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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />
Sull’epoca di quel ritorno mia madre era inesorabile. Lo faceva, com’essa diceva, per gli occhi del<br />
mondo.<br />
Rimasta vedova ancora giovane, con cinque figli, non voleva si dicesse che, per la morte di mio padre,<br />
il suo chierichetto, "u previtellu", non continuasse gli studi con la stretta regolarità. Con poca terra e<br />
poche bestie, la rendita era assai modesta; ma era amministrata con rigore spartano e per me, ch’ero il<br />
maggiore, si dovevano fare tutti i sacrifizi.<br />
Poiché il seminario si riapriva alla metà di ottobre, coi primi del mese mia madre cominciava i<br />
preparativi. Rifaceva i materassi, metteva in ordine il mio piccolo corredo e il giorno quattordici mi<br />
chiamava:<br />
- ‘Ntonuzzu, figlio, bisogna partire.<br />
- Quando, mamma?<br />
- Domani. Prepara i tuoi libri, io ho tutto pronto.<br />
- Va bene, mamma, come volete…<br />
La notte avanti la partenza io dormivo pochissimo e al cantare dei galli prima dell’alba, udivo nella<br />
casa silenziosa mia madre che sfaccendava. Faceva arrostire un pollastrino, che chiudeva in un grosso<br />
pane spaccato a metà, vi univa due uova sode, delle pere, e aggruppava tutto in un tovagliolo per la<br />
colazione. Sotto la casa una mula e un’asina scalciavano, soffiando nelle froge. Poi la mamma entrava<br />
nella mia cameretta e mi chiamava. Io mi alzavo e quando scendevo in strada, vedevo i due materassi<br />
già caricati sulla mula e una grossa bisaccia d’orbace sul basto dell’asina.<br />
Allora mia madre, per antica consuetudine, prima mi porgeva la mano da baciare, facendomi le ultime<br />
esortazioni, poi mi abbracciava, serrando a lungo il suo viso contro il mio, e me lo lasciava bagnato di<br />
lacrime che io non vedevo. Il nostro garzone, Pietro Carabetto, mi issava sulla mula, in mezzo ai due<br />
materassi, dove era stato legato un cuscino, ed io partivo con un nodo in gola, che mi durava fino a<br />
che non si arrivava in aperta campagna.<br />
Che albe stupende vedevo dall’alto della mia mula! Nel cielo lavato dalle piogge, di una lucentezza<br />
mirifica, splendevano delle grosse stelle e Marte, più grossa di tutte, sembrava un faro.<br />
Non so perché, ma quei ritorni mi mettevano in quello stato d’animo fantasioso e di ansia segreta, che<br />
provavo alla lettura dei libri cavallereschi. Forse perché il seminario, vicino alla grande cattedrale<br />
normanna, sorgeva sui bastioni di una fortezza, a trovarmi in viaggio avanti l’alba, con tutto quel<br />
cantare di galli che venivano dalla campagna e quegli astri in cielo meravigliosi e strani come i<br />
segnali di un castello incantato, mi pareva d’essere anch’io in viaggio verso una misteriosa avventura.<br />
E l’avventura c’era e c’era anche il pericolo.<br />
La paurosa avventura di quel viaggio era il passaggio obbligato di quattro fiumi che, in quell’epoca di<br />
prime piogge, erano sempre in piena. Di ponti o passerelle neppure l’ombra; bisognava attraversarli a<br />
guado. Al pensiero di quelle distese d’acqua torbida, nella quale la mula s’immergeva fino alla pancia<br />
e avanzava peritosa, guidata dal picchiare degli zoccoli sui sassi del greto, come un cielo dal rumore<br />
del suo bastone, io mi rannicchiavo tremando in mezzo ai materassi e chiudevo gli occhi.<br />
Col mio enorme cappello a tegola dal pelo ravviato, la sottana azzurra coi bottoni rossi, mi pareva di<br />
udire già il fragore della corrente che riempiva il greto immenso, prima di vedere il luccichio<br />
dell’acqua sopra le solvette di oleandri.<br />
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