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14 15 Settembre 2008 ISOLA NOSTRA UN RACCONTO DI LICINIO DUDINE La fame, la frutta e il buon Gesù Qualche tempo fa vi ho mandato la “Preghiera dell’Esule” e quella preghiera mi ha fatto ricordare la fame nera del primo anno di collegio. Era l’ottobre del 1946 quando sono entrato per la prima volta in quell’imponente e bellissimo edificio che una volta era una scuola nautica e che per quattro anni sarebbe stato la mia casa per il periodo scolastico. Eravamo tutti esuli istriani, dalmati, fiumani, tutti orgogliosi di essere e di appartenere ad una razza forte di cuore e di sentimenti. Ma c’era la fame, perché il cibo consisteva in minestra di ceci e secondo lenticchie, per cambiare minestra di lenticchie e secondo ceci. E quella fame mi ha fatto scrivere questo piccolo racconto dolce dolce. La giornata era finita. I pescherecci ritornavano brontolando e offrivano agli ultimi raggi del sole le reti imperlate d’acqua. Sulla loro scia i gabbiani cenavano allegramente con gli scarti del pesce che venivano gettati fuori bordo, poi si sarebbero ritirati sulla scogliera lasciando alle stelle il compito di vegliare sul porto. Seduto sulla banchina, con le gambe a penzoloni, Gennaro osservava le loro lotte acrobatiche per il possesso del cibo. Era uno spettacolo che mai aveva reputato interessante, ma quella sera lo era. Gennaro aveva fame, una fame da non vederci proprio a tre passi di distanza. Dal giorno avanti era a digiuno ed il suo stomaco, per quanto piccolo ed allenato, ne stava risentendo gli effetti. Prima di arrivare al suo giaciglio doveva trovare qualcosa da porre sotto i denti… Pochi minuti dopo era sotto il muro che cintava l’aranceto del canonico di San Giuseppe; a rubare roba ai preti non c’era tanto pericolo, poteva rischiare. Di fianco al muro si apriva un cancelletto, lo spazio tra sbarra e sbarra non era sufficientemente stretto per lui e in un attimo, dopo essersi assicurato che nessuno l’osservava, si trovò dall’altra parte. Girò attorno lo sguardo: frutti ce n’erano a volontà, si avvicinò ai rami più bassi di un albero e cominciò a spiccarne le belle arance dorate mettendole tra la camicia e la pelle. Aveva quasi finito quando una voce alle sue spalle lo inchiodò con una magnifica arancia a mezzaria. Cercò di fuggire, ma dopo due o tre strattoni si trovò prigioniero tra le braccia del giardiniere. A dire il vero Gennaro sopportò eroicamente tutte le cattive insinuazioni sulla sua famiglia e sulla sua nascita che l’uomo gli riversò addosso, ma quando si trovò dinanzi a padre Felice, subito accorso a quello schiamazzo, si sentì intimidito; l’abito nero gli incuteva sempre una certa soggezione che lo lasciava senza parole. - E’ questo il ladro? – disse il prete tenendosi un po’ in disparte, come se Gennaro potesse morderlo. - Si, reverendo – annuì il giardiniere, e mente parlava scuoteva il bambino che cercava disperatamente di tener salda la camicia, perché la frutta non scappasse fuori – l’ho visto mentre poggiavo gli attrezzi nel ripostiglio, stava rubando la frutta più bella. Ora gli do una lezione che se la ricorderà finché campa. Il prete lo fermò con un gesto, stette un po’ soprappensiero e poi si rivolse a Gennaro: “Come ti chiami?” - Gennaro. - Quanti anni hai? - Otto. - Vergogna! - continuò brontolando l’onesto reverendo – dove si va a finire di questo passo! A questa età rubano, figurarsi quando saranno uomini! Gli occhi risalirono per un attimo, poi discesero nuovamente. - Avevo fame – ribatté Gennaro. - Macché fame… la gola… la gola, ecco chi ti ha condotto qui. Ora la voce del reverendo aveva assunto il tono della predica domenicale: “Non lo sai che Dio ti vede? Non lo sai che Lui è a conoscenza di ogni tua azione?” E qui una pausa ed un colpo di tosse per rendere più evidente l’importanza della cosa. Gennaro senza rispondere, annuì col capo, pensava che se la sarebbe cavata, tutto stava nel dimostrarsi pentito. Padre Felice osservò in silenzio il bambino e vide tanto