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il caso della Galleria Corsini

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determinante Adolfo Venturi, allora alto funzionario del Ministero <strong>della</strong> Pubblica Istruzione, in<br />

feconda collaborazione con <strong>il</strong> Ministro liberal-moderato e grande storico positivista Pasquale V<strong>il</strong>lari.<br />

Adolfo Venturi, a mio modesto avviso, e come del resto gli studi più recenti hanno inequivocab<strong>il</strong>mente<br />

dimostrato, è stato l’unico responsab<strong>il</strong>e delle sorti del patrimonio storico-artistico italiano<br />

ad avere una visione davvero nazionale dei problemi, in un momento in cui tutto doveva essere<br />

rifondato, riformato, riordinato, una visione lucida quindi anche di che cosa si dovesse fare delle collezioni<br />

storiche romane e dei musei nuovi o da riformare. Venturi si rese perfettamente conto dopo<br />

l’apertura, nel 1895, <strong>della</strong> <strong>Galleria</strong> Nazionale d’Arte Antica in Palazzo <strong>Corsini</strong> che la fisionomia di<br />

quella collezione storica, in cui erano state integrate anche le opere <strong>della</strong> collezione Torlonia, quelle<br />

provenienti dal Monte di Pietà e via via tante altre, era una fisionomia barocca, con un carattere cioè<br />

molto sb<strong>il</strong>anciato sulle testimonianze pittoriche del Seicento e Settecento, epoche <strong>della</strong> storia artistica<br />

italiana allora poco approfondite, mentre da decenni gli studi europei – basti pensare a Burckhardt – si<br />

erano concentrati sulla peculiarità in certo modo identitaria <strong>della</strong> nostra arte del Rinascimento. Era di<br />

fatto impossib<strong>il</strong>e fare <strong>della</strong> <strong>Galleria</strong> <strong>Corsini</strong> una sorta di ordinato manuale <strong>della</strong> storia dell’arte italiana,<br />

organizzato per epoche e scuole, dislocando nelle sue sale i documenti più significativi dello svolgimento<br />

di quella complessa vicenda. Vicenda, occorre ricordarlo, che non era stata ancora ricostruita in tutte<br />

le sue articolazioni regionali e nel suo disegno generale, poiché Adolfo Venturi incominciava proprio<br />

allora (<strong>il</strong> primo tomo <strong>della</strong> sua Storia dell’Arte Italiana è del 1901) a pubblicare i tasselli iniziali <strong>della</strong><br />

sua opera monumentale in quaranta volumi, a cui avrebbe atteso per tutta la sua vita di studioso. Non<br />

è un <strong>caso</strong> allora che fin dall’epoca <strong>della</strong> sua direzione <strong>della</strong> <strong>Galleria</strong> <strong>Corsini</strong>, egli presentasse, nel 1900, <strong>il</strong><br />

progetto di fondazione di un museo del Medioevo a Roma, esortando in un primo tempo <strong>il</strong> Ministero<br />

ad ampliare <strong>il</strong> fabbricato di Palazzo <strong>Corsini</strong> per accogliere anche quella pubblica raccolta. Quel progetto<br />

di un museo del Medioevo e del Rinascimento sarebbe poi stato ripreso negli anni successivi dal suo<br />

allievo Federico Hermanin, dapprima individuando la possib<strong>il</strong>e sede in Castel Sant’Angelo, quindi<br />

dopo <strong>il</strong> primo conflitto mondiale in Palazzo Venezia, recuperato dall’ambasciata austriaca.<br />

Contemporaneamente Venturi si adoperava per l’acquisto <strong>della</strong> <strong>Galleria</strong> Borghese. Nel 1891 la<br />

collezione dei dipinti era stata spostata dal palazzo di Campo Marzio a V<strong>il</strong>la Borghese. Subito dopo<br />

erano state avviate da parte dello Stato le trattative per l’acquisto <strong>della</strong> raccolta. Nel 1895 Venturi<br />

eseguì una verifica dei quadri <strong>della</strong> <strong>Galleria</strong> e nel 1898 fece parte di una Commissione ministeriale<br />

che sollecitò l’acquisto. La collezione e <strong>il</strong> palazzo passarono definitivamente allo Stato nel 1902.<br />

Non possiamo ripercorrere ora tutti gli eventi successivi (la dottoressa Negro e <strong>il</strong> dottor Alloisi ne<br />

hanno già evocato in parte alcuni tasselli). Mi limito a ricordare che Federico Hermanin, negli stessi<br />

anni in cui dirigeva e arricchiva con acquisti coerenti la <strong>Galleria</strong> <strong>Corsini</strong>, allestì con grande gusto e<br />

passione, nelle forme di un museo evocativo, “di ambientazione” diremmo oggi, mob<strong>il</strong>itando per le<br />

decorazioni e gli arredi artisti e artigiani di tutt’Italia, l’appartamento Cybo e l’appartamento Barbo<br />

in Palazzo Venezia, come ambienti di una lussuosa dimora rinascimentale. Divenute sede di rappresentanza<br />

del Regime, quelle sale non persero la loro immagine museale, difesa drammaticamente<br />

da Hermanin, benché durante <strong>il</strong> ventennio non venissero mai aperte al pubblico. Ma per la storia<br />

pressoché sconosciuta di questo museo “negato” rimando all’importante studio recente di una giovane<br />

studiosa, Paola Nicita. Certo è che nel secondo dopoguerra, quando si decise di mettere mano<br />

a un riassetto <strong>della</strong> collezioni pubbliche romane e si perfezionò l’acquisto di Palazzo Barberini, era<br />

ben evidente a tutti che la <strong>Galleria</strong> <strong>Corsini</strong>, per l’impossib<strong>il</strong>ità di ampliamenti e per la storicità dei<br />

suoi contesti allestitivi, non poteva presentare tutte le opere che avevano continuato ad affluirvi<br />

per acquisti e lasciti durante gli anni Venti e Trenta del Novecento. Malauguratamente, bisogna<br />

avere <strong>il</strong> coraggio di dirlo, in nome <strong>della</strong> modernizzazione si fecero allora dei terrib<strong>il</strong>i pasticci.<br />

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