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Ancora una volta converrà sottolineare, per non subire l’accusa <strong>di</strong> cadere in forzature inopportune,<br />
come l’agro monseliciano sia stato solcato da una grande strada consolare tracciata<br />
nel secondo secolo avanti Cristo, sud<strong>di</strong>viso in seguito tra i soldati veterani <strong>di</strong> Ottaviano<br />
Augusto e causa, credo, <strong>di</strong> una prima centuriazione, replicata e riadattata poi (ed è comprovata<br />
e originale ipotesi cara a Camillo Corrain e al Gruppo Bassa Padovana) nei primi centenni<br />
dell’Impero a motivo <strong>di</strong> pesanti mutamenti climatici e <strong>di</strong> sconvolgimenti politico-sociali<br />
provocati dalle penetrazioni barbariche. Tuttavia, poiché la presenza abitativa, sia pure molto<br />
variata nel tempo, da allora non è mai venuta meno, mi sembra corretto immaginare una continuità<br />
<strong>di</strong> comportamenti ‘elementari’ resa possibile dalla fedeltà della cultura rurale alle proprie<br />
ra<strong>di</strong>cate usanze e convinzioni.<br />
Il còmpitum latino in<strong>di</strong>ca precisamente un bivio, un crocicchio, il breve spazio ove s’intersecano<br />
più vie, un quadrivio insomma, <strong>di</strong> cui i nostri ‘carrubi’ sono palese reliquia toponomastica,<br />
registrati nelle pergamene più antiche alla periferia del Mons Silicis o immersi<br />
nella ‘campànea’, là dove s’incontravano, e scontravano, la mentalità pagana (rafforzata dallo<br />
stabilirsi <strong>di</strong> gruppi cosiddetti ‘barbarici’ come i longobar<strong>di</strong>) e la faticosa cristianizzazione <strong>di</strong><br />
un populus assai restio ad abbandonare, per esempio, il culto degli alberi, delle fonti, specie<br />
se d’acqua calda, o i praticati luoghi numinosi. In più un universo fantastico, popolato da animali<br />
<strong>di</strong> derivazione totemica, adorati cioè e protetti dai primitivi quali ierofanie, manifestazioni<br />
d’un <strong>di</strong>o (come il serpente, tramutatosi, con una metamorfosi negativa, in un terrificante<br />
drago o nel più familiare ‘bisso-ga’o’), premeva alle soglie <strong>di</strong> un habitat in cui il bosco, le<br />
palu<strong>di</strong>, le vaste aree inselvatichite immergevano l’essere umano in una Natura totalmente<br />
verde e aggressiva, della quale si sentiva più che altro prigioniero, sottoposto a un’esistenza<br />
<strong>di</strong>fficile, insi<strong>di</strong>ata da mille pericoli.<br />
CREDENZE E TRADIZIONI POPOLARI LE EDICOLE FUNERARIE ROMANE<br />
Ecco allora che le sperimentate costumanze, trasmesse bocca a bocca specie per via femminile,<br />
offrivano consolazione, ausilio e rifugio: bastava, ad esempio, rotolarsi nu<strong>di</strong> sulla rugiada<br />
scesa la notte solstiziale <strong>di</strong> San Giovanni per preservare il corpo dalla malattia; oppure raccogliere<br />
erbe me<strong>di</strong>camentose e funghi troppo spesso allucinogeni, con cui impastare unguenti<br />
‘miracolosi’, capaci <strong>di</strong> provocare evasioni oniriche, sogni para<strong>di</strong>siaci oppure la sensazione del<br />
volo intorpidendo mani e pie<strong>di</strong> (e le streghe ‘volavano’ a cavalcioni <strong>di</strong> un manico <strong>di</strong> scopa...).<br />
Era una ‘sapienza’, quella sui regni animale e vegetale, sopravvissuta a livello folclorico fino a<br />
ieri, quando i montericcani ricorrevano a ripetute unzioni d’olio d’oliva, accompagnate da<br />
espressioni tenute gelosamente segrete dalle anziane manipolatrici, per contrastare ‘el simioto’,<br />
l’endemico rachitismo <strong>di</strong> fanciulli indeboliti da una <strong>di</strong>eta invernale ai limiti della fame vera.<br />
Non possiamo per ciò meravigliarci se alle pratiche pagane, tese a provocare l’intervento<br />
favorevole o a rintuzzare le malefiche aggressioni d’evanescenti deità, si sono affiancati in<br />
connaturata simbiosi i mille santi a<strong>di</strong>utori <strong>di</strong> una ‘fede’ assai lontana dall’insegnamento evangelico-teologico;<br />
e le feste cristiane, quasi tutte, dal Natale all’Epifania dal Calen<strong>di</strong>maggio<br />
alla ricorrenza dei Morti, si sono sovrapposte in tal modo agli appuntamenti riservati dal<br />
calendario romano alla propria corte celeste. Tornando al còmpitum, a un plausibile antenato<br />
del nostrano capitello, in quel breve spazio carico <strong>di</strong> suggestioni ancestrali avevano talvolta<br />
luogo pubblici incanti <strong>di</strong> robe vecchie, dei quasi ‘mercatini’, perché nel contempo si celebravano<br />
i compitàlia, le feste in onore dei Lares avviate poco dopo i saturnali, solennità religiose<br />
de<strong>di</strong>cate a Saturno, antico <strong>di</strong>o italico della seminagione. La gioiosa ricorrenza cadeva il<br />
