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Uomo e natura - Filosofia ambientale

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI VERONAFACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIACORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN SCIENZE FILOSOFICHETESI DI LAUREA MAGISTRALE<strong>Uomo</strong> e <strong>natura</strong>:ordine e complessità a confrontoRelatore:Prof. Giorgio ErleLaureando:DANIEL JUNIOR NEGRIOLIN° Matricola VR085042ANNO ACCADEMICO 2011-2012


Vorrei spendere una parola in favore della <strong>natura</strong>,dell’assoluta libertà e dello stato selvaggio, contrapposti auna libertà e una cultura puramente civili, vorrei considerarel’uomo come abitatore della <strong>natura</strong>, come sua parteintegrante, e non come membro della società.Henry David Thoreau, Camminare, p. 17.3


IndiceIntroduzione Pag. 7Capitolo I: La necessità di una scienza ecologica “ 11- 1.1 Prologo “ 11- 1.2 Biodiversità, la più preziosa delle risorse “ 18- 1.3 Gli effetti del riscaldamento globale “ 26- 1.4 Sviluppo insostenibile e sovrappopolazione “ 32Capitolo II: Le radici della crisi “ 39- 2.1 I movimenti ambientalisti non bastano “ 39- 2.2 La nascita della civiltà moderna “ 44- 2.3 Il meccanicismo e la morte della <strong>natura</strong> “ 51- 2.4 Rinascimento, magia e manipolazione della <strong>natura</strong> “ 59Capitolo III: L’alternativa organicistica “ 65- 2.1 I movimenti ambientalisti non bastano “ 65- 3.2 La duplice impostazione rinascimentale “ 68- 3.3 L’universo vivo di Giordano Bruno “ 72- 3.4 La <strong>natura</strong> come “organismo complessivo” “ 77- 3.5 L’organicismo nella scienza contemporanea “ 835


Capitolo IV: Il sentimento di comunanza “ 89- 4.1 Etica e ambiente “ 89- 4.2 L’evoluzione della tecnica “ 93- 4.3 La responsabilità “ 98- 4.4 L’etica della terra “ 102- 4.5 Thoreau e la <strong>natura</strong> selvaggia “ 107Conclusione “ 113Bibliografia “ 1156


IntroduzioneIl dualismo tra uomo e <strong>natura</strong> costituisce un tema sostanzialmenteirrisolto o, se si vuole, inevitabilmente aperto all’interno della filosofia. Nel corsodella storia, infatti, si sono succedute diverse impostazioni di pensiero, ognunadelle quali ha messo in risalto un particolare aspetto della relazione. Abbiamoidee che uniscono in un’unica entità essere umano ed elemento <strong>natura</strong>le; altrecredenze, invece, pongono uomo e <strong>natura</strong> su due piani differenti, quasi fossero,l’uno di fronte all’altro, in perenne contrasto; troviamo poi visioni più moderate,che riservano all’homo sapiens una posizione particolare, pur riconoscendo lasua continuità con tutti gli altri viventi.Come si evince dal titolo della tesi, però, questo rapporto è specularerispetto a un altro vincolo fondamentale: quello che connette l’ordine allacomplessità. Attraverso quest’analogia le due relazioni possono acquisire unarinnovata dinamicità, così come differenti piani interpretativi. Ordine ecomplessità sembrano rincorrersi, trovarsi e poi ancora allontanarsi; in unmovimento che pare senza fine. Da un lato abbiamo l’essere umano, cherazionalmente cerca di riportare alla regolarità della sua mente finita lasconfinata forza della <strong>natura</strong>. Questa, a sua volta, appare come l’emblema del“selvaggio”, di ciò che non si lascia rinchiudere entro statiche regole.Tuttavia, il punto di vista può essere radicalmente rovesciato se sisceglie di vedere la <strong>natura</strong> come un flusso organizzato da leggi universali, el’uomo come un essere costantemente combattuto da dubbi, mosso da passionie votato all’azione. Come si può notare, stiamo parlando di un rapportodialettico di difficile risoluzione, che forse deriva tutta la forza e la vitalità propriodal suo carattere essenzialmente aperto. Questo lavoro cercherà di chiariresoltanto qualche aspetto di tale legame, provando ad interpretarlo attraverso ledue principali visioni della realtà che si sono imposte nel passato e, in formesempre nuove, sono giunte sino a noi: quella organicistica e quellameccanicistica.Data la difficoltà dell’argomento, si è deciso di non partire dalla posizionedi un determinato autore o di un movimento di pensiero, ma da un problemaempirico di straordinaria evidenza, ossia la crisi <strong>ambientale</strong> che inizia a7


mostrarsi ora in tutta la sua gravità. L’attualità e l’urgenza di tale problematicitàsono oggi più che mai evidenti. Si pensi soltanto che, pochi mesi prima dellastesura di questa introduzione, il presidente degli Stati Uniti d’America, BarackObama, ha ritenuto opportuno indicare la tutela <strong>ambientale</strong> tra le priorità del suonuovo mandato:Vogliamo che i nostri figli vivano in un’America che non sia oppressa dal debito,che non sia indebolita dall’ineguaglianza, che non sia minacciata dal poteredistruttivo del surriscaldamento globale. 1Si tratta di un evento importante, poiché testimonia una lenta presa dicoscienza verso un dramma che, a livello politico, si è a lungo cercato dimistificare e nascondere.Ma perché la filosofia dovrebbe occuparsi di una tematica che, a primavista, pare essenzialmente politica e organizzativa? Innanzitutto, comesuggerisce Vittorio Hösle, poiché la preoccupazione è accentuata da precisedinamiche economiche e tecnologiche, «senza una filosofia della tecnica edell’economia non si potrà cogliere l’essenza della crisi ecologica». 2 Inoltre,come si cercherà di dimostrare, è evidente che dietro al trionfo di questedirettrici tecnico-economiche si celi l’eredità del programma metafisicomoderno. Partendo dai dati di fatto che emergono dal degrado <strong>ambientale</strong>,infatti, si può compiere un interessante viaggio nella storia della filosofia della<strong>natura</strong>, alla ricerca delle radici culturali che hanno condotto all’imposizione dideterminate categorie e valori morali.Sta proprio qui il senso della prima parte di quest’indagine. Quella che aprima vista può sembrare una semplice enumerazione di fatti e dati scientifici,sottintende un più ampio dibattito circa il rapporto uomo-ambiente. In primoluogo, il clima d’incertezza creatosi non fa altro che evidenziare la lacerazionedi tale legame, mettendo definitivamente in luce una progressiva degenerazione1 Lezioni di inglese, Il discorso di Obama dopo la rielezione (in italiano e in inglese), consultato on-line il10/02/2013 all’indirizzo internet http://www.lezionidinglese.net/blog-inglese/il-discorso-di-obamadopo-la-rielezione-in-italiano-e-in-inglese/.2 Vittorio Hösle, <strong>Filosofia</strong> della crisi ecologica, Einaudi, Torino 1992. P. 8.8


che dura da secoli. Per di più, i diffusi fenomeni d’inquinamento e i presunticambiamenti climatici impongono una riflessione critica sul concetto stesso di“crisi”, invitandoci a meditare sui risvolti etici che ne possono conseguire.Il corpo centrale del lavoro si sofferma poi sul periodo moderno e sugliassunti che hanno permesso la nascita e lo sviluppo di una nuova ideologia.L’interpretazione organicistica, attiva sin dai tempi più antichi, non ha saputoresistere all’incedere delle nuove idee scientifiche, lasciandosi sopraffare inmaniera inesorabile dalla prospettiva meccanicistica. Anche se la concezioneorganica del mondo non è scomparsa completamente e, di tanto in tanto, sirinnova in alcuni autori, non ha più rivestito un ruolo di primaria importanza. Loscopo di questa sezione è proprio quello di mostrare come la modernitàrappresenti un punto di svolta per l’umanità, principalmente nel modo dirapportasi con l’ambiente.I sentimenti di rispetto, venerazione e, talvolta, timore verso luoghianimati da misteriose forze lasciano il posto a territori inerti, che diventanoaccessibili, vulnerabili e completamente al servizio dell’uomo. ParafrasandoCarolyne Merchant possiamo dire che la metafora della Terra come alma materviene gradualmente sostituita da immagini di dominio, più idonee alla nuovavisione meccanizzata del mondo. 3 Di conseguenza, l’essere umano inizia aconcepirsi come un ente separato dal resto del creato, considerandoquest’ultimo soltanto in termini di utilità, come un vero e proprio oggettomanipolabile a seconda dei propri fini.Come si può facilmente intuire, le figure centrali dell’età moderna sonoBacone e Cartesio. Essi, oltre ad esser i migliori interpreti delle innovazioniscientifiche, hanno fornito le giustificazioni teoretiche e morali alla superioritàdell’essere umano e alla sua sete di dominio. Le loro immagini di autorità epossesso, accettate ancora oggi, sono usate per legittimare azioni che nelpassato premoderno sarebbero state considerate empie e contro ragione. DalXVII secolo, dunque, inizia quel rapido cammino che, nel breve volger diqualche decennio, ha portato all’industrializzazione del mondo e all’attuale statodi cose.3 Carolyne Merchant, La morte della <strong>natura</strong>, Garzanti Editore, Milano 1998, p. 38.9


Capitolo I: La necessità di una scienza ecologica1.1 PrologoQuando un problema si manifesta in maniera eclatante, forse è giàtroppo tardi per poterlo risolvere. Il termine “emergenza” è senz’altro il piùindicato per descrivere ciò che sta succedendo intorno a noi: il nostro ambiente,così come lo conosciamo, si trova suo malgrado coinvolto in una vera e propriacrisi globale. Radio, televisioni e giornali dedicano sempre più spazio atematiche ambientali; su internet proliferano siti e blog che profetizzano unimminente tracollo ecologico; mentre tra la gente termini come “riscaldamentoglobale”, “effetto serra” o “piogge acide” sono divenuti ormai familiari. Forsequesto è un cattivo presagio.Tuttavia, a ben vedere, la gravità della questione non è ancora sotto gliocchi di tutti, soprattutto di chi ne è maggiormente responsabile. Tutt’oggi, lacorsa ai ripari non è generalizzata, siamo nella fase in cui si è individuato unproblema, ma si cerca di trovare soluzioni il meno rivoluzionarie possibili per glistandard cui la nostra società è abituata. In primo luogo, infatti, si tratta di unaquestione sociale.In questo clima, ha assunto particolare importanza una scienzarelativamente giovane come l’ecologia e la figura dello scienziato ecologo si èritagliata uno spazio di prim’ordine, sia nella comunità scientifica, sia nellasocietà ordinaria. Come scrive lo storico Donald Worster, «negli ultimi anni èdiventato praticamente impossibile parlare del rapporto tra l’uomo e la <strong>natura</strong>senza fare riferimento all’ecologia. […] Scienziati di grande valore come RachelCarson, Barry Commoner, Eugene Odum, Paul Ehrlich ed altri, sono diventati inuovi oracoli scrivendo libri, servendosi dei mezzi di comunicazione di massa,influenzando le politiche dei governi, fino ad assurgere a pilastri dellamoralità». 4È dunque necessario, per chiunque voglia dissertare circa la <strong>natura</strong>,soprattutto per chi intende farlo da un punto di vista filosofico, avere4 Donald Worster, Storia delle idee ecologiche, il Mulino, Bologna 1994, p. 15.11


dimestichezza con questa disciplina e con i suoi maggiori interpreti. Prima diaffrontare il nucleo centrale dell’argomento, sembra opportuno fare una brevedigressione sull’origine di tale scienza e contestualizzare le tematiche cheverranno approfondite in questo lavoro.Spesso già nel nome sono presenti interessanti indizi sulla genesi dellacosa che s’intende indagare. Il termine “ecologia” fu coniato nel lontano 1866da Ernst Haeckel (1834-1919), uno studioso tedesco seguace del pensierodarwinista. La parola deriva dalla radice greca oikos che significa “casa”. Puòdunque considerarsi come la scienza che si occupa degli ambienti, anche se,più coerentemente con le intuizioni del sapere moderno, si deve definire comela scienza dei rapporti degli organismi con il proprio habitat. 5Tuttavia, è sbagliato far risalire a quella data l’origine di una dottrina tantocomplessa, poiché, fin dagli albori dell’umanità, l’individuo dotato di ragione si èdovuto confrontare con l’ambiente. Possiamo dunque dire che «l’idea diecologia è nata molto prima del suo nome». 6 L’incontro tra il pensiero umano ela <strong>natura</strong> ebbe inizio nel mondo ancestrale: una delle prime forme dispeculazione ecologica è proprio quella dell’uomo preistorico, del cacciatoreraccoglitoreche doveva costantemente interagire con le difficoltà dell’ambientein cui era costretto a vivere. Egli elaborò la prima e rudimentale forma dianimismo, «la <strong>natura</strong> era una perenne insidia e l’uomo primitivo pensò chenascondesse delle realtà sopran<strong>natura</strong>li. Ogni essere, ogni cosa, ogni evento,era parte di un tutto». 7L’evoluzione della specie, di concerto con il maturare dei riti e delleusanze della civiltà, ha mutato numerose volte l’atteggiamento nei confrontidell’ambiente, anche se l’analisi della <strong>natura</strong> è rimasta un dato costante nellavita dell’uomo. La sua innata curiosità, infatti, doveva necessariamentesoffermarsi su ciò che gli stava immediatamente di fronte. La stessa nascitadella filosofia, ai primordi del pensiero greco, prese le mosse da un’indagine5 Eugene Pleasants Odum, Ecologia, Zanichelli, Bologna 1966, p. 11.6 D. Worster, Storia delle idee… cit., p. 16.7 Piergiacomo Pagano, <strong>Filosofia</strong> ambientele, Mattioli, Fidenza 2005, p. 15.12


diretta sulla physis 8 . I cosiddetti filosofi <strong>natura</strong>listi ebbero come oggetto dellaloro speculazione i “principi”, elementi originari con cui tentavano di spiegare larealtà <strong>natura</strong>le così come essa appariva. Pensatori come Talete, Anassimene,Anassimandro o Empedocle rappresentarono una prima forma di mediazionetra istinti di remota origine e l’acume del nascente pensiero razionale. «Alcunetestimonianze fanno pensare che la più antica sensibilità magico-religiosa nonfosse del tutto scomparsa dal loro spirito e che lo stesso concetto di <strong>natura</strong> necogliesse, più che il sostrato materiale, il dinamismo di un’energia di vitale, nondissimile da quella che anima l’essere umano». 9Fu poi Platone, nel Timeo, a tentare una spiegazione filosofica di quegliantichi sentimenti, introducendo il concetto di “anima del mondo” eparagonando quest’ultimo ad una grande animale dotato di forze vitali. Inoltre,pur dimostrando scarso interesse per l’argomento, portò una testimonianza dicome, già a quei tempi, fosse visibile l’impatto umano sull’ambiente. A propositodella differenza tra la Grecia a lui contemporanea e quella più antica scrisse:Tale era allora, oltre alla bellezza, la sua fertilità. Come dunque questo ècredibile e per quale indizio questa terra si può dir giustamente il residuo diquella di allora? […] Ma non è moltissimo tempo che vi furono tagliati alberi percoprire i grandi edifici, e questi tetti ancora sussistono. 10Venne poi Aristotele, forse il più incline tra gli antichi ad un esamedell’elemento <strong>natura</strong>le di stampo moderno: analisi di fatti storici, dettagliatedescrizioni e, soprattutto, scrupolose classificazioni e definizioni. Quanto sin quidetto, peraltro, può essere efficacemente riassunto in uno dei più famosi passidella sua Metafisica:Gli uomini, sia nel nostro tempo sia dapprincipio, hanno preso dalla meraviglia lospunto per filosofare, poiché dapprincipio essi si stupivano dei fenomeni che8 Physis è un termine greco che aveva vari significati che si avvicinano a termini come “crescere”,“sorgere” o “nascere”. Generalmente lo si traduce in italiano con “<strong>natura</strong>”, tuttavia, in origine, esso siriferiva anche al linguaggio mistico dei misteri, all’ambito del sacro da cui la <strong>natura</strong> traeva la sua forzavivificante.9 P. Pagano, <strong>Filosofia</strong> <strong>ambientale</strong>, cit., p. 16.10 Platone, Crizia, in Platone, Opere complete, Laterza, Bari 2000, pp. 456-457.13


Lo studioso che, in questo periodo, contribuì più di tutti alla delineazionedel campo problematico dell’ecologia fu senz’altro lo svedese Carlo Linneo(1707-1778). Egli dettò le linee guida della disciplina e si adoperò in unestenuante sforzo di nomenclatura e classificazione delle varie componenti<strong>natura</strong>li. La sua impostazione, e quella di altri eminenti pensatori come Ray oPaley, era ancora piuttosto tradizionale, incentrata su una logica volta adastrarre l’individuo dal suo contesto e determinarne così le caratteristiche fisse.«L’adattamento all’ambiente era ancora una pura organizzazione meccanica,sancita da un decreto esterno, di componenti essenzialmente atomici all’internodi un’unità lavorativa e i singoli organismi erano elementi completamentepassivi di tale processo». 13È opinione comunemente accettata che Charles Darwin (1809-1882) siala figura più importante e rivoluzionaria per l’ecologia. Il pensiero di questo<strong>natura</strong>lista rappresentò una rottura sia con le precedenti visioni scientifiche, siacon le teorie della creazione divina. L’essere vivente non era più un prodottoperfetto e immutabile nelle relazioni con l’economia della <strong>natura</strong>, ma diventavaun complesso sistema in grado di modificarsi, lottare ed infine adattarsi pertrovare il proprio posto. L’idea di “sistema complesso” era già insitanell’impostazione di Darwin: «la <strong>natura</strong> – scriveva – è una rete di rapporticomplessi e nessun organismo o specie può vivere indipendentemente daquella rete». 14 La concezione dello studioso inglese diventava, dal 1859, labase delle successive idee ecologiche. I passi seguenti saranno quelli diallargare il sistema di riferimento a più organismi, a più comunità, fino adincludere il mondo stesso.La fondazione istituzionale della scienza ecologica, le prime cattedreuniversitarie, i primi circoli di studiosi e la ricerca di nuovi indirizzi di sviluppo,sono fenomeni che si collocano tra la fine dell’Ottocento e i primi tre decenni delNovecento. Già sul finire del XIX secolo, però, si può rilevare una separazionetra pensiero europeo e una specifica diramazione anglo-americana, la qualedava particolare risalto a indagini sull’impatto <strong>ambientale</strong> dell’uomo. Ci rifaremo13 Ivi, p. 195.14 Ivi, p. 199.15


dunque a quest’ultimo filone ecologico, poiché si presta maggiormente aquestioni filosofiche e offre la possibilità di nuovi spunti di riflessione.Per capire ciò, è opportuno richiamare brevemente alcune differenzestorico-culturali tra vecchio continente e nuovo mondo. L’Europa è stata permillenni soggetta alle azioni dell’uomo occidentale, si è inesorabilmentemodificata, ma ad una velocità tale da non permettere all’uomo di renderseneimmediatamente conto. In America, invece, l’impatto antropico è stato moltodiverso. Le popolazioni indigene precolombiane erano riuscite a vivere quasi insimbiosi con il loro ambiente, anche se è errato pensare che non abbiano avutoeffetti negativi, soprattutto nei confronti delle altre specie. Dopo l’avventodell’uomo europeo, l’ambiente, che per secoli era rimasto intatto e inalterato,diede segni d’inaudito squilibrio, con effetti visibili da una generazione all’altra.È <strong>natura</strong>le che proprio in quel contesto dovesse nascere una radicale critica suciò che l’uomo aveva diritto di fare del suo habitat.Possiamo dire che la presa di coscienza <strong>ambientale</strong> è un fattorelativamente recente, sviluppatosi pian piano a partire dal 1800. Negli annisessanta del secolo scorso, proprio in America, inizia quello che viene definito il“decennio verde”: un periodo di grandi turbolenze sociali che investono anche lariflessione sull’ambiente e sul suo utilizzo da parte dell’uomo. Nascono inquesto periodo i primi movimenti ambientalisti e le pionieristiche riviste delsettore; vengono inoltre organizzate numerose conferenze e congressi perdiscutere degli scempi che l’uomo stava continuando a compiere, non curantedelle nefaste conseguenze del suo agire. Ecco perché, in questo lavoro, si faràprincipalmente riferimento a studiosi di formazione anglosassone e alleproblematiche da essi individuate.Non dobbiamo comunque confondere l’ecologia con l’ambientalismo. Sitratta di due cose ben distinte; anzi, nel corso della storia, sono state prevalentile teorie ecologiche favorevoli a uno sfruttamento dell’ambiente. Se oggi siamogiunti a sentire l’esigenza di risvegliare uno spirito ambientalista, lo dobbiamoanzitutto alle conseguenze del predominio di dottrine ecologiche troppoantropocentriche. Ma cosa cambia realmente da un certo punto della storia inpoi? Perché per molti secoli i problemi ambientali non hanno destato grande16


preoccupazione? La ragione di ciò è senz’altro rintracciabile nella straordinariaevoluzione compiuta dalla tecnologia. Quelli che una volta erano soltanto sognivaneggiati da pochi sapienti, come un dominio totale sulla <strong>natura</strong> o un mondomodificato a misura d’uomo, sono ora effettivamente realizzabili. Anche talequestione, in ogni caso, verrà ripresa e sviluppata in seguito.Comunque sia, dopo le iniziali difficoltà, l’ecologia ha saputo imporsiall’attenzione di tutti, diventando un importante supporto in diversi ambiti dellasocietà: dalla politica all’economia, capace di far breccia nell’opinione pubblicae ridestare in essa un sopito sentimento etico. Non è mia intenzione fare unaricerca sui temi e i metodi sviluppati da questa scienza, bensì passare inrassegna i principali problemi messi in luce dagli esperti del settore e sottoporliad esame filosofico.È vero che la filosofia, da sempre, si è occupata dell’elemento <strong>natura</strong>lema, come rivelato con straordinaria lucidità da Karl Popper, ha per lungo tempoignorato i problemi della <strong>natura</strong>: «a mio parere il più grande scandalo dellafilosofia è che, mentre intorno a noi il mondo perisce – e non solo il mondo della<strong>natura</strong> – i filosofi continuano a discutere, a volte acutamente a volte no, sullaquestione se il mondo esiste». 15 Ora ciò non è più possibile. La nostragenerazione si sente oppressa e avverte il cupo sfondo dell’imminente crisiecologica. In fondo, come scrive Hösle,nessuno dei grandi filosofi si è sottratto alle emergenze del proprio tempo […].Nel momento in cui è in gioco non solo il destino del proprio popolo, ma anchequello dell’umanità e di gran parte della <strong>natura</strong> animata, essere indifferentisignifica tradire la causa della filosofia. 16Da questa prospettiva, è sicuramente auspicabile, in un futuro prossimo,un dialogo aperto e costruttivo tra filosofia ed ecologia, pur nel rispetto deipropri compiti. Queste discipline dovranno confrontarsi con disastri ambientaligià da tempo presenti, ma che soltanto ora si stanno mostrando con lamassima evidenza. È facile rilevare come le cause scatenanti siano molteplici e15 Karl Popper, Conoscenza oggettiva. Un punto di vista evoluzionistico, Armando, Roma 1983, p. 58.16 V. Hösle, <strong>Filosofia</strong> della crisi.., cit., p. 7.17


tutte, in qualche modo, collegabili tra loro. Tuttavia sembra possibile rintracciaretre principali aree problematiche che, con ogni probabilità, rappresenteranno laminaccia prioritaria per il domani. Si sta <strong>natura</strong>lmente parlando della perdita dibiodiversità, del cosiddetto global warming (riscaldamento globale) e dellasovrappopolazione. Vediamo ora nel dettaglio di cosa si tratta.1.2 Biodiversità, la più preziosa delle risorseBisogna chiarire subito una questione preliminare: quando si parla dicataclismi, catastrofi, disastri ecologici, lo si fa sempre, o quasi, da un punto divista antropocentrico. Anche i dibattiti sui rischi cui l’elemento biologico vaincontro, sott’intendono in realtà un concetto di vita così com’è compreso econosciuto dall’uomo. Ma l’essere umano non è che un piccolo frammento diquel complesso evento che rientra sotto la definizione di “vita”, un fenomenomolto più antico di noi.Non possediamo ancora dati esatti circa l’origine del mondo, ma «daquanto si desume dalla stratificazione delle rocce e dalla misurazione della lororadioattività, la Terra iniziò la sua esistenza quale corpo separato nello spaziocirca quattro miliardi e mezzo di anni fa. La primissima traccia di vita identificatafino ad oggi si trova nelle rocce sedimentarie formatesi più di tre miliardi di annifa». 17 Quella misteriosa forza che anima piante e organismi è quindi una dellepiù antiche compagne del nostro corpo celeste e, a meno di eventi imprevisti,continuerà a proliferare anche dopo la scomparsa dell’homo sapiens.La vita, infatti, non dipende da un unico fattore predominante. Penso siaormai un’opinione accettata che essa abbia bisogno di un sistema complesso,formato da componenti in costante relazione reciproca, per giungere a completamaturazione. “Ecosistema” è il termine tecnico per definire un habitat ideale perlo sviluppo della vita; si tratta di un’unità fondamentale comprendente «sial’insieme degli organismi sia l’ambiente non vivente: ciascuno dei due agiscesulle proprietà dell’altro e sono necessari entrambi al mantenimento dellavita». 1817 James Lovelock, Gaia, Bollati Boringhieri, Torino 2011, p. 26.18 E. P. Odum, Ecologia, cit., p. 17.18


Ciò che l’uomo sta minando è proprio l’equilibrio che gli permette diesistere insieme a tutti gli altri organismi a lui indissolubilmente legati. Dovremoperciò usufruire di una visione d’insieme, inquadrare il problema nel suocomplesso, esaminando i rischi reali ma anche i possibili risvolti positivi. Infatti,come ricorda Lovelock, ogni possibile disastro può rappresentare unapossibilità per lo sviluppo della vita in forme diverse. Ne è un chiaro esempioquel che successe milioni di anni fa, quando la vita si sviluppò in ambientianaerobici e poté contare soltanto sulla luce del sole come unica fonteenergetica. Tutto sembrava procedere in maniera irreversibile sennonché, circadue milioni e mezzo di anni fa, probabilmente a causa dell’inquinamentooperato da quegli stessi organismi anaerobici, si registrò un incredibile aumentodi ossigeno nell’atmosfera. «Questo fu forse il periodo più critico della storiadella vita sulla Terra. L’ossigeno nell’aria in un mondo anaerobico deve avercostituito il peggior incidente da inquinamento atmosferico che il pianeta abbiamai conosciuto». 19 Ma la vita non si arrestò, semplicemente imboccò un’altravia.Da ciò possiamo dedurre che chi verrà colpito più di tutti dall’attuale crisi<strong>ambientale</strong> sarà proprio l’uomo, il quale, anche solo da un punto di vistautilitaristico, dovrebbe fare tutto il possibile per mantenere inalterato l’equilibrioecologico che gli ha permesso di nascere, svilupparsi e divenire la forma di vitadominante. A tal fine la scelta decisiva da fare sarà quella di tutelare tutte leforme viventi, evitando di accelerare il normale ciclo <strong>natura</strong>le.«La varietà delle forme viventi – o “biodiversità” […] – è la chiave di voltaper la conservazione del mondo così come lo conosciamo». 20 Ma cos’è davverola biodiversità? Cosa s’intende con questo termine e come si realizzaeffettivamente nella realtà? Procediamo con ordine. Quando si parla dellediverse forme in cui la vita si è ramificata, non si può non considerare ilpensiero di Charles Darwin, colui che prima di chiunque altro capì l’importanzadi tale concetto. Partendo dalle sue principali teorie, si potrà comprendere più19 J. Lovelock, Gaia, cit., p. 46.20 Edward Osborne Wilson, La diversità della vita per una nuova ecologia, Bur, Milano 2009, p. 38.19


chiaramente perché la vita si sia differenziata in forme tanto diverse e perchénecessiti di continuare a farlo.L’intuizione fondamentale dello scienziato inglese è stata quella di nonconsiderare le specie viventi in maniera statica e assoluta, ma in perpetuomutamento ed evoluzione. Egli, infatti, comprese che «quanto più i discendentidi una specie vengono a diversificarsi nella struttura, nella costituzione e nelleabitudini, tanto più si troveranno nelle condizioni adatte a impadronirsi di molti ediversi posti nella compagine della <strong>natura</strong> e saranno in condizione di aumentaredi numero». 21 Come sostenne nella sua opera principale, L’origine della specie,le differenze tra i viventi non si conformano seguendo una direttrice e un pianoevolutivo prestabilito, bensì sono il risultato di molteplici fattori che neindirizzano il tortuoso cammino, attraverso innumerevoli tentativi.Darwin segnala innanzitutto una prima serie di variazioni spontaneepresenti già nella prole di ogni organismo: i figli si differenziano sempre perqualche qualità, strutturale o istintiva, dai genitori e, se ciò li avvantaggia,tendono a trasmetterle alle successive generazioni.Si tratta quindi di trasformazioni individuali, le quali possono però essereindirizzate verso variazioni più generali, creando così specie nuove. Comedetto, le alterazioni che favoriscono il persistere della vita vengono conservate,mentre quelle che risultano deleterie vengono eliminate. Questo principio vienechiamato dallo scienziato “selezione <strong>natura</strong>le”. Il suo funzionamento è moltoelementare ma efficace: essa «scruta di giorno in giorno, di ora in ora, in tutto ilmondo, qualsiasi variazione, anche la più leggera, rifiutando quel che è cattivoe conservando ed accumulando quel che è buono». 22 Questo livellodell’evoluzione è contrassegnato soprattutto da un’aspra competizione, traindividui della stessa specie, per accaparrarsi le risorse di una determinataarea. La lotta per l’esistenza favorirà individualmente chi avrà modificazioni piùconvenienti, mentre ad un livello superiore avvantaggerà le specie che avrannoun maggior grado di adattabilità e variabilità.21 Charles Darwin, L’origine delle specie, Newton Compton editori, Roma 2004, p. 120.22 Charles Darwin, L’origine delle specie, cit., p. 102.20