pentimento accanto a sé, che si rivolse al giardiniere dicendo: “Lascialo andare, toglili la frutta e fallo uscire dalla chiesa”. - Troppo buono, reverendo! – brontolò l’uomo mentre faceva cadere le arance dalla camicia di Gennaro – troppo buono!. Poco dopo Gennaro era nuovamente in strada, affamato più di prima. Camminò un po’. Il sole era scomparso e la notte si stava impadronendo lentamente del cielo. Solo una parte dell’orizzonte lottava ancora, non volendo tramutare il suo riflesso rossastro nell’indaco delle tenebre. Incontrò un altro orto. Il muro era basso e screpolato e la fame era troppa. Scavalcò l‘ostacolo e si arrampicò sul primo albero che gli capitò innanzi. Staccato un frutto, s’accinse a morderlo, ma di colpo gli tornarono alla mente le parole del prete: Dio lo vedeva. Si sentì preso da un senso di disagio e di paura sentendosi osservato. L’orto era immerso nel silenzio, qualcuno cantò sulla strada, poi tacque. Allora si decise e cercando di nascondersi meglio tra le foglie bisbigliò: “Gesù, mi vedi?” Un fremito passò sugli alberi profumati, poi una voce sussurrò dolcemente: “Si, figliolo, ti vedo”. - Anche con questo buio? – disse scoraggiato Gennaro. - Anche con questo buio – rispose la voce e si sentiva che era piena di un dolce sorriso. Gennaro rimase in silenzio girando tra le mani il frutto, poi parlò tutto d’un fiato: “Ma allora, Gesù mio, se mi vedi sai pure quanta fame ho, lasciami dare almeno un morso a questo frutto, non contarmelo come peccato. Posso, Gesù? Uno solo?” – ed attese col respiro sospeso la risposta. Un altro fremito passò sulle foglie e si udì ancora la dolce voce: “Pendilo, figliolo, prendi quello che vuoi, poiché tutto ciò che vi è al mondo è tuo”. Gennaro bisbigliò un grazie e dimenticandosi perfino di farsi il segno della croce, addentò avidamente il frutto. Dal cielo Gesù guardava quel piccolo uomo che aveva tutto e nulla e sorridendo lo benedisse. Troppo buono, Voi Signore – brontolò San Pietro al suo fianco, mentre un lacrima gli si perdeva fra la barba – troppo buono! Licinio Dudine, Stati Uniti
15 Settembre 2008 ISOLA NOSTRA 15 La Gita della Colomba sul Collio isontino Luciano Bortolin Domenica 11 maggio, festa di Pentecoste, gli isolani, assieme ad amici e simpatizzanti, hanno organizzato la ormai tradizionale “Gita della Colomba”, che quest’anno ha fatto tappa al Santuario della Madonna delle Grazie a Udine con la partecipazione alla Santa Messa solenne celebrata dal parroco dello stesso santuario. Il sacerdote, all’omelia, ha ringraziato di cuore e con entusiasmo tutti i gitanti che hanno partecipato alla funzione, esprimendo con parole molto belle ed appropriate la nostalgia per le terre istriane, e isolane in particolare, lasciate senza alcuna passibilità di un nostro futuro ritorno. Era la prima volta che questo parroco incontrava degli istriani nel suo santuario. Anche dopo la Messa, ancora sull’altare, ha espresso la sua gioia e la sua soddisfazione a Mario Depase, in qualità di organizzatore della gita di “Isola Nostra”. Dopo la Santa Messa, per foto di Marisa Berani non perdere le nostre belle abitudini, partenza per Dolegna del Collio, dove era stato prenotato il pranzo al ristorante “da Vinicio” (proprietario del locale). Da subito i gitanti sono stati allietati dalla musica di un complessino che ha suonato e cantato molto bene: Naturalmente la prima canzone doveva esser “Vola colomba”… e così è stato. Poi la musica e le danze si sono protratte sino alle 19, intervallate da una ricca lotteria a premi che ha accontentato quasi tutti i partecipanti. Da non dimenticare che a metà pomeriggio si è potuta gustare una enorme torta, naturalmente anche questa impressa con il disegno della colomba bianca con il ramo d’ulivo sul becco (evidente segno di pace) e con sopra la scritta “Isola d’Istria”. Speriamo noi isolani anche in futuro di aver l’occasione di incontrarci ancora per poter passare un’altra bella giornata di vacanza in allegria.
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