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LA ZIA FRANCESCA

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Era alta, sottile, di ossatura delicata, con un viso ovale e bianco, che in gioventù doveva essere stato<br />

bellissimo, e un neo dai pelucchi biondi su un angolo del mento. Sebbene fossi tanto bambino, io<br />

sentii subito per istinto che Donna Maruzza non era una popolana.<br />

Ricordo ancora l’impressione misteriosa, di piacere e insieme di sgomento, che provavo quando ella,<br />

sola con me nella sua casupola, si scopriva l’omero, per farmi vedere un lipoma che aveva sulla<br />

scapola sinistra: una cosa enorme quanto una scodella da latte, che formava una gobba.<br />

Sotto la pelle candida, di una finezza di seta, che io toccavo esitando, il lipoma ondeggiava e cedeva,<br />

come se contenesse del liquido.<br />

Per quanto i bambini non facciano mai attenzione all’amore che li circonda, pure io vedevo che la più<br />

grande felicità per Donna Maruzza, dopo quella di avermi vicino, era quella di vedermi mangiare.<br />

Bambino nervoso ed estroso, disperatamente attaccato al giuoco, in casa mia mangiavo pochissimo,<br />

con grande corruccio di mia madre. Donna Maruzza invece era orgogliosa del suo privilegio di<br />

riuscire a farmi mangiare. Di quando in quando si chiudeva misteriosamente in casa, il suo tetto<br />

fumava per qualche tempo, poi col volto acceso sporgeva il capo fuori dall’uscio e mi chiamava a<br />

bassa voce, come se si trattasse di una congiura. Io accorrevo e trovavo su una cassa piccola un bel<br />

piatto di maccheroni ben conditi e inalbati di formaggio.<br />

Fosse quell’aria di sotterfugio o lo stimolo inconscio della cosa proibita, certo è che mi veniva una<br />

fame da lupo, e mai in casa mia avevo trovato quel cibo tanto stranamente saporoso. Poi Donna<br />

Maruzza andava a prendere un uovo da sotto la gallina, e prima di mettermelo in tasca, mi appoggiava<br />

la punta nel cavo dell’occhio perché, diceva, quel caldo era propizio a mantenere sana la vista. Io<br />

chiudevo le palpebre, e a quel tepore, dolce e intimo come quello di un grembo, mi sentivo inebriato,<br />

come deve sentirsi un insetto nel calice di un fiore. Mia madre era gelosa di questa mia intimità con<br />

Donna Maruzza, ma affannata dalle continue maternità ed occupata a curare i miei fratellini, ad un<br />

dato momento parve contenta che qualcuno la sollevasse dalle sue cure verso di me. Quando poi morì<br />

mio padre, la sua ostilità cadde del tutto, e le mie due madri, quella carnale e quella putativa, parve<br />

ritrovassero in un comune dolore, un nuovo terreno d’intesa e di reciproca tolleranza.<br />

Allora, specialmente d’inverno, nei giorni di scirocco, Donna Maruzza vicino a me sopra uno<br />

sgabello, ed io seduto sulla cassa piccola, passavamo delle mezze giornate intere, io ad ascoltare e lei<br />

a recitare rapsodie di Santi. Mai nessun libro in seguito aprì alla mia fantasia le magiche porte del<br />

sogno e dell’emozione, come allora i racconti di Donna Maruzza.<br />

Ma la fanciullezza passò senza che me ne accorgessi, io terminai le scuole in paese, partii per il<br />

collegio, e Donna Maruzza non la vedevo che durante le vacanze. Attratto oramai da altre esperienze e<br />

da altri desideri, sentivo che le sue sollecitudini materne non m’interessavano più. E poi lei era molto<br />

invecchiata e di notte, a quanto mi riferiva mia madre, cominciava a vaneggiare. Le era nata in mente<br />

la strana idea che qualcuno tentasse di forzare la sua porta a scopi peccaminosi.<br />

Un anno – ero già all’università – mi recai a casa per trascorrere il Natale. Giunsi di sera avanzata, con<br />

un tempo pessimo, e non feci caso se non vidi Donna Maruzza, ma all’indomani, col tempo che si era<br />

rimesso al bello, mi parve strano di non vederla. Sebbene fosse rinsecchita e un po’ svanita, non<br />

mancava mai di venirmi a trovare con tre o quattro uova nel grembiule. Mi affacciai al balcone,<br />

guardai verso la sua casupola. Sul tetto, dove pigolavano alcuni passeri arruffati per il freddo, neppure<br />

un indizio di fumo: le tegole erano ancora umide della pioggia notturna. La porta, a me tanto<br />

familiare, tagliata in due battenti orizzontali e sovrapposti, era a metà chiusa, e tra il battente inferiore<br />

e quello superiore sporgeva un bastone, evidentemente collocato per ottenere che quello superiore<br />

rimanesse alquanto discosto e nel tugurio entrasse un po’ di luce.<br />

file:///C|/WINDOWS/Desktop/STORIE HTML colorato 418.htm (32 di 114) [03/09/2002 19.26.01]

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