Vi è infine un ultimo meccanismo evolutivo, che Darwin notò operare inalternativa alla selezione <strong>natura</strong>le, ovvero il principio di “divergenza deicaratteri”. Tale meccanismo si mette in moto quando determinate caratteristichepermettono a un individuo di sfruttare le risorse di un ambiente fino ad allorainutilizzate, o in assenza concorrenza da parte di terzi. Viene così, in un certosenso, aggirata la lotta selettiva, aumentando notevolmente le possibilità didiramazione della vita. La competizione è dunque l’aspetto preponderante delladottrina darwinista; tuttavia è bene ricordare che anche per Darwin esistono viealternative per diffondere la vita.Si consideri che l’evoluzione compia un duplice percorso. Uno, quello piùintuitivo, lo effettua nello spazio e si esplica nella mera “lotta” sul territorio tradifferenti organismi; l’altro, invece, viene perpetuato nel tempo, seguendo unadirettrice che aggiunge il fattore longevità, ciò che permette ad una medesimaspecie di svilupparsi in forme diverse. Questi due piani non rimangono distinti,essi si compenetrano e danno origine alla diversità biologica checontraddistingue la vita sul nostro pianeta. Se, dunque, «la diversità biologica èuna effetto collaterale dell’evoluzione», 23 riducendo tale diversità l’uomo noncolpisce soltanto se stesso, ma riduce la gamma di chance a disposizione dellaselezione, colpisce cioè le fondamenta della vita. Il nocciolo centraledell’evoluzionismo è rimasto per lungo tempo invariato ed è tuttora ritenuto damolti valido. Tuttavia, come tutte le idee scientifiche, è andata incontro a nuovisviluppi. Gli scienziati e i biologi contemporanei hanno sintetizzato leriformulazioni di quei concetti moderni nell’insieme di teorie che prende il nomedi “neodarwinismo”, corrente di pensiero predominante e accettata più o menoda tutti.Certamente le nuove scoperte, come la mappatura del dna e la funzionedei geni 24 nella trasmissione delle informazioni, hanno dato nuovi input allabiologia evoluzionista. Infatti, come scrive Wilson, «l’evento fondamentaledell’evoluzione sta nel cambiamento della frequenza dei geni e degli assetti23 E. O. Wilson, La diversità della vita…, cit., p. 85.24 I geni sono quei segmenti di Dna che determinano sia caratteri esterni semplici, come proprietàanatomiche, sia caratteri più complessi, come la capacità per un uccello di volare o di un qualsiasi altroanimale di comportarsi in un certo modo. La scoperta della funzione dei geni ha senz’altro rivoluzionatoil mondo della biologia e dato nuova linfa alla teoria evoluzionista.21


cromosomici di una data popolazione». 25 Come ora dovrebbe essere chiaro, lacaratteristica principale della vita è proprio quella di essere “biodiversificata”.Questo le ha permesso in passato, e le permetterà in futuro, di superare terribilisconvolgimenti; è grazie alla biodiversità che la vita si è potuta insediare in ogniangolo del pianeta, anche negli ambienti più ostici.Non possiamo sapere con certezza quanti esseri viventi condividanol’esistenza insieme a noi. Possiamo soltanto dire che «Il numero di specie notedi organismi, incluse le piante, gli animali e i microrganismi, dovrebbe aggirarsiintorno a 1,4 milioni […]. Secondo i biologi evoluzionisti tale stima rappresentameno di un decimo di specie che realmente vive sul pianeta». 26 Per nostrasciagura, contrariamente a quanto dovrebbe accadere, la biodiversità è ora piùche mai sul punto di collassare. Molto frequentemente sentiamo parlare dianimali estinti, in pericolo d’estinzione o di piante protette perché divenuteormai rarissime. Ma non è certo questo il problema, se si pensa che quasi tuttele specie vissute in passato sono scomparse. Quel che preoccupa è lapercentuale d’estinzione unita alla velocità con cui sta avvenendo, fattori chenon permettono un adeguato ricambio con nuove specie. «L’estinzione è unprocesso <strong>natura</strong>le, ma l’attuale tasso di perdita di variabilità genetica, dipopolazioni e di specie è di gran lunga superiore ai tassi <strong>natura</strong>li; […] questorappresenta un cambiamento globale del tutto irreversibile». 27Purtroppo ci si allarma soltanto per alcune specie simbolo, come le tigri,le balene o grandi animali che colpiscono la sensibilità collettiva, mentre lespecie chiave per gli ecosistemi vengono lasciate al loro destino. Chi potrebbepreoccuparsi se qualche piccolo insetto scomparisse? Probabilmente solo glientomologi. Spesso, però, sono proprio le specie meno considerate dall’uomo,quelle più lontane dai suoi interessi utilitaristici, a rappresentare il vero motoredella <strong>natura</strong>. «Gli insetti e gli artropodi – ad esempio – sono talmente importantiche, se dovessero scomparire tutti quanti assieme, l’uomo non sopravvivrebbeche per pochi mesi […]. La superficie terrestre finirebbe letteralmente con il25 E. O. Wilson, La diversità della vita…, cit., p. 115.26 Ivi, p. 191.27 Peter M. Vitousek, Harold A. Mooney, Jane Lubchenco, Jerry M. Melillo, Human domination of Earth’secosystems, in Science, volume 277 (1997), p. 494. (La traduzione dei testi in lingua inglese è mia senon è dichiarato diversamente).22


marcire». 28 Viceversa, è curioso scoprire che, secondo certe stime, se l’uomoscomparisse improvvisamente, nel giro di pochi secoli «gli ecosistemi delmondo si rigenererebbero tornando allo stato ricco, più prossimo all’equilibrioche esisteva più o meno diecimila anni fa». 29I ricercatori sono sostanzialmente d’accordo nel rilevare, nel corso dellastoria, cinque grandi estinzioni di massa. Si tratta di momenti critici nei quali laTerra ha rischiato di diventare un’immensa sfera deserta, proprio come le suesorelle che compongono il sistema solare. «Le cinque estinzioni di massa sisono verificate in quest’ordine: nell’Ordoviciano, 440 milioni di anni fa; nelDevoniano, 365 milioni di anni fa; nel Permiano, 245 milioni di anni fa; nelTriassico, 210 milioni di anni fa; nel Cretaceo; 66 milioni di anni fa». 30Certamente l’estinzione più nota è l’ultima, quella che riguardò lascomparsa dei dinosauri e inaugurò l’era dei mammiferi. Con ogni probabilità fucausata dall’impatto con un asteroide che provocò danni inimmaginabili e permolto tempo cambiò radicalmente il clima. Delle precedenti estinzioni non siconoscono con esattezza le cause, ma tra le varie ipotesi compaiono impatticon meteoriti, eruzioni vulcaniche, deriva dei continenti e cambiamenti climaticicatastrofici. Pare inoltre che 251 milioni di anni fa la vita sia stata realmente sulpunto di scomparire: «è stato calcolato che il grande crollo del Permiano abbiaportato a una perdita di specie marine tra il 76 e il 96 per cento. […] Il mondobiologico – almeno per quanto attiene gli organismi superiori – ha evitatoproprio per un soffio l’estinzione totale». 31 Questi dati sono molto importanti enon vanno sottovalutati, poiché grandi ricercatori come Wilson sono giunti adavanzare l’ipotesi che sia iniziata una sesta estinzione di massa. Tuttaviastavolta non provocata da fenomeni esterni, ma da colui che è considerato ilprodotto più riuscito della selezione <strong>natura</strong>le: l’uomo.È dunque sbagliato considerare l’inquinamento attuale come l’unicacausa della progressiva diminuzione di biodiversità; in realtà, il problemaprincipale sembra essere l’uomo stesso. Per certi versi l’homo sapiens è da28 Ivi, p. 19129 Edward Osborne Wilson, La creazione, Adelphi, Milano 2008, p. 46.30 E. O. Wilson, La diversità della vita…, cit., p. 58.31 Ivi, p. 59.23


considerarsi alla stregua di un flagello <strong>natura</strong>le. Ovunque si sia insediato non èmai riuscito a vivere in completa simbiosi con il suo habitat. I cacciatoripreistorici erano predatori senza scrupoli e senza limiti: individuavano unterritorio ricco di prede, le sterminavano completamente e poi si dirigevano daun’altra parte.Agli occhi di quegli uomini, il mondo doveva apparire come una distesa senzafine oltre l’orizzonte […]. Ciò che contava era la dose quotidiana di cibo, la salutedella famiglia, il pagamento del tributo al capo, i festeggiamenti delle vittorie, i ritidelle stagioni, le feste. […] I cacciatori umani non aiutano alcuna specie. È unaverità generale che spiega tutta la malinconica situazione in cui ci troviamo. 32In genere gli altri predatori non producono danni di grande entità, poiché sonofondamentali per il mantenimento dell’equilibrio all’interno di un ecosistema.La situazione non migliorò con la rivoluzione agricola del Neolitico, anzirappresentò una tappa fondamentale per la definitiva appropriazione territorialeda parte dell’uomo. Da quel momento, tra gli obbiettivi umani non vi furonosoltanto altri organismi da cacciare, ma anche vegetali e terre da riorganizzaresecondo i propri fini. Certo, dopo la rivoluzione industriale il degrado e losfruttamento <strong>ambientale</strong> hanno raggiunto livelli inauditi, ma non bisognacommettere l’ingenuità di considerare colpevole soltanto l’uomo postindustriale;anche il “buon selvaggio” non era esente da colpe.Ci sono però svariati fattori che concorrono alla diminuzione dibiodiversità. Senz’altro la perdita di habitat rappresenta, al momento, la causaprincipale: l’incessante azione dell’uomo nel sottrarre territori alla <strong>natura</strong>selvaggia sta ora dando i suoi nefasti frutti. «Abbiamo modificato tra il 30% e il50% della superficie terrestre. Abbiamo abbattuto foreste per tutto il Novecento:le stime oscillano attorno al valore del 20%, circa 10 milioni di chilometriquadrati, una superficie pari all’intera Europa». 33 Ci sono zone nevralgiche sulnostro pianeta che stanno scomparendo: «la maggior parte della biodiversità sitrova ai tropici, più di metà delle specie conosciute di animali e di piante della32 Ivi, p. 347.33 Paul Jozef Crutzen, Benvenuti nell’Antropocene, Mondadori, Milano 2005, p. 28.24


Terra è concentrata nelle foreste pluviali». 34 Purtroppo il fenomeno delladeforestazione interessa maggiormente queste aree, mentre le zone temperatestanno lentamente riprendendo ad espandersi. Le regioni più floride dibiodiversità si trovano inoltre nei paesi economicamente più arretrati, dove gliabitanti, non avendo altre risorse logistiche e di sostentamento, decimanosenza sosta quei paradisi <strong>natura</strong>li. Notiamo che,tra il 1970 e il 2000, le dimensioni delle popolazioni delle specie che vivono nellepraterie temperate sono diminuite del 10 per cento, via via che aumentaval’estensione dei terreni destinati all’agricoltura. Un dato ampiamente superatodalle specie che vivono nelle praterie tropicali le cui popolazioni, nello stessoperiodo, si sono ridotte dell’80 per cento. Gli ecosistemi d’acqua dolce sonosottoposti a una pressione ancora maggiore delle foreste e delle praterie.L’umanità si appropria di un quarto dell’acqua liberata nell’atmosferadall’evaporazione e dalla traspirazione delle piante e più della metà della portatadei fiumi e degli altri canali <strong>natura</strong>li. Stiamo progressivamente prosciugando leriserve d’acqua dolce del pianeta. 35Anche la presenza di numerose specie invasive rappresenta un fattore didecrescimento della biodiversità: quando viene introdotto un organismoaggressivo in un ecosistema equilibrato, questo tende inevitabilmente adalterarlo, eliminando facilmente una concorrenza che non ha armi adeguate percombatterlo. L’uomo non può di certo ritenersi responsabile di ciò , tuttavia haalterato il volume del fenomeno. La rete globale di trasporti che si è ormaicreata moltiplica esponenzialmente il pericolo di introdurre razze nocive inhabitat diversi; il commercio internazionale, inoltre, rappresenta la prima causaper quanto riguarda la caduta delle barriere biologiche. «Il trasporto da partedell’uomo di specie attorno alla Terra sta omogeneizzando il biota terrestre,introducendo specie all’interno di nuove aree, dove possono disturbare sia ilsistema umano che quello <strong>natura</strong>le». 3634 E. O. Wilson, La creazione, cit., p. 94.35 Ivi, pp. 95-96.36 P. M. Vitousek, H. A. Mooney, J. Lubchenco, J. M. Melillo, Human domination…, cit., p. 494.25


L’uomo è invece diretto responsabile del già citato inquinamentoatmosferico e terrestre, della sovrappopolazione e dell’abuso di caccia e pesca;ma questi sono fattori che verranno analizzati nei prossimi paragrafi. Con inostri insostenibili ritmi di vita, stiamo rimescolando equilibri vecchi di milioni dianni e non sappiamo quali saranno le conseguenze nel lungo periodo.Sentiamo voci discordanti da parte degli esperti sul futuro che ci attende, quelche ora pare certo è che «l’attuale ritmo di estinzione, almeno sulla terraferma enegli ecosistemi d’acqua dolce, è circa cento volte più elevato di quellopresente prima dell’entrata in scena di Homo sapiens, avvenuta 150000 annifa». 37 Inoltre, prendendo esempio dalle grandi estinzioni di massa, possiamapprendere quanto tempo ci volle prima che le ingenti perdite siriequilibrassero: «in generale, solo per un avvio deciso, ci vollero ogni volta 5milioni di anni. Il recupero completo richiese, invece, decide di milioni di anni.[…] Dati questi che dovrebbero far riflettere chi sostiene che la Natura ricrea ciòche l’Homo sapiens distrugge. Può darsi di sì, ma in un lasso di tempo talmentelungo da non aver alcun significato per l’uomo di oggi». 381.3 Gli effetti del riscaldamento globaleI ritmi serrati della società odierna lasciano poco spazio per coltivarepassioni autentiche. La gente cerca di riempire i propri ritagli di tempo conargomenti mondani e di facile accesso; tra questi è interessante notare ilcrescente successo che sta riscuotendo la meteorologia. Quando due personehanno esaurito gli argomenti di conversazione e non sanno più di cosa parlare,il discorso ricade quasi inevitabilmente sulle previsioni atmosferiche. Èun’esperienza che tutti possiamo provare. Chiunque sbircia almeno una volta,durante la giornata, la pagina di un giornale dedicata al meteo; in televisione cisono addirittura canali tematici interamente dedicati alle previsioni. Il clima è dasempre un tema di grande interesse per l’uomo: esso condiziona le nostregiornate, il nostro lavoro e spesso anche il nostro umore. Da ormai qualche37 E. O. Wilson, La creazione, cit., p. 98.38 E. O. Wilson, La diversità della vita…, cit., p. 61.26


anno, tuttavia, si sente parlare, con crescente preoccupazione, del problemadel riscaldamento globale e dei gravi risvolti che potrebbe portare con sé.Essendo le condizioni meteorologiche un fattore molto importante per lavita, è normale che una loro alterazione più o meno marcata desti la massimaattenzione. Quando il cosiddetto global warming ha fatto la sua comparsadavanti all’opinione pubblica, si sono sentiti numerosi e discordanti pareri; i piùsostenevano che variazioni climatiche erano del tutto <strong>natura</strong>li e nonnecessariamente dipendenti dalle nostre attività. In realtà, i più recenti studi e inuovi metodi scientifici 39 sembrerebbero propendere per la tesi della stabilitàdelle temperature sulla Terra. Certo, il nostro pianeta ha attraversato vere eproprie rivoluzioni climatiche in passato, ma è sempre riuscito a ristabilire unostato di equilibrio. Secondo i dati a disposizione si può rilevare che, nonostantele ampie fluttuazioni, «il clima ha mantenuto una sua regolarità che riflettequella delle variazioni nell’orbita della Terra. Ha oscillato tra due stati diapparente equilibrio, uno corrispondente al freddo periodo glaciale e l’altro alcaldo periodo interglaciale […]. Ora non è più così». 40 Come nel caso dellabiodiversità, dove il problema non è rappresentato dalle estinzioni in sé ma dacome stanno avvenendo, così il problema climatico non riguarda ilcambiamento degli equilibri, quanto le cause che lo stanno provocando e lavelocità con cui si propaga.Le condizioni climatiche dipendono da numerosi fattori. Certamente èessenziale la presenza del Sole come fonte costante di energia, ma non èl’unica determinante, altrimenti i pianeti vicini al nostro potrebbero essere ingrado di ospitare la vita. Sappiamo che non è così, «Il nostro pianeta ènotevolmente diverso dai suoi fratelli sterili, Marte e Venere» 41 e ciò lo si deveprincipalmente alla peculiare atmosfera terrestre. «L’atmosfera è costituitaprincipalmente da azoto (78%), ossigeno (21%) e argon (1%). Questi gas, però,non hanno un ruolo diretto nei meccanismi che regolano il clima ed essendo39 Grazie soprattutto agli studi dei ghiacci, in varie parti del mondo, si sono apprese numerose cose sulclima. Nel corso del tempo il ghiaccio si deposita a strati e, ogni strato, trattiene piccole quantità d’aria.Dall’analisi di queste bolle d’aria, si può ricostruire la composizione chimica dell’atmosfera e ancheipotizzare la temperatura.40 P. J. Crutzen, Benvenuti nell’Antropocene, cit. p. 15.41 J. Lovelock, Le nuove età di Gaia, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 23.27


abbondanti e stabili, da un punto di vista chimico, presentano concentrazioniche non vengono modificate […] dall’azione antropica». 42È grazie al lavoro dei cosiddetti “gas serra” che la nostra atmosfera è ingrado di trattenere il calore proveniente dai raggi solari. Questi gas funzionanoproprio come le pareti di una serra, sono cioè in grado di incanalare parte delleradiazioni del Sole, che altrimenti verrebbero re-immesse nello spaziosottoforma di raggi infrarossi. Se ciò non accadesse, la superficie terrestresarebbe poco dissimile da quella di Marte. I “gas serra” sono molto numerosima presenti soltanto in tracce nell’atmosfera. I più importanti sono senz’altrol’anidride carbonica, gli ossidi d’azoto, il metano e l’anidride solforosa. La loroattività è fondamentale al fine di mantenere costante la temperatura terrestre,ad una media di 15 °C, l’ideale per la vita. L’equilibrio di questi gas èessenziale: se la loro concentrazione diventasse troppo alta avremmo un climasmodatamente caldo; viceversa se l’indice si abbassasse potrebbero aprirsi leporte ad un’altra era glaciale.Per capire se la nostra presenza abbia in qualche modo destabilizzato ilclima, proviamo ad analizzare la variazione climatica dalla comparsa dell’uomosino ad oggi; un lasso di tempo davvero breve da un punto di vista planetarioma, come vedremo, molto denso di significati. Il clima mite e favorevole, grazieal quale si sono sviluppati l’uomo e altre forme di vita, è stato nel suocomplesso costante fino a diecimila anni or sono, quando,approssimativamente, occorse l’ultima glaciazione. «I primi ominidi ritrovati inAfrica risalgono ad alcuni milioni di anni fa, cioè al Pliocene – un’epocageologica ancora precedente – ma fu durante il Pleistocene […] che nacquel’homo sapiens, la specie umana moderna». 43 Queste epoche erano ancorasoggette a forti cambiamenti e scossoni climatici e l’uomo cacciatoreraccoglitoredoveva arrangiarsi alla meglio; incideva sì sull’ambiente, ma nonera assolutamente in grado di alterare in maniera decisiva i cicli biologici eatmosferici.Qualcosa cambiò con la nascita dell’agricoltura,42 P. J. Crutzen, Benvenuti nell’Antropocene, cit., p. 33.43 Ivi, p. 11.28


un progresso che garantì risorse alimentari prevedibili e inaugurò nuove strutturesociali. Al fine di coltivare i campi, i nostri antenati si insediarono nei luoghi piùfavorevoli, rubarono terreno alle foreste, praticarono l’irrigazione per aumentarela produttività e allevarono animali, tutte innovazioni che portarono prosperità eincremento demografico, ponendo le radici per la nostra civiltà attuale. 44Secondo alcuni studiosi, fin da allora, l’uomo cominciò ad alterare lacomposizione atmosferica. Con gli attuali strumenti scientifici è persinopossibile «trovare traccia dell’attività “industriale” degli antichi greci e degliantichi romani». 45In ogni caso, la vera svolta fu rappresentata dall’epoca moderna edall’introduzione dei suoi nuovi macchinari. Paul Crutzen, un chimico molto notoalla comunità scientifica e già premio nobel per gli studi sull’ozono, suggeriscedi collocare proprio a cavallo della rivoluzione industriale l’inizio di una nuovaera geologica. È soprattutto dopo l’avvento del mondo industriale, infatti, chel’uomo è riuscito a diventare una forza in grado di alterare gli equilibri planetari.Oggi le quantità di gas serra hanno superato tutti i livelli conosciuti nelle epocheantecedenti all’homo sapiens; il tutto è avvenuto decine di volte più rapidamentedi quanto sia mai accaduto in passato. A questo proposito Crutzen si esprime inmaniera decisa:sono convinto che il cambiamento in questi parametri essenziali al clima segnil’inizio di una nuova epoca geologica e ho proposto di chiamarla Antropocene 46[…]. A differenza del Pleistocene, dell’Olocene e di tutte le epoche precedenti,essa è caratterizzata anzitutto dall’impatto dell’uomo sull’ambiente […].L’Antropocene è contraddistinta dalla specie diventata improvvisamentedeterminante per gli equilibri della Terra e del clima. 4744 Ivi, p. 22.45 Ivi, cit., p. 23.46 L’Autore vuole con questo termine sottolineare la centralità dell’uomo in questo particolare periodostorico; il termine Antropocene indica quindi l’epoca geologica che ha come massimo fattoredeterminante l’essere umano.47 P. J. Crutzen, Benvenuti nell’Antropocene, cit., pp. 15-16.29


Per giustificare queste affermazioni, vediamo ora come l’uomo haalterato i tre principali cicli climatici e biologici del nostro pianeta. Innanzituttol’essere umano ha modificato il ciclo del carbonio; forse il più importante di tutti,giacché la vita sulla Terra è basata su questo elemento. La concentrazione dianidride carbonica nell’atmosfera sta crescendo in misura esponenziale, «nonci sono dubbi che questo incremento sia stato guidato dall’attività umana, oggiprimariamente dall’uso dei combustibili fossili 48 ». 49 Nei paesi più poveri, invece,l’incremento di CO2 è principalmente il risultato della combustione di biomasse,cioè di foreste, sterpaglie, rifiuti e altri materiali organici usati nell’agricoltura.Un altro elemento essenziale per la vita è l’acqua: anche il suo ciclo èstato pesantemente disturbato. I movimenti delle vaste maree, i processi dievaporazione e di condensazione contribuiscono a mantenere stabili lecondizioni climatiche. L’acqua, però, è intensamente sfruttata per l’agricoltura,per i trasporti di materiali e per diluire i rifiuti chimici delle grandi industrie. Tuttequeste attività, nel loro complesso, turbano profondamente gli ecosistemiacquatici.Anche l’azoto, il gas predominante nell’atmosfera, è oggetto di alterazionidovute soprattutto all’uso dissennato di fertilizzanti agricoli. L’incremento dellasua concentrazione è tra i maggiori responsabili delle frequenti precipitazioni dipiogge acide e della presenza dello smog fotochimico 50 . Nel novero dei fattoriche plasmano il clima, non va dimenticato l’uso sconsiderato di alcuni prodottichimici, dei quali non si conosce ancora il potenziale pericolo. Valga da monitol’esempio di prodotti come il DDT 51 e i CFC 52 . Questi composti chimici venivanomassicciamente usati fino a qualche decennio fa, quando si scoprì che il DDTera anche un potente agente cancerogeno, mentre i clorofluorocarburi erano tra48 I principali combustibili fossili che l’uomo usa sono: carbone, metano e petrolio.49 P. M. Vitousek, H. A. Mooney, J. Lubchenco, J. M. Melillo, Human domination…, cit., p. 497.50 È un tipo di smog che colpisce molte aree urbane ed agricole: è causato dalle particolari reazioni, tra ivari composti dell’azoto, messe in moto dalla luce; è facilmente rilevabile poiché il cielo si presenta conuna sottile colorazione che può andare dal giallo-arancio al marroncino chiaro.51 Acronimo che identifica il composto chimico chiamato para-diclorodifeniltricloroetano, un potenteinsetticida usato soprattutto in ambito agricolo dall’inizio del ‘900 fino alla metà degli anni ’50; fu messoal bando all’inizio degli anni ’70 in America e, in seguito, in quasi tutto il mondo.52 Refrigerante, d'uso comune fino a pochi anni fa, composti da tre tipi di elementi chimici: il cloro, ilfluoro ed il carboni ; usati soprattutto come componenti delle bombolette spray.30


i colpevoli dell’allargamento del buco dell’ozono. Entrambi i prodotti, in seguito aqueste scoperte, furono banditi dai mercati internazionali.La combinazione di tutte queste alterazioni ha fatto si che la temperaturamedia della superficie terrestre sia aumentata di 0,6 °C nell’ultimo secolo.Siamo soltanto all’inizio dell’Antropocene e certamente il nostro impattosull’ambiente non potrà che aumentare. Gli effetti a lungo termine non sonocompletamente diagnosticabili, «è logico supporre […] che la Terra continuerà ascaldarsi per molti decenni ancora […] e che si verificheranno eventi climaticiimprovvisi» 53 . Ora possiamo già intravedere gli inizi di quelli che sembranoessere possibili disastri; i segni del cambiamento sono intorno a noi, nonpossiamo più nascondere la testa sotto la sabbia e far finta di nulla.L’aumento delle temperature sta contribuendo allo scioglimento di moltighiacciai, con un conseguente accrescimento del volume d’acqua nei mari.Molte isole, zone costiere e città famose potrebbero non esistere più traqualche secolo. L’aumento di qualche grado centigrado può inoltre portare adun inasprimento delle condizioni nelle aree già di per sé aride, provocando unmaggior numero d’incendi nelle zone boschive più secche e anomale ondate dicalore. L’aria calda agevola anche la formazione di terribili ed improvvisetempeste che, come conseguenza più grave, possono causare inondazioninelle città più colpite, un fenomeno che si accanisce per lo più nell'Europasettentrionale. Le zone marine non sono certo esenti da problemi. L’acquacalda favorisce la nascita dei temibili uragani che, ogni anno, sempre conmaggior frequenza ed intensità, colpiscono le coste americane ed asiatiche.Se prendiamo in esame soltanto l’ultimo secolo, possiamo renderci contodi come le cose si siano evolute in modo davvero rapido. «Chi ha cinquant’anniha visto le strade riempirsi di automobili, allargarsi le metropoli, spuntare nuovecittà e, in gran parte del mondo, l’agricoltura trasformarsi da lavoro manuale alavoro meccanizzato». 54 Chissà se, tra altri cinquant’anni, saremo i testimoni diulteriori progressi tecnologici e sociali o, nostro malgrado, costretti ad una53 P. J. Crutzen, Benvenuti nell’Antropocene, cit., p. 17.54 Ivi, p. 21.31


necessaria involuzione che suonerebbe tanto come una sconfitta per l’uomooccidentale.1.4 Sviluppo insostenibile e sovrappopolazioneIl 31 Ottobre 2011 l’umanità ha simbolicamente festeggiato la nascita delsettemiliardesimo abitante del pianeta. 55 Sotto molti punti di vista questotraguardo può esser considerato motivo di orgoglio per la razza umana: laprincipale condizione per il successo di una specie consiste proprio nell’avereuna cospicua popolazione. Ogni specie tende <strong>natura</strong>lmente a proliferare più chepuò, cosicché il numero degli esemplari va a denotare il suo stato di salute.Quando invece la comunità comincia pericolosamente a ridursi, può trovarsi difronte al pericolo dell’estinzione. «Per miliardi di anni di evoluzione biologica –infatti – la regola del gioco è stata quella di riprodurre il maggior numeropossibile di individui della specie. Questa è la base stessa della selezione<strong>natura</strong>le, la forza motrice del processo evolutivo». 56Il successo è ancora maggiore se consideriamo l'intervallo temporalerelativamente breve.La nostra specie, homo sapiens, si è evoluta poche centinaia di migliaia di annifa. Qualche decina di migliaia di anni fa […] la Terra non era abitata da più dicinque milioni di esseri umani […]. Ai tempi di Cristo, duemila anni fa, l’interapopolazione umana aveva all’incirca le dimensioni della popolazione attuale degliStati Uniti; intorno al 1650 c’erano soltanto cinquecentomilioni di persone e, nel1850 ce n’erano soltanto poco più di un miliardo. 57Poiché ora siamo in sette miliardi, sembra che la maggior parte dell’incrementodemografico abbia avuto luogo nell’ultimo secolo; un periodo brevissimo separagonato all’intera storia della nostra specie.55 Matteo Airaghi, Se settemiliardi vi sembran pochi, in Corriere del Ticino, consultato on-line il20/06/2012 all’indirizzo internet http://www.cdt.ch/primo-piano/approfondimenti/53272/se-settemiliardi-vi-sembran-pochi.html.56 Paul Ralph Ehrlich e Anne Howland Ehrlich, Un pianeta non basta, Franco Muzzio editore, Padova1991, pp. 16-17.57 P. R. Ehrlich e A. H. Ehrlich, Un pianeta…, cit., p. 8.32


