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Le<br />

interviste!<br />

Segue...<br />

Creep<br />

Advisor<br />

VALERIA BARBERA<br />

5) Abbiamo notato che a volte usi il dialetto napoletano nelle tue storie. Lo fai per donare veridicità ai racconti o per dare uno<br />

stile ben definito alla voce narrante<br />

Quando alcuni dei miei personaggi si esprimono in dialetto, lo fanno per gli stessi motivi per cui alcuni loro fratelli squartano<br />

delle povere vittime: hanno voglia di farlo. Nel tempo della sua fruizione, la storia deve diventare la realtà del lettore e questo è<br />

possibile solo concedendo ai personaggi la loro spontaneità, perfino se sono agli antipodi rispetto a me. A casa mia, per esempio,<br />

non parliamo in napoletano, perché è una lingua nobile e la conserviamo per la musica, la poesia, la scrittura. Nel momento in cui<br />

compongo una storia, però, metto da parte le abitudini e le convinzioni personali. Ascolto le esigenze dei personaggi, mediandole,<br />

senza mai violentarli. Ritengo che per donare veridicità alle vicende sia necessario rispettare la loro natura, altrimenti il racconto si<br />

ridurrebbe a una mera finzione, un copione, un artefatto destinato ad annoiare in primis me stessa. Si tratta inoltre di una lingua<br />

molto musicale, più dell’italiano e di qualsiasi altro dialetto. Non a caso la canzone napoletana è nota in tutto il mondo. I napoletani<br />

usano molto l’orecchio e la creatività. Difatti, non tutti parlano sempre in dialetto, e non tutti fanno uso delle medesime espressioni<br />

idiomatiche. A volte non parlano neppure in dialetto, ma si aggirano in una terra di mezzo, dove le parole e le frasi adottano<br />

ortografie e strutture grammaticali atipiche, simili a melodie parlate. Prima ancora del dialetto, comunque, Napoli è un modo di<br />

ragionare e di sentire, e questo non può essere improvvisato, né assorbito durante una breve visita, altrimenti si è condannati a<br />

scadere nello stereotipo. Ma credo che questo valga per ogni dialetto. Fino a oggi ho usato il napoletano, il romanesco (incluso il<br />

“coattese”) e, avendo dal lato del nonno paterno ascendenze siciliane, anche una spruzzatina del dialetto di quei luoghi; sempre e<br />

soltanto quando i personaggi lo reclamavano, mai per calcolo.<br />

6) Valeria, nella tua produzione ci sono parecchie storie con temi duri, e spesso con protagonisti e punti di vista maschili. Come<br />

mai questa scelta <strong>È</strong> un’imposizione che ti dai o segui semplicemente l’ispirazione, l’istinto<br />

<strong>È</strong> l’istinto a decidere. Il tema, il punto di vista e il sesso dei protagonisti si palesano a me impacchettati con l’idea. Mi ritengo<br />

fortunata, perché non potrei mai violentare la natura deie miei personaggi. So di uomini che scrivono di donne, e viceversa, solo<br />

per seguire il mercato, o perché sostengono di dover dimostrare qualcosa. Io no. I ruoli di genere, le antitesi maschio-femmina, gli<br />

assolutismi “Gli uomini sono predisposti a scrivere action, le donne il romance” mi hanno sempre fatto sorridere, talvolta<br />

arrabbiare. Gli stereotipi cambiano nei secoli, come le mode, ma hanno il potere di influenzare la massa a livello profondo. Basta<br />

dare uno sguardo alla storia dell’umanità: un tempo il Sole simboleggiava la femmina, non il maschio; nei miti e nella letteratura<br />

era il sesso forte a struggersi d’amore; nel Settecento gli uomini vestivano di rosa, di pizzi e merletti, si truccavano perfino. Tuttavia<br />

alcune menti vedono negli stereotipi delle verità imprescindibili. Per questo motivo sono sempre stata annoverata fra le donne<br />

“atipiche”. I miei studi e la professione hanno abbracciato la fisica e l’informatica, settori “notoriamente” femminili, ma ho anche<br />

lavorato nel turismo e nella pubblicità, dove la presenza delle donne è palpabile. Non l’ho fatto apposta, ho seguito le mie passioni.<br />

