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alias Sandro Anselmi - Campo de'fiori

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<strong>Campo</strong> de fiori<br />

Abbandonati dall’attenzione del mondo occidentale<br />

...continua dal n. 11<br />

Ma veniamo a quei giorni. Il primo caso<br />

sospetto si presenta a fine settembre del<br />

2000. Un’allieva infermiera di diciannove<br />

anni, Christine, si ammala e muore in<br />

pochi giorni: febbre, emorragie, blocco<br />

renale. Si pensa a malaria cerebrale. Gli<br />

esami di laboratorio non danno risultati<br />

chiari.Matthew Lukwiya era a Kampala per<br />

un Master in “Salute pubblica”.In sua<br />

assenza si ammalano altre due studenti<br />

infermieri, Daniel e Monica, con gli stessi<br />

sintomi. Matthew è richiamato urgentemente<br />

a Gulu. Si comincia a pensare<br />

all’Ebola, (una febbre emorragica virale<br />

contro cui ancora non esistono cure. Ha<br />

delle esplosioni improvvise, arriva, uccide<br />

qualche centinaio di persone, e poi sparisce<br />

nel nulla. Ebola si trasmette per contatto<br />

diretto in poco tempo e colpisce<br />

quasi tutti gli organi, il dolore è lacerante,<br />

ed alla fine dissolve tutti i tessuti del corpo<br />

provocando grosse emorragie da tutte le<br />

mucose e da tutti gli orifizi. La mente lucida<br />

fino alla fine. Provoca la morte<br />

nell’80% dei casi). Le studentesse infermiere<br />

vorrebbero tutte scappare e andare<br />

a casa loro. Matthew fa loro un discorso<br />

molto semplice: “E’ possibile che si tratti<br />

di Ebola - dice. Il periodo di incubazione<br />

della malattia è di circa venti giorni. Tutti<br />

noi potremmo essere già infettati dal virus.<br />

Conviene che nessuno torni a casa, il virus<br />

potrebbe infettare la vostra famiglia e<br />

distruggerla”. Matthew e Maria, chiamano<br />

le caposala, le infermiere e le portantine.<br />

Decidono di aprire il reparto isolamento e<br />

cercavano volontarie. Era presente anche<br />

suor Genoveffa, comboniana di quasi set-<br />

tant’anni, incaricata<br />

della farmacia.<br />

All’appello di Matthew<br />

e di Maria nessuno<br />

alza la mano, dopo<br />

qualche istante solo<br />

suor Genoveffa alza<br />

la mano. Le infermiere<br />

avevano ben vivo il<br />

ricordo dei tre studenti<br />

morti pochi giorni<br />

prima. Dopo un po’<br />

Margaret Awot, caposala<br />

ed amica di Maria,<br />

dice a suor Genoveffa<br />

che lei ha due figlie ed<br />

ha paura di morire ma<br />

nello stesso tempo<br />

dice che non si può<br />

lasciare queste persone<br />

morire da sole ed<br />

alza la mano seguita<br />

da un’altra ed un’altra<br />

ancora. Arrivano ad<br />

essere una quarantina.<br />

Un 10 % del personale.<br />

Venerdì sera 13<br />

ottobre , arrivano i<br />

risultati delle analisi dal Sud Africa e<br />

America: si tratta di Ebola . I casi diventano<br />

sempre più numerosi. C’è anche il<br />

rischio che l’epidemia si diffonda nei 35<br />

campi profughi nella zona di Gulu, dove<br />

vivono ammassate più di trecento mila<br />

persone in condizioni igieniche drammatiche.Anche<br />

i riti funebri rappresentano un<br />

veicolo di contagio tremendo. Il cadavere<br />

per tradizione viene sempre lavato e,<br />

come segno di unione con il defunto e con<br />

gli antenati, tutti i membri del clan si lavano<br />

le mani con la stessa acqua e così l’epidemia<br />

dilaga nei villaggi decimando le<br />

persone.Le nostre ambulanze vengono<br />

chiamate molte volte al giorno, per raggiungere<br />

villaggi sempre più lontani in cui<br />

sono segnalati casi sospetti di Ebola. In<br />

molti casi la segnalazione arriva quando è<br />

ormai troppo tardi. All’inizio i sintomi si<br />

confondono con quelli della malaria. .(Le<br />

nostre tre ambulanze in meno di due mesi<br />

percorrono 17.700 chilometri. Portano in<br />

ospedale 564 persone). Dopo una settimana<br />