In effetti, i dati di cui disponiamo dimostrano come «l’espansionedemografica accelerò durante la rivoluzione industriale ed esplose letteralmentedopo il 1950». 58 Le ragioni di ciò sono senza dubbio da ricercare nelleimportanti innovazioni tecnologiche introdotte nel corso del Novecento,soprattutto in ambito agricolo. Per fare un esempio, «fino a qualche secolo fa,per aumentare i raccolti si alternavano culture di legumi e di cereali, e siusavano concimi organici <strong>natura</strong>li»; 59 ora i fertilizzanti chimici hannorivoluzionato il modo di concepire l’agricoltura. I terreni possono esserearricchiti, di anno in anno, di ogni sostanza nutriente, senza perdere nulla intermini di resa e produzione. Questo «è stato un successo scientifico etecnologico che ha accelerato lo sviluppo economico, accrescendo la resadell’agricoltura e favorendo il clamoroso aumento demografico avvenuto negliultimi cinquant’anni». 60Ma cosa succede quando una specie si spinge oltre ogni limite,riuscendo ad abbattere quelle barriere che mantengono sotto controllol’espansione di ogni famiglia del regno animale? Sappiamo che in unecosistema ogni specie è legata ad un’altra, anche dal punto di vista delledimensioni. Gli erbivori, ad esempio, si riproducono molto velocemente ma illoro numero viene tenuto entro i limiti da altri animali antagonisti, come ipredatori. Ogni ecosistema perciò ha dei metodi, più o meno indolori, permantenere in equilibrio il numero dei loro componenti; con ogni evidenza larazza umana è riuscita ad aggirare questi vincoli.Il nostro sviluppo è stato stupefacente ma ora ci sta portando verso unvicolo senza uscita; «negli ultimi cinquant’anni abbiamo preso poco a pococoscienza di fondare il nostro sviluppo e il nostro benessere su un ambienteche non riesce più a reggerli». 61 Siamo di fronte a quel problema che gli espertichiamano “sovrappopolazione”: cominciamo ad essere in troppi e il nostrohabitat è ormai sfruttato oltre il limite consentito.58 Ivi, p. 8.59 P. J. Crutzen, Benvenuti nell’Antropocene, cit., p. 26.60 Ivi, p. 26.61 Ivi, p. 25.33


Già nel 1798, l’economista e demografo inglese Thomas Malthusosservò che la popolazione aumentava in modo geometrico o esponenziale,mentre le risorse alimentari crescevano in maniera aritmetica. Forse egli sisbagliava sul fatto che gli alimenti sarebbero divenuti in breve tempo troppopochi in relazione alle persone; non aveva infatti considerato le innovazioni chela mente umana è in grado di apportare in ogni ambito. Ad ogni modo, perquanto riguarda le modalità di crescita della popolazione, non si sbagliava.Per capire come l’essere umano si riproduce nel tempo, si può ricorreread un efficace esempio: quello della “lingua d’acqua”, una pianta che crescenegli stagni. Questo vegetale ha la caratteristica di raddoppiare ogni giorno lapropria quantità, tendendo a ricoprire uno stagno di medie dimensioni in unatrentina di giorni. Bisogna ora porsi una domanda: «quanta parte dello stagnosarà ricoperta in ventinove giorni? La risposta, ovviamente, è che in ventinovegiorni sarà ricoperta la metà dello stagno. La lingua d’acqua raddoppierà ancorae coprirà l’intero stagno il giorno successivo». 62 Ecco come funziona unacrescita esponenziale: la fase iniziale è molto lenta, non desta particolareattenzione, ma diventa incontrollabile ed irrefrenabile quando il suo sviluppo èben avviato. L’uomo sta facendo come le lingue d’acqua: dal 1950 al 1987 lapopolazione è raddoppiata, da 2,5 miliardi a 5 miliardi in soli trentasette anni;inoltre, dal 1987 al 2011, si sono aggiunti altri 2 miliardi di abitanti. Si stima che,intorno al 2050, saremo addirittura in 10 miliardi!Fino a che punto possiamo avanzare la nostra crescita senza chel’ambiente finisca per collassare? Non c’è dato saperlo con esattezza, masiamo già vicino ad un punto di non ritorno. Pur non rappresentando un vero eproprio problema ecologico, il sovrappopolamento è connesso e amplifica tutti idanni che abbiamo sin qui esaminato. «Il riscaldamento globale, le pioggeacide, l’assottigliamento dello strato di ozono, la vulnerabilità alle epidemie,l’esaurimento dei suoli e delle acque delle falde freatiche sono tutti […]connessi con la dimensione della popolazione». 6362 P. R. Ehrlich e A. H. Ehrlich, Un pianeta…, cit., p. 9.63 Ivi, p. 11.34


Il concetto di “sovrappopolazione” è spesso frainteso o coltoparzialmente. Solitamente si pensa all’affollamento di tante persone in undeterminato luogo; ma questa è la “densità” e rappresenta solo una partedell’intera questione. Ciò che davvero fa la differenza èil numero di individui che vivono in una determinata area in rapporto alle risorsedi quest’ultima e alla capacità dell’ambiente di sostenere le attività umane; cioè lacapacità di carico o sostentamento di quell’area. Quando un’area èsovrappopolata? Quando la sua popolazione non può essere mantenuta senzaesaurire rapidamente le risorse rinnovabili […] e senza degradare la capacitàdell’ambiente di sostenere la popolazione. […] Secondo questo criterio, l’interopianeta, e praticamente qualsiasi nazione, è già notevolmente sovrappopolato. 64A questo punto è utile ricordare come, nella nostra società, le risorsesono distribuite in maniera estremamente iniqua. Infatti, secondo la definizioneappena fornita, non tutti i paesi sono sovrappopolati per lo stesso motivo. Moltenazioni povere, soprattutto nelle zone dell’Africa, non hanno materie prime onon le sfruttano in modo adeguato, pur non avendo una densità elevatissima.Le aree ricche del pianeta, invece, consumando più di quel che riescono aprodurre, risultano sovrappopolate per il motivo opposto. È altresì chiaro chenon tutti gli abitanti incidono sull’ambiente allo stesso modo: la nascita di unbambino americano medio è un disastro, per i sistemi di sopravvivenza dellaTerra, cento volte maggiore della nascita di un bambino in un paesedisperatamente povero». 65 La dieta media di un americano è ricca di alimentimolto dispendiosi dal punto di vista della sostenibilità: uova, latte, carnenecessitano infatti di bestiame per la loro produzione e questi, a loro volta,devono venire nutriti. Si calcola che circa un terzo della produzione di cerealisia utilizzata come mangime per questi animali. Davvero un grande spreco dirisorse alimentari per il resto della popolazione mondiale.«I paesi ricchi hanno sviluppato un sistema economico che si basasempre più sul consumo dell’eredità accumulata dall’umanità, ma che fornisce64 Ivi, p. 37.65 Ivi, p. 4.35


un accesso ad essa in modo ineguale, un sistema che ha incoraggiato l’umanitàa raggiungere un incredibile livello di sovrappopolazione. Ma si tratta di ungioco che non può durare». 66 Essa è infatti un’economia intrinsecamenteautodistruttiva, sotto un duplice aspetto: oltre a lasciare parte degli abitanti alottare con i problemi della fame, incoraggia uno sfruttamento incontrollato dellerisorse <strong>natura</strong>li.Tuttavia, in questo preciso momento storico, nemmeno una più oculatagestione degli alimenti potrebbe essere considerata come la panacea di tutti imali; si stima infatti che le persone sottonutrite siano poco meno di unmiliardo. 67 Anche se ci fosse una redistribuzione dei beni primari, ciò nonbasterebbe ad eliminare completamente il problema della fame nel mondo. Ipaesi poveri, dal canto loro, hanno un tasso di natalità molto elevato. Tuttoquesto, collegato a quanto appena detto, va a formare un circolo vizioso dalquale sembra difficile poter uscire. Più bocche da sfamare, a certe latitudini,significano più persone che soffrono i morsi della fame, elevata mortalità deibambini nei primi anni di vita e numerose malattie derivanti dalla malnutrizione.In futuro ci troveremo certamente costretti a rivedere il nostro stile di vita erendere più sostenibile la nostra presenza per gli altri ecosistemi.La popolazione mondiale, in ogni caso, non potrà continuare a proliferaresenza sosta: o ci penserà l’uomo a porre un limite al proprio sviluppo, oppure,come ci suggerisce Paul Ehrlich, sarà la <strong>natura</strong> a ridimensionare il nostrodominio. La consistenza numerica degli individui influisce sulla salute generaledell’uomo soprattutto in maniera indiretta, attraverso l’influenza che esercitasulle comunità biotiche del pianeta.la popolazione umana deve la propria sopravvivenza a servizi che riceve dagliecosistemi <strong>natura</strong>li della Terra, i quali, tra le altre cose, regolano la miscela deigas dell’atmosfera, forniscono acqua dolce, controllano le inondazioni, fornisconocibo dal mare e prodotti dalle foreste, creano suoli, eliminano rifiuti, riciclano66 Ivi, p. 43.67 Dati consultati sul sito internet www.fao.org in data 20/06/2012.36


elementi nutritivi, impollinano le piante coltivate e controllano la maggior parte deiparassiti che potrebbero attaccarle. 68Come abbiamo potuto vedere, questi ecosistemi sono ora sottoposti afortissime pressioni e, se non si virerà rotta, prima o poi assisteremo ad undisastro demografico senza precedenti.Vi è poi da aggiungere che un numero più elevato di persone porta ad unminor controllo di quella che viene definita “salute pubblica”. Controllodell’igiene, medicina preventiva e servizi sociali non sono al momentoaccessibili a livello globale. Se la popolazione continuerà a crescere, con essas’innalzerà anche il rischio della comparsa di qualche nuova epidemia; unflagello che, ciclicamente, si abbatte sulla nostra razza.Non è mia intenzione discutere in questa sede di politiche volte allarisoluzione dei problemi; analizzare proposte per un possibile controllodemografico; vagliare i migliori metodi per la salvaguardia della biodiversità oper tenere sotto controllo la minaccia del riscaldamento globale. In questa partedel mio lavoro ho voluto semplicemente segnalare quelle che, con ogniprobabilità, saranno le emergenze più imminenti da affrontare. Nel prossimocapitolo, tuttavia, cercherò di esaminare le radici storico-filosofiche che hannopermesso l’insorgere di tali minacce. Un’idea sembra star alla base dellamentalità occidentale, quella di massimizzare ad ogni costo la produzione. Ciòha dato all’uomo la giustificazione, morale ed etica, per considerare l’ambientecome un’immensa riserva di risorse dalla quale attingere in manierasconsiderata, senza preoccuparsi delle conseguenze. Come vedremo tra poco,questa svolta nella storia è il risultato di molteplici motivazioni connesse tra loro.68 P. R. Ehrlich e A. H. Ehrlich, Un pianeta…, cit., p. 125.37


Capitolo II: Le radici della crisi2.1 I movimenti ambientalisti non bastanoLo scenario appena descritto è con certezza desolante. Nessun uomovorrebbe esser protagonista in un tale contesto, ma è proprio quello che si stapalesando. È difficile dare una valida motivazione per come si sia potutoarrivare a certi livelli di degrado senza accorgersene, o senza volerseneaccorgere.Forse è vera la tesi di alcuni studiosi, secondo cui l’homo sapienssarebbe restio a rendersi conto, nell’immediato, di conseguenze che siconcretizzano nel lungo periodo. Ciò deriverebbe dal modo in cui la nostraspecie si è evoluta e da come si è dovuta adattare, in principio, alle vicissitudinicui era esposta. Il cervello umano ha dovuto dare subito la precedenza aglistimoli diretti. I pericoli che i nostri antenati dovevano affrontare derivavano danecessità quasi istantanee: innanzitutto quella di trovare cibo, ma anche doverfar fronte ad improvvisi attacchi da parte di predatori, oppure inaspettatecalamità <strong>natura</strong>li. È ovvio che, per un lungo periodo, non abbia avuto sensopreoccuparsi delle potenziali ripercussioni che potevano manifestarsi molto in lànel tempo.Anche nel presente si può riscontrare un retaggio culturale di questoatteggiamento. Per fare soltanto un esempio, nessuno metterebbespontaneamente una mano sul fuoco dopo aver avuto esperienza dei danni chequesto può provocare; tuttavia, nonostante numerosi studi abbiano dimostratoquanto sia dannoso fumare, buona parte della gente sembra nonpreoccuparsene troppo. Questo è un tipico caso di potenziale problema a lungotermine, paragonabile, seppur con le dovute proporzioni, a quello <strong>ambientale</strong> inatto.Nel caso specifico, per quanto riguarda la minaccia che incombesull’ecosistema <strong>natura</strong>le, vale quanto affermato dall’antropologo DanielGoleman:39


la nostra specie si trova a dover affrontare un pericolo costituito da forze cheeludono i nostri allarmi percettivi innati. […] Il cervello umano è perfettamentecalibrato per inquadrare e reagire istantaneamente a una gamma prefissata dipericoli, quelli che ricadono all’interno del campo visivo del periscopio di cui la<strong>natura</strong> ci ha fornito. […] Nel nostro passato evolutivo, però, nulla ha formato ilnostro cervello a individuare minacce meno palpabili, come il lentosurriscaldamento del pianeta, l’insidiosa diffusione di particelle chimichedistruttive nell’aria che respiriamo e nel cibo di cui ci nutriamo, o l’inesorabiledevastazione di ampie porzioni della flora e della fauna del nostro pianeta. 69Considerando la questione da questo punto di vista, anche il famoso sociologoBateson descrive «il destino in cui la nostra civiltà è entrata come un casoparticolare di vicolo cieco evolutivo. I comportamenti che offrivano vantaggi abreve scadenza sono stati prima adottati, poi sono stati programmati e, suiperiodi più lunghi, hanno cominciato a dimostrarsi disastrosi. Questo è ilparadigma dell’estinzione per perdita di flessibilità». 70Come precisa Vittorio Hösle, è intervenuto un altro importante fattore cheha ulteriormente amplificato questo problema, ovvero l’incredibile sviluppotecnologico che ha notevolmente incrementato i poteri dell’uomo.La tecnica moderna ha dilatato nello spazio e nel tempo le conseguenze delnostro agire in una misura che non ha equivalenti nell’intera storia universale, equesto ampliamento del mondo dell’azione non è affatto seguito da unampliamento del mondo della percezione […]. Oggi siamo in grado di fare cosele cui conseguenze si possono prevedere solo con grande sforzo […] e anche sealla fine ci rendiamo conto di queste conseguenze, i nostri istinti morali innati nonintervengono più per distoglierci da un agire che produce i suoi effetti a grandedistanza. 71Ecco perché, il più delle volte, si registrano reazioni apatiche e disinteressate difronte a previsioni negative circa il nostro futuro. Il comportamento umano sarà69 Daniel Goleman, Intelligenza ecologica, RCS Libri S.p.A., Milano 2009, p.38.70 Gregory Bateson, Verso un’ecologia della mente, RCS Libri S.p.A., Milano 2011, p. 498.71 V. Hösle, <strong>Filosofia</strong> della crisi…, cit., pp. 88-89.40


sempre il medesimo, almeno fino a quando non si manifesterannoconcretamente i primi segnali di degrado. Quei problemi che prima avevanosolo carattere virtuale, cominciano a rendersi tangibili: «è chiaro ora a molti cheimmensi pericoli di catastrofe sono germogliati sugli errori epistemologicioccidentali». 72Come abbiamo già avuto modo di sottolineare, fu negli Stati Uniti che sipalesarono le prime avvisaglie di una crisi e si levarono allarmate voci circa ilcomportamento dell’uomo sul pianeta. Già verso la fine dell’Ottocento lascienza ecologica aveva cominciato a scorgere i pericoli legati all’abuso<strong>ambientale</strong>. Sul finire del romanticismo, pensatori come Ralph Waldo Emerson(1803-1882) e scienziati dotati di grande sensibilità, come Henry David Thoreau(1817-1862), tentarono di destare la coscienza popolare dal torpore nella qualesi era adagiata.Una menzione particolare va a George Perkins Marsh (1801-1882) e alsuo The men and the nature (1864), libro che nel giro di poco tempo divenne unvero e proprio classico dell’ecologia. L’autore rilevava come «l’impoverimento dispecie che aveva colpito l’Europa fosse derivato dal cattivo trattamentoriservato all’ambiente» 73 . Proprio il confronto con il vecchio continente divenne ilmotivo trainante dell’epoca. Altri autori come Nathaniel Southgate Shaler oPeter Frank Ward, seguirono la sua scia e, negli americani, si sviluppò l’ideache bisognasse comportarsi in maniera meno scriteriata rispetto allacontroparte europea. Nei primi anni del Novecento sono stati raggiunti indicativitraguardi, soprattutto per quel che riguarda l’elaborazione del cosiddetto“principio di conservazione della <strong>natura</strong>”, grazie al quale venne promossal’istituzione di numerosi parchi e aree protette.Si può senz’altro affermare che «L’ecologia sia stata una scienzasovversiva nel denunciare criticamente le conseguenze di una crescitaincontrollata associata al capitalismo, alla tecnologia e al progresso, concettiche negli ultimi due secoli sono stati considerati con reverenza nella cultura72 G. Bateson, Verso un’ecologia…, cit., p. 483.73 Sharon E. Kingsland, The evolution of American Ecology, The Johns Hopkins University Press, Baltimora2005, p. 10.41


occidentale». 74 Tuttavia la scienza ecologica degli inizi non portò avanti in modosistematico questa linea di pensiero. Essa aveva infatti bisogno di trovare unasua legittimità; gli scienziati dovevano tentare da una parte di convincere lagente della bontà delle loro tesi, dall’altra dovevano cercare di noncompromettersi troppo nei confronti delle istituzioni e delle forze politiche. Iltestimone per la tutela <strong>natura</strong>le passò così ai nascenti movimenti ambientalistiche, dagli anni sessanta, cominciarono a diffondersi rapidamente in tutto ilmondo. Citando soltanto i più conosciuti, possiamo elencare il WWF che fufondato nel 1961, Greenpeace nel 1969, Earthforce nel 1977, Earth first! nel1979. In Italia, Lega Ambiente nacque nel 1980. 75L’impegno profuso da queste associazioni è stato davvero mirabile, gliobbiettivi raggiunti non sono stati di poco conto, ma forse il merito maggioreconsiste proprio nell’aver sollevato certe problematiche agli occhi dell’opinionepubblica. Il duro lavoro degli attivisti toccò probabilmente l'apice il 22 Aprile del1970, data dell’istituzione della prima giornata mondiale della Terra (Earth Day).Tale manifestazione nacque inizialmente in ambiente studentesco persottolineare la necessità della conservazione delle risorse non rinnovabili. Macon il passare del tempo ha varcato i confini universitari ed è diventata diportata mondiale. Dal Settanta in poi, ogni anno, viene celebrata un mese e duegiorni dopo l’equinozio primaverile ed è divenuta un importante appuntamentousato a scopo educativo ed informativo.Nonostante tutte queste importanti iniziative, non si è ancora arrivati adanalizzare il nocciolo centrale della questione. I principali movimenti culturali eambientalisti del secolo appena concluso, si sono concentrati soprattutto su unaserrata critica del modus operandi dell’economia capitalista e dei suoi risvoltinegativi, tanto nei confronti della <strong>natura</strong>, quanto della società. Il movimentoecologico si è proposto come fine ultimo il ripristino dell’equilibrio <strong>natura</strong>le,oramai sconvolto da industrializzazione e sovrappopolamento. Esso ha insistitosul bisogno di vivere in armonia con i cicli della <strong>natura</strong>, contro una mentalitàlineare e progressista, orientata allo sfruttamento. L’ecologismo concentra74 C. Merchant, La morte…, cit., p. 32.75 P. Pagano, <strong>Filosofia</strong> <strong>ambientale</strong>, cit., p. 28.42


principalmente la sua attività sui costi del progresso, sui limiti della crescita,sulle carenze del processo decisionale tecnologico e sull’urgenza dellaconservazione delle risorse <strong>natura</strong>li. 76 Ma affinché il quadro sia completo,occorre anche un’analisi critica di quei meccanismi che stanno alla base di unamentalità volta al raggiungimento di un’opulenza sempre maggiore.Tali meccanismi, è risaputo, affondano le radici in un’epoca precedentealla nostra, una fase di grandi successi per l’umanità ma che, forse, ha minatopericolosamente i nostri rapporti con l’elemento <strong>natura</strong>le. Come scrive CarolyneMerchant,nell’investigare le radici del nostro attuale dilemma <strong>ambientale</strong> e le sueconnessioni con la scienza, con la tecnologia e con l’economia, dobbiamoriesaminare il formarsi di una visione del mondo e di una scienza che,riconcettualizzando la realtà come una macchina anziché come un organismovivente, sanzionò il dominio dell’uomo sulla <strong>natura</strong>. 77Si sta ovviamente parlando dell’epoca moderna, il cui punto di svolta èrappresentato dal formarsi del pensiero scientifico. Nel tempo che intercorre trai secoli XVI e XVIII, la storia dell’uomo subì cambiamenti epocali in diversicampi: la parola d’ordine di quel periodo è infatti “rivoluzione”. La rivoluzionecopernicana trasformò l’immagine collettiva del cielo e degli astri; la rivoluzionescientifica, iniziata da Galilei, cambiò definitivamente il modo di concepire lascienza e i suoi strumenti; la riforma protestante di Lutero e Calvino poseimportanti punti interrogativi circa il modo di intendere il rapporto con la divinità;infine, la rivoluzione industriale alterò per sempre il modo di intendere il lavoro ela vita per migliaia di persone.Riflettere sull’Europa moderna, come ecosistema, non significa soloscoprire che il tipo di crisi <strong>ambientale</strong> che travaglia oggi il nostro mondo è giàavvenuto in passato. Quel che s’intende davvero dimostrare è l’esistenza di unaspeciale sensibilità nei confronti del rapporto dialettico fra comportamento e76 C. Merchant, La morte…, cit., pp. 32-33.77 Ivi, p. 33.43


istituzioni umane da una parte e <strong>natura</strong> dall’altra. 78 Vediamo ora nello specificocome il periodo moderno modificò il rapporto dell’uomo con la <strong>natura</strong>, qualifurono le principali linee di pensiero e quali figure tentarono di impostare unapproccio alternativo a quello dominante.2.2 La nascita della civiltà modernaNel Seicento, il secolo dell’affermazione della scienza moderna, si misein moto una rivoluzione concettuale senza precedenti nella storia della razzaumana. Non si trattò di un cambiamento completamente inedito; anzi, alcuniaspetti furono il risultato di lenti processi iniziati in precedenza, tuttavia la nuovaposizione che l’uomo assunse nei confronti della scienza modificò la visionedella realtà in maniera decisiva. I punti di discontinuità con il passato sonocomunque palesi. Come evidenzia Whitehead, una serie di eventi collegatiportò ad una notevole ventata di novità. «Con la fine del medioevo si dischiuseuna nuova mentalità. Le invenzioni stimolarono il pensiero, il pensiero acceleròla speculazione riguardo alla fisica, i manoscritti greci rivelarono ciò che gliantichi avevano trovato», 79 soprattutto riguardo all’atomismo.Uno dei principali cambiamenti, rispetto all’antichità, fu rappresentatodallo spostamento di attenzione verso un tipo di sapere più pratico e menocontemplativo. Nuove tendenze, figlie dello spirito moderno, insisteronoprofondamente sulla necessità di «ricercare le relazioni tra i principi generali e ifatti irriducibili e ostinati». 80 Whitehead ritiene che in ogni luogo ed ogni epocasiano esistiti uomini di mentalità pratica, occupati nell’osservazione di tali fatti;come, analogamente, in tutte le epoche vi siano stati uomini di temperamentofilosofico intenti a tessera la trama dei principi generali. Proprio dall’unionedell’interesse per i particolari materiali con una egual passione per legeneralizzazioni astratte, scaturì la novità caratteristica della nostra attualeepoca. In precedenza, un tale connubio si era verificato in maniera sporadica ecasuale. Si tratta di un cambiamento significativo rispetto agli eccessiviintellettualismi della filosofia scolastica o alle direttive entro le quali era nata la78 Ivi, p. 81.79 Alfred North Withehead, La scienza e il mondo moderna, Bollati Borighieri, Torino 2001, p. 24.80 A. N. Whitehead, La scienza…, cit., p. 21.44


filosofia greca, cioè quelle di un sapere disinteressato e fine a se stesso, degnodi essere conosciuto solo in quanto tale.La società del tempo era dominata dall’ideale di autonomia, volevaliberarsi dagli antichi dogmi e procedere da sola con le capacità del propriointelletto. Si giunse a consolidare un sistema <strong>natura</strong>le che confermasse larazionalità del reale nei vari campi del sapere: dal diritto alla morale, giungendopersino a rinnovare alcuni fondamenti di teologia. Quest’atteggiamento èrilevabile anche nei grandi personaggi che illuminarono quell’epoca: «la stessafiera coscienza dell’autonomia della ragione umana agiva nel Galilei, nelDescartes, nel Liebniz, nel Newton, allorché essi, quasi rinnovando lacreazione, davano leggi alle masse nello spazio mondiale, fondendo così ildominio dell’intelletto umano sulla <strong>natura</strong>». 81Per questo particolare aspetto, è stata sicuramente decisiva la spintafornita dal nuovo assetto sociale che si stava sviluppando nel nord Europa. Dalpunto di vista politico vennero meno gli antichi vincoli feudali, mentre ilrafforzamento degli stati nazionali garantì un’iniziale condizione di equilibrio estabilità. Questa situazione, inusuale nel Medioevo, consentì alle persone didedicarsi maggiormente a quei lavori che potevano migliorare le loro condizioni.Lo slancio commerciale fu inoltre ampliato dalle nuove scoperte geografiche.Grazie allo sfruttamento delle risorse americane, infatti, gli europei poteronomodificare la loro produzione: da un’economia di sussistenza, passarono a unaproduzione specializzata per il mercato. Tutto ciò favorì indubbiamente il fioriredella media borghesia, un nuovo ceto sociale incarnato da mercanti,commercianti o proprietari di redditizie attività.Per capire che clima si era venuto a creare nelle zone più sviluppate e,primariamente, in Inghilterra, si faccia riferimento a questo eloquente passo diPaolo Rossi:l’artigiano, il mercante, il banchiere sono i tre tipi umani dominanti in un ambiente[…] proteso verso il futuro e verso la ricerca di nuove tecniche capaci diconsentire all’uomo un sempre più ampio dominio sul mondo. Per vie del tutto81 Wilhelm Dilthey, L’analisi dell’uomo e l’intuizione della <strong>natura</strong>, La Nuova Italia editrice, Firenze 1974,p. 119.45


differenti si accostava a questo mondo dell’azione anche la religiosità puritana;essa era ben lontana dal risolversi in contemplazione; solo attraverso un duro,continuo assoggettamento della realtà l’uomo può muoversi alla conquista di Dio.Di qui nasceva la idealizzazione religiosa del lavoro e la concezione di unaconoscenza concepita come strumento della volontà. 82Tuttavia, i nascenti processi di commercializzazione ed’industrializzazione richiedevano una massiccia quantità di materie prime, chepotevano esser reperite soltanto in <strong>natura</strong>. Essi, difatti, «dipendevano da attivitàche alteravano direttamente la terra: estrazioni di minerali, lavori di bonifica,deforestazione ed estirpazione di alberi e ceppi ai fini del dissodamento diterreni». 83 La società aveva perciò bisogno di nuove immagini di dominio esuperiorità che giustificassero culturalmente la progressiva spoliazione delterritorio.Anche le popolazioni primitive, le antiche civiltà mediterranee, i greci o glistessi romani, avevano iniziato a modificare il loro habitat secondo le esigenzee gli interessi. Le loro tecnologie non permettevano però grandi margini dimanovra e, soprattutto, «la gente si considerava ancora parte di un cosmofinito, e animismo e culti della fecondità che trattavano la <strong>natura</strong> come sacraerano ancora numerosi». 84 Come osserva Dilthey, la metafisica greca interpretòi corsi regolari degli astri e l’ordinato crescere di piante e animali come unriflesso dell’anima del mondo, dalla quale traevano la forza motrice interna.«Era dunque inevitabile che tutta la metafisica europea sino al Galilei e alDescartes [...] ammettesse simili forze». 85 Ciò rappresentò certamente unimportante freno inibitore per le brame di conquista dell’essere umano.Pare infatti che l’uomo abbia bisogno di approvazione morale, d’immaginimentali collettive che lo scagionino da eventuali sensi di colpa per determinatimodi d’agire. Proprio in questo senso l’opera del XVI secolo preparò la strada«verso la formazione del dominio dell’uomo sulla <strong>natura</strong>, verso l’autonomia82 Paolo Rossi, Francesco Bacone, Il Mulino, Bologna 2004, p. 68.83 C. Merchant, La morte…, cit., p. 38.84 Ivi, p. 39.85 W. Dilthey, L’analisi dell’uomo…, cit., p. 7.46


dell’intelletto e della volontà umana»; 86 incominciando cioè con il fornire le basietiche richieste dalla popolazione. L’egemonia sulla <strong>natura</strong> non era solo allaportata dell’uomo e utile ad un miglioramento delle sue condizioni ma, dopo larivoluzione scientifica, diventava anche moralmente doverosa.Francesco Bacone (1561-1626) fu il pensatore che, più di ogni altro,sentì proprie le esigenze di questo nuovo mondo e si adoperò a tracciare la viaper l’elaborazione di quelle immagini di dominio di cui la società necessitava.Egli fu, inoltre, il miglior interprete delle condizioni che diedero origine alrinnovamento dell’intero movimento scientifico. Cercò a tal fine di impostare ilsuo lavoro come un’opera di riforma totalizzante.Affascinato dai sofisticati artefatti degli artigiani e dalle sbalorditiveinvenzioni meccaniche degli ingegneri, tentò di plasmare un sapere che nonmettesse il lavoro manuale, e la tecnica in generale, in secondo piano rispettoall’indagine speculativa. Si trovava, con ciò, in pieno accordo con un importantemotivo che continuava a riaffiorare nel Cinquecento, ovvero l’insistenza sulla«superiorità di una scienza utile su una scienza disinteressata e di unaconoscenza capace di incidere sulla pratica rispetto ad una conoscenza dicarattere esclusivamente teorico». 87La cultura tradizionale non era stata, a suo avviso, in grado diinterpretare adeguatamente quest’aspetto, e per tale motivo bisognavasmettere di considerarla in maniera dogmatica. La tecnica era stataingiustamente declassata dalla filosofia greca a sapere di tipo inferiore; solosull’analisi umile e accurata dei vari procedimenti tecnici poteva fondarsi, perBacone, la nuova filosofia. A essa riservava non solo il compito di lavorare perla ricerca di un metodo comune a tutte le arti e far sì che il progredire delletecniche non fosse affidato al caso, ma anche di condurre al metodo dellatecnica quelle “scienze liberali” che non avevano ancora raggiunto taletraguardo. 88A questo scopo era fondamentale istituire una solida collaborazione tra imembri della comunità scientifica ed insistere sul carattere di “pubblicità” dei86 Ivi, p. 55.87 P. Rossi, Francesco…, cit., p. 91.88 Ivi, p. 94.47