Molte mie storie sono maschili perché soddisfo un bisogno interiore. Chiamando in aiuto il mio racconto “Anima & Animus”<br />

(contenuto nell’antologia “#microxmas”): la mia “Anima” è in entanglement con quello che Jung chiamava Animus, la cosiddetta<br />

controparte maschile che sonnecchia in ogni persona di sesso femminile. La particolarità è che il mio Animus è sveglio e<br />

baldanzoso. Quando si sgranchisce le dita, il risultato è una storia maschile; Anima invece provvede a quelle femminili. Queste<br />

ultime sono in minoranza, perché finora quell’egocentrico di Animus ha ticchettato parecchio sulla mia tastiera, riuscendo a farsi<br />

apprezzare anche dagli uomini; inaspettatamente, dovrei dire, tuttavia è un risultato insolito solo per chi vede il mondo ancora in<br />

bianco e nero. Purtroppo, perfino nel ventunesimo secolo, il sesso del nome dell’autore ha il potere di creare delle aspettative e,<br />

nel caso di una autrice-autore, queste aspettative talvolta si piazzano sul cammino creando un muro di pregiudizi. In passato<br />

qualcuno ha criticato la mia esigenza di narrare dal punto di vista maschile, come se vanificassi anni di lotte per l’emancipazione<br />

femminile o, addirittura, volessi sfidare gli uomini. Mi piacerebbe dire di essere l’unica ad avere incontrato opposizioni simili, ma<br />

proprio lo scorso anno una scrittrice ha dovuto ricorrere al self-publishing per una sua antologia di racconti noir. Diverse grandi<br />

case editrici avevano giudicato le sue storie troppo “forti” e “sboccate” per una autrice e non è servito neppure cambiare sesso ad<br />

alcune sue protagoniste. Cosa mai avrebbero detto quegli editor del mio “Squali”, un horror narrato da un uomo maschilista e<br />

violento Per fortuna loro, e mia, ogni tanto scrivo anche di donne. E finalmente anche le mie “figliuole” iniziano a farsi apprezzare.<br />

Proprio di recente, l’inedito “Streghe” è stato finalista nella seconda edizione del Premio F. M. Crawford per la letteratura horror,<br />

entrando nella rosa dei selezionati per la pubblicazione nella antologia dedicata al premio. La me donna, Anima, è soddisfatta.<br />

7) Altra domanda che stiamo ponendo ai nostri giurati: quali sono, secondo te, gli accorgimenti da seguire per scrivere una<br />

buona storia horror Dai qualche consiglio agli autori che intendono partecipare al nostro concorso.<br />

Il mio primo consiglio è: lasciate perdere il mantra “Non c’è niente di nuovo” che sento spesso dire. Rompete le righe, osate,<br />

tirate fuori quel cigno nero che cullate da anni in religioso silenzio. Il secondo è: metteteci la pancia. Troppe volte incappo in storie<br />

sì, scritte in italiano corretto, con le virgole nei punti giusti e decorate con parole forbite, perfino con una gestione corretta del<br />

punto di vista, ma che non mi trasmettono nulla. Idee sprecate. Non vi compiacete della vostra retorica e non scimmiottate<br />

nessuno. Io voglio la sostanza, voglio il cuore: strappatevelo dal petto e inseritelo nel racconto (in senso figurato, mi raccomando).<br />

Non metto paletti, accetto sia l’horror sussurrato che lo splatter; basta che le anime dei personaggi, e della storia, escano libere,<br />

genuine e spontanee. Sono un lettore difficile da far inquietare, ma, se il vostro racconto farà paura a voi, ci sono buone probabilità<br />

che farà breccia anche con me. Come dice Stephen King nel suo manuale “On writing”, la scrittura è telepatia. Già che ci siete<br />

leggetelo, quel libro, rileggetelo se lo conoscete già, e scrivete la vostra storia. Lasciate decantare come il buon vino. Infine<br />

spedite il racconto solo quando dentro di voi scatta il verde. E in bocca al lupo. Quello mannaro, ovviamente.<br />

Pag. 33

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