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LA ZIA FRANCESCA

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

intimo e di prezioso, e non so che cosa sia. Odo dei passi, uno pesante, un altro leggero. Mi volto:<br />

dietro il marito entra una donnetta grassa, vestita alla casalinga, con le mani sul seno, i capelli arruffati<br />

come un nido, con qualche filo grigio e un viso appassito.<br />

È lei, Clotilde!<br />

- Benvenuto il nostro illustre cugino – mi dice, e mi tende una mano grassoccia, non eccessivamente<br />

pulita che porta le tracce di un diuturno lavoro domestico. – Come stai, caro Giovanni, quanto è che<br />

non ci vediamo?<br />

- Sono venti anni, cugina, venti anni. E tu come stai?<br />

- La salute c’è, il pane anche, e ringraziamo Iddio! – Nel dire queste parole rivolge un’occhiata al<br />

marito con un senso di gratitudine. Poi riprende a parlare.<br />

- Accomodati, quanto tempo starai con noi… tre giorni?… troppo poco. Noi abbiamo appreso i tuoi<br />

trionfi, sappiamo che sei diventato un uomo celebre. Io non leggo mai, non ho tempo, caro cugino; ma<br />

i tuoi libri li ho presi tutti e ne tengo sempre qualcuno sul tavolino da notte.<br />

Io la guardo, sorpreso, malinconico, deluso. Della Clotilde di un tempo non ha che il sorriso, un<br />

sorriso sfiorito, reso più dolce da una attitudine pietosa e materna. Il suo corpo è sformato, il suo volto<br />

senza splendore e gli occhi sono tristi, con uno sguardo angusto, da animale domestico. Il neo sulla<br />

pinna del suo naso un po’ lungo, è diventato grosso come una lenticchia e dà alla sua fisionomia un<br />

non so che di grossolano e di volgare.<br />

Invano io cerco su quel viso, in quegli occhi tristi e buoni un qualche ricordo, una emozione del<br />

passato. Clotilde mi sorride, parla, risponde e la sua anima mi si rivela tutta ad un solo sguardo come<br />

la palma della mano.<br />

Marito e moglie mi parlano del raccolto, delle tasse, dei figliuoli. Uno dopo l’altro questi entrano nella<br />

stanza, me li presentano: Enrichetto, Pietro, Rachelina e il maggiore Giovanni, un ragazzo sui diciotto<br />

che fa il liceo.<br />

- Si chiama come te, mi dice Clotilde.<br />

- Ah!… come me? – dico io con una breve emozione. Penso che al suo primo figlio, in ricordo del<br />

nostro amore, abbia dato il mio nome. Ma lei soggiunge: è il nome del padre di mio marito. E tu non<br />

hai preso moglie, perché? Non ti è piaciuta nessuna di coteste donne eleganti della città?<br />

- Non ci ho pensato, Clotilde, non ci ho pensato.<br />

Ella mi guarda con una certa pietà. Io le ricerco gli occhi, ma il suo sguardo non ha una emozione.<br />

Andiamo a tavola: lei ordina, comanda, fa le parti, ammonisce i bambini, sorveglia amorevolmente il<br />

marito e per me ha le speciali premure che si hanno per un ospite di riguardo. La cena è abbondante,<br />

festosa.<br />

- Questo vino è della nostra vigna – dice Clotilde. I formaggi, la ricotta, i polli, le verdure: tutto hanno<br />

in casa, stanno bene, sono ricchi ed ho l’impressione che siano felici. Un’aurora di benessere mi pare<br />

vapori dalle vivande, dalle bocce di vino rosso allineate sulla tavola, dalla frutta profumata e dal cibo<br />

rubicondo dei bambini. Uno di essi, la Rachelina, somiglia a sua madre: il suo visino ovale delicato e<br />

fresco come un fiore di magnolia è segnato da piccoli nei bruni. Anche i suoi occhi neri hanno lo<br />

sguardo soave della colomba. Io lo contemplo, quel visino che viene verso la vita, lo fisso a lungo<br />

inquadrato tra due bottiglie, sotto la luce giallastra dei candelieri ad olio, a quattro becchi, e mi pare di<br />

file:///C|/WINDOWS/Desktop/STORIE HTML colorato 418.htm (60 di 114) [03/09/2002 19.26.02]

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