isultati ottenuti. In lui vi era la profonda convinzione che nella scienza sipotessero «raggiungere solidi ed effettivi risultati solo mediante unasuccessione di ricercatori e un lavoro di collaborazione […]. I metodi e iprocedimenti delle arti meccaniche, il loro carattere di progressività eintersoggettività fornivano il modello per la nuova cultura». 89 Fu forse questol’aspetto del pensiero baconiano che influenzò maggiormente il movimentoscientifico europeo. Per fare soltanto degli esempi circa le innovazioni che lesue intuizioni produssero, basti pensare a come la casa di Salomone dellaNuova Atlantide ispirò il profetico progetto della “Società Reale” 90 ; oppure acome gli enciclopedisti francesi si fecero carico del compito di rendere pubblicae accessibile la conoscenza scientifica.Al centro del suo progetto fu ovviamente messo l’uomo. Vero scopo dellascienza era quello divenire un «ricco magazzino per la gloria di Dio e per ilvantaggio della vita umana». 91 Ecco che finalmente troviamo la veradiscriminante tra la tradizione e l’opera pionieristica del Lord Cancelliere: unvero sapere doveva fornire dei frutti tangibili. Tradotto in altri termini, dovevaapportare dei benefici reali all’umanità. Da qui si capisce il perché di tantointeresse verso la tecnologia.Nella Nuova Atlantide veniva esposta la teoria sul ruolo della scienzanella società. Si trattava di un progetto tecnocratico, dove lo scienziato, guidadella comunità, era descritto con le stesse caratteristiche di cui in effetti saràdotato lo scienziato moderno. In questo senso, si può affermare che il LordCancelliere stava ponendo le basi teoriche per quel lavoro che uomini comeGalilei e Newton stavano svolgendo dal punto di vista pratico. La Casa diSalomone, l’istituto di ricerca della fantasiosa città descritta dal pensatoreinglese, fu un importante antecedente del metodo meccanicistico:Il metodo meccanicistico evolutosi durante il Seicento operava scomponendo unproblema nelle sue parti componenti, isolandolo dal suo ambiente e risolvendo89 Ivi, pp. 117-118.90 Si tratta di un istituto di ricerca scientifica fondato poco dopo la morte di Bacone, precisamente nel1660, su iniziativa di alcuni studiosi che intendevano rifarsi esplicitamente alle sue intuizioni. Esso èattualmente considerata l’accademia nazionale inglese di scienza.91 P. Rossi, Francesco…, cit., p. 125.48


ogni parte separatamente. Il centro di ricerca di Bacone manteneva “laboratori”separati per lo studio dell’arte mineraria e dei metalli, della meteorologia, degliorganismi d’acqua dolce e d’acqua salata, di piante coltivate, insetti e viadicendo. 92È facile osservare come la legittimazione di un tale metodo, abbia incisosull’abitudine, perpetuatasi sino a noi, di non considerare adeguatamente tuttele relazioni che intercorrono tra le parti di un ecosistema <strong>natura</strong>le. Dalla prosabaconiana si evince inoltre che lo studio della <strong>natura</strong> e la conoscenza delleleggi del creato dovevano esser messi al servizio dell’uomo. La <strong>natura</strong> era vistacome un grande libro, ma soltanto l’uomo aveva le capacità di interpretarlocorrettamente e, con ciò, anche del diritto di usufruirne a proprio vantaggio.Dal punto di vista ecologico, nella Nuova Atlantide, possiamo persinorintracciare futuristiche proposte di alterazione <strong>ambientale</strong> e genetica:Nei laboratori della Casa di Salomone uno degli obiettivi era quello di ricreareartificialmente l’ambiente <strong>natura</strong>le per mezzo della tecnologia applicata. […] Ilprogramma di Bacone non comprendeva solo la manipolazione dell’ambiente invista del miglioramento dell’umanità, ma abbozzava specificamente lamanipolazione della vita organica per creare specie artificiali di piante e animali. 93Interessante notare come questi suggerimenti, vere chimere per l’epoca, sianooggi potenzialmente realizzabili.Come rileva l’attenta critica di Carolyne Merchant, Bacone è statogiustamente elogiato per tutte le sue intuizioni, soprattutto per esser stato ilfondatore del metodo induttivo e il primo filosofo della scienza industriale.Tuttavia «se adottiamo l’angolo visuale della <strong>natura</strong>, delle donne e degli ordiniinferiori della società emerge un’immagine meno favorevole di Bacone e unacritica del suo programma, che in ultima analisi andava a beneficiodell’imprenditore borghese maschio». 9492 C. Merchant, La morte…, cit., p. 236.93 Ivi, p. 236-237.94 Ivi, p. 217.49


Quest’osservazione ha senz’altro solide fondamenta, ma è piùappropriata per descrivere il movimento che scaturì dal pensiero del LordCancelliere. Personaggi come John Dury, Samuel Harlib, Gabriel Plattes oJoseph Glanvill, suoi fedelissimi seguaci, videro ancor più chiaramente delmaestro «le connessioni esistenti fra la meccanica, i mestieri, gli interessicommerciali della borghesia e il dominio della <strong>natura</strong>». 95 Essi insistettero su unvero e proprio programma basato sulla superiorità dell’uomo occidentale e deinuovi interessi emersi nell’epoca moderna.Il vero merito di Bacone è stato quello di rompere in maniera decisivacon il pensiero tradizionale. Sebbene la nostra cultura sia un derivato di quellagreca e il nostro modo di intendere la scienza non si discosti molto da come, adesempio, la intendeva Aristotele, Bacone cambiò radicalmente i presupposti ele finalità della ricerca scientifica. L’intuizione fondamentale è stata quella diporre l’uomo al centro del suo progetto, e soprattutto di inserire a pieno titoloanche le opere tecniche nell’ambito della <strong>natura</strong>. L’errore delle impostazionitradizionali è stato, a suo avviso, quello di partire da un presupposto infondato,cioè considerare il mondo come qualcosa da contemplare invece che qualcosada modificare. «Esse – appunto – trascurano la presenza nel mondo dell’uomoe delle arti tecniche». 96Non dobbiamo però commettere l’errore di considerare Bacone soltantocome un personaggio dalla sconfinata fede nel progresso tecnologico.Soprattutto, non dobbiamo pensare che fosse disposto ad anteporre il suoprogetto tecnocratico a qualsiasi cosa. Nell’interpretazione di alcuni miti greci,infatti, egli mise in guardia i suoi contemporanei dai possibili pericoli derivanti daun uso sconsiderato delle nuove conoscenze. Un appello forse rimastoinascoltato. Vi è, a suo avviso, un tipo di attività che, tentando di forzare oltremodo la <strong>natura</strong>, realizza prodotti imperfetti ed inutili. L’immagine di ciò è il mitodi «Vulcano, che tenta di violentare Minerva e dà vita al deforme Ettorinio. […]Ciò avviene sovente […] quando gli uomini, desiderosi di un successo95 C. Merchant, La morte…, cit., p. 214.96 P. Rossi, Francesco…, cit., p. 168.50


immediato, preferiscono lottare con la <strong>natura</strong> piuttosto che chiedernel’abbraccio». 97È però l’interpretazione del personaggio di Dedalo che, soprattutto aigiorni nostri, dovrebbe servire da monito importante. Dedalo, eletto ad emblemadell’attività dei meccanici e degli scienziati tecnologici, riuscì, con unostratagemma, a far accoppiare la moglie del re Minosse con il bellissimo torodonatogli da Poseidone. La punizione divina, ovvero il concepimento di unacreatura mostruosa come il Minotauro, nel mito riletto da Bacone simboleggiavail cattivo prodotto dell’ingegno umano. Tuttavia il grande artista era anche ingrado di porre rimedio ai suoi errori e, sempre servendosi della forzadell’intelletto, costruì un grande labirinto capace di contenere la terribile bestia.Quel che Bacone volle sottolineare è che, di per sé, le arti meccaniche nonproducono effetti positivi o negativi, ma spetta alla volontà umana indirizzarliverso il bene o verso il male. Egli perciò non misconobbe gli esitipotenzialmente distruttivi del sapere tecnico-scientifico.L’opera di Bacone servì, ciò nonostante, a formare schiere di pensatoriforniti di una cieca fede nel progresso scientifico e, come vedremo tra poco, adinfluenzare chi veramente trattò la <strong>natura</strong> come un puro ammasso di materiainerte. L’utopia di Bacone, infatti, fu del tutto compatibile con la filosofiameccanicistica della <strong>natura</strong> che si sviluppò nel Seicento.2.3 Il meccanicismo e la morte della <strong>natura</strong>Le radicali trasformazioni, messe in moto sul finire del Cinquecento,ebbero come conseguenza un diffuso sentimento di incertezza intellettuale einstabilità sociale. Sul piano religioso la riforma protestante, ponendo l’accentosull’interpretazione personale delle Scritture, aveva di fatto incrinato l’autoritàdella Chiesa e dato il via ad una preoccupante forma di relativismo sullarivelazione divina. Sul versante filosofico, invece, riacquistarono grandeprestigio le idee scettiche, risultato di un rinnovato interesse verso loscetticismo antico e fondate sull’impossibilità di accedere con certezza al regnodel vero. In ambito civile, infine, le continue tensioni tra gli antichi detentori di un97 Ivi, p. 243.51


tipo di potere feudale-nobiliare e i nuovi, più dinamici, imprenditori non facevanoaltro che accrescere l’instabilità sociale.Il contesto che si stava delineando all’inizio del Seicento era perciò diprofonda diffidenza verso qualsiasi dottrina autoritaria. D’altro canto, lo spettrodell’anarchia e del caos si stava pericolosamente mostrando all’orizzonte.Come risposta a questo clima d’incertezza, «il problema sociale e intellettualefondamentale, per il Seicento, divenne il problema dell’ordine»; 98 accompagnatodalla conseguente necessità di elaborare un metodo sicuro per stabilire conesattezza il vero e il falso.In tale ambiente fecero breccia, prima in Francia e poi in Inghilterra, leproposte di Bacone, che vennero rielaborate e contribuirono in modo incisivoalla creazione della teoria meccanicistica della realtà. Va subito precisato chenon ci fu una dottrina meccanicistica universalmente accettata e, in questasede, non verrà fatta una trattazione completa delle differenze peculiari tra i variautori. Quel che bisogna sottolineare è la comune idea di fondo circa ununiverso funzionante come una macchina, che rispondeva soltanto a preciseleggi di <strong>natura</strong> verificabili ed enunciabili con un linguaggio matematico.Ad onor del vero, dobbiamo riconoscere che la prima immaginecompletamente meccanica del mondo fu quella elaborata in Grecia da Leucippoe Democrito. La loro era una teoria atomistica che poggiava sulla convinzioneche le cose fossero soltanto aggregati di parti indivisibili, che avevano tra leprincipali caratteristiche quelle dell’eternità e dell’immutabilità. In quel tipo disistema qualsiasi movimento derivava necessariamente dal contatto delleparticelle tra loro, secondo un preciso schema di causa ed effetto; esattamentecome accade all’interno di una macchina, dove ogni azione è il risultato delmovimento degli ingranaggi che la costituiscono. È proprio questo il modellobasilare di ogni dottrina meccanicistica. Quella atomistica non fu l’unica teoriacorpuscolare dell’antichità, ma fu la sola ad esprimere un reale e radicalemeccanicismo.Tuttavia questa posizione rimase minoritaria, schiacciata dal pesodell’autorità di filosofi come Platone o Aristotele. Non si può asserire con98 C. Merchant, La morte…, cit., p. 246.52


certezza se tali teorie restarono sconosciute durante il medioevo, oppuresopravvissero in una ristretta cerchia di sapienti. Quel che è certo è che, dalrinascimento in poi, si verificò una vera e propria riscoperta del pensieroatomista. Importantissimo fu il ritrovamento di due testi del I secolo dopo Cristo:il De rerum <strong>natura</strong> di Lucrezio e il De vita et moribus philosoforum di DiogeneLaerzio, che illustravano le principali intuizioni di Leucippo e Democrito. Sulfinire del Quattrocento queste opere erano ormai disponibili su larga scala epresenti nelle biblioteche dei maggiori intellettuali dell’epoca. Nel Seicento,grazie ad autori come Mersenne (1588-1648), Gassendi (1592-1655) e,soprattutto, Cartesio (1596-1650) le teorie corpuscolari rivissero una secondagiovinezza, anche se inserite in un contesto diverso, fortemente influenzatodalla cristianità.Naturalmente, non fu soltanto l’atomismo a fornire le basi necessarie aduna concezione meccanica del mondo; giocò un ruolo cruciale anche lostraordinario sviluppo della tecnologia che influenzò l’immaginario dei grandifilosofi moderni. Nelle nascenti industrie, infatti, facevano capolino i primi grandimacchinari: i mulini, ad acqua e a vento, «assieme a forni, fucine, mantici, gru epompe, divennero parte integrante dell’esperienza quotidiana di moltieuropei». 99 Anche l’ingegneria militare conobbe un periodo di progresso maivisto prima, i migliori inventori si dedicarono soprattutto a questo settore poichépermetteva di applicare al meglio le loro intuizioni ed era ben remunerato.Inoltre, «strettamente legato al crescente interesse per le macchine era ilfascino che esercitavano gli automi, elaborati da modelli risalentiall’Antichità». 100 Si trattava di corpi meccanici che simulavano i gesti degliesseri umani, ed erano usati soprattutto nelle grandi corti europee come formad’intrattenimento. Ma un oggetto su tutti sembrava ergersi a simbolo e modellodel nuovo mondo meccanico: l’orologio. La sua particolare costruzione, nellaquale i pezzi meccanici collegati tra loro trasmettevano il movimento da unaparte all’altra, rappresentava un modello esemplare di meccanicismo. «Ilfascino delle figure a orologeria consisteva nel fatto che esse dimostravano99 Ivi, p. 273.100 William. R. Shea, Le macchine e i meccanismi della <strong>natura</strong>, in Storia della filosofia, Pietro Rossi e PaoloAugusto Viano (a cura di), Volume III, Laterza, Bari 1995, p. 173.53


come le azioni delle creature viventi potessero essere imitate attraversosemplici movimenti di molle, fili e leve». 101 Anche negli autori francesi del XVIIsecolo, infatti, era presente la stessa ammirazione di Bacone nei confronti dellavoro artigianale e delle opere d’ingegneria.Fu soprattutto il pensiero di Descartes a risultare essenziale perl’elaborazione di una fisica rigidamente meccanicistica. Egli si servì di dueelementi per descrivere il mondo: il movimento e la nuda materia. Com’è noto,la materia venne da lui identificata e ricondotta alla sola qualità dell’estensione.Questa risultava così esser formata da corpuscoli che, a differenzadell’impostazione atomistica classica, venivano considerati infinitamentedivisibili. Essi, inoltre, agivano in uno spazio in cui li vuoto era negato. Non è quiimportante una descrizione dettagliata delle teorie esposte nei Principiaphilosophiae, poiché, in sé, l’immagine cartesiana del mondo non riscossegrandi consensi. L’importanza di Cartesio fu però quella di fornire un linguaggio,un modello e un metodo a quella che diventò l’ideologia meccanica della realtà.Innanzitutto, la vera novità presentata da Descartes fu l’introduzionedella geometria che, insieme alla matematica, andò a costituire un linguaggioperfetto per descrivere una <strong>natura</strong> che sembrava esser stata plasmata da unDio ingegnere. In pieno accordo con quanto aveva già affermato Galilei, lageometrizzazione del mondo rispondeva al compito di descrivere i rapportiquantitativi ovunque riscontrabili nella realtà. Quest’ultima, poi, venivaimmaginata come costituita da particelle che si urtavano continuamente,alimentata da vortici che fungevano da motori e che trasmettevano i movimentida una parte all’altra del sistema. Diventarono perciò di vitale importanza leastrazioni intellettuali, grazie alle quali la realtà poteva essere decostruita nellesue componenti minime ed espressa nel linguaggio matematico, sotto forma dileggi universalmente valide in qualunque luogo e qualunque tempo.Descartes fece suo l’insegnamento baconiano sul metodo e ne proposeuno che venne per lungo tempo ritenuto essenziale nel mondo della scienza.L’intento che egli si pose fu quello di indirizzare la ricerca secondo una logicaprecisa, scongiurando le difficoltà di un’indagine che fino ad allora sembrava101 W. R. Shea, Le macchine e i meccanismi della <strong>natura</strong>, cit., p. 178.54


procedere abbastanza casualmente. Nel suo Discorso sul metodo, possiamoinfatti leggere quanto segue:per metodo intendo regole certe e facili, grazie alle quali chiunque le avràrispettate in modo esatto non assumerà mai il falso come vero e senza stancarela mente con sforzi inutili, ma sempre aumentando per gradi il sapere, perverràalla vera cognizione di tutte le cose di cui sarà capace. 102Delle parti che compongono tale metodo, evidenza, analisi, sintesi edenumerazione, quella che ci interessa maggiormente è la seconda. Il secondopunto, infatti, «prescrive di “dividere ciascuna difficoltà in tante parti quante èpossibile ed è richiesto per meglio risolverlo”, cioè di semplificare, riducendo lequestioni indeterminate a questioni completamente determinate o perfette edividendo il problema nei suoi elementi costitutivi». 103Il metodo propugnato dal francese era dunque una forma diriduzionismo, poiché proponeva una scomposizione dei problemi nelle lorocomponenti ultime, in modo tale da poter esser studiate singolarmente. Questeparti, poi, potendo essere semplificate ed astratte dal contesto <strong>ambientale</strong>,potevano anche esser manipolate sotto la guida di un rigido insieme diregole. 104 Secondo Carolyne Merchant, quest’aspetto rappresentò la chiave delsuccesso del metodo e della sua predisposizione a usare la <strong>natura</strong> in manieradispotica.Infine, «Nel meccanicismo di Cartesio, solo le due funzioni del “pensare”e del “parlare” apparivano non spiegate, o non completamente, assumendo ilmodello della macchina. […] L’anima razionale non poteva, quindi, derivaredalla potenza della materia, ma era appositamente creata da Dio». 105 Èconcentrata in questo assunto la principale differenza, dal punto di vista fisico,tra res cogitans e res extensa, i due cardini del dualismo cartesiano. Ecco comeil mondo reale veniva definitivamente spogliato di ogni residuo organicistico eanimistico: la <strong>natura</strong> non aveva più nulla di psichico e non poteva più essere102 Citato in: Ettore Lojacono, Cartesio dalla magia alla scienza, Il prato, Padova 2010, p. 56.103 Carlo Borghero, Cartesio, in Storia della filosofia, cit., p. 244.104 C. Merchant, La morte…, cit., p. 288.105 Giovanni Villani, Complesso e Organizzato, Franco Angeli, Milano 2008, p. 133.55


descritta secondo le categorie tipiche dell’animismo. Era perciò semplicelegittimare la superiorità dell’uomo sulla <strong>natura</strong>, se il primo veniva presentatocome un essere quasi divino e la seconda come nient’altro che materia inerte emanipolabile.Anche Descartes, come Bacone, insistette sulla necessità del dominioumano sul creato e sull’utilità di una filosofia pratica, «invitando i buoni ingegniad andare oltre e a contribuire, ciascuno con le proprie capacità, “a renderel’uomo padrone e possessore della <strong>natura</strong>”». 106 Le conseguenze di un taleatteggiamento sono oggi lampanti: «quando il mondo era concepito come unorganismo, intervenire sulla <strong>natura</strong> significava agire su entità dotate di una loropropria forza vitale. Ora si tratta invece di caricare, di regolare e ungere unmeccanismo a orologeria». 107Fu poi Isaac Newton (1642-1727) a dare al meccanicismo la sua formapiù compiuta, definendo la nozione di massa e, soprattutto, introducendo ilconcetto di forza per spiegare l’azione a distanza tra corpi. La fisica di Cartesioe dei suoi discepoli non poteva ammettere tale idea, poiché uno dei principaliobbiettivi era quello di espellere dalla <strong>natura</strong> tutti gli agenti non dimostrabiliscientificamente. Le qualità occulte e le forze vitali, che avevano caratterizzatola filosofia della <strong>natura</strong> antica e le varie forme di <strong>natura</strong>lismo rinascimentale,venivano così ridotte a sciocche superstizioni.Il merito di Newton fu di ricondurre anche il concetto di forza sotto l’egidadelle leggi di <strong>natura</strong>, cioè esprimibile quantitativamente e con una formulazionematematica. Ad esempio, la teorizzazione della forza di gravità potevasembrare, in prima istanza, un ritorno a quei rapporti di antipatia e simpatia chepoco avevano a che fare con la ricerca scientifica, ma la sua spiegazione,correlata da una precisa norma matematica, mostrava chiaramente comefossero presenti precisi rapporti meccanici.Nel XVII e XVIII secolo l’idea meccanica era universalmente accettata, sitentò persino «di estendere la sua sfera d’azione anche al vivente e al soggettopercipiente. Persino alla politica». 108 Si potevano trovare molto frequentemente106 E. Lojacono, Cartesio… cit., p. 99.107 W. R. Shea, Le macchine e i meccanismi della <strong>natura</strong>, cit., p.178.108 G. Villani, Complesso…cit., p. 141.56


spiegazioni del corpo umano in analogia al funzionamento degli automi. Ilgrande capitolo di Cartesio sull’<strong>Uomo</strong> si apre con una pregnante metaforadell’uomo-macchina:Suppongo che il corpo altro non sia che una statua o macchina di terra conall’interno tutti i pezzi che si richiedono per far sì che cammini, mangi, respiri eimiti tutte quelle funzioni che possiamo immaginare procedano dalla materia enon dipendano che dalla disposizione degli organi. 109L’esempio estremo fu forse rappresentato dal materialista radicale ThomasHobbes, il quale considerava lo stesso fenomeno della vita come un meroprodotto di procedimenti meccanici:visto che la vita non è altro che un movimento di membra, la cui origine è internaad una delle parti principali, perché non possiamo dire che tutti gli automata(macchine che si muovono come orologi, attraverso molle e ingranaggi) sonodotati di vita artificiale? Che cos’è infatti il cuore se non una molla e che cosasono i nervi se non altrettanti fili e che cosa le articolazioni tanti ingranaggi chefanno muovere l’intero corpo, secondo le modalità volute dall’artefice? 110Proseguendo in quest’analisi si spinse ancora più in là, definendo lo statopolitico attraverso la medesima metafora:L’arte va anche oltre, imitando quel razionale che è il più eccellente prodottodella <strong>natura</strong>, l’uomo. Infatti, attraverso l’arte viene creato quell’enorme“Leviatano” chiamato “Commonwealth” o “Stato” (in latino Civitas), che non èaltro che un uomo artificiale, anche se dotato di una statura e di una forza piùgrandi rispetto a quello <strong>natura</strong>le, per proteggere e difendere il quale è statoideato. 111109 Citato in: E. Lojacono, Cartesio… cit., pp. 85-86.110 Thomas Hobbes, Leviatano, Bompiani, Milano 2001, p. 15.111 T. Hobbes, Leviatano, cit., p. 15.57


L’immagine meccanica della realtà cominciò ad entrare in crisi soltantosul finire del XIX secolo. Dal punto di vista fisico, questa concezione è oggiritenuta obsoleta e non idonea a descrivere l’Universo. Si sono imposteall’attenzione scientifica altre teorie, come quella della relatività o quellaquantistica, che forniscono senz’altro risultati più precisi sul piano dei calcoli edei riscontri sperimentali. Tuttavia, queste nuove formulazione non hanno avutola forza di influenzare l’immaginario collettivo come invece è accaduto nel casodel meccanicismo; soprattutto perché rimangono pur sempre due forme dimeccanica, sebbene abbiano concorso non poco all’abbattimento di molteconcezioni moderne. 112A ben vedere, l’impalcatura meccanicistica si è conservata sino ai giorninostri, sfociando in alcune forme di neo-meccanicismo 113 e facendo sì che ilnostro modo di percepire la realtà si serva ancora, prevalentemente, diautomatismi di derivazione moderna. 114 Possiamo notarlo in molti aspetti dellaquotidianità. Il senso comune è ancora incline a considerare la <strong>natura</strong>, lasocietà e il corpo umano come «composti da parti atomizzate intercambiabiliche possono essere riparate o sostituite dall’esterno. La tecnologia consente diporre rimedio a un cattivo funzionamento ecologico, nuovi esseri umanisostituiscono i vecchi per mantenere un funzionamento senza scossedell’industria e della burocrazia e una scienza medica sempre più inclineall’intervento sostituisce un cuore nuovo a uno logoro, malato». 115 È proprioquest’aspetto, di derivazione moderna, che, oramai, appare deleterio enecessita di un superamento a livello globale se si vuole migliorare il nostrorapporto con l’ambiente esterno. Volgiamo, dunque, lo sguardo ancora piùindietro, alla ricerca di un approccio realmente alternativo a quellomeccanicistico.112 G. Villani, Complesso…, cit. 145.113 Si parla ora di neo-meccanicismo perché non tratta delle stesse macchine che servivano da modelloai meccanicisti, come gli orologi o le macchine a vapore. Il meccanicismo si è modificato perché hadovuto porre a proprio modello nuove macchine: i computer universali programmabili.114 Henry Atlan, Complessità, disordine e autocreazione del significato, in La sfida della complessità,Gianluca Bocchi e Mauro Cerutti (a cura di), Bruno Mondadori, Milano 2007, p. 134.115 C. Merchant, La morte…, cit., p. 247.58


2.4 Rinascimento, magia e manipolazione della <strong>natura</strong>Finora si è parlato delle caratteristiche della modernità come se fossero ilrisultato di un’improvvisa cesura con il passato, un fulmine a ciel sereno chespazzò via le antiche credenze. In parte ciò è vero, ma molti atteggiamentimoderni furono mutuati da un periodo appena precedente, durato all’incirca unsecolo e mezzo, nel quale si fusero insieme vecchie e nuove tendenze, dandovita a una irripetibile originalità culturale, scientifica e politica. Naturalmente sista parlando del Rinascimento, fase della storia nella quale si possonorintracciare le prime avvisaglie di un mutamento relazionale nei confronti della<strong>natura</strong>. È bene sottolineare che un’analisi di tale periodo, compiuta daprospettiva ecologica, costringe ad una duplice riflessione. Da una parteoccorre esaminare ciò che servì da fonte d’ispirazione per la rivoluzionescientifica; dall’altra bisogna elencare quali suoi aspetti furono ritenuti inutili,rigettati e, in alcuni casi, combattuti con forza.In primo luogo il Rinascimento rappresentò una decisa rottura neiconfronti del Medioevo e un primo passo verso il superamento dell’autoritàclassica. Nel Medioevo, infatti, ogni problematica affrontata finivainevitabilmente per ricadere sotto il controllo della teologia, e ogniargomentazione speculativa si rifaceva a dispute sulla rivelazione cristiana.L’uomo veniva, in un certo senso, messo in secondo piano rispetto alla divinitàe ogni suo sforzo intellettuale era subordinato al fattore religioso.Il modo di intendere la realtà mutò radicalmente nel breve volger diqualche decennio, quando si fecero avanti le prime cosmologie eliocentriche ele pionieristiche formulazioni di un cosmo senza fine. Insomma, per dirlo con leparole di Eugenio Garin, «la distanza tra Medioevo ed età nuova è la distanzamedesima che corre fra un universo conchiuso, astorico, atemporale,inanimato, senza possibilità, definito e un universo infinito, aperto, tuttopossibilità». 116Il bisogno rinascimentale di una repentina inversione di rotta fu guidatodall’attività filologica degli umanisti: gli antichi testi vennero analizzati per ciòche realmente erano, non solamente in funzione cristiana. Proprio grazie ad116 Eugenio Garin, Medioevo e Rinascimento, Laterza, Bari 2007, p. 148.59


una capillare opera di critica testuale si poté, gradualmente, mettere indiscussione l’autorità di pensatori fino allora incontestabili. Non si vuole certosminuire l’esaltazione del “classico” che, da metà XV secolo fino ad inizioSeicento, fu certamente viva e molto sentita. Tuttavia, il mito rinascimentaledell’antico, proprio nell’atto in cui definì i suoi caratteri, ne decretò anche, in uncerto senso, la morte. 117 Quest’azione idealizzante servì a vedere di fronte a sé,e di conseguenza come altro da sé, i padri fondatori del pensiero occidentale.Ciò permise finalmente di cogliere le differenze con il presente, ammettendoquella che possiamo definire una storicità del pensiero. In questo senso «lapolemica umanista […] non fu affatto un fenomeno riconducibile – solamente –al terreno retorico-letterario: fu l’opposizione di una chiara immagine dell’uomoa una metafisica in cui non c’era più posto per l’uomo» 118 .Tale battaglia ebbe come primo bersaglio la teologia, nei confronti dellaquale l’essere umano volle riconquistare l’autonomia smarrita. L’uomo volevafare sua la Terra ed elevarsi ad artefice del proprio futuro: la preoccupazioneprincipale non doveva più consistere nel «contemplare un dato, ma nel fare, nelprodurre». 119Iniziò a formarsi quella dicotomia, tipica della modernità, tral’immagine dell’uomo saggio e ponderante e quella dell’uomo d’azione, cheprivilegiava la pratica alla sterile teoria. Fu a quel punto che «le arti meccanichevennero a connettersi intimamente con le arti belle […]. L’occhio e la manoprepararono i primi elementi della scienza dell’intelletto e tutto il pensiero sipreordinò, non a speculazione superba e sterile, ma a quella che poi Baconechiamò scientia activa». 120 La <strong>natura</strong> diventò il campo operativo privilegiato e,diversamente dalle antiche concezioni animiste, non fu più considerata unadivinità da osservare silenziosamente; era pronta a concedersi al suo unicodegno padrone, l’uomo. 121 Cominciarono poi a nascere le tipiche esigenze dellacultura moderna esaminate in precedenza.Come si diceva, il Rinascimento fu un periodo di grande sintesiconcettuale: varie tendenze si trovarono a convergere in diversi ambiti; anche117 E. Garin, Medioevo…, cit., p. 100.118 Ivi, p. 187.119 Ivi, p. 187.120 Ivi, p. 9.121 Ivi, p. 193.60


dal punto di vista <strong>ambientale</strong> fu così. Se per un verso possiamo collocare quil’inizio dell’atteggiamento dispotico nei confronti del mondo, dobbiamoriconoscere, dall’altro, che fu anche l’ultima “isola felice” di convivenzaarmonica con il nostro habitat.A questo punto è utile un breve cenno sulla magia, visto il suo strettorapporto con l’elemento <strong>natura</strong>le e la similarità con alcune caratteristiche dellascienza moderna. L’arte della magia, le tecniche alchemiche e gli studi diastrologia, non erano un elemento di produzione originale del Rinascimento, maesistevano già in precedenza. Tuttavia, dal Quattrocento in poi smisero diessere saperi per pochi, uscirono dal sottobosco della stregoneria e siaffacciarono alla luce del sole. Tecniche sempre relegate al confine conl’occulto, la religione e le credenze popolari, cominciarono a venir studiateanche da uomini di scienza e di profonda sapienza.La magia è per noi molto interessante, poiché viene considerata dallamaggior parte degli studiosi contemporanei come l’aspetto operativo esperimentale delle filosofie della <strong>natura</strong> del Rinascimento. TommasoCampanella (1568-1639), uno dei maggiori autori del periodo, ne fornìun’interessante spiegazione:Tutto quello che si fa dalli scienziati imitando la <strong>natura</strong> o aiutandola, non solo allaplebe bassa, ma alla comunità degli uomini, [appare] opera magica. […] Finchénon s’intende l’arte, sempre dicesi magia; dopo è volgare scienza. 122È facile mostrare il legame esistente tra scienza e magia, soprattutto sottol’aspetto sperimentale. La magia, infatti, fu un sapere essenzialmente pratico,volto alla conoscenza della <strong>natura</strong> e alla sua trasformazione a vantaggiodell’uomo. Conoscere una pianta, un animale o una costellazione, significavacomprenderli, oltre che nella loro plasticità segreta, anche nella struttura ultima.Il fine era, evidentemente, la trasformazione di questi in funzione umana: perquesto la magia venne considerata sin da principio un sapere attivo.122 Ivi, p. 141.61


