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Chapter III - LOT publications

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74 CAPITOLO <strong>III</strong><br />

numero di corruttele presenti in N (da segnalare in particolare la caduta dei vv.<br />

163, 289-94, 310, 517-22, oltre che innumerevoli inversioni nell’ordine dei versi<br />

stessi). Gli errori commessi sono molteplici e di varia natura. Prescindendo dalle<br />

mende più banali, imputabili al processo meccanico di copiatura (omissioni o<br />

scambi di lettere, lacune, ripetizioni, anticipazioni, ecc.), si osserva che, laddove<br />

non comprenda qualcosa per ragioni grafiche o semantiche (come nel caso di<br />

parole inconsuete o costrutti sintattici complessi), N sostituisce, rimaneggia,<br />

interpola, producendo varianti abusive e lezioni prive di senso. Un esempio è<br />

offerto dai vv. 239-40 (secondo il ms. T: «Pareme che Catu assay tener(e)se dica<br />

/ quello che l’omo acq(ui)sta con fatica»), che in N suonano: «Pare che caru<br />

homo assagi tenere degia / quelo che bene aquista co(n) fatiga agia». In questo<br />

caso all’origine del rimaneggiamento, che comporta un rimpasto sostanziale<br />

della gnome finale (con ripercussioni non lievi sulla rima e sul metro), sembra<br />

essere stato il banale equivoco grafico caru “caro” per catu, cioè Catu “Catone”.<br />

Un altro esempio significativo s’incontra poco oltre, al v. 244 (secondo il ms. T:<br />

« no p(er) czò lassar(e) de esser(e) a te bandese»). La forma vernacolare<br />

bandese “largo”, “generoso”, risulta evidentemente estranea al trascrittore di N<br />

(o del suo antecedente), il quale procede a rimaneggiare il testo come segue:<br />

«Ma tuctavia te guarda dalle soprechie spese».<br />

Data la sostanziale inaffidabilità di N e la difficoltà di razionalizzarne la<br />

posizione all’interno di uno stemma, mi sono limitata a fornirne una trascrizione<br />

interpretativa in appendice al testo di T, riservando alle note che corredano il<br />

testo di T la discussione dei singoli luoghi in cui N aiuta a interpretare o<br />

emendare i segmenti corrotti di T (ed eventualmente R e A). Meritano infatti di<br />

essere perlomeno prese in considerazione quelle lezioni di N che, a fronte di<br />

errori inconcutibili e oggettivamente certi di T, R e A, senza perciò trivializzare<br />

costruzioni difficiliores, hanno il pregio di ristabilire le proporzioni metriche e<br />

sintattiche: non c’è ragione di escludere che tali lezioni siano sane e pertinenti, e<br />

rinviino a una zona di testimonianze arcaica e attendibile. In vari casi le forme<br />

vernacolari offerte da N consentono di restaurare la rima (cfr. per es. vv. 139-42)<br />

o di ortopedizzare le eccedenze metriche. Significativo è il caso dei vv. 770<br />

(emistichio pari) e 911, crescenti di una sillaba in T, R e A:<br />

770 ma teni lo frenu i(n) man(u)<br />

(varianti: tene RA; freno RA)<br />

911 Co(n) toa muller(e) teni la via de meczu<br />

(varianti: tua A; mogliera R, mogliere A; mezo RA)<br />

In entrambi i casi N è latore della forma dialettale, con la quale risulta garantita<br />

l’isometria: «ma tèi lu frinu i(n) manu», «Co toa molliera tèi la via de meçu».<br />

Si veda inoltre il v. 433 (emistichio pari), anch’esso afflitto da ipermetria<br />

in T, R e A:

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