17 <strong>di</strong>cembre e si prolungava per parecchi giorni, mentre i partecipanti s’esaltavano e amoreggiavano<br />
tra l’esibita abbondanza <strong>di</strong> cibi e vino, rispettosi <strong>di</strong> un’atavica consuetu<strong>di</strong>ne amata<br />
e cercata, confluita in fine nell’addomesticato ‘carnevale’ dei nostri avi.<br />
In definitiva, le sagrette che in un passato a memoria d’uomo attiravano presso i capitelli<br />
più rinomati il vicinato, contrada dopo contrada, non sono state altro che la continuazione<br />
in forma semplificata ma altrettanto coinvolgente d’antiche ritualità, in cui balli canti eccessi<br />
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Icone pubbliche e devozione popolana<br />
corporali e mangerecci si mescolavano nella bramata evasione d’un giorno o <strong>di</strong> poche ore...<br />
Ricordavo in proposito i Lari, le <strong>di</strong>vinità tutelari etrusche e romane delle <strong>di</strong>more e d’ogni altro<br />
luogo a loro affidato: domestici, se le loro immagini proteggevano la casa, assisi magari in un<br />
minuscolo tabernacolo, oppure compitales, tutori anch’essi dei crocicchi sulle vie, ai quali<br />
de<strong>di</strong>care un altare, un’ara o un albero piantato al centro del quadrivio. E quante gran<strong>di</strong> croci<br />
sono state alzate lungo le strade a protezione d’abitatori viandanti e pellegrini, e quante immagini<br />
del sant’Antonio patavino o della Madonna si sono rifugiate tra le fronde d’un olmo svettante,<br />
<strong>di</strong> un pioppo ombrioso o d’un possente rovere... In realtà c’è un secondo concorrente<br />
abilitato a proporsi quale modello per i cristianizzati capitelli viari, <strong>di</strong> contrada o sorti in aperta<br />
campagna, ai confini allora del territorio parrocchiale, vigili sentinelle da visitare e bene<strong>di</strong>re<br />
nella propizia stagione delle rogazioni primaverili, quando ci si avviava processionalmente<br />
a ‘riconoscere’ questi sal<strong>di</strong> no<strong>di</strong> del sacro popolano. Il prete, cappellano o parroco od<br />
arciprete secondo l’importanza del manufatto, si soffermava col seguito orante ad aspergere<br />
d’acqua santa alberate vigne e campi seminati, protetti pure dalle lignee ‘croséte’ piantate in<br />
capo alle varie colture, apotropaiche nemiche, accanto all’invocato suono delle campane,<br />
della squassante tempesta estiva, dei terribili temporali <strong>di</strong>struttori in pochi minuti delle sudate<br />
fatiche <strong>di</strong> un’intera annata. Ed erano le primizie a essere esibite su altaroli improvvisati,<br />
asparagi erbette focacce conigli uova colombini affiancati a qualche salame, gelosamente<br />
custo<strong>di</strong>to e <strong>di</strong>feso per l’occasione dalla ‘parona de casa’. Le stesse ‘offerte’ che gli antenati,<br />
uomini della preistoria in lento avvicinamento col macinare delle stagioni al me<strong>di</strong>oevo e all’epoca<br />
moderna, porgevano alle entità tutelari del villaggio, alle ierofanie dei loro dei sotto<br />
forma d’uccelli o d’animali.<br />
Alludo alle e<strong>di</strong>cole funerarie, ai monumenti che gli abitatori romani o romanizzati de<strong>di</strong>cavano<br />
ai defunti dopo la cremazione, innalzandoli lungo le vie d’accesso alle <strong>di</strong>more, alle<br />
domus, alle fattorie punteggianti anche la nostra piana, curando un<br />
appropriato recinto cimiteriale <strong>di</strong>feso da leggi severe contro prevaricazioni<br />
od offese. Questi insostituibili reperti archeologici,<br />
traccia visibile dopo duemil’anni del culto dei morti<br />
che, sia pure in forme <strong>di</strong>verse, ha accompagnato il<br />
cammino d’ogni civiltà, sono riemersi dai campi arati<br />
<strong>di</strong> Schiavonia Ca’ Oddo San Bortolo Stortola Vetta<br />
Arzer<strong>di</strong>mezzo, inerpicandosi alle prime falde <strong>di</strong> Rocca e<br />
Monte Ricco. E ai confini con Vanzo, sul declinare dell’ottocento,<br />
è fortuitamente ‘resuscitato’ uno dei più<br />
straor<strong>di</strong>nari monumenti funebri del Veneto, l’e<strong>di</strong>cola dei<br />
Volumnii, un imponente ‘capitello’ petroso (che fa bella<br />
mostra <strong>di</strong> sé in un’apposita saletta del Civico Museo patavino<br />
agli Eremitani) a protezione dei numerosi ritratti <strong>di</strong><br />
famiglia scolpiti da mani provette... È tempo allora <strong>di</strong><br />
interrogarci su quanto documenti scritti, mappe e tracce<br />
toponomastiche hanno lasciato a futura memoria<br />
delle tante presenze cultuali oggi scomparse, cancellate<br />
finanche dalla memoria orale resa muta dalle ‘rivoluzioni’<br />
<strong>di</strong> cui siamo noi stessi vittime e insieme portatori<br />
(in)consapevoli.<br />
L’e<strong>di</strong>cola funeraria dei Volumnii, <strong>di</strong>segnata<br />
nel registro d’ingresso del Museo Civico Patavino.