Può a prima vista sembrare una ripetizione dei precetti di Bacone, ma èbene ricordare che l’uomo-mago che agiva sulla <strong>natura</strong> lo faceva senza tentarealcuna forzatura nei suoi confronti, in totale armonia con essa. Tentando didefinire la funzione propria del mago rinascimentale, Giovanni Battista DellaPorta (1535-1615) spiegò esaustivamente il concetto:Voi dunque, che venite qui per sapere, che cosa sia la magia, non crediate chealtro sia la magia, che l’istesse opere della <strong>natura</strong>, e l’arte è sua serva e ministra[…]. Plotino chiama il mago ministro, e servo della <strong>natura</strong>, non artefice. 123Da queste parole possiamo evincere come il mezzo magico cooperasse con ilcontesto <strong>natura</strong>le; anche se, fondamentalmente, rimaneva uno strumento confinalità utilitaristiche.Si è cercato più volte di dipingere la figura del mago come “l’archetipo”del moderno scienziato. Quest’analogia è vera se ci basiamo soltantosull’aspetto <strong>natura</strong>lista, poiché in realtà il mago svolse molte altre funzioni nellacultura rinascimentale. Egli restò una figura di riferimento in ambito popolare,ma si adoperò anche come medico, politico e persino consulente finanziario. Seil mago voleva ben operare, doveva far leva su quelle che erano considerate leforze insite al cosmo: potenze occulte che, in base a precisi rapporti di“simpatia” e “antipatia”, vivificavano l’intera <strong>natura</strong>. Egli si poneva dunque inascolto di tali energie e riusciva ad indirizzarle come meglio credeva.Nel prossimo capitolo, dove sarà presa in considerazione una visioneolistica della <strong>natura</strong>, verrà meglio analizzato anche il concetto rinascimentale di<strong>natura</strong> organicamente composita, ritenuta viva in ogni sua parte strutturale. Quioccorre solamente ribadire che fu proprio quest’aspetto a esser duramentecombattuto dalla cultura successiva, bollato come inutile credenza pagana edeliminato da ogni discorso scientifico. Agli occhi della nascente scienza, infatti,la magia doveva sembrare uno strumento grezzo e ricco di contraddizioni, madal quale trarre indicazioni utili a placare la divampante sete di potere. Lemetodologie magico-alchemiche, «una volta assimilate nella cornice utilitaristica123 Giovanni Battista Della Porta, Opere, citato in: C. Merchant, La morte…, cit., p. 156.62


di Francesco Bacone, si sarebbero trasformate in tecniche di controllo». 124 Inquesto senso possiamo asserire, insieme a Garin, che la magia rappresentò lanuova via che aprì all’uomo la possibilità dell’impero sulla <strong>natura</strong>. 125Il Rinascimento, nel suo complesso, rappresentò la nascita di un certotipo di ricerca, orientata in una direzione non chiara e tormentata da numeroseproblematiche. La scienza moderna ne raccolse il testimone e la indirizzò suuna strada che pareva più sicura: tolte di mezzo le antiche superstizioni,procedette a passo ben spedito verso la sua meta. Ma questo non sarebbe maipotuto accadere se essa non avesse trovato un fertile terreno nell’impalcaturasperimentale magico-alchemica. Il sostrato organico fu però sostituito con unquadro meccanicista, grazie al quale si poterono spiegare determinati fenomenisenza dover più ricorrere alle teorie occultiste. «Il processo di meccanizzazionedell’immagine del mondo – infatti – eliminò i controlli sullo sfruttamento della<strong>natura</strong> che erano stati parte intrinseca della concezione organica della <strong>natura</strong>come essere vivo, raccolse dalla tradizione magica la nozione dellamanipolazione della materia, ma la privò di vita e azione vitale». 126124 C. Merchant, La morte…, cit., p. 156.125 E. Garin, Medioevo…, cit., p. 144.126 C. Merchant, La morte…, cit., p. 158.63


Capitolo III: L’alternativa organicistica3.1 I presupposti della visione olistica della realtàLa visione meccanicistica del mondo ha dovuto confrontarsi, sin dallasua comparsa, con una ben più antica concezione, quella organicistica. Quandosi parla di organicismo, si intende un atteggiamento volto a considerare la realtàcome formata da parti interconnesse tra loro, configuranti quello che possiamoassimilare a un grande organismo. Si tratta dunque di una dottrina olistica, lacui struttura non si riduce alla semplice somma delle parti, e può esser fattarisalire a quegli antichi culti animisti cui si è più volte accennato. Taleconcezione, con il tempo, si è sempre più raffinata, trovando in epocarinascimentale il suo culmine. Sebbene l’avvento delle idee meccanicisticheabbia relegato l’organicismo a posizioni secondarie nel panorama scientifico,esso è riuscito a mantenersi attivo e sopravvivere. Quest’impostazione, infatti,non è mai del tutto scomparsa e, anche dopo il Seicento, possiamo ritrovarepensatori che esprimono un bisogno di riconciliazione armonica con la realtàattraverso una visione olistica della <strong>natura</strong>.Bisogna subito sgombrare il campo da un possibile equivoco di fondo:questo lavoro non vuol essere una critica unilaterale al pensiero meccanicista, enemmeno una tendenziosa esaltazione della controparte organicistica. I risultatiottenuti seguendo la metodologia impostata da Bacone e Cartesio sono sotto gliocchi di tutti. Dal punto di vista dello sviluppo scientifico si sono raggiuntitraguardi inimmaginabili e, per quanto riguarda l’umanità, essa ha senz’altrousufruito di numerosissimi vantaggi. Quel che si vuole sottolineare è comequesta visione, certamente non come unica causa, abbia permesso il crearsidel circolo vizioso preso in considerazione all’inizio del nostro discorso.Considerare la <strong>natura</strong> come un immenso ingranaggio, infatti, permette sìdi sfruttarne appieno le potenzialità, ma non di valutare in maniera altrettantoottimale un suo progressivo deterioramento. Si presume di poter mettere insecondo piano i danni, ritenendoli ricomponibili o cercando vie alternative,senza ridurre minimamente il carico di risorse espropriate; unico fattorecostantemente monitorato e salvaguardato. Viene senza dubbio applicato alla65


<strong>natura</strong> lo stesso sguardo che un tecnico manutentore usa nei confronti dei suoimacchinari, con effetti che iniziano ora ad essere visibili a tutti.A mio parere, questo modo di pensare ci pone di fronte a due principalinodi problematici. In primo luogo, così agendo, si tende a porre l’uomo fuori dalcontesto <strong>natura</strong>le e a considerarlo il solo beneficiario della macchina <strong>natura</strong>le,come se fosse stata messa a sua completa disposizione. Secondariamenterivolgendo l’attenzione prevalentemente alle singole entità, la valutazione delleloro interazioni viene effettuata soltanto attraverso un rapporto di causa-effetto.Viene perciò meno la riflessione sulle influenze esterne dell’ambiente neiconfronti dell’intero sistema.Questo tipo di riduzionismo, infatti, cerca le risposte al problema dellacomplessità sempre ad un livello inferiore; senza tener conto che l’enteindagato potrebbe derivare le sue caratteristiche anche dall’ambientecircostante. Come spiega Villani, «per il riduzionista convinto, ad ogni livello c’èun “perché”, rivolto sempre all’interno, verso una dimensione più piccola: imeccanismi della scatola magica vanno sempre cercati all’intero». 127 Ciò, oltrea favorire un comportamento predatorio, si scontra anche con le recentiformulazioni dei sistemi allargati, studiati da scienze come l’ecologia e labiologia.Per semplificare le cose, il punto di vista riduzionista può essergrossolanamente espresso dalla simbolica frase “il tutto corrisponde allasomma delle parti”. Tale enunciato, in effetti, implica la possibilità di uno studiodelle singole componenti estrapolate dal loro contesto, in maniera tale dapoterle considerare tutte separatamente. Un ente viene decomposto nei suoicostituenti minimi, ne vengono studiate le interazioni e infine si cerca diricostruirne le proprietà specifiche.L’atteggiamento olistico è ben differente. L’affermazione opposta, “il tuttoè più della somma delle parti”, si sofferma infatti sull’importanza delle relazioniin un sistema, che non saranno più soltanto il risultato dell’addizione tra lepeculiarità dei suoi costituenti. Secondo alcune recenti teorie, le caratteristichedi un sistema non sono direttamente deducibili dalla conoscenza delle parti che127 G. Villani, Complesso…, cit., p. 52.66


lo compongono, poiché può esser dotato di quelle che sono definite proprietà“emergenti”. Un sistema, infatti, è allo stesso tempo qualcosa in più e qualcosain meno rispetto a ciò di cui è fatto:l’organizzazione compone dei vincoli che inibiscono talune potenzialità che sitrovano nelle varie parti. […] Ma nel contempo il tutto organizzato […] faemergere qualità che senza una tale organizzazione non esisterebbero. Sonoqualità “emergenti”, nel senso che sono constatabili empiricamente ma non sonodeducibili logicamente. 128Inoltre, scegliendo questa visuale, assume nuova importanza anche lanozione di “ambiente”. Scientificamente parlando, il binomio “sistema-ambiente”può esser studiato in due modi. Anzitutto attraverso il pensiero riduzionista, nelquale è ridotto a sterile substrato dal quale un oggetto può tranquillamenteesser estrapolato e studiato; in questo caso l’ambiente assume quasi la formadi un fastidioso rumore di fondo. Vi è poi una visione che possiamo definire“ecologica”, poiché considera l’ambiente come essenziale nella definizione diun sistema. Come possiamo ben notare, in quest’ultimo caso, non è piùpossibile eliminare le interferenze ambientali per studiare un singolo ente; omeglio, è possibile a patto rinunciare alle essenziali relazioni che costituiscono ilsuo rapporto con l’esterno. La scienza moderna ha preferito intraprendereproprio questa strada, provando a ridurre i problemi della realtà a forme piùaccessibili alla nostra mente. Essa «è nata, infatti, sul paradigma della“semplicità” contrapponendo al complesso evidente la semplicità delle leggi edegli enti in gioco». 129Dunque, quale poteva essere agli occhi dei primi scienziati moderni ilfenomeno con il maggior grado di complessità? Senz’altro la vita. Da Cartesioin poi, gli scienziati cercarono di togliere di mezzo ogni aspetto vitalistico dalla<strong>natura</strong>. Così il meccanicismo diede spontaneamente inizio a un’accanitabattaglia contro ogni forma di vitalismo e, più in generale, dichiarò la sua ostilitànei confronti della vita. Mentre all’uomo primitivo dovette sembrar intuitivo128 E. Morin, Le vie della complessità, in La sfida…, cit., p. 27.129 G. Villani, Complesso…, cit., p. 9.67


considerare ogni cosa viva e abbracciare un’arcaica forma di panvitalismo, 130dal Rinascimento in poi si assistette a un rovesciamento totale diquest’impostazione. La vita diventò l’enigma, mentre la morte, che inprecedenza risultava l’inspiegabile, venne a descrivere lo stato <strong>natura</strong>le dellecose. La messa a punto delle tecniche matematiche e delle leggi fisichefondamentali, infatti, permise di quantificare con esattezza soltanto ciò che eraesente da qualsiasi seme vitale. Come suggerisce Hans Jonas (1903-1993), daallora il privo di vita è diventato il conoscibile per eccellenza: «non solo rispettoalla quantità relativa, ma anche rispetto alla verità ontologica nell’essere fisicola non-vita è la regola, mentre la vita l’enigmatica eccezione». 131 Il fenomenobiologico, tuttora, viene spiegato attraverso le categorie tipiche del “senza vita”.Forse oggigiorno questa interpretazione non è più così adatta e si comincianoad intravedere le complessità che legano tra loro le varie componenti del reale;soprattutto per quel che riguarda il miracolo della vita.Per comprendere l’evoluzione di un concetto tanto eterogeneo comequello di “vita”, è necessario ritornare brevemente al Rinascimento edesplorarne l’altra faccia, quella che è stata respinta dalla scienza moderna. Aifini di questa ricerca, si potrebbe trovare in questo periodo storico una solidabase sulla quale ergere una nuova filosofia della vita e una più raffinata etica<strong>ambientale</strong>.3.2 La duplice impostazione rinascimentaleIl Rinascimento rappresentò certamente il punto di maggior splendore eoriginalità delle dottrine vitalistiche. Ad onor del vero, però, esso prefiguròanche le motivazioni che portarono al suo superamento. La bruniana rottura deilimiti dell’universo aprì infatti la via, nel secolo successivo, alla visione di uncosmo tremendamente ingrandito, teatro «di masse inanimate e forze senzameta». 132130 In questo caso s’intende un’antica forma, quasi descrivibile come una religione, nella quale vengonoattribuite qualità divine alle cose, ai luoghi o agli esseri materiali. La <strong>natura</strong>, ai primordi, appariva tuttaanimata e dotata di forze occulte.131 Hans Jonas, Organismo e libertà, Einaudi, Torino 1999, p. 18.132 H. Jonas, Organismo…, cit., p. 17.68


Tuttavia, il periodo rinascimentale interpretò l’intuizione dell’infinito inmaniera completamente diversa. Come mai la scomparsa di ogni barriera, ildecentramento della posizione terrestre e l’indeterminato moltiplicarsi dei corpicelesti non si opposero al fiorire delle teorie organicistiche ma, anzi, ne alimentòlo sviluppo? La ragione è da ricercarsi nella differente cornice in cui fu inserito ilconcetto di cosmo. In essa era ancora evidente la matrice greca, il cui universodotato di intelligenza 133 propria servì da fonte d’ispirazione per le nuove ideeanimiste. Le scienze alchemiche, l’astrologia e la magia trovarono inquest’assunto un fertile terreno sul quale germogliare e cominciarono aplasmare un’innovativa immagine della <strong>natura</strong>. Il tutto venne poi filtrato dagliautori umanisti, che assimilarono e sintetizzarono queste proposte con le treprincipali tradizioni dell’antichità: platonismo, aristotelismo e stoicismo.Seguendo le parole di Eugenio Garin, quel che ne derivò fuun universo tutto vivo, tutto fatto di nascoste corrispondenze di occulte simpatie,tutto pervaso di spiriti; che è tutto un rifrangersi di segni dotati di senso riposto;dove ogni cosa, ogni ente, ogni forza, è quasi una voce non ancora intesa, unaparola sospesa nell’aria; dove ogni parola ha echi e risonanze innumerevoli;dove gli astri accennano a noi e si accennano tra loro, e si guardano e ciguardano, e si ascoltano e ci ascoltano; dove tutto l’universo è immenso,molteplice, vario colloquio, ora sommesso ed ora alto, ora in toni segreti, ora inlinguaggio scoperto. 134Per il Rinascimento, insomma, la scoperta di una realtà senza confini significòla liberazione dell’impeto vitale dal castello concettuale che sino ad allora avevacercato di limitarne il potere. Ecco perché possiamo considerare quest’epocacome una sorta di canto del cigno dell’antico vitalismo. Ribadiamo infatti che,una volta venuta meno la matrice animista, lo spazio infinito lasciò intravedere133 L’intelletto cosmico, originariamente indicato con il termine nous, fu introdotto per la prima volta dalfilosofo greco Anassagora. Si credeva che questa intelligenza organizzatrice avesse messo ordina al caosprimordiale antecedente alla realtà attuale. Pur venendo modificata a seconda degli autori, questadottrina fu ritenuta valida dalla maggior parte dei filosofi greci, sopravvisse poi grazie ai pensatorineoplatonici e, nel Rinascimento, sfociò nella concezione dell’anima del mondo.134 E. Garin, Medioevo…, cit., pp. 144-145.69


soltanto il suo lento incedere, contrassegnato da cicli regolari e da motiuniformi, che perfettamente si adattarono alla scienza oggettiva.Nemmeno in questo caso è possibile rintracciare un unico filone dipensiero, innumerevoli furono le varianti. Le principali tematiche vennerovagliate in maniera differente nei vari sistemi religiosi presenti sin dal tardoMedioevo: su tutti si possono citare il cristianesimo, lo gnosticismo e,soprattutto l’influente ermetismo. Lo sviluppo di diverse prospettive,organicistiche e <strong>natura</strong>liste, dipese dunque dal quadro di riferimento al quale sirifaceva un determinato autore.Ad ogni modo, le differenti tendenze potevano essere ricondotte aun’unica idea fondamentale, cioè l’interconnessione di tutte le parti del cosmo inun’unità vivente. Ciò era possibile grazie alla convinzione che vi fosse una sortadi spiritus in grado di guidare e accomunare le componenti del tutto. Infatti«dall’affinità della <strong>natura</strong> risultava la coesione di tutte le cose attraverso lareciproca attrazione o amore. Tutte le parti della <strong>natura</strong> erano reciprocamenteinterdipendenti, e ciascuno rifletteva mutamenti nel resto del cosmo». 135Consolidata era anche la certezza che ogni azione poteva ripercuotersinel più recondito luogo del mondo; guadare il vasto fiume vitale significavaallora esporsi a continue vibrazioni e corrispondenze. Erano proprio questecredenze che permettevano alla magia di poter operare sulla <strong>natura</strong> e,contemporaneamente, al mago di ritenersi un servitore e non il suo padrone.L’esigenza umana di porsi al centro del creato e trarre da esso le risorsenecessarie era senz’altro già presente ed evidente; tuttavia, il contesto diaffinità con l’ambiente consentiva un agire più morigerato e attento alleconseguenze.Per saldare e giustificare le idee appena esposte, diventa essenzialeintrodurre il concetto di anima mundi, tematica di derivazione greca introdottanel Timeo di Platone. La maggior parte delle opere platoniche e neoplatinichedeve la loro sopravvivenza al grandioso lavoro ermeneutico svolto da MarsilioFicino (1433-1499) nel XV secolo, per conto della famiglia De’ Medici. Eglidiede molto risalto alla funzione dell’anima del mondo, e ne fornì una135 C. Merchant, La morte…, cit., pp. 149-150.70


definizione che venne ritenuta quasi da tutti valida. Al centro di tale concettospiccavano proprio la funzione mediatrice e quella vivificatrice. A quei tempi,infatti, prevaleva l’ipotesi di un ordine gerarchico del reale, di derivazioneprevalentemente neoplatonica: al vertice era posto l’intelletto divino, mentre allostadio più basso la muta materia. L’anima era quella sostanza in grado di farcomunicare tra loro i vari anelli di cui la catena del reale era composta. Comescrisse Ficino nel De Vita:se ci fossero soltanto queste due cose, da un lato l’intelletto, dall’altro il corpo,ma mancasse l’anima, allora né l’intelletto sarebbe attratto verso il corpo […] né ilcorpo sarebbe attratto verso l’intelletto […]. Ma se si pone in mezzo l’anima, cheè conforme ad entrambi, facilmente ci sarà l’attrazione reciproca dall’una edall’altra parte. [...] A questo si aggiunge che l’anima del mondo ha in sé perpotere divino le ragioni seminali 136 delle cose almeno quante sono le idee dellamente divina, e per mezzo di queste ragioni fabbrica altrettante specie nellamateria. 137Non fu soltanto la matrice platonica a fornire gli spunti necessari al dibattitofilosofico rinascimentale. Anche l’aristotelismo svolse un ruolo tutt’altro chesecondario. Pietro Pomponazzi (1462-1525), uno dei maggiori esponenti delpensiero dello Stagirita, postulò la presenza di intelligenze motrici insite nellesfere celesti e confermò il ruolo mediatore dell’anima, «tramite dicomunicazione con il mondo esterno e deposito di rappresentazionisensibili». 138Trasportate queste congetture dal piano ontologico a quello fisico, sipoté finalmente assistere alla caduta della rigida impostazione cristianomedioevale,che sino allora era stata dominante. L’idea di un’unità organica delcosmo, portata alle sue estreme conseguenze, diede così vita a teorie136 Si tratta di un elemento di origine neoplatonica, esse sono come “semi” contenuti nelle cose <strong>natura</strong>lie grazie alle quali una determinata cosa diviene ciò che è destinata a diventare. Rappresentano unasorta di punto intermedio tra le idee della mente divina e i corpi materiali.137 Teodoro Katinis, Marsilio Ficino e la rinascita del platonismo, in La filosofia del Rinascimento,Germana Ernst (a cura di), Carocci editore, Roma 2005, p. 42.138Vittoria Perrona Campagni, L’anima, la libertà e il fato in Pietro Pomponazzi, in La filosofia delRinascimento, cit. p. 88.71


cosmologiche modellate in analogia con l’organismo animale. «Il mondo esserun animal in parte maschio, et in parte femina, e co’l vicendevole amore dellesue membra s’unisce a sé stesso»; 139 furono le evocative parole usate dal DellaPorta per sintetizzare quanto appena espresso. Non mancarono certo altriesempi di autori che cercarono di muoversi in accordo con questa similitudine:Giordano Bruno (1548-1600), Tommaso Campanella (1568-1639) e BernardinoTelesio (1509-1588) tentarono infatti di collegarla al loro sistema di pensiero. Lostesso Ficino ne fornì un eloquente passaggio nel suo El libro dell’Amore:Le parti di questo mondo, come membri d’uno animale dependono tutte da unoAuctore, si connectono insieme per comunione di <strong>natura</strong>, e però come in noi elcervello, polmone cuore, fegato e gli altri membri traggono l’uno dall’altro qualchecosa, e scambievolmente si favoreggiano, e alla passione dell’uno compatiscel’altro, così e membri di questo grande animale, cioè tutti e corpi del mondo, intraloro concatenati, accattano intra lloro e prestano loro nature. 140Questa era la percezione che la maggior parte dei pensatori, a cavallotra il 1400 e il 1600, aveva della <strong>natura</strong>. Le conclusioni che si possono trarresono ovvie. Se si considera il tutto come un immenso organismo vivente, le cuiparti sono funzionali sia per l’insieme generale sia l’una verso l’altra, alloraanche il nostro legame con l’ambente assume connotazioni radicalmentedifferenti. Riguardo quest’ultimo aspetto, approfondiamo ora la posizione di unodei più influenti ed eclettici filosofi rinascimentali: Giordano Bruno.3.3 L’universo vivo di Giordano BrunoBruno può esser considerato, a ragion veduta, un simbolo delRinascimento. La rinuncia ad abiurare le proprie convinzioni e la socraticaaccettazione della morte sono avvenimenti rimasti indelebili nel tempo, che nonhanno fatto altro che accrescerne la fama. Ciò ha trasfigurato questo filosofo inun vero e proprio mito costitutivo della “coscienza” di un’epoca; 141 anche se la139 Citato in C. Merchant, La morte…, cit., p. 150.140 T. Katinis, Marsilio Ficino…, in La filosofia del Rinascimento, cit., p. 36.141 Michele Ciliberto, Giordano Bruno, Editori Laterza, Bari 2007, p. 3.72


icchezza del suo pensiero non può esser ridotta soltanto a questo, seppureroico, episodio. Egli fu uno spirito poliedrico e seppe districarsi egregiamentein diversi ambiti del sapere: dall’arte della mnemotecnica alle scienze <strong>natura</strong>li,dall’etica alla critica teologica e dalla conoscenza magico-alchemica allastesura di commedie teatrali.In questa sede, per motivi di necessità, si farà riferimento soltanto adalcuni aspetti della sua filosofia; per lo più alla concezione organica della realtàe all’intuizione di un nesso costitutivo tra vita, materia e infinità dell’universo. Daquesto punto di vista, l’autore è da inserire a pieno titolo nel contestorinascimentale poc’anzi descritto, ma la sua posizione risulta particolarmentesignificativa poiché portò alla luce alcuni argomenti impliciti nelle concezionivitalistiche e <strong>natura</strong>liste. Ci serviremo principalmente delle idee esposte nellasua produzione londinese, ovvero dei cosiddetti “dialoghi italiani”.La cosmologia è il punto di partenza ideale dal quale avviare il nostroragionamento sull’opera bruniana, perché rappresenta lo snodo di diversiinteressi. Bruno fu tra primi personaggi di spicco a cogliere l’importanza del Derevolutionibus orbium coelestium di Copernico e, nel vivace dibattito scientificoche seguì alla sua uscita, egli si schierò sin da subito dalla parte del polacco. Ilvero motivo d’interesse del pensatore campano, tuttavia, non era quello diaffermare la correttezza dell’eliocentrismo, cosa per lui ormai assodata. Il suointento principale era quello di abbattere le rigide convinzioni di derivazionearistotelico-tolemaica sulla finitezza dell’universo. Nella mente di Bruno,Copernico simboleggiava soltanto l’alba di una rivoluzione; il cui mezzogiornoera rappresentato da egli stesso. Secondo il filosofo italiano, infatti, era giunto ilmomento di dismettere le vecchie credenze e iniziare a vedere la realtà per ciòche essa era realmente:Noi che guardiamo non alle ombre fantastiche, ma a le cose medesme […]veggiamo un corpo areo, etereo, spirituale, liquido, capace loco di moto e diquiete, sino immenso […], sappiamo certo che, essendo effetto e principiato da73


una causa infinita, deve, secundo la capacità sua corporale e modo suo, essereinfinitamente infinito. 142La concezione di un universo infinito, elemento centrale della sua interacosmologia, non derivò da osservazioni sensibili o esperimenti scientifici distampo galileiano-newtoniano; tale convinzione era conseguenza direttadell’impostazione ontologica della “nova filosofia”. È dunque opportuno farne unbreve cenno. I due piani, quello cosmologico e quello ontologico, erano infattistrettamene legati e l’uno era il riflesso speculare dell’altro. Soprattutto nel De lacausa possiamo rintracciare un articolato lavoro intellettuale, volto a dimostrarela comunicazione diretta tra le speculazioni cosmologiche e le intuizioniteoretiche. Il nesso fondamentale, che unì insolubilmente i due livelli, furappresentato, come si vedrà, dal concetto di vita-materia infinita, fondamentoal tempo stesso del corporeo e dell’incorporeo.Le operazioni ontologiche fondamentali, sulle quali Bruno lavorò, preserole mosse da una serrata critica nei confronti degli antichi ordini gerarchici che,fino allora, avevano dominato la scena filosofica. Dal punto di vista ontologicoBruno attinse alla tradizione neoplatinica: un Dio-Uno stava al centro del suosistema, fonte primigenia di tutto ciò che era e poteva essere. Nell’Unobruniano veniva meno la distinzione tra i due principi costitutivi che, daAristotele in poi, si erano imposti all’attenzione del pensiero occidentale: “forma”e “materia”. Non aveva così alcun senso procedere a differenziazioni tra atto epotenza, corporeo e incorporeo, esteso e inesteso; tutto era saldamentoconnesso alla matrice primordiale dell’essere, risultando indistinto e omogeneo.L’universo concreto non era che il riflesso, o per usare la terminologiabruniana l’ombra, del vero Essere. In esso, tuttavia, continuava a mantenersi lacoincidenza di tutti i principi primi, seppur in modalità differenti rispetto a comeavveniva nella fonte divina. Lo spazio infinito finiva in tal modo per essere unicoe uniforme, essenzialmente simile a sé stesso in ogni sua manifestazione. Icorpi che lo popolavano, inoltre, erano considerati costituiti da atomi primordiali,fra loro identici per sostanza, forma e dimensione. Il monismo di Bruno, in142 Giordano Bruno, La cena de le ceneri, Oscar Mondadori Milano 2004, p. 64.74


questo modo, unificava forma e materia anche dal versante fisico. Ciòrappresentò il vero punto focale della filosofia bruniana. Infatti, poiché la formaveniva considerata affine all’anima, alla spiritualità, alla scintilla vitale, venendoa coincidere con la materia, ne acquisiva anche i caratteri. La vita-materiainfinita, cioè, era da un lato emanazione diretta dell’Essere, dall’altro fornival’intima unità organica al cosmo. Il mondo fenomenico, che poteva presentarsiai sensi in modo multiforme e variegato, trovava nella sostanza ultima il garantedella sua omogeneità: «una essere la omniforme sustanza, uno essere il veroente, che secondo innumerabili circostanze appare, mostrandosi in tanti e sìdiversi suppositi». 143 In quest’universo, insomma, la materia cessava di essereil prope nihil 144 di Aristotele o la massa inerte del Seicento, ma riusciva atrovare in sé tutte le forme, ponendo le basi dell’unità del tutto vivente.La materia era vivificata poiché, come si è detto, era indissolubilmenteabbracciata, in ogni sua forma, all’anima del mondo. Questa rappresentava ilvero principio formale costitutivo dell’universo e di ciò che in esso eracontenuto. Perciò, attraverso infinite diramazioni e sentieri sotterranei, la vitascorreva in tutte le cose e pervadeva ogni regione. 145 Ciò che poteva morire erail singolo corpo particolare, mentre il flusso vitale si riproduceva con un ritmosenza fine, dando luogo a innumerevoli composti. Si trova qui il trattofondamentale di tutta la “nova filosofia”, incentrata sul concetto di vita:come è più che verosimile, essendo che ogni cosa partecipa de vita, molti edinnumerabili individui vivono non solamente in noi, ma in tutte le cose composte;e quando veggiamo alcuna cosa che se dice morire, non doviamo tanto crederequella morire, quanto che la si muta, e cessa quella accidentale composizione econcordia. 146La visione di Bruno era una celebrazione della vita, un’esaltazionedelle forze vitali che sfociava, per certi versi, in un solenne panteismo. Si143 M. Ciliberto, Giordano…, cit., p. 93.144 Aristotele e gli aristotelici parlavano della materia come di una pura e nuda potenza; essa era passivae riceveva dall’esterno la forma. La materia che aveva in mente Bruno, ivece, aveva già dentro di sé tuttele forme.145 M. Ciliberto, Giordano…, cit., p. 95.146 G. Bruno, La cena…, cit., 69.75


deve tuttavia tener presente che il suo universo, pur non essendo frutto dicreazione ma emanazione diretta della divinità, non si identificavacompletamente con essa. Qui preme soprattutto rilevare l’organicità di taleposizione, nella quale ogni livello entrava in comunicazione con quellosuccessivo; dove la parte era posta nell’ordine del tutto, ma il tutto potevaessere ricomposto solo mediante la parte.Parti essenziali dell’intera cosmologica rinascimentale eranocertamente i pianeti. Possiamo ora comprendere perché Bruno, al posto diingombranti sfere e silenti astri, vedeva aggregati di vita, esseri animati inmodo non dissimile rispetto agli organismi animali. Nella descrizione di uncorpo celeste, infatti, il nolano osservava chequesto infinito ed inmenso è uno animale, benché non abia determinata figura esenso che si referisca a cose esteriori: perché lui ha tutta l'anima in sé, e tutto loanimato comprende, ed è tutto quello. 147Anche gli astri perciò entravano in comunicazione con l’essenza vitale e lofacevano con una duplice modalità. Da un lato davano vita e movimento allecose, ospitando entro sé vari organismi più o meno complessi; dall’altro eranoessi stessi dotati di vita. Com’è infatti affermato nella Cena, se volgessimo losguardo allo spaziotroveremmo la terra e tanti altri corpi, che sono chiamati astri, membri principalide l’universo, come danno la vita e nutrimento alle cose che da quelli toglieno lamateria, ed a’ medesmi la restituiscano, cossì e molto maggiormente, hanno vitain sé. 148Bruno tesseva così la trama di un universo composto di innumerevoli “animaliintellettuali”, all’interno dei quali si trovavano e agivano altri esseri animati dipari dignità e con pari diritto all’esistenza.147 Giordano Bruno, Dialoghi italiani, Sansoni, Firenze 1985, p. 33.148 G. Bruno, la cena…, cit., p. 67.76


