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Modelli teorici e metodologici nella storia del diritto privato 4

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BONA FIDES<br />

109<br />

la tutela e la negotiorum gestio e alcune obligationes re contractae 33 ,e<br />

potendo riferirsi anche a rapporti atipici tutelati con un agere praescriptis<br />

verbis la cui intentio si riferisse a un oportere ex fide bona. In<br />

quest’ultimo caso, in particolare, ci si dovrebbe chiedere perché, nel<br />

lavoro compiuto dalla giurisprudenza per riconoscere una protezione<br />

ai contratti atipici, la bona fides non sia mai richiamata dai giuristi<br />

come criterio fondante 34 , e per quale ragione il rapporto (che si suppone)<br />

privilegiato tra buona fede e consenso non abbia condotto al<br />

riconoscimento di una immediata tutela ai contratti atipici, basata sul<br />

semplice consenso 35 .<br />

In realtà, tra la bona fides e il consenso non può esservi, in <strong>diritto</strong><br />

romano, alcun rapporto privilegiato. La concezione romana <strong>del</strong> contratto<br />

è infatti basata non sul consenso, ma sul vincolo obbligatorio: è<br />

contractus – ricevendo tutela in via di azione – non ogni pactum, ma<br />

solo l’accordo che cada in un oportere tipico, cosicché ai fini <strong>del</strong>l’identificazione<br />

<strong>del</strong>la categoria ‘contratto’ non rileva tanto la prestazione<br />

<strong>del</strong> consenso quanto l’obbligazione, la quale nasce non solo consensu,<br />

ma anche re, verbis o litteris 36 .<br />

33 Al riguardo, non mi sembra sufficiente sostenere che queste avrebbero avuto<br />

inizialmente una tutela estranea alla bona fides, mediante formulae in factum (TALA-<br />

MANCA, La bona fides, cit., 61 ss.), perché occorrerebbe comunque spiegare la ragione<br />

per cui, a un dato momento, si sia ritenuto di tutelare anche queste con formule<br />

ispirate al principio <strong>del</strong>la buona fede – ossia, secondo l’ipotesi qui criticata, al principio<br />

<strong>del</strong>la vincolatività <strong>del</strong>l’accordo – senza trasformare il rapporto in consensuale.<br />

Rispetto ad altri rapporti, e in generale sulla questione <strong>del</strong>l’elenco dei iudicia bonae<br />

fidei cfr. per tutti ID., Processo civile (<strong>diritto</strong> romano), in «ED», XXXVI, Milano, 1987,<br />

64 nt. 457.<br />

34 Lo riconosce lo stesso TALAMANCA, La bona fides, cit., 53 ss.<br />

35 Per superare questo ostacolo non basta affermare che il pretore e i giuristi<br />

avrebbero trovato <strong>nella</strong> tipicità contrattuale un limite alla portata <strong>del</strong> principio <strong>del</strong>la<br />

buona fede, non riconoscendo carattere vincolante a qualsiasi assetto d’interessi su<br />

cui fosse caduto l’accordo <strong>del</strong>le parti (TALAMANCA, La bona fides, cit., 66 s.), perché il<br />

punto è proprio questo: per quale motivo, disponendo di una categoria come la<br />

buona fede, capace di dar vita a un oportere che si sostiene nascerebbe dal solo consenso,<br />

la tipicità contrattuale avrebbe resisitito alla nascita di una categoria generale<br />

di contratto-accordo? Sul mio dissenso dall’ipotesi di una concezione labeoniana <strong>del</strong><br />

contratto (anche atipico) basata sul mero consenso cfr. FIORI, Contrahere in Labeone,<br />

cit.<br />

36 Cfr. anche infra, § 5.1.

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