dall’apertura del reparto ebola, i ricoverati<br />

erano 63. I morti 18. In ospedale la<br />

tensione e’ altissima. Il dr. Corti e il dr.<br />

Bruno, l’amministratore, sono in ferie.<br />

Rientreranno quanto prima.Ogni sera, alla<br />

fine della giornata, Matthew viene a trovarmi.<br />

Mi confida le sue preoccupazioni<br />

per il personale dell’ospedale, le difficoltà<br />

ed incomprensioni che incontra con le<br />

autorità distrettuali e con le organizzazioni<br />

sanitarie straniere, e non ultime le preoccupazioni<br />

per la famiglia che vive a<br />

Kampala, lontana da lui. Una sera mi<br />

dice che sentiva la necessità più che mai di<br />

pregare, di chiedere aiuto a Dio, perché<br />

facesse passare presto questa prova, per-<br />

37<br />

V.A.<br />

ché nel personale volontario, la stanchezza<br />

cresceva sempre di più, erano in pochi con<br />

tanto lavoro e diventava sempre più facile<br />

commettere imprudenze in<br />

reparto.Cominciano infatti ad ammalarsi<br />

infermiere e portantine. Ogni volta che<br />

muore uno del personale è una tragedia. A<br />

tutto il personale vien voglia di scappare.<br />

Si formano capannelli di infermieri contro<br />

Matthew, che non vuole<br />

arrendersi.Matthew è un po’ come Mosè: si<br />

sente solidale con il suo popolo; sente l’ospedale,<br />

la gente, i malati, come suoi; e<br />

dall’altra parte si lamenta con Dio, perché<br />

non sa più cosa fare con il personale medico<br />

ed infermieristico che vuole abbandonare<br />

l’ospedale e gli ammalati, venendo<br />

meno alla loro vocazione e alla loro missione.<br />

Ha parole di fuoco per quelli che,<br />

senza lavorare nel reparto dell’ebola, mormorano,<br />

sobillano e cercano di dissuadere<br />

quelli che si sono offerti volontari.Con i<br />

volontari del reparto invece ha parole<br />

piene di tenerezza. Pochi giorni prima di<br />

morire, dice: “Voi non potete immaginare<br />

quanto mi siate cari. Siete quanto ho di<br />

piu’ prezioso in questo momento. Il vostro<br />

viso e’ stampato dentro di me. ( Quel giorno<br />

erano morte due infermiere).Con i<br />

nostri sacrifici stiamo salvando molte vite<br />

umane. Siamo ancora liberi di andarcene.<br />

Ma saremmo senza pace. Sapremmo che<br />

eravamo in grado di offrire aiuto e non<br />

l’abbiamo fatto.” Il 18 novembre si ammala<br />

Simon Ajok, un infermiere del reparto di<br />

isolamento. Tre giorni dopo, il 21 novembre,<br />

le sue condizioni sono gravissime.<br />

Comincia a sanguinare dal naso e dalle<br />

mucose. In un tentativo disperato di ritrovare<br />

il respiro, strappa via la maschera dell’ossigeno.<br />

Tossisce violentemente proiettando<br />

tutto intorno molte particelle di<br />

muco e sangue che macchiano anche le<br />

pareti della stanza. Come impazzito, esce<br />

dalla stanza, si strappa il catetere e la<br />

flebo e entra nel lungo corridoio insanguinando<br />

il pavimento. Erano le cinque di<br />

mattina. Babù era l’infermiere di turno<br />

quella notte. Lui e le infermiere si ritirarono<br />

prese dal panico. Babù gridava: “Per<br />

favore, Simon torna indietro”. Erano tutti<br />

quanti protetti da cima a fondo: stivali,<br />

camici, grembiule, guanti, maschera, berretto<br />

ed occhiali. Era però la prima volta<br />

che vedevano un paziente di ebola che si<br />

comportava così. Poi Babù ha fatto quello<br />

che tutti avevano fatto per anni quando le<br />

cose andavano fuori controllo. Chiama e<br />

chiede aiuto a Matthew. Matthew arriva in<br />

reparto. Non c’è tempo per pensare.<br />

Tentano di calmare Simon, lo riportano a<br />

letto, puliscono pavimenti e pareti dal sangue.<br />

Matthew era ben protetto, ma non si<br />

era messo nè visiera nè occhiali. Simon<br />

subito dopo muore in un mare di sangue<br />

che usciva dal naso.<br />

...continua sul prossimo numero

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