Certo, in ogni opera del nolano è ravvisabile la tendenza modernorinascimentalea porre l’uomo al centro della <strong>natura</strong>, di intuirne i meccanismiuniversali, di modificarli e usarli a proprio vantaggio. Anzi, in Bruno l’essereumano non era soltanto colui che doveva godere delle risorse della <strong>natura</strong>, inquanto una divinità lo aveva posto al vertice di una scala gerarchia; egli elevaval’uomo stesso a semi-divinità, a Dio in terra. D’altro canto, possiamo anchenotare un’attenzione tipicamente pre-moderna verso gli equilibri armonici e gliordini <strong>natura</strong>li da preservare, aspetto che gioverebbe riprendere anche ai nostritempi. Il nolano, più volte, intimò agli uomini del suo tempo di non abusare deipropri poteri.Relativamente a questa ricerca, riveste particolare importanza uno deiprimi dialoghi italiani, il Cantus Circaeus. In quell’opera rintracciamo un temadella crisi che, riletto oggi, appare ricco d’intuizioni profetiche; esso suona quasicome un severo monito che, non essendo stato compreso appieno, ha portato aun triste futuro. Facendo trasformare gli uomini in bestie, cioè quello cheeffettivamente erano diventati, Bruno, tramite l’azione della maga Circe, tentavadi ristabilire l’ordine perduto. È interessante notare che gli uomini venivanoprivati di lingua e mani, ovvero degli strumenti coi quali erano riusciti amanipolare i legami universali insiti nella <strong>natura</strong>. 149 Ciò che Bruno osservava nelsuo tempo può esser vero anche per il nostro presente: non si ascoltano più leleggi di <strong>natura</strong>, «si è spezzato il nesso tra essere e apparire, tra anima ecorpo». 1503.4 La <strong>natura</strong> come “organismo complessivo”Il monito rinascimentale di Bruno sulla scomparsa armonia tra uomo eambiente rimase inascoltato per secoli. La rivoluzione scientifica, i precettimeccanicistici e l’illuminismo monopolizzarono la cultura europea almeno finoagli ultimi decenni del Settecento. Tuttavia, Nel XIX secolo, a cominciare dallaGermania, iniziarono a sorgere le prime forme di resistenza verso quel modo dipensare. Personalità come Göethe (1749-1832), Schiller (1759-1805), Herder149 M. Ciliberto, Giordano…, cit., pp. 19-20.150 Ivi, p. 19.77


(1744-180) e Hölderlin (1770-1843) diedero origine ad un movimento di criticaradicale nei confronti dei vari ambiti del sapere. Inoltre, ed è quel che a noiinteressa maggiormente, reinterpretarono nuovamente il concetto di <strong>natura</strong>.Almeno per qualche decennio, infatti, questa smise di funzionare solo permezzo di leggi accidentali-causali e le venne riassegnato un ordine, un’anima,e, soprattutto, un fine.Questo atteggiamento, che prese il nome di romanticismo e durò fino allametà del XIX secolo, viene da alcuni studiosi considerato come un importanteantecedente della scienza ecologica e del movimento ambientalista. Circa il suopotenziale sovversivo, Donald Worster ci mostra come i suoi principali bersaglifurono rappresentati anzitutto dalla rivalutazione generale delle nozioniscientifiche, dai valori morali e dalle istituzioni del nascente capitalismo; anchese un’attenzione particolare venne rivolta allo smantellamento dei pregiudizicontro la <strong>natura</strong>. Ecco perché i romantici sono considerati i primi grandisovvertitori dell’epoca moderna. Ci furono indubbiamente numerose variantiall’interno di questa corrente di pensiero, ma l’approccio romantico alla <strong>natura</strong>rimase fondamentalmente ecologico; vale a dire, si basava su concetti direlazione, interdipendenza e olismo. 151La maggior parte di queste convinzioni confluì, per quanto riguardal’ambito filosofico, nell’idealismo e nella sua filosofia <strong>natura</strong>le. Si può affermare,senza paura di essere smentiti, che questo periodo rappresentò un momento dirinnovamento speculativo nei confronti dell’elemento <strong>natura</strong>le, ormai da troppotempo imprigionato nei rigidi schematismi meccanicistici. Il percorso, in ognicaso, fu molto graduale e prima di giungere a una sua completa formulazione,passò attraverso alcuni autori chiave, come per esempio Fichte (1762-1814).Egli, all’interno della sua dialettica costituita da “tesi”, “antitesi” e “sintesi”,concepì la <strong>natura</strong> come “non-Io”, ovvero qualcosa posto dall’io ma consideratocontrario a esso. In tal modo, il soggetto si riconosceva finalmente comeidentità. Si trattava di un momento fondamentale per la dialettica idealista, dovela <strong>natura</strong> non era più pensata come marginale ma iniziava a svolgere un ruolo151 D. Worster, Storia delle idee… cit., 88.78


fondativo per la soggettività umana; anche se rappresentava pur sempre unmomento di “negazione” e veniva subordinato all’azione dell’uomo-soggetto.In particolar modo è interessante soffermarsi sulla posizione di FriedrichSchelling (1775-1854), poiché si ricollega a quella precedentemente analizzatadi Bruno; autore al quale, tra l’altro, dedicò un importante libro: Bruno, ossia undiscorso sul principio divino e <strong>natura</strong>le delle cose. Nonostante un inizialeaccordo con Fichte, ben presto, Schelling rese autonomo il proprio pensiero, esi dedicò alla ricerca <strong>natura</strong>le. Partendo da una posizione filo-fichtiana,quest’area d’interesse subì una costante evoluzione, che si concluse conl’identificazione di “Spirito” e “Natura”. Da constatare che, analogamente aBruno, anche per Schelling maturò una concezione della <strong>natura</strong> cherispecchiava le sue convinzioni ontologiche. Come ogni idealismo, l’impalcaturafilosofica si componeva di tre momenti principali. Alla base era posto unarchetipo simile all’Uno-Tutto bruniano, all’interno del quale non vi era alcunadifferenza tra le cose e, soprattutto, tra i principi formali e materiali; ogni enterisedeva in quella matrice indistinta e originaria. La fase successiva erarappresentata dalla nascita delle distinzioni. L’io cominciava a individuare séstesso come elemento unitario e a porre ciò che era ritenuto diverso come nonio,cioè <strong>natura</strong>. Si giungeva poi al terzo e fondamentale momento, doveavveniva una sintesi tra le due entità in gioco, Io e non-Io, in un Assoluto cheriassumeva i due momenti precedenti, pur mantenendone le reciprochedifferenze. 152Anche se erano già evidenti le originalità del filosofo tedesco,fondamentale, per un’elaborazione più matura del suo pensiero, fu l’incontrocon l’ambiente del romanticismo e con l’influente figura di Hölderlin. Iniziò così ariflettere su particolari nozioni romantiche e a farsi influenzare dall’idea di una<strong>natura</strong> più autonoma e indipendente rispetto a quella elaborata dal maestro. PerSchelling la <strong>natura</strong> era posta, già in principio, sullo stesso piano del soggetto; ilquale «non aveva nessuna priorità né reale né ideale». 153 Questa convinzionesi rifletteva anche nel suo programma di ricerca: se un’indagine prendeva le152 Manfred Frank, Natura e spirito, Roseberg & Sellier, Torino 2010, p. 62.153 M. Frank, Natura…, cit., p. 146.79


mosse direttamente dalla <strong>natura</strong>, si parlava di “realismo”; se invece si partivadal soggetto, si aveva a che fare con un “idealismo”. In ogni caso, purpercorrendo strade differenti, si giungeva alla medesima conclusione:l’individuazione di uno Spirito Assoluto onnicomprensivo. Ciò mostrachiaramente come i concetti di “io” e “<strong>natura</strong>” avessero pari dignità.Vediamo ora più da vicino com’era strutturata la <strong>natura</strong> agli occhi delpensatore di Leonberg. Anch’essa presentava, al suo interno, una tripartizioneideale ma nessuna fase godeva di priorità logica o temporale rispetto alle altre.La materia era innanzitutto considerata come un carattere proprio della <strong>natura</strong>,indipendente dal soggetto e dalla sua autocoscienza. Essa era senz’altro laprima cosa che appariva contrapposta all’io e veniva posta come fondamento,ovvero primo momento a partire dal quale iniziare una ricerca “realista”. Suquesta strada, se ben si ricorda, aveva già insistito il meccanicismo, che erariuscito a riordinare il primordiale caos materiale tramite leggi che rispondevanoa precisi parametri di proporzionalità.Schelling era ben consapevole dell’importanza di tali relazioni e non fumai intenzionato a metterle in dubbio; indicò perciò la capacità di instaurareregole universali tra gli enti come la seconda tappa cruciale della sua indagine.Per inciso, possiamo osservare come la bontà dei risultati ottenuti durante ilperiodo meccanicistico sia rilevata anche dai critici più serrati dell’epocamoderna, i quali sono costretti ad accettarli come dati di fatto. Ma allora ancheper Schelling, in fin dei conti, si risolveva tutto in leggi che rispondevano ai solitiprincipi di causa ed effetto?Il meccanicismo è lungi dal costruire esso solo la Natura. Infatti non appenaentriamo nel campo della <strong>natura</strong> organica ci viene a mancare qualunquecollegamento causa ed effetto. Ogni prodotto organico sussiste per sé stesso,[…] l’organismo produce sé stesso, deriva da sé stesso. 154Con queste parole Schelling introduceva la terza caratteristica di cui la <strong>natura</strong> sicomponeva, ovvero l’organicità. L’organismo, infatti, non si lasciava imbrigliare154 Ivi, p .185.80


dai solidi nessi causali del meccanicismo e rimase sempre un vero taboo.Interessante notare che anche un autore contemporaneo come Jonas individuanell’organismo l’elemento di svolta per la sua filosofia della vita. Nella suafilosofia, e in qualsiasi filosofia che miri a una visione d’insieme delle cose, «ilcorpo organico designa […] la crisi latente di ogni ontologia conosciuta» 155 e unenigma assoluto per le leggi meccaniche.In ultima analisi, dunque, la Natura di Schelling era pensata in analogiaal modello organico, fattore che si rifletteva in ogni sua parte. Per capire cosaintendesse veramente il filosofo tedesco è necessario rifarsi brevemente allaconcezione kantiana dell’organismo, poiché influenzò notevolmente l’interaepoca ottocentesca. Nella Critica del giudizio, Kant esponeva l’organismo comeciò che era, al tempo stesso, causa ed effetto di sé stesso. Esso rispettava ilcorso della <strong>natura</strong> attenendosi alle sue leggi deterministiche e manifestandosicome loro effetto; tuttavia, a differenza della materia, era dotato della capacitàdi riprodursi, diventando così causa di sé stesso. 156 L’organismo era inoltrecontraddistinto da una propria finalità interna: la vera discriminante che lodifferenziava dagli oggetti meccanici, i quali potevano sì avere delle finalità, main quanto concepite da un costruttore rimanevano esterne.Schelling fece sua questa concezione dell’organismo e la ampliò a tuttala <strong>natura</strong>, la quale venne così considerata in maniera teleologica, come un“organismo complessivo” dotato di un’anima del mondo comune a tutte le sueparti. La materia accoglieva in sé il momento ideale, proprio perché sipredisponeva, sin dalle sue forme più elementari, in modalità organiche, comead esempio i legami chimici o le cristallizzazioni di materiale organizzato.Nell’organismo vigeva infatti l’idea di un “tutto” nel quale le parti erano talisoltanto nel loro riferirsi all’intero e, al contempo, ogni singola parte contenevain sé il progetto di un disegno organico. In una <strong>natura</strong> così concepita, ognielemento meritava il medesimo grado di dignità e di diritto all’esistenza; tutte lecose erano egualmente necessarie al conseguimento del fine ultimo:155 H. Jonas, Organismo…, cit., p. 27.156 M. Frank, Natura…, cit., p. 55.81


Nell’universo tutto è, a suo modo, incondizionato e nessuna cosa sarebbe ugualea sé stessa se non fosse in sé compiuta. Appunto per questa ragione, separliamo di fenomeni, ognuno ha pari diritto di essere. Non è che uno sia la veracausa dell’altro, ma ognuno è fondato in egual maniera nell’Incondizionato. 157Nell’ultima fase della sua filosofia, infatti, Schelling descrisse anche loSpirito Assoluto, sintesi consapevole di soggetto e <strong>natura</strong>, in maniera organica.Anzi, era lo Spirito stesso ad agire nelle creature biologiche quando prendeva ilvia l’impulso creativo della vita. In tal modo non vi era la necessità di spiegarecome avveniva il passaggio o la comunicazione tra materia e Spirito, poiché,come scriveva Schelling: «La Natura è lo Spirito visibile, lo Spirito è la Naturainvisibile». 158 Ancora una volta sorprende l’analogia con Hans Jonas, il quale, inOrganismo e libertà, afferma chel’organico prefigura lo spirituale già nelle sue forme più inferiori e lo spirito, nellasua massima estensione, resta ancora parte dell’organico. 159Vediamo dunque come quest’universo idealista si disponesse in manieranon dissimile da quello già visto con Bruno. Anche in questo caso, ogni singolaparte si poneva al servizio dell’intero e concorreva a renderlo, nel suocomplesso, vivo. Come ebbe modo di far notare lo stesso filosofo, «Il corpocosmico, in quanto in sé assoluto, si connette nel contempo come parteall’intero corpo organico dell’universo». 160 Schelling, probabilmente, volle porrele basi rompere con il pregiudizio fondamentale della modernità e dell’interafilosofia occidentale: quella contrapposizione totale tra soggetto e oggetto chelegittimava l’uomo «a smantellare la <strong>natura</strong> secondo o propri piani, a estorcerleogni suo segreto, e a sfruttarla in quanto materia inerte, priva di Spirito». 161157 Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, <strong>Filosofia</strong> della <strong>natura</strong> e dell’identità, Guerini e associati, Milano2002, p. 30.158 M. Frank, Natura…, cit., p. 187.159 H. Jonas, Organismo…, cit., p. 7.160 F. W. J. Schelling, <strong>Filosofia</strong>…, cit., p. 124.161 M. Frank, Natura…, cit., p. 201.82


3.5 L’organicismo nella scienza contemporaneaIl romanticismo non ebbe la forza necessaria per imporre unripensamento critico e duraturo nei confronti della modernità. Già dalla secondametà dell’Ottocento, con l’affermarsi del positivismo, la cultura europea tornavaa esser caratterizzata da un’incontrollata fede per la scienza, e attirata semprepiù dall’idea di un incessante progresso verso condizioni migliori. Il resto èstoria recente: l’epoca contemporanea sembra procedere come <strong>natura</strong>leevoluzione di quella moderna, sulla base degli stessi presuppostiantropocentrici.Non mancano però voci fuori dal coro; anche nel Novecento possiamoincontrare pensatori che hanno visto nell’organizzazione olistica l’essenzaultima delle cose. In seno alla scienza abbiamo assistito al tentativo della fisicadi orientarsi verso impostazioni più organicistiche, come ad esempio laformulazione della teoria dei sistemi complessi. Anche l’ecologia, con il concettodi ecosistema, ha senz’altro aiutato a mostrare come un singolo ente, per esserdefinito, abbia bisogno di relazionarsi con l’ambiente e con gli altri enti che locircondano. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, il linguaggio usato è ancoraquello matematico-quantitativo introdotto nella rivoluzione scientifica; mentrel’analisi dell’interazione tra le componenti sistemiche è rimasta ancorata a unsofisticato tipo di meccanicismo.Perciò, è per certi versi straordinario l’esempio fornitoci da FredericClements (1874-1945) nel campo della botanica. Egli, assieme a Henry Cowles(1869-1939), diede il via a quella che viene definita “ecologia dinamica”. Il suointeresse era rivolto per lo più allo studio dei territori, delle piante edell’interazione tra diversi tipi di vegetali. Nell’osservare la composizione deivari habitat americani, tuttavia, si rese conto che le comunità <strong>natura</strong>licambiavano e si sviluppavano nel tempo; 162 erano cioè delle formazioni che, nelloro complesso, avevano un carattere organismico. Notò peraltro che, aseconda delle condizioni della regione in cui si trovava, una comunità tendevasempre a dirigersi verso un assetto tipo; il paesaggio <strong>natura</strong>le si dirigeva cioè162 D. Worster, Storia delle idee… cit., p. 260.83


verso uno stadio finale. La formazione climax 163 , questo il nome che le diede,rappresentava uno dei primi tentativi, da parte della scienza ufficiale, diinterrogarsi su un andamento teleologico della <strong>natura</strong>. Clements, da veroscienziato, accompagnò le sue ricerche con precisi dati, esperimenti sul campoe modelli esemplificativi.Egli si accorse che, durante le prime fasi di vita, le comunità vegetalidipendevano per lo più dalle caratteristiche del terreno, mentre e man manoche il complesso si evolveva, le condizioni del suolo si stabilizzavano ediventavano meno prioritarie. Nella fase più evoluta della formazione, invece,risultavano fondamentali altri fattori quali la temperatura, il vento o la piovosità.Ogni fase aveva perciò il compito di preparare il terreno a quella successiva,verso il raggiungimento della formazione climax, cioè il modello ideale. In ogniregione climatica della Terra, quindi, era possibile un solo ambiente finale.Clemets sosteneva che questi aggregati vegetali fossero delle specie diorganismi complessi di ordine superiore. Quello da lui indicato non era soltantoun modello esplicativo sullo sviluppo delle regioni terrestri, l’analogia con gliorganismi era un dato di fatto, come si evince dalle sue stesse parole:l’unità biotica, la formazione climax, è un’entità organica. Come un organismo, laformazione nasce, cresce, matura e muore. La formazione climax rappresental’organismo adulto, la comunità pienamente sviluppata, nella quale le fasi iniziali eintermedie sono fasi di sviluppo. L’avvicendamento è il processo riproduttivo di unaformazione e questo processo si conclude inevitabilmente nella forma adulta dellavegetazione, come accade all’individuo. 164Sembrano le parole di un Cartesio o di un Hobbes mentre descrivono il corpoumano in relazione alle macchine; con la differenza che il modello di riferimento163 Per formazione climax (dal greco klímaks, "scala") si intende lo stadio finale dell’evoluzione di unecosistema in una successione di vari stadi, ognuno dei quali rappresenta una tappa fondamentale perpoter passare al successivo. Questa teoria si basa sull’osservazione che, in ogni ambiente fisicocompatibile con la vita, s'insedia sempre la comunità che è in grado di sfruttare meglio le condizioniambientali. Negli ambienti di neoformazione, infatti, s'instaura sempre una dinamica evolutiva,detta “successione ecologica”, che porta nel tempo all'ottimizzazione dello sfruttamento delle risorseambientali.164 D. Worster, Storia delle idee… cit., p. 262.84


stavolta è proprio l’organismo. Visto da quest’ottica, «Il corso della <strong>natura</strong> non èun vagabondaggio senza meta, bensì un flusso costante verso la stabilità chepuò esser tracciato con precisione dallo scienziato». 165Lo studioso del Nebraska sottolineò un altro aspetto molto importante aifini di questa ricerca: egli incluse l’uomo all’interno dei meccanismi ecologici.L’essere umano, sino ad allora, era rimasto estraneo ai complessi schemi diclassificazione ecologica, anzi, in molti casi, era il giudice che ne decretava labontà. Clements, studiando la vegetazione del suo continente, capìrapidamente quanto fosse invasiva la presenza dell’uomo in un sistema<strong>natura</strong>le. Per millenni, infatti, la formazione tipo del nord America era stata laprateria. Essa ha certamente dovuto affrontare numerosi cataclismi, variazioniclimatiche o invasioni da parte di specie non autoctone, tuttavia ha sempreresistito ed è rimasta pressoché invariata nel corso degli anni. La sola presenzadell’uomo bianco occidentale, invece, nel giro di pochi secoli è bastata amettere letteralmente in crisi quest’ambiente.Un altro mirabile esempio proveniente dal mondo della scienza è quellodi un chimico contemporaneo, James Lovelock, che formula suggestive ipotesisul nostro pianeta. Egli rappresenta un punto di vista estremamente vicino aquello dei filosofi precedentemente analizzati; è infatti il primo autore che donaveste scientifica, quindi supportata da dati, a una concezione organicistica dellarealtà. La sua ipotesi, rinominata Gaia dalla dea greca della Terra, assimila ilnostro pianeta a un organismo vivente con delle funzioni ben precise. Taleintuizione ha avuto origine negli anni Sessanta e parte dal presupposto che ilclima terrestre sia il risultato di complessi meccanismi che la Terra, in qualchemodo, riesce a controllare e dirigere.Partendo dallo studio della composizione chimica degli altri pianeti, sipalesò ai suoi occhi che «la sola spiegazione possibile dell’atmosfera altamenteimprobabile della Terra era che essa veniva quotidianamente manipolata dallasuperficie, e che la manipolazione avveniva ad opera della vita stessa». 166 Asuo avviso, la prova dell’attività vivente di questo corpo celeste è rappresentata165 Ivi, p. 261.166 J. Lovelock, Gaia, cit., p. 19.85


dal persistente squilibrio dei gas chimici al suo interno o, come direbbe unfisico, dalla costante diminuzione di entropia 167 . Venere e Marte, infatti,potrebbero potenzialmente avere condizioni simili a quelle terrestri, in realtà sitrovano in uno stato di cosiddetto equilibrio chimico. La loro atmosfera sisomiglia molto: l’anidride carbonica è presente in dosi massicce, mentre l’azotoe l’ossigeno, essenziali per la vita, o sono assenti o presenti solo in tracce. 168Lovelock definisce perciò Gaia come un’entità complessa comprendentebiosfera, atmosfera, oceani e suolo; 169 ovvero una sorta di “super-organismo”che cerca di mantenere costanti le condizioni funzionali alla vita. Il processo èsimile a quello dei sistemi cibernetici. 170 Quando le condizioni generali superanoo vanno sotto a una certa soglia, s’innesca una serie di meccanismi che cercadi riportare le cose alla situazione iniziale. Nei sistemi cibernetici s’instaura, tragli enti che interagiscono, una comunicazione, tramite la quale gli elementireagiscono cambiando il proprio stato. Si parla in questo caso di retroazione odi feedback, fattori chiave grazie ai quali l’organismo riesce a mantenersi incondizioni di omeostasi 171 .Quello che Lovelock ipotizza è che la vita sia riuscita a mantenersi finoad ora proprio grazie ad azioni di questo tipo. Quando, per qualche ragione, laconcentrazione di qualche gas atmosferico dovesse alzarsi oltre il limite, l’interosistema terrestre reagirebbe cercando di trovare delle contromisure. Ad167 L’entropia, in fisica, rappresenta la grandezza che misura il “disordine” presente in un sistema. Vi èuna relazione inversamente proporzionale tra ordine ed entropia: tanto maggiore sarà uno, tantominore sarà l’altra. Lovelock collega questa importante nozione al concetto di vita, anzi lo ritiene unfattore dal quale quest’ultima non può prescindere. Vivendo, un organismo, produce continuamenteentropia. Se l’entropia eliminata (i rifiuti dell’organismo) sarà uguale o superiore a quella generata alloral’organismo continuerà a vivere; lo stato finale di equilibro, invece, decreta la cessazione della vita.168 J. Lovelock, Le nuove età…, cit., p. 24.169 J. Lovelock, Gaia, cit., p. 24.170 La cibernetica è una scienza di controllo dei sistemi fondata nel 1948 dal matematico americanoNorbert Wiener. Secondo tale dottrina il nostro mondo sarebbe integralmente costituito da sistemi, vivio non-vivi, in costante interazione reciproca. Possono essere quindi considerati come "sistemi": unasocietà, un'economia, una rete di computer, un macchinario, una ditta, una cellula, un organismo, uncervello, un individuo o un ecosistema. Un sistema cibernetico, perciò, può esser definito come uninsieme di elementi che interagiscono scambiandosi materia, energia o informazioni. Questi sistemisono poi in grado di autoregolarsi reagendo proprio in base alle informazioni che ricevono.171 Per omeostasi si intende la tendenza, interna ad ogni organismo, a mantenere un equilibrio delleproprietà chimico-fisiche. Ai fini della sopravvivenza dell’organismo, questa caratteristica devemantenersi nel tempo e resistere alle variazioni delle condizioni esterne. L’omeostasi riesce perciò amantenersi stabile grazie a precisi meccanismi autoregolatori che ogni essere vivente possiede.86


esempio se la temperatura climatica dovesse diventare troppo fredda, èipotizzabile che si alzi proporzionalmente la concentrazione dei gas serra, inmodo tale da riportare il calore a una condizione ottimale. Naturalmente unsistema di questo tipo è utile solo se le perturbazioni che subisce sono di pococonto. Noi sappiamo però che la Terra ha più volte dovuto resistere a veri epropri cataclismi e, per salvaguardare la vita nel suo complesso, è statacostretta a cambiare le originarie condizioni di equilibrio. Se tale ipotesi fossecorretta, non è assolutamente scontato che le attuali condizioni che hannofavorito il fiorire dei mammiferi, essere umano incluso, debbano restareinalterate. Anche Lovelock, come Clements, individua nell’uomo un fattore didisturbo per l’ecosistema, tuttavia non lo ritiene in grado di danneggiarlo fino aporre fine alla vita stessa. In altre parole, o l’uomo impara a vivere in simbiosicon Gaia, oppure essa sarà costretta a liberarsi di lui.Ciò che, a mio avviso, colpisce di questa teoria è che, comunque sigiudichi, «ci impone di assumere una prospettiva planetaria. Quel che conta èla salute del pianeta, non delle singole specie di organismi». 172 La vita e il suoambiente, insomma, sarebbero così strettamente uniti che l’evoluzioneriguarderebbe l’intera Gaia nel suo complesso, e non le singole componentiprese separatamente. 173Vediamo ora, nell’ultimo capitolo, quali conseguenze può avere, sulpiano etico e morale, l’assunzione di una posizione globale circa il nostrorapporto con la <strong>natura</strong>.172 J. Lovelock, Le nuove età…, cit., p. 11.173 Ivi, cit., p. 35.87


