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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />
degli innamorati, con uno struggimento senza fine.<br />
Ma una sera avvenne l’irreparabile. Era una sera bellissima d’estate, calda, eccitante, calata dopo una<br />
giornata d’afa e di polvere, una di quelle sere che cacciano fuori anche i vecchi, non fosse altro sulle<br />
terrazze per vedere il cielo, e respirare l’aria refrigerante delle ore notturne. Io ero da due ore al mio<br />
balcone e non mi risolvevo a rientrare, pareva che un sortilegio speciale mi tenesse lì curva sulla<br />
piccola ringhiera di ferro a guardare gli alberi del Valentino, e dietro il cielo tutto incoronato di grosse<br />
stelle. Via Madama Cristina quella sera era insolitamente deserta, e i tram continuavano a passare<br />
quasi vuoti. Anche la coppia che di consueto veniva a passeggiare sotto gli ippocastani del corso non<br />
si era fatta vedere quella sera. Io ero triste fino alle lacrime, e la mia tristezza era accresciuta da un<br />
pianoforte che in una casa di fronte suonava una romanza del Ballo in Maschera:<br />
che ti resta perduto l’amore<br />
che ti resta mio povero cor.<br />
Quella musica a quell’ora, in quella sera solitaria, mi produceva sul cuore l’effetto di una mano ruvida<br />
sopra una ferita. Sentivo un terribile bisogno di piangere, ma non potevo, un nodo mi si era stretto<br />
nella gola e non mi lasciava quasi respirare. A un tratto da Corso Valentino sbucò barcollando un<br />
ubriaco, cantava una canzone lubrica, una di quelle canzonacce che compongono i facchini<br />
avvinazzati, e i viaggiatori di commercio. All’udire quella canzone brutale mi sentii presa da una<br />
specie di delirio. Un desiderio pazzo di fuggire mi prese, una frenesia di andare non sapevo dove,<br />
purché andassi fuori da quella casa angusta, da quella vita metodica, virtuosa, lontano dagli occhi di<br />
mio padre e di mia madre, che mi sembravano due carcerieri. Sentivo che se non fossi scappata, mi<br />
sarei buttata giù dal balcone e mi sarei sfracellata sul selciato. I miei erano a letto. Io rientrai nella<br />
stanza, afferrai il mio cappellino, e senza mettermelo neppure in testa, aprii cautamente la porta. In<br />
due minuti fui sulla strada, dove mi misi a correre come una pazza verso il centro.<br />
Da quella sera non sono rientrata in casa mia e forse non vi rientrerò più. Ai miei genitori, scrivo, ma<br />
senza mandare il mio indirizzo per paura che le lettere di mia madre mi raggiungano, e<br />
sorprendendomi ancora in un momento difficile, m’inducano di nuovo a ritornare.<br />
Dopo quello che ti ho detto, dunque, tu pensi che io possa diventare la baronessa di Santa Gudula?<br />
No, povera me, non posso, e sono troppo onesta per ingannare la gente. Ho accettato di passare<br />
l’estate qui su questa spiaggia con quel ragazzo, e mi pare che gli tengo una eccellente compagnia. Fra<br />
un mesetto al massimo me ne andrò via e forse non rivedrò più nessuno di voialtri al mondo. Voi<br />
quando sarete, da qui a qualche anno, dei pacifici professionisti, e avrete sposata regolarmente<br />
qualcuna di questa goffe donne del vostro paese, che non osano guardare in faccia gli uomini per<br />
paura di fare peccato, sdraiati su questa spiaggia, vi ricorderete della Ghitinetta come di una<br />
mattacchiona graziosa che vi tenne allegri per circa due mesi e poi sparì.<br />
- E la Ghitinetta allora dove sarà? – chiesi io commosso, mettendogli le mani sotto la gola e fissandola<br />
negli occhi.<br />
- Chi sa, mi rispose, forse all’ospedale, forse sarà morta.<br />
Si cacciò in bocca, ridendo, un altro cioccolatino.<br />
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