidamente, chiuse gli occhi.<br />
A poco a poco il cerchio che gli serrava la testa parve allargarsi, il respiro prese un ritmo più calmo e<br />
regolare, e un velo di sudore fresco gli imperlò la fronte. A un tratto aprì gli occhi. Il suo sguardo era<br />
più calmo e regolare, il viso aveva perduto la tinta congestionata e aveva l’espressione di sofferenza<br />
quasi infantile, come quella di un bimbo che esce da una terribile paura.<br />
- Professore – mormorò a un tratto – grazie… Ho l’impressione che lei mi abbia salvato con questo<br />
salasso.<br />
Il medico curante mi guardava stralunato, persuaso ormai di avere sbagliato la diagnosi e si<br />
rannicchiava intorno a me come se volesse dissimulare la propria presenza. Io fasciai in fretta il<br />
braccio del malato, assicurai la signora che ogni pericolo era scomparso, e mi congedai.<br />
Avevo bisogno di essere solo con me stesso, di guardare dentro di me, direi quasi di palparmi, come<br />
chi è caduto da una grande altezza e si meraviglia di essere incolume.<br />
Quando fui fuori dal portone, avvertii sul viso quel fresco particolare dell’aria che precede l’alba. Le<br />
vie intorno al viale laterale che andava verso Monza erano assolutamente deserte. Avevo bisogno di<br />
fuggire gli uomini. Come avanzavo, ogni fruscio mi dava un brivido, mi faceva trasalire. Procedevo<br />
spedito, leggero, col viso contro il vento mattutino e avevo una strana voglia di gridare, di gesticolare,<br />
di abbracciare gli alberi, come la prima volta che ero ritornato da un convegno amoroso. Avevo vinto<br />
il mio demone. Qualche cosa di brutto e di osceno che era in me stato soggiogato, e andavo come se<br />
dovessero crescermi le ali.<br />
Mi trovavo fuori della città, in campagna. Qua e là vedevo delle case coloniche, da cui cominciavano<br />
a levarsi i canti dei galli. Dietro gli alberi il cielo prendeva una tinta di porfido. Da un viottolo sbucò<br />
un carretto tirato da un cavalluccio bastardo. Un fruttivendolo che portava in città delle pesche, me ne<br />
accorsi del profumo quando mi passò vicino.<br />
Mi venne una voglia strana mi mordere qualche cosa di fresco, d’innocente, di comunicarmi con un<br />
puro prodotto della terra, di riconciliarmi con la vita. Fermai il carrettiere e gli chiesi:<br />
- Porti delle pesche? Dammene una.<br />
- Prendete, signore – mi disse quello scoperchiando un cestino – sono fresche come le rose.<br />
Ne afferrai una e mentre gli tendevo una moneta, l’addentai. Il succo dolce e un po’ agretto mi scese<br />
nella gola come un lavacro. Mi si rischiararono i pensieri e il cuore riprese il suo ritmo pieno e sereno.<br />
Ero salvo.<br />
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