Capitolo IV: Il sentimento di comunanza4.1 Etica e ambienteIn quest’ultimo capitolo verrà esaminata la componente etica alla basedel rapporto tra l’uomo e la controparte <strong>natura</strong>le, con un’attenzione particolareverso i problemi ambientali esaminati all’inizio del lavoro. Ogni essere siconfronta con il proprio ambiente in maniera istintiva, instaurando con esso unasimbiosi più o meno marcata e un legame empatico spesso molto forte. Nelcaso degli enti più complessi, come l’uomo, questo rapporto assume forme piùraffinate che possono sconfinare nella sfera sentimentale. L’essere umano,infatti, ha manifestato sin da subito una serie molto eterogenea di sentimentiverso la madre-terra. Abbiamo visto come l’iniziale timore reverenziale siaconfluito nelle prime forme di religiosità e spiritualità pagane, le quali hannocontribuito al formarsi di un sentimento di appartenenza e comunione con ilcreato. Tuttavia, man mano che l’uomo accresceva la propria autocoscienza eaffinava le capacità intellettuali, la paura lasciava il posto prima all’indifferenza epoi all’ostilità. Nel corso dei secoli, insomma, il vincolo con l’elemento <strong>natura</strong>lesi è gradualmente affievolito, fino a giungere all’attuale comportamentoautoritario e dispotico.Ma al di là della spontanea sensibilità nei confronti dell’habitat, è correttoparlare di una vera e propria etica verso ciò che ci circonda? Lo stato di <strong>natura</strong>rappresenta da sempre lo spazio di problematicità del diritto e della morale,nonché un regno contrassegnato dalla quasi totale assenza di giustizia. Permiliardi di anni gli esseri viventi sono stati guidati soltanto dalle loro capacità diadattamento e dallo stimolo della selezione <strong>natura</strong>le. È stata la “forza” adecidere e delineare la sfera del proprium, facendo si che l’autoreferenzialitàdel forte abbia definito la strumentalità del debole. Nella selvaggia <strong>natura</strong> ilprossimo raffigura il ”diverso”, un pericolo e un nemico da sconfiggere. 174 Se poispostiamo il discorso sull’ambiente in sé, sul suolo, sulle piante, sugli oceani osu qualsiasi altro elemento privo di sensibilità, ci apparirà ancor più oscuro il174 Luisella Battaglia, Alle origini dell’etica <strong>ambientale</strong>, Edizioni Dedalo, Bari 2002, pp. 7-8.89


nesso con l’etica. L’uomo stesso ha impiegato milioni di anni per riconoscere unqualche diritto all’esistenza verso i suoi simili, facendo molta attenzione acircoscrivere questo privilegio alla sola specie homo sapiens.L’etica tradizionale ignora quasi del tutto ciò che non fa parte del mondoantropico e si concentra esclusivamente sull’agire umano. Tutti gli imperativi ele massime del passato hanno un carattere di limitazione nell’ambito immediatodel comportamento e delle relazioni tra uomini. 175 Ciò, per un autore comeHans Jonas, è del tutto normale, poiché le azioni dell’uomo non sono mai statein grado di ripercuotersi in ambiti extra-umani. Il tempo dell’azione, inoltre, èsempre stato considerato essenzialmente istantaneo, cioè con effetti cheinteressano il presente o, al più, il futuro prossimo. Le facoltà e il sapereeffettivo dei nostri predecessori non erano tali da avere conseguenze nel lungoperiodo, né tantomeno su ciò che li circondava.Ora, tuttavia, questo paradigma sembra non esser più valido, poiché «inseguito a determinati sviluppi nel nostro potere si è trasformata la <strong>natura</strong>dell’agire umano». 176 Di conseguenza dovremmo disporre anche di un pianoetico parimenti ampliato. Jonas sostiene cioè che, dopo l’affermarsi dellatecnica moderna, l’agire dell’uomo ha potuto disporre di un potenzialeinimmaginabile per ogni epoca precedente, in grado di interessare anche lasfera mondana. Il contesto culturale, sempre in divenire, accompagnal’evoluzione dell’uomo sin dall’origine, ma ora si avverte il bisogno di un suoulteriore salto di qualità. Il nostro operare nel mondo, infatti, si basa su tradizioniben radicate e viene regolato da leggi morali, alcune delle quali sono diventatetalmente salde da esser assimilate a leggi <strong>natura</strong>li. Si tratta ora di revisionare ilnostro intero sostrato formativo e rimetterlo al passo con le novità introdottenell’epoca contemporanea.A questo punto può esser utile rivolgere lo sguardo verso impostazioniancor più radicali, come ad esempio quella dell’ecologo statunitense AldoLeopold (1887-1948), le cui idee influenzano la maggior parte delle filosofieambientali. Secondo questo pensatore, la <strong>natura</strong> sarebbe degna di175 Hans Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 2009, p. 8.176 H. Jonas, Il principio…, cit., p. 3.90


considerazione morale indipendentemente dalle influenze dell’agire umano.L’ambiente e i suoi abitanti, uomo compreso, formano un complessoonnicomprensivo al quale ogni specie, ogni pianta e anche ogni parte del suolohanno diritto di partecipare; una sorta di “diritto biologico” aperto a tutto ilsistema-Terra. 177Più avanti affronteremo nel dettaglio il pensiero di Leopold. Ora ciinteressa notare come, indipendentemente dalle posizioni dei vari autori,l’applicazione della morale alla <strong>natura</strong> stia diventando un’esigenza sempre piùsentita; tanto che, ai giorni nostri, l’etica <strong>ambientale</strong> rappresenta uno degliambiti di ricerca maggiormente sviluppato e in evoluzione. L’attuale critica<strong>natura</strong>lista, però, ha come principiali obbiettivi il sistema economico e quellopolitico. Essi concorrono certamente ad aggravare la situazione, ma nonpossono essere considerati vere cause scatenanti. La crisi ecologica, infatti, siè abbattuta sui sistemi capitalistici in maniera del tutto simile rispetto agli statiex-socialisti; ci deve perciò essere qualcosa di più profondo del tipo diproduzione, dei rapporti sociali e di quelli di proprietà. Il problema che sta amonte sembrerebbe proprio essere di <strong>natura</strong> etico-comportamentale. Sono i finiche l’uomo si pone ad essere dannosi per tutto l’ecosistema terrestre, e questiappartengono alla morale condivisa dalla nostra specie.La presa di coscienza di una futura catastrofe <strong>ambientale</strong> ci ha convintodella necessità di una ridefinizione dei rapporti tra l’uomo e il mondo vivente. Lagrande lezione dell’ecologia è stata proprio quella di mostrarci come lasopravvivenza dell’homo sapiens sia legata indissolubilmente a quella di moltialtri enti e, soprattutto, al mantenimento dell’equilibrio globale. Siamo ora conscidel fatto che si debba riconoscere un approccio alternativo al semplicesfruttamento e depauperamento delle risorse, facendo appello ad un rinnovatosentimento etico. 178Nei precedenti capitoli si è cercato di fare un breve viaggio nella storiadella filosofia della <strong>natura</strong>, tenendo come traccia l’evolversi del nostroatteggiamento nei confronti del territorio circostante. Di fatto abbiamo177 Marcello Santini, Pensare la <strong>natura</strong>, in La piramide azzurra, Franco Angeli, Milano 2001, p. 35.178 L. Battaglia, Alle origini…, cit. p. 162.91


iscontrato il formarsi di due modelli che, nel corso delle varie epoche, si sonoscambiati il ruolo di attori principali. Da una parte la visione meccanicistica dellarealtà, che è stata dominante negli ultimi secoli, ha destituito di ogni valoreessenziale l’ambiente. L’antropocentrismo, che si è accompagnato a talecondotta, ha fatto sì che la Terra venisse considerata soltanto in funzioneall’utilità fornita. Dopo la nascita dell’industria e il progredire della tecnologia, ilrapporto uomo-<strong>natura</strong> subisce un ulteriore contraccolpo e comincia a venirvalutato esclusivamente in termini economici. Fertilizzanti, tecniche di gestionedelle acque e di difesa dell’erosione, insetticidi e quant’altro, hanno svolto il solocompito di aumentare la resa produttiva di un determinato luogo, cioèaccrescerne l’utilità per noi. 179 Che tipo di etica si accompagna a tutto ciò?Penso si possa parlare di un’etica del disinteresse, di una non-etica, cioè di unatteggiamento totalmente avulso dal piano della morale. Dopo la divisionecartesiana tra esseri razionali ed enti del mondo fisico, infatti, si passa da unsentimento di appartenenza a uno d’indifferenza nei confronti della <strong>natura</strong>, allaquale viene definitivamente negata ogni possibilità di accesso alla sfera etica.Sono questi i presupposti che hanno dato origine all’odierno “capitalismod’avventura”, una condotta fondata su facili profitti e arricchimenti senzascrupoli.L’altro modello, quello organicistico, fornisce invece un terreno piùfecondo per il nuovo tipo di etica che si va ricercando. All’interno dellenumerose filosofie ambientali contemporanee possiamo evidenziare due filoniprincipali. Il primo segue una linea conservazionista-utilitarista, che predica unutilizzo più sapiente delle risorse; non perdendo tuttavia di vista la centralitàdell’essere umano e i benefici che esso deve trarre dalla <strong>natura</strong>. Il filosofoaustraliano John Passmore (1914-2004), il maggior esponente di questopensiero, sostiene che l’uomo non abbia bisogno di radicali cambiamenti, masoltanto di una più saggia amministrazione di ciò che già possiede. 180 Posizionicome queste vengono definite riformiste o, più semplicemente di shallow179 M. Santini, pensare…, cit., p. 18.180 P. Pagano, <strong>Filosofia</strong> <strong>ambientale</strong>, cit., pp. 48-49.92


ecology 181 , poiché l’aspetto antropocentrico è ancora preponderante. Sembrainfatti che quest’atteggiamento, pur riconoscendo i legami ecologici esistenti trale cose, non riesca a valutare correttamente la reale incidenza del fattoreumano.Il secondo filone è rappresentato da un movimento davvero radicale, cheprende il nome di Deep ecology 182 . Si tratta di una forma estrema di olismo cheripudia ogni antropocentrismo e insiste sulla necessità di un “ecocentrismo”,cioè sulla totale integrazione e armonizzazione con la <strong>natura</strong>. 183 Il filosofonorvegese Arne Naess (1912-2009), l’ideatore di questa ecosofia 184 , proponeuna filosofia basata sull’azione, sull’impegno attivo delle persone e sulladisobbedienza civile, per cercare di cambiare realmente le cose. Di contro,anche questa posizione sembra parziale, poiché non riconosce appieno laspecificità dell’uomo e degli altri esseri, tendendo a livellare sullo stesso pianomateria vivente e inorganica. Dovremo dunque muoverci con attenzione, poichénon tutti i modelli etici derivanti da una prospettiva organicistica sembranoadeguati al compito di rinnovamento che ci siamo prefissati.4.2 L’evoluzione della tecnicaPrima di affrontare compiutamente la proposta etica qui presente, ritengonecessaria un’ultima digressione. Più volte si è fatto accenno alla questionedella tecnica, ai cambiamenti introdotti dalla tecnologia moderna e allemiracolose scoperte scientifiche che hanno rivoluzionato la nostra vita. Moltiautori hanno individuato proprio in quest’aspetto una delle cause dell’odierno181 In realtà “shallow ecology”, letteralmente “ecologia di superficie”, è il nome che viene dato dagliesponenti dell’ecologia profonda alle forme di ambientalismo più moderato, fornendone quindi unaconnotazione negativa. Possono esser ricondotte sotto questa definizione tutti i movimenti moderatiche tentano di coniugare il rispetto dell’habitat <strong>natura</strong>le con le forme politiche ed economichedell’epoca contemporanea, senza aspirare a radicali rivoluzioni.182 È un movimento nato a metà del Novecento, inizialmente in Norvegia, da autori come Peter Zapffe,Sigmund Kvaloy e Arne Naess. Si tratta di una feroce critica all’economia capitalista, dell’industrialismo edella società Occidentale nel suo complesso; votato soprattutto all’azione politica attiva. Secondoquesto tipo di pensiero, solo una radicale rivoluzione del nostro modo di vivere potrà garantire lasperanza di recuperare l’armonia con la <strong>natura</strong>.183 P. Pagano, <strong>Filosofia</strong> <strong>ambientale</strong>, cit., p. 77.184 Termine introdotto dallo stesso Arne Naess per sottolineare la necessità di un rovesciamento dellaprospettiva antropocentrica. Secondo il suo pensiero l’uomo non si colloca alla sommità della gerarchiadei viventi, ma si inserisce, come tutti, nell’ecosfera.93


atteggiamento predatorio nei confronti della <strong>natura</strong>, nonché uno dei motivi dimaggior preoccupazione per le sorti del nostro pianeta. Le moderne industrieche inquinano con i loro rifiuti; le tecniche di coltivazione sempre più efficaci ecapaci di modificare vastissime aree di territorio; le armi militari più sofisticate ingrado di radere al suolo intere città; sono tutti elementi derivati dal progressoscientifico. Quando affermiamo che l’essere umano dispone di un potere tale daalterare il normale funzionamento degli ecosistemi, o di mettere a repentaglio lavita stessa sulla Terra, stiamo appunto parlando di problematiche inerenti allatecnica.È dunque un argomento da affrontare poiché, come scrive Heidegger, lavita dell’essere umano è indissolubilmente legata all’arte tecnica,sia che la accettiamo con entusiasmo, sia che la neghiamo con veemenza. Masiamo ancor più gravemente in suo possesso quando la consideriamo qualcosadi neutrale; infatti questo atteggiamento che oggi si tende ad accettare conparticolare favore, ci rende completamente ciechi di fronte all’essenza dellatecnica. 185Per gli esponenti della deep ecology, Heidegger è senz’altro il filosofo diriferimento per quel che riguarda la critica alla tecnologia. Egli è il primopensatore contemporaneo a individuare in questo elemento un fattore decisivoper le sorti dell’umanità, in grado di stravolgere il normale rapporto tra uomo e<strong>natura</strong>.L’aspetto più originale del suo pensiero sta nel fatto di considerarel’essenza della tecnica come qualcosa di non tecnico. Viene ritenutainsufficiente e parziale la tradizionale definizione di tecnologia, consideratasoltanto come un mezzo in vista di fini, o una semplice attività a disposizionedell’uomo. 186 Per il filosofo tedesco la tecnica avrebbe invece a che fare con il“disvelamento”, il quale a sua volta appartiene al regno della “verità”, secondo185 Martin Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Mursia editore, Milano 2007, p. 5.186 M. Heidegger, La questione…, cit., p. 5.94


la definizione greca di aletheia. 187 La tecnica starebbe in corrispondenza direttacon quest’area ontologica fondativa dell’esperienza umana, poiché soltanto inessa troverebbe origine ogni forma di produzione, ogni fine, ogni mezzo e ognitipo di strumentalità. 188Solitamente viene rilevata una notevole differenza tra la tecnicaconcepita nell’antichità e la tecnica moderna, giacché quest’ultima ha fornitoall’uomo il potere necessario per destabilizzare l’intero creato. La tecnicatradizionale, perciò, è spesso vista con innocenza, come qualcosa che lacreatività dell’uomo ha dovuto escogitare per sopperire alle sue <strong>natura</strong>licarenze. Essa risultava essere un aiuto al normale svolgimento della vita erimaneva in armonia sia con l’essere umano, sia con la <strong>natura</strong>. Heidegger, peresempio, afferma che in epoche più sagge, come la grecità pre-socratica, latechné stringeva uno stretto legame con la physis e non costituiva in alcunmodo un pericolo per l’ambiente. Le differenze con l’attualità sono palesi:la terra si disvela ora come bacino carbonifero, il suolo come riserva di minerali.In modo diverso appare il terreno che il contadino coltivava, quando coltivarevoleva ancora dire accudire e curare. 189La nostra capacità ci sarebbe perciò sfuggita di mano e avrebbe finitocon l’accecare il nostro sguardo. Secondo Heidegger l’uomo di oggi guarda la<strong>natura</strong> con gli occhi del costruttore, dell’ingegnere; proprio come l’artigianodell’antichità osservava un pezzo di legno e scorgeva già in esso le formedell’utensile da realizzare. La tecnica moderna avrebbe, a suo dire, avvoltol’essenza dell’uomo diventandone il destino ineludibile, ovvero un’entità con laquale dover fare i conti e a cui sottrarsi risulta impossibile. In ultima analisi lasua essenza, cioè l’accettazione dell’oblio dell’essere, viene fatta coinciderecon l’essenza stessa della metafisica. Il pensiero Occidentale, iniziato in Grecia187 Volendo trovare l’essenza della tecnica, Heidegger si imbatte nell’atto di “produzione”. Come è solitofare compie un’analisi della parola e del suo significato, descrivendolo come un “far venire alla presenzaciò che ancora non è presente”. La tecnica è quindi in ultima analisi un disvelamento, poiché conducefuori dal nascondimento. Questo è appunto il significato che i greci attribuivano alla ἀλήθεια(disvelamento), che noi traduciamo anche con verità.188 M. Heidegger, La questione…, cit., p. 9.189 Ivi, p. 11.95


e giunto a suo compimento con il Nichilismo 190 , ha di fatto abbandonato l’uomoal proprio fato, lasciandolo alle prese con un paralizzante senso dispaesamento. È questo che Heidegger intende quando parla di “imposizione”come struttura ultima della techné, 191 cioè qualcosa di talmente potente dariuscire a governare l’uomo stesso, il quale s’illude soltanto di poterla usarecome suo strumento.Anche Jonas segue la suggestiva analisi heideggeriana sulla tecnologiamoderna, ma si sofferma soprattutto sull’idea di progresso che ne sta alla base.A suo avviso questo carattere progressivo è oramai diventato un tutt’uno con lanostra specie. La tecnica viene ora vista come una risorsa inesauribile, comeuna risposta a tutti i problemi e, in maniera quasi speculare, è considerata comel’immagine stessa dell’uomo, il simbolo della sua infinita potenza. Ciò che nederiva è una completa alterazione dell’idea che l’uomo ha di sé. Egli crede dilasciare il segno della propria presenza attraverso la creazione di una <strong>natura</strong>artificiale, ma ormai ha perso di vista ciò che realmente è. L’homo sapiens si ètalmente immedesimato con la propria arte specifica che riesce a vedersisoltanto come produttore di ciò che ha prodotto, come esecutore di ciò che puòeseguire e, soprattutto, come programmatore di ciò che sarà in grado di fare. 192La tecnica, trascendendo le idee di mezzo e di scopo, finirebbe conl’alimentare la vocazione umana verso la conquista della <strong>natura</strong>. 193 AncheJonas vede nel Nichilismo il vero cuore pulsante dell’intera scienza moderna,ma a differenza del maestro ne da una connotazione diversa. Il problema diquesta dottrina non sta più nel senso di profondo disorientamento nel qualelascia l’uomo, come se fosse stato gettato nel mondo e abbandonato; anzi èproprio il contrario. Ora l’uomo non è più gettato da nessuna parte, è come se190 Il Nichilismo è quella corrente di pensiero che, a partire dalla tarda modernità, tende a mettere indiscussione qualsiasi idea di finalità e di senso. Si nega perciò la possibilità di arrivare alla realtà ultimadelle cose, cioè la ricerca che aveva permesso la nascita della stessa filosofia nell’antica Grecia.Heidegger ritiene che esso sia iniziato la metafisica dei pensatori greci posteriori e sia giunto acompimento con Nietzsche, il quale non l’avrebbe quindi in alcun modo superato. L'essenza dellametafisica si manifesta infatti, secondo Heidegger, nella soppressione della differenza ontologica, acausa della quale l'essere viene considerato come un ente fra gli altri e dunque dell'essere stesso,letteralmente, "non ne è più ni-ente".191 M. Heidegger, La questione…, cit., p. 17.192 H. Jonas, Il principio…, cit., p. 14.193 Ivi, p. 212.96


isiedesse in una dimensione totalmente avulsa dalla <strong>natura</strong>. Questa potrebbeessere una possibile chiave di lettura per spiegare l’influenza della tecnologiasulla tendenza umana ad agire senza considerare adeguatamente leconseguenze.Ci sono tuttavia altre opinioni. Vittorio Hösle, ad esempio, purriconoscendo che il progresso possa costituire una temibile minaccia, crede chela questione non si possa ridurre soltanto a quest’unico aspetto. Secondoquest’autore, alla base dell’era tecnologica contemporanea vi è unasproporzione incredibile tra potere e saggezza: il potere è cresciuto in manieramolto superiore rispetto alla saggezza, che dovrebbe appunto mitigarne glieffetti negativi. 194 Se da una parte la techné è chiamata in causa come unpossibile colpevole dell’attuale crisi, dall’altra è vista come una risorsa in gradodi risollevare le sorti del nostro habitat. «Senza tecnica e senza economia nonsi potrà salvare l’ambiente»; 195 è questa la sentenza finale di Hösle. Vediamoqui riproporsi un tema già presente in Bacone, cioè l’ambiguità di fondo insitanel potenziale tecnologico. Esso dipenderebbe infatti dall’uso che l’uomo decidedi farne e, come nel mito di Dedalo, è in grado di porre rimedio ai suoi stessierrori.Anche Aldo Leopold ha un atteggiamento moderato nei confronti dellatecnica, pur ammettendo che «gli strumenti inventati dall’uomo gli hannopermesso di produrre (sugli equilibri della Terra) dei mutamenti di inauditaviolenza, rapidità e dimensione». 196 I portavoce dei movimenti ecologistiriformisti credono, infatti, che si possa fare un uso moralmente giusto dellatecnologia e che, proprio per questo, non vada rifiutata in toto. Da questo puntodi vista la tecnhé non sarebbe soltanto una gabbia d’acciaio che ha finito conl’intrappolarci all’interno dei suoi progetti, ma anche uno strumento chenasconde una possibilità di salvezza.A mio avviso si può trovare del vero in entrambe le posizioni esaminate,anche se nessuna delle due pare essere completamente soddisfacente.Sembra che Heidegger abbia ragione quando afferma che la tecnica è194 V. Hösle, <strong>Filosofia</strong> della crisi…, cit., p. 42.195 Ivi, p. 65.196 Antonio Zanetti, Produrre e consumare secondo <strong>natura</strong>, in la Piramide azzurra, cit., p. 108.97


diventata oggi il destino dell’uomo, anzi probabilmente lo è sempre stata. Forsel’indissolubile binomio che la nostra specie ha raggiunto con l’elemento tecnicoè nato in epoche remote, quando l’australopiteco, non ancora uomo, ha decisodi scendere dagli alberi e interagire con l’ambiente circostante. Penso si possaaffermare con certezza che lo sviluppo delle nostre capacità intellettive e ilprogresso tecnologico si siano accresciuti vicendevolmente, come due principicomplementari che si aiutano e alimentano. Vedo addirittura la tecnica allastregua di una “competenza di specie”, cioè qualcosa di non molto diverso dalsaper volare per un uccello o dal saper nuotare per un pesce.Risulta perciò difficile accettare una differenziazione qualitativa tra untipo di tecnhé antica e una più rivoluzionaria di stampo moderno. A mio parerel’homo habilis che cercava di creare pietre taglienti sbattendole contro il terreno,stava già utilizzando la logica alla base dell’attuale modificazione <strong>ambientale</strong>,soltanto su una scala molto più modesta. Ha poco senso affrontare una criticadella tecnica se essa viene considerata come un elemento separato da quelloumano, appunto come neutra strumentalità. Un’analisi della questione “tecnica”deve essere al tempo stesso un’analisi della questione “uomo” nel suocomplesso. Ecco perché merita di essere affrontata e discussa nell’ambito dellarevisione etica che si vedrà nella parte conclusiva.4.3 La responsabilitàQualsiasi analisi contemporanea sulla condotta dell’essere umano devepartire da un presupposto certo: l’intera biosfera va aggiunta al novero dellecose di cui bisogna essere responsabili. Questo punto dovrebbe esser in gradodi metter d’accordo le differenti dottrine ambientali. Infatti, sia che lo si condividaper fini utilitaristici, sia per un sentimento di profonda comunione con tutto ciòche ci circonda, quest’assunto rappresenta una delle massime priorità del XXIsecolo.Aldo Leopold, facendo ricorso ad una prospettiva dinamica e storica delladisciplina, fornisce una chiara spiegazione del perché l’etica debba espandersioltre gli originari confini. A suo avviso «un senso morale di ciò che è giusto oingiusto, è presente in ogni epoca; ciò che cambia è l’estensione del principio98


etico». 197 Se pensiamo alle cronache del Novecento, infatti, possiamo notarecome l’incremento dei benefici abbia interessato categorie sociali che inpassato ne erano prive. Nel corso dell’intera storia donne, schiavi e lavoratori,in seguito a vere e proprie battaglie sociali con la classe dirigente, hanno vistoriconoscere i propri diritti. Leopold individua perciò tre stadi etici fondamentaliche si succedono nel tempo, come a voler delineare un preciso processoevolutivo. Secondo questo punto di vista, infatti, all’evoluzione dell’uomo siaccompagnerebbe una congruente evoluzione dei valori morali. Il primo stadiorappresenta la nascita stessa del concetto di moralità, il quale viene applicato aisoli individui umani; il secondo stadio è quello che interessa i rapporti traindividui e società; infine, l’ultima fase, ancora da raggiungere, riguarda «ilrapporto dell’uomo con la terra, e gli animali e le piante che crescono su diessa». 198Certamente si sono compiuti numerosi passi avanti nel percorso diavvicinamento verso quest’ultimo punto, tuttavia è altrettanto palese che nonsia ancora stato fatto abbastanza. Tutti gli interventi politici, economici e socialinon potranno mai sortire gli effetti desiderati se non saranno fondati su duecondizioni necessarie: un vero riconoscimento etico nei confronti della <strong>natura</strong> eun’educazione ecologica su scala mondiale. È proprio questo che, in ultimaanalisi, possiamo recuperare dalla filosofia della vita elaborata da Hans Jonas.A tal proposito, analizzando le parti più importanti dei suoi studi di filosofiabiologica e di etica, emergono tre principali caratteristiche che dovrebberocontraddistinguere il codice morale contemporaneo.Innanzitutto la nuova etica dovrà esser strettamente connessa allaconoscenza del funzionamento della <strong>natura</strong>. Lo studio dei nessi che regolano ivari ecosistemi non dovrà più essere di competenza dei soli scienziatispecializzati ed è auspicabile che il dibattito ecologico si estenda e diventirealmente intersettoriale, coinvolgendo attivamente anche la filosofia. Comeafferma Jonas, nelle attuali condizioni, «il sapere diventa un dovere impellente[…] e deve corrispondere, in ordine di grandezza, alle dimensioni causali del197 M. Santini, Pensare…, cit., p. 32.198 Aldo Leopold, Almanacco di un mondo semplice, Red Edizioni, Como 1997, p. 163.99


nostro agire». 199 Conoscere come funziona il nostro pianeta è diventato oggitroppo importante, l’ignoranza non può più essere ammessa, né tantomenousata come scusa. Da questo punto di vista, l’educazione <strong>ambientale</strong> risultadeterminante soprattutto se effettuata sin dalla più tenera età. La divulgazioneinformativa sui problemi ecologici, poi, servirebbe a sensibilizzaremaggiormente la popolazione già adulta; per questo motivo dovrebbe esserfacilmente accessibile a tutti e più completa possibile. Soltanto raggiungendo inmaniera stabile questi prerequisiti, i piani di rivalutazione dell’ambiente,contenuti in alcuni programmi politici, potranno avere successo.Il secondo fattore fondamentale dell’etica che si sta ricercando è lapropensione verso il futuro; dovrà cioè essere un’etica del futuro. È statoripetuto più volte: gli effetti a lungo termine vanno equiparati, in grado diimportanza, agli effetti immediati. Non si può che esser d’accordo con Jonasquando scrive che sarà necessaria la messa a punto delle tecniche diprevisione e che dovranno essere privilegiate le ipotesi catastrofistiche rispettoa quelle più ottimistiche. Anche la paura può tornare utile per prevenire graviproblemi: siamo infatti in un’epoca in cui «ciò che va temuto non ha analogienell’esperienza passata e presente». 200 Ancora una volta la nostra specie dovràservirsi della sua capacità più sviluppata, quella che ne ha caratterizzato lasopravvivenza per millenni, ovvero fare previsioni sul futuro partendo dai datiempirici del presente.L’essere rivolta verso il futuro, poi, conferisce all’etica quello che forse èil suo attributo più importante: un particolare interesse verso le generazioni cheverranno. Tutti noi abbiamo eguale diritto a godere di un habitat in buonasalute, a maggior ragione ha lo stesso diritto chi ancora non c’è e che quindinon ha alcuna colpa sul peggioramento delle condizioni <strong>natura</strong>li. I nostri padriforse, non conoscendo fino in fondo i legami ecologici della Terra, hannospremuto il pianeta verso il suo limite; noi non possiamo permetterci dicommettere lo stesso errore.199 H. Jonas, Il principio…, cit., pp. 11-12.200 Ivi, p. 36.100


