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LA ZIA FRANCESCA

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

quanti! Ho saltato i pasti per delle settimane, ho impegnato i vestiti, ho dormito in soffitta d’inverno<br />

senza fuoco con una tazza di caffè e latte nello stomaco, e un panino integrale; e dieci giorni dopo ho<br />

giocato e perduto in una sera cinquanta biglietti da mille, dopo avere sciupato lo champagne come<br />

l’acqua d’una fontana. Ho portato gioielli da principessa e li ho venduti per il capriccio d’un uomo che<br />

mi piacque. Amare, di quell’amore esplosivo, irragionevole che rende infelici, forse non ho mai<br />

amato, perché difficilmente amano le donne come me. Io ho questa felicità al mondo, che non mi<br />

attacco a nulla; non ho che una passione: quella di girare e cambiare. Uomini, vestiti, paesi, amici;<br />

tutto deve essere sempre nuovo per me, fino al giorno in cui, esclusivamente per fare un viaggio<br />

nuovissimo ingoierò dieci pastiglie di Veronal e passerò nel paese del mistero.<br />

Ascolta, dunque, la mia storia, anzi quella della mia vocazione. Nacqui a Torino ventitré anni fa, mio<br />

padre era sarto ed abitavamo in una portineria in via Ormea. Ricordo quando ero ragazzetta che vicino<br />

a casa mia era una fabbrica di specchi, ed io, quando potevo mi ci ficcavo dentro a quella fabbrica, per<br />

il gusto di guardare lungamente in quegli specchi profondi, che mi davano l’impressione di abolire le<br />

pareti e portare le cose intorno all’infinito. Poiché ero fin da bambina molto vispa e sveglia di mente,<br />

mio papà, poveretto, aveva concepito l’ambizioso disegno di fare di me una ragioneria. Ma io mi<br />

accorsi subito che non ero fatta per incolonnare dei numeri; non avevo che una sola passione: quella<br />

degli uomini. Portavo ancora la treccina sulle spalle, e guardavo i miei compagni della scuola tecnica<br />

con certi occhi spiritati come se volessi divorarli.<br />

La metà di essi erano innamorati di me, mi scrivevano delle lettere incandescenti, e facevano per me<br />

delle terribili partite di pugilato davanti alla scuola, offrendomi eroicamente, un po’ per ciascuno, il<br />

sangue del loro naso. Scrivendo più lettere d’amore che componimenti scolastici era naturale che<br />

profittassi pochissimo, tanto che mio padre, perduta la speranza di diplomarmi ragioniera, mi mandò a<br />

fare la sarta in un laboratorio in piazza S. Carlo.<br />

Eravamo una ventina di ragazze e in quel laboratorio posso dire che veramente la mia vocazione si<br />

determinò in modo preciso. Lì mi preparai spiritualmente a spiccare il volo.<br />

Avevo sedici anni ed ero già sviluppata come adesso. Il giorno quando udivo le mie compagne parlare<br />

dei loro amanti, mi s’intorbidivano gli occhi e il cuore mi batteva forte come quando si ha paura.<br />

Avevo bisogno anch’io di un amico e, carina com’ero, non stentai a procurarmelo. Il mio primo amico<br />

fu un polacco impetuoso e appassionato che aveva un cognome con tutte le consonanti dell’alfabeto<br />

messo in fila, e che finì poi in prigione per ragioni politiche, al suo paese. Assaporato che ebbi<br />

l’amore mi buttai allo sbaraglio; mi sentivo dentro un desiderio di godere così vivace e inesauribile,<br />

che a mortificarlo mi dava una specie di angoscia fisica.<br />

La portineria di mio padre mi pareva brutta e angusta come una prigione senza luce, con quell’aria di<br />

povertà e di provvisorietà che mi stringeva il cuore. Mio padre, curvo su vecchi vestiti da rivoltare,<br />

mia madre un po’ malaticcia, tutta preoccupata di me, che non rincasavo mai per tempo mi venne in<br />

uggia, sentivo che li amavo tanto, ma sentivo anche che per amarli dovevo averli lontani, non vederli<br />

tutto il giorno in quello sgabuzzino pieno di ritagli di stoffa e di odore di carbone. Io avevo voglia di<br />

muovermi, di girare il mondo, di lanciarmi, come si dice nel nostro gergo, e di fatti alla prima<br />

occasione scappai da Torino così, come si scappa quando si è ragazzi, senza una meta, per sola<br />

vaghezza di conoscere il mondo. Me ne andai a Roma con un nordico che dopo quindici giorni mi<br />

lasciò per andare in Egitto, regalandomi cinquanta sterline. Da Roma scrissi subito a mia madre e mi<br />

ricordo che le scrissi piangendo; chiedevo perdono a lei e a mio padre di avere lasciata la famiglia, ma<br />

li assicuravo che ciò non era avvenuto per mancanza di affetto verso loro. Ormai essi conoscevano le<br />

mie scappate, io non ero più una ragazza idonea a formarmi una famiglia, dovevo cercare la mia via<br />

altrove. Siccome avevo una bella voce e ballavo benissimo, col gruzzolo che mi aveva dato il nordico<br />

mi sarei comperati dei costumi e mi sarei lanciata sul teatro di varietà. Comunque li avrei tenuti al<br />

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