Poiché altri uomini verranno dopo di noi, la loro esistenza non richiesta conferiràloro […] il diritto di accusare noi progenitori di esser gli artefici della loro sventura,se noi, mediante un agire sconsiderato e non necessario, avremo pregiudicato aloro scapito il mondo oppure la costituzione umana. 201Ecco che siamo giunti all’individuazione di tre doveri essenziali dell’agireetico: il sapere, la coscienza dei possibili effetti a lungo termine e laresponsabilità verso le generazioni a venire. Tuttavia questi principi, puressendo facilmente comprensibili e condivisibili, raggiungono la loro efficaciasoltanto nell’applicazione pratica. Essi, secondo alcuni critici, vengono fondationtologicamente in maniera parziale. Così quella descritta da Jonas sarebbeun’etica che, nella sua essenza, ricadrebbe ancora sotto l’egidadell’antropocentrismo e dell’utilitarismo. Egli parte infatti dalla lucidaconsapevolezza della fragilità e precarietà della vita, per cui i dettami morali chericava servono innanzitutto come difesa nei suoi confronti. Ecco perché vieneriservata un’importante funzione alla cosiddetta “euristica della paura” 202 e i suoiprincipi cardini sfociano in concetti quali: “salvaguardia”, “conservazione” e“prevenzione”.La fondazione ontologica della sua dottrina morale, a ben vedere,riprende un finalismo di stampo prettamente aristotelico. È sì apprezzabile iltentativo di eludere il dualismo cartesiano, tentando di recuperare l’unità psicofisicadella <strong>natura</strong> dall’organismo vivente, tuttavia la sua etica viene elaboratasecondo una forma di essere orientato teleologicamente, e da ciò deriva i valorida proteggere. Jonas critica il credo scientifico che, sin dagli albori del XVIIsecolo, ha combattuto ogni spiegazione della <strong>natura</strong> che contenesse causefinali, favorendo in tal modo l’insorgere del pensiero meccanicista. 203 Egli vedenell’organicismo un baluardo al quale attaccarsi per difendere il principio dilibertà e di causalità finale, individuando nell’uomo la massima espressione di201 Ivi, pp. 51-52.202 Un'euristica è una regola empirica valida nella maggior parte dei casi, ma non in tutti, che convieneseguire; nel nostro caso, l'euristica della paura si configura come una massima pragmatica secondo laquale l'uomo dovrebbe sempre, nell'utilizzo dei mezzi tecnici, tenere un comportamento e formamentis fortemente prudenziali affinché la biosfera risulti preservata.203 H. Jonas, Organismo…, cit., p. 46.101


questa vocazione. In realtà, da un lato abbiamo l’uomo, che da sempre abituatoa ragionare secondo le categorie di causa-effetto e di finalità, cerca di trovareun senso anche nell’affermazione dell’eticità. Dall’altra parte abbiamo la nuda<strong>natura</strong>, della quale siamo un prodotto e nella quale, talvolta, le idee di causa efine lasciano il posto alla più incomprensibile caoticità.L’umanità e la vita stessa, che per Jonas hanno un valore intrinsecoderivante dal finalismo e dalla priorità ontologica riservata al “dover essere”piuttosto che al “non essere”, 204 sarebbe per altre teorie scientifiche il risultato diagenti in parte casuali. Come mostra il fisico Ilya Prigogine (1917-2003), nellavalutazione del ruolo di caso e necessità in <strong>natura</strong>, siamo ora meno sicuri che inpassato. Dallo studio degli ambienti <strong>natura</strong>li considerati come sistemi, infatti, èemerso come caso e necessità collaborerebbero invece di opporsi. 205 Non ècerto questa la sede opportuna per stabilire quale delle due posizioni siapreferibile scegliere. Si può però sottolineare che le caratteristiche etiche sopraelencate debbano valere anche nel caso la vita e la materia seguano una formadi radicale <strong>natura</strong>lismo 206 , senza cioè aver bisogno di un preciso fineall’orizzonte. La cura etica che si va ricercando deve essere in grado diprocedere al di là del concetto di scopo, deve esser capace di agire anche neiconfronti di ciò che potrebbe essere privo di ogni finalità. Bisogna dunquerecuperare un ultimo aspetto che sembra non essere presente nella filosofia diJonas, ovvero un punto di vista che tenga conto della vita in manieracomplessiva e che la reputi degna di una gestione improntata su criteri morali,anche se essa dovesse risultare un fenomeno contingente.4.4 L’etica della terraRispetto a Jonas, che affronta il problema etico-<strong>ambientale</strong> da un puntodi vista prettamente umano, possiamo trovare in Aldo Leopold un differenteapproccio alla disciplina. L’ecologo statunitense propone infatti un’originale204 H. Jonas, Il principio…, cit., pp. 58-59.205 J. Lovelock, Le nuove età…, cit., p. 216.206 Il <strong>natura</strong>lismo è quella dottrina secondo cui la realtà può essere compresa esclusivamente oprimariamente attraverso le leggi <strong>natura</strong>li, senza ricorrere a principi di ordine trascendente o spirituale.Esso può è per certi versi affine al materialismo e si dimostra in netto contrasto con ogni forma difinalismo teleologico.102


soluzione al dilemma della complessità proposto nei precedenti capitoli.Vediamo ora, nel dettaglio, in cosa consiste il suo contributo alla sfida etica cheabbiamo provato a raccogliere. Ciò che subito colpisce è la prospettiva da cuiha inizio la sua analisi: essa è situata a un livello più elevato rispetto a quellodel solo essere umano. Lo scopo primario è quello di superare la parzialità di unpunto di vista di specie, al fine di raggiungere una visione d’insieme che sia lapiù possibile onnicomprensiva. Un percorso etico di questo genere vienegiustificato e ritenuto doveroso, poiché l’uomo non è più considerato il fineultimo della <strong>natura</strong>, ma soltanto una singola parte di un sistema più complesso.Il presupposto da cui parte l’indagine di Leopold, infatti, è quello diconsiderare la Terra e le sue creature come un’unica comunità, nella quale ognimembro offre il proprio apporto affinché l’intero funzioni correttamente. Propriocome fa Lovelock nell’esposizione di Gaia, il mondo viene assimilato a unorganismo le cui parti sono in costante relazione. La rivalutazione dell’uomo, intale prospettiva, risulta totale: noi non siamo più né padroni, né inquilini, nétantomeno passeggeri dell’oikos terrestre; facciamo semplicemente parte diesso. 207 Lo stesso nome che Leopold conia per la sua teoria morale, etica dellaTerra (the Land ethic), suggerisce la volontà ricollocare l’essere umano nel piùampio sistema <strong>natura</strong>le, dove, forse, sono presenti forme di saggezza piùantiche e veritiere.Con Leopold, dunque, non si parla più di antropocentrismo, ma di“ecocentrismo”, cioè un’analisi il cui fulcro centrale è rappresentato proprio dallacomunità biotica nel suo insieme. Imparare a “pensare come una montagna” èl’enigmatica affermazione con cui l’autore rovescia definitivamentel’antropocentrismo e apre le porte verso una nuova forma di sentimento etico.L’ecologo statunitense eleva la montagna a simbolo di un rinnovato, e allostesso tempo antico, modo di intendere le cose: essa rappresenta l’idea di<strong>natura</strong> selvaggia che oramai l’uomo moderno non possiede più dentro di sé. Lasua maestosità diventa il simbolo della forza ancestrale e dei remoti istinti che cihanno preceduto, ma che ancora sono presenti nel cuore pulsante della <strong>natura</strong>.La montagna è portavoce, contemporaneamente, dell’amore e della crudeltà207 J. Lovelck, Le nuove età…, cit., p. 235 .103


che quotidianamente si compenetrano nello stato di <strong>natura</strong>, ovvero dell’insiemedegli stratagemmi che hanno come unico fine quello il persistere della vitastessa. 208 Pensare come una montagna significa appunto distogliere lo sguardodalle esigenze delle singole specie, spostando «l’attenzione sull’ambiente econsiderarlo come un valore in sé». 209La comunità biotica, al centro del progetto leopoldiano, è il risultato, oltreche di profondi convincimenti personali, anche di veri e propri dati scientifici.Nell’osservare la disposizione della <strong>natura</strong>, lo scienziato americano scoprecome essa segua sempre un ordine ben preciso. Egli trae dalla scienzaecologica quelle conoscenze che gli permettono di osservare l’armoniosofunzionamento della <strong>natura</strong> e dei suoi vincoli. In quasi tutte le sue opere, infatti,si possono osservare minuziose descrizioni relative alla collaborazione tra idiversi ecosistemi, su come ogni cosa possegga un posto determinato nelmondo. Ecco soltanto un esempio di ciò che si sta tentando di spiegare:le piante assorbono energia dal sole. L’energia fluisce attraverso un circuito dettobiota, che può essere rappresentato come una piramide di diversi strati. Lo stratodi base è il suolo: su questo poggia lo strato delle piante, poi quello degli insetti,degli uccelli, dei roditori e così via, fino allo strato più alto, formato dai grossicarnivori. Le specie di uno strato sono simili tra loro non per le origini comuni oper l’aspetto, ma per ciò che mangiano. Ogni strato dipende da quelli inferiori […]e ciascuno, a sua volta, fornisce cibo e prestazioni a quelli superiori. […] Ognispecie, inclusa la nostra, è un anello di molte catene. 210Questo quadro concettuale, nonostante le chiare influenze scientifiche,rappresenta il vero nucleo dell’etica leopoldiana. Flussi di energia e catenealimentari sono soltanto due tra i tanti fenomeni che permettono di collegare leparti del “sistema <strong>natura</strong>” e di fornire una visione d’insieme dell’intera comunitàin funzione. L’uomo, che nella disamina di Leopold ricopre una posizione quasiintermedia, viene in questo modo ricollegato alla sua terra e indissolubilmente208 A. Leopold, Almanacco…, cit., pp. 115-117.209 M. Santini, Pensare…, cit., p. 23.210 A. Leopold, Almanacco…, cit., p. 175.104


connesso agli altri esseri. In questo senso vivere significa anche convivere conaltri “compagni di viaggio” e condividere con essi l’oikos comune.La novità introdotta da quest’autore è proprio quella di considerare l’eticasia evento filosofico che un fattore ecologico. Egli ne dà infatti una duplicedefinizione: «dal punto di vista ecologico l’etica è una limitazione della libertàd’azione nella lotta per l’esistenza; dal punto di vista filosofico, invece, è ladifferenziazione di una condotta sociale da una antisociale». 211 Entrambe lespiegazioni, tuttavia, poggiano su un unico assunto di base, ossia la generaletendenza degli individui ad associarsi in gruppi, in vista di una cooperazione piùfruttuosa. Questo elemento, presente anche nella scienza ecologica, vienericonosciuto con il nome di “simbiosi” 212 ed è considerato il fondamento di ognidottrina etica. Anzi, secondo Leopold possiamo leggere l’intera storia umanasotto la lente d’ingrandimento dell’ecologia, persino la politica e l’economiapossono essere considerate forme avanzate di simbiosi, nelle quali «l’originariacompetizione del tipo “ognuno per sé” è stata sostituita, in parte, daimeccanismi di cooperazione a contenuto etico». 213L’etica, pur rimanendo una competenza tipica dell’essere umano, risultain questo modo assai più vicina al resto del creato, il quale non viene piùescluso a priori e considerato come un fattore extra-umano. La linea di condottamorale, volta a reprimere gran parte degli istinti insiti nell’uomo, potrebbe esserconsiderata, a sua volta, una forma d’istinto comunitario in via di formazione.L’etica risponde in primo luogo all’esigenza di preservare le comunità umane,non è quindi da escludere che, se si iniziasse a considerare l’intero pianetacome parte della nostra comunità, in futuro possano nascere in maniera quasispontanea attenzioni e sentimenti di protezione verso di esso.Non bisogna però fraintendere il pensiero di Leopold. Egli non vuoleassolutamente ridurre l’uomo a mero spettatore o controllore di regolari attivitàe flussi <strong>natura</strong>li. Sa bene che l’uomo ha da sempre operato modificazioni di211 Ivi, p. 163.212 Per simbiosi in ecologia si intende in generale una qualsiasi interazione tra organismi. Tuttavia, si fapiù spesso riferimento ad un'interazione biologica piuttosto intima, di lungo termine, fra due o piùorganismi. Ecco perché Leopold può interpretare anche le società umane attraverso questo concetto;dal punto di vista ecologico, infatti, si tratta di un procedimento corretto.213 A. Leopold, Almanacco…, cit., p. 164.105


vario genere sul territorio e che ciò fa parte del suo stesso essere. Anzi,allargando il discorso, si può notare come «ogni specie, in grado più o menoelevato, modifica il proprio ambiente per ottimizzare il proprio tasso disviluppo». 214 Ciò che differenzia realmente l’uomo dalle altre specie è la rapiditàcon cui può provocare profondi cambiamenti. In tempi brevissimi siamo riusciti asconvolgere biomi vecchi di millenni. Noi sappiamo che il nostro pianeta è ingrado di sopperire alle turbolenze che di volta in volta attraversa; tuttavia, i suoitempi di recupero sono estremamente più lenti rispetto agli effetti dell’operositàdell’uomo moderno. Non possiamo permettere che la comunità biotica ritrovi unnuovo punto di equilibrio a discapito di una minor biodiversità. Se così fosseavremmo eticamente fallito, poiché impediremmo alla vita la possibilità diesprimersi in più forme possibili.A tal fine, ciò che possiamo fare è limitare al massimo tutte quelle azionidettate dall’opportunismo del momento o dalla sola volontà di trarre unvantaggio immediato, senza una ponderata riflessione sulle influenze che sipossono riversare sul sistema. Per Jonas la scelta delle nostre azioni è ancoraun fatto prettamente umano, poiché non possiamo mettere in gioco la qualitàdella vita e gli interessi di altre persone; per Leopold, invece, l’ambito dell’agiresubisce una forte dipendenza dal mondo <strong>natura</strong>le. Un’azione giusta edeticamente condivisibile è quella che intacca il meno possibile l’integrità, lastabilità e la bellezza della comunità biotica; cioè che concorre, come fanno delresto tutti gli altri viventi, a mantenere “in salute” l’organismo terrestre. 215Dobbiamo perciò invertire la tendenza attuale e imparare ad “amare” la terragrazie alla quale viviamo, poiché non si è mai verificato nessun mutamentoetico rilevante senza che prima vi fosse un relativo mutamento interiore di tipomentale, sia nel singolo, sia nella collettività.Preservare il più possibile lo stato di cose all’interno del quale noi e inostri “compagni” ci siamo evoluti diventa, con quest’autore, un valore assolutoe a sé stante. Così come lo diventano anche il rispetto nei confronti delle altreforme di vita e la consapevolezza di condividere con esse un sentimento di214 J. Lovelock, Gaia, cit., p. 153.215 A. Zanetti, Produrre…, cit., p. 77.106


appartenenza verso un qualcosa comune a tutti. In ultima analisi «laconservazione della <strong>natura</strong> è una condizione di armonia tra gli uomini e laterra», 216 la quale, tuttavia, non si deve scordare del lato apparentementeirrazionale, selvaggio e caotico dell’elemento <strong>natura</strong>le.4.5 Thoreau e la <strong>natura</strong> selvaggiaVorrei terminare quest’ultimo capitolo con un breve cenno all’opera di unprecursore dell’ecologia e della filosofia <strong>ambientale</strong>, Henry David Thoreau.Questo pensatore incarna, in maniera esemplare, il sentimento di comunionecon la <strong>natura</strong> che si sta ricercando dall’inizio di questo lavoro. Egli rappresentauna chiara testimonianza di come si possa rifiutare la cultura del dominio,facendo appello a un approccio verso la <strong>natura</strong> più sano, empatico e rispettoso.Si sta parlando di un personaggio vissuto nell’Ottocento, ma già pienamenteimmerso nelle problematiche che inquietano il secolo attuale. La critica verso ilnascente industrialismo e l’eccessiva oppressione esercitata dalla societàcapitalistica, sono infatti aspetti più che mai attuali. Inoltre, la convinzione chel’uomo ritrovi sé stesso soltanto nella <strong>natura</strong> selvaggia, apre a nuovi spunti diriflessione e mostra tutta la lungimiranza di quest’autore.L’originalità del pensiero di Thoreau consiste, soprattutto, nell’armoniosafusione tra interessi tipicamente scientifici e una visione filosofica di derivazionetrascendentale. La sua città natale, Concord, era difatti uno dei centri propulsoridel cosiddetto “trascendentalismo americano”, un movimento che si rifacevaessenzialmente alle intuizioni di Schelling e le applicava al contestostatunitense che, a quei tempi, appariva in costante divenire. La <strong>natura</strong>,secondo tale orientamento di pensiero, non era affatto un’entità estranea eostile all’uomo; non appariva nemmeno come una selvaggia bestia da domare ouno sterile oggetto da analizzare. Come sostengono anche odierne teoriescientifiche, essa era considerata in profonda simbiosi con l’elemento umano. 217Secondo il punto di vista trascendentalista, l’uomo simboleggiava la partedi <strong>natura</strong> che si rendeva consapevole di sé e che, arrivando a un superiore216 A. Leopold, Almanacco…, cit., p. 159.217 L. Battaglia, Alle origini…, cit. p. 130.107


livello spirituale, riusciva a “riconoscersi” in una singolarità autonoma. Allostesso modo, però, era capace di aver conoscenza di tutti gli altri enti ecostituiva uno snodo fondamentale all’interno della realtà organica. Comescritto da Ralph Waldo Emerson, «l’uomo porta il mondo nella propria testa […].La storia della <strong>natura</strong> è impressa nel suo cervello, egli è perciò il profeta e loscopritore dei suoi segreti». 218 La visione della <strong>natura</strong> risultava così contagiatada un sacralismo quasi religioso, anche se non venivano assolutamentetralasciati i nessi causali che ne derivavano. Sentimenti di mistico rispetto evolontà di conoscenza scientifica erano perciò situati sullo stesso piano. Inegual misura, le figure, un tempo contrapposte, del poeta e dello scienziato siriconciliavano in un singolo personaggio, che aveva come vocazione primariaquella di testimoniare il fenomeno della <strong>natura</strong> in atto.Thoreau era esattamente questo genere di uomo. La sua filosofia,orientata verso l’azione, non si limitava all’esplorazione dei meccanismi <strong>natura</strong>lio all’indagine delle forze vitali che animavano i cicli terrestri. Egli era il simbolodi questo movimento filosofico, poiché voleva, anzitutto, vivere la <strong>natura</strong> inprima persona e riuscire a diventare tutt’uno con essa. Ciò che vieneinsistentemente ricercato nelle sue opere è proprio il “trascendentale”, ciò checostituisce l’essenza intima dei fenomeni ed è capace di avvicinarsi alla veraanima del cosmo.Thoreau ravvisava nella società, e soprattutto nella scienza, una cronicaincapacità di osservare gli enti per ciò che realmente erano. La <strong>natura</strong> nonveniva ancora considerata come un agente attivo, e le relazioni che nepermettevano il funzionamento erano indagate con metodologie inadeguate.Mancava, e forse manca tuttora, la componente poetica che avrebbe potutopermettere alla scienza di percepire connessioni che spesso si celano tra lecose. Infatti, «lo scienziato che non ricerca l’espressione, ma solo un fatto daesporre semplicemente, studia la <strong>natura</strong> come fosse una lingua morta». 219 Egli,con il suo pensiero e con le sue scelte, volle testimoniare la possibilità didifferenti modi di vivere e, contemporaneamente, scrutare la <strong>natura</strong> da un218 Ralph Waldo Emerson, Natura e altri saggi, Rizzoli, Milano 1990, p. 49.219 Henry David Thoreau, Vita di uno scrittore (I Diari), Neri Pozza, Vicenza 1963, p. 168.108


osservatorio privilegiato: il suo interno. Come si può notare, anche se si tratta diuna critica vecchia di oltre un secolo, essa rimane applicabile all’attualesituazione.Allo stile di vita della società moderna, volto alla ricerca di una sempremaggiore opulenza, veniva contrapposta la semplicità, la sobrietà e l’innocenzadi una vita condotta seguendo i ritmi della Terra. L’analisi della <strong>natura</strong> e leimplicazioni morali che ne conseguivano erano quanto di più semplice sipotesse immaginare. L’accettazione di tutto ciò che era conforme ai processi<strong>natura</strong>li muoveva serenamente il pensiero di quest’autore e lo portava allastesura di un’etica attiva, che non si limitava alla sola produzione di regole enormative. Come lui stesso ha testimoniato in Walden, suo diarioautobiografico:volevo vivere profondamente […] e mettere la vita in un angolo, ridotta ai suoitermini più semplici; se si fosse rivelata meschina, volevo trarne tutta la genuinameschinità, e mostrarne al mondo la bassezza; se invece fosse apparsa sublime,volevo conoscerla con l’esperienza, e poterne dare un vero ragguaglio nella miaprossima digressione. 220La stoica ammissione della crudeltà che la <strong>natura</strong> poteva riservare allesue creature, si univa a una feroce critica verso una sua possibile letturateleologica, volta a giustificarne le apparenti incongruenze. Soltanto spogliandoogni singolo elemento di qualsiasi valore umano, sia esso economico,escatologico o teleologico, riusciremo a percepire le cose per ciò che realmentesono. Thoreau, in questo senso, è considerato un esteta della <strong>natura</strong>, unprofondo ammiratore del “quotidiano” e della bellezza che ogni ente <strong>natura</strong>lepossiede soltanto per il fatto di esistere. Sviluppando questa linea di pensiero,possiamo affermare che la <strong>natura</strong> non acquista maggior importanza soltanto segiunge a rappresentare un tramite in vista di una meta più alta. Essa ha già un“senso” e una dignità, indipendentemente da tutti gli schematismi mentali cheobbligano l’uomo a ragionare secondo le categorie di “scopo” e “finalità”. 221220 Henry David Thoreau, Walden, Rizzoli, Milano 2010, p. 153.221 L. Battaglia, Alle origini…, cit. p. 132.109


Aver sensibilità estetica verso la <strong>natura</strong> non significa soltantosensibilizzare la gente alla cura dell’ambiente o auspicare la nascita di unapparato legislativo per la sua salvaguardia. Ciò che in primis sta a cuore adautori come Thoreau o Leopold è proprio la riscoperta dell’armonia generaleche lega insieme ogni cosa. L’atto di riconoscersi all’interno del flusso <strong>natura</strong>leche guida gli istinti di ogni specie, veniva così identificato come modello di verabellezza. La società industriale andava superata; ha fatto perdere di vista ilsentimento di co-appartenenza con il creato e ha affievolito l’innata vocazione avivere in simbiosi con esso.Sembra proprio questo il senso delle lunghe passeggiate descritte a piùriprese da Thoreau, un’arte che aveva poco a che fare con il semplice eserciziofisico del camminare, ma che richiedeva una predisposizione mentale benprecisa. Vagabondare in campagna, o immersi nel sacro silenzio di un bosco, ècertamente un’esperienza che possiamo vivere anche nella nostra epoca.Seguendo l’esempio di Thoreau, anche noi riusciamo a sperimentare quellasorta di viaggio interiore e di ritorno a sé, fonte di vera rinascita personale. Lalibertà di spirito che si acquisisce in tali situazioni è difficilmente descrivibile aparole, è simile a quella del viandante che si dirige da un posto all’altro delglobo, senza una meta prestabilita. Questo esercizio è fondamentale perriavvicinarsi all’elemento <strong>natura</strong>le e limitare le nostre brame di possesso, aiutainfatti a «sentirsi a casa propria ovunque, pur non avendo casa da nessunaparte». 222 Lo scopo principale è quello di riuscire a vivere il “quotidiano”, liberarela mente da tutti gli inutili dettagli e affanni che la società civile spesso impone.Imparare a riconoscere l’essenzialità delle cose, inoltre, facilità il riconoscimentodell’intero oikos come casa comune a tutti i viventi e, in egual maniera, lo privadi ogni riferimento ad una proprietà esclusivamente umana.Quando Thoreau si recò sul lago Walden per viverci un paio d’anni, volleproprio compiere su di sé un’esperienza di questo genere, un pellegrinaggiointeriore, lontano da tutti, vicino alla sola <strong>natura</strong>. Quel che egli intesedimostrare, non era certo un completo rifiuto del consorzio civile, al quale poitornò, ma un riavvicinamento al più ampio ed esteso consorzio <strong>natura</strong>le. La222 Henry David Thoreau, Camminare, Mondadori, Milano 2012, p. 18.110


descrizione della sua abitazione, da questo punto di vista, rappresenta per noil’emblema del vero sentimento di vicinanza e co-appartenza con il proprioambiente:la mia casa era soltanto una difesa contro la pioggia, […] le pareti erano di rozzetavole di legno, segnate dal tempo e con ampie fessure, cosicché la mattina vifaceva freddo. […] Specialmente la mattina, quando le tavole erano gonfie dirugiada, […] immaginavo dovessero trasudare un dolce succo […]. Era unacapanna ariosa e senza intonaco, atta ad alloggiare un dio viaggiatore, e doveuna dea avrebbe potuto strascinare le vesti. 223Come si può facilmente notare, questa casa non era più il simbolo dellaproprietà privata dell’uomo e non era nemmeno il confine che divideva il suomondo da quello <strong>natura</strong>le. Tra la baracca dello scrittore statunitense e lavegetazione circostante vi era un continuum, poiché essa non raffigurava ciòche escludeva, ma, viceversa, ne era il tramite. 224 Thoreau volle cioè affermare,sia sul piano della teoria che su quello della prassi, l’unità intrinseca di tutta la<strong>natura</strong>.Pur essendo considerato, a ragione, un individualista e un fautore dellalibertà personale, sotto il profilo prettamente ecologico era ben conscio dellastruttura organica della realtà. Certamente, la spiccata propensioneall’individualismo non vien meno neppure in quest’ambito di ricerca. Possiamoinfatti rilevare sostanziali differenze rispetto ad altri ecologi. Per Leopold, adesempio, era l’organismo nel suo complesso ad avere la priorità assoluta,mentre con Thoreau si assisteva alla celebrazione delle singolarità checomponevano l’intero stesso. Tuttavia, nonostante le differenti impostazioni dipartenza, possiamo considerare Thoreau come uno dei veri precursori, all’attopratico, dell’etica della terra leopoldiana.Non è un caso se più volte viene sottolineata e ribadita l’importanzadell’aspetto pratico, poiché era proprio l’attività dell’uomo, la sua opera, aessere considerata la discriminante principale tra lui e le altre specie. Il lascito223 E. D. Thoreau, Walden, cit., p. 146.224 L. Battaglia, Alle origini…, cit. p. 145.111


dell’uomo sulla terra era, per il pensatore di Concord, frutto di un’espressionesingolare e irripetibile ma, allo stesso tempo, figlia di un’esperienza globale evissuta organicamente. 225 È proprio attraverso l’azione che l’essere umano,ente isolato per quel che riguarda l’identità personale, scopre di essere inrelazione con il tutto e può attingere alla vera conoscenza; cioè a quel tipo dicomprensione che «avviene attraverso la riscoperta di una unità originaria, incui l’uomo è parte della <strong>natura</strong>». 226225 Ivi, p. 158.226 Ivi, p. 163.112


ConclusioneQuello che Thoreau, Leopold e gli altri autori hanno cercato dicomunicare è, a mio avviso, la presenza di una speciale sensibilità cheaccompagna l’essere umano e lo rende, in qualche modo, unico tra i viventi.Tuttavia, questo particolare riconoscimento non lo pone né al di fuori né al disopra dell’insieme <strong>natura</strong>le, ma semplicemente al suo interno. Una volta chel’uomo avrà pienamente accolto il sentimento di comunanza verso il tutto,mettendo da parte ogni pretesa di dominio, nascerà in lui una spontaneaattenzione nei confronti del mondo <strong>natura</strong>le. Come sappiamo, oggi le cose nonstanno così. Si è messa in moto una lenta presa di coscienza, le personecominciano ad aver consapevolezza delle problematiche in atto, ma lo sforzomaggiore deve ancora essere compiuto. Non possiamo più pretendere dicostruire un pianeta a misura d’uomo; si è ormai capito quanto questo siadannoso, sia per le altre specie che per noi stessi. Quest’atteggiamento,purtroppo, è ancora quello dominante, come possiamo leggere in alcunisignificativi passi dell’Etica della Terra:tutti noi ci sforziamo di ottenere sicurezza, prosperità, comodità, longevità eimperturbabilità. I cervi si sforzano con le loro agili zampe, i vaccari con trappolee veleno, gli uomini di stato con la penna, la maggior parte di noi con macchinevoti e dollari, ma tutti mirano alla stessa cosa: vivere in pace. […] Una sicurezzaeccessiva – però – sembra che, a lungo andare, produca solo pericolo. 227Non è facile combattere l’istinto <strong>natura</strong>le, comune a tutti i viventi, che impone laricerca di condizioni sempre migliori, anche a discapito degli altri. Tuttavia,sembrerebbe essere questo il passo decisivo che, in futuro, potrebbe esserrichiesto. All’uomo, infatti, grazie alla sua particolare indole morale, non èassolutamente preclusa la possibilità di un cambiamento.In questo testo si è cercato di individuare le basi di un’etica che possamuoversi all’interno di una concezione organica del mondo, poiché la si ritienepiù idonea a descrivere la realtà e più atta a ricevere applicazioni di carattere227 A. Leopold, Almanacco…, cit., p. 117.113


etico. Il rapporto tra l’uomo e la <strong>natura</strong> è un tipo di relazione talmentecomplessa che non si ha certo la pretesa di averlo completamente chiarito.Possiamo comunque evidenziare l’atteggiamento morale che pare delinearsi inquesto lavoro. È apparsa inadeguata la proposta di Jonas, troppo incentratasulla figura dell’uomo e sulla logica aristotelica, e si è resa necessariaun’integrazione con posizioni orientante in senso più globale. Quel che sembraemergere, è un’azione morale dalla duplice direzione, che ribadisca alcontempo la vicinanza dell’uomo con il suo habitat e la sua singolare specificità.Da un lato si sente l’esigenza di seguire l’esempio impartito dalla “<strong>natura</strong>selvaggia”, l’ancora di salvezza nella quale Thoreau riponeva ogni speranza.Ascoltare la sua antica saggezza può senz’altro aiutare a ristabilire l’equilibrioche la nostra specie ha ormai alterato. D’altro canto, l’uomo non può nemmenosottrarsi completamente alla responsabilità che il suo status specifico comporta.Egli è l’unico vivente che può attuare riforme su scala mondiale. Diventa quasiun obbligo morale accrescere le conoscenze ecologiche e sfruttarle per cercaredi mantenere inalterata la ricchezza della vita. L’homo sapiens, infatti, ha lacapacità di esaminare le proprie azioni e di rivedere i propri comportamenti,laddove essi risultino fallaci. Sarebbe davvero un peccato non usufruire diquesta dote nella più grande sfida che abbia finora dovuto affrontare. Comeafferma Vittorio Hösle, la giusta predisposizione eticadev’esser basata su una riconciliazione dell’uomo con la <strong>natura</strong>; unariconciliazione che non neghi la soggettività in modo astratto, così come essa hanegato la <strong>natura</strong>, ma che la “superi” e che la riconduca, a un livello superiore,all’antica religiosità cosmica. 228L’uomo può essere, in ultima analisi, il depositario della cura nei confronti della<strong>natura</strong>, l’elemento che, una volta trovata l’armonia dentro di sé, si adoperi amantenerla anche all’esterno.228 V. Hösle, <strong>Filosofia</strong> della crisi…, cit., p. 169.114


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