DALLA DIAGNOSI ALLA RIABILITAZIONE: NOTE SULL’ITER FORMATIVO Valeria Tossichetti [1] Le pagine che seguiranno costituiscono l’esito <strong>del</strong>le attività elaborate nell’ambito <strong>del</strong>la sezione clinica di un Corso di Formazione, finanziato dalla Regione Marche ed organizzato dal Dipartimento <strong>del</strong>le Dipendenze <strong>del</strong>la Asl 7 di Ancona. Il Corso è stato istituito per la formazione degli operatori pubblici e privati impegnati nell’inserimento lavorativo di soggetti con problematiche di dipendenza. L’intero iter formativo si è svolto ad Ancona, in diverse sezioni, dal Dicembre ’98 all’Ottobre ’99. Una serie di problematiche emerse in itinere nella pratica quotidiana <strong>del</strong> lavoro di reinserimento, hanno motivato la consistente sezione clinica. Partendo dall’assunto che il lavoro non è una terapia né un modo di fare assistenza, ci siamo resi conto che il punto nodale <strong>del</strong> lavoro <strong>del</strong>l’altro e per l’altro, aveva a che fare con l’identità e con la capacità di relazione <strong>del</strong> soggetto. I sintomi, che spesso si presentavano, dopo qualche mese di avvenuto inserimento, ne costituivano la manifestazione più eclatante. L’apporto <strong>del</strong>lo Studium Cartello ha favorito una profonda riflessione teorica e metodologica, permettendo alternative innovative nella pratica clinica. Cito, ad esempio, la definizione diagnostica <strong>del</strong>la dipendenza da sostanze, non come classe a sé, ma come tentativo più radicale nella direzione di una possibilità di uscita «perversa» dalla patologia; definizione che arricchisce l’ipotesi di Cancrini, condivisa da un discreto numero di Servizi, sull’origine <strong>del</strong>la tossicodipendenza come tentativo, elusivo, di autoterapia da parte <strong>del</strong> soggetto, <strong>del</strong>la patologia sottostante – traumatica, nevrotica, psicotica, sociopatica. Un altro esempio, estremamente significativo, riguarda la visione <strong>del</strong>l’attività lavorativa come modo di mettere le «mani in pasta» sull’angoscia che ne consegue, un’angoscia che non va contenuta, ma lavorata. Allora, permettere l’inserimento di un soggetto considerato cronico, con terapia metadonica a lungo termine, non offre l’illusione bonaria che tutto vada bene, perché il soggetto sta lavorando, né avalla la connotazione ideologica, spesso contenuta nella teoria <strong>del</strong>la riduzione <strong>del</strong> danno, per la quale, non essendo pensabile un’ipotesi di recupero, ci si accontenta di limitare i danni sociali e sanitari. Ciò consente di parlare di cura, e quindi di possibilità di guarigione. Senza quest’ultima categoria rischiamo di creare nuove cronicità <strong>del</strong>l’utenza e dei servizi. Ulteriori spunti di riflessione riguardano la figura <strong>del</strong> tutor; le modalità di approccio terapeutico alle varie forme di «militanza» e di manipolazione di chi utilizza, o ha utilizzato, sostanze; il confronto diagnostico con le classificazioni nosografiche; la considerazione <strong>del</strong>la persona e <strong>del</strong> suo sviluppo. Ringrazio i docenti <strong>del</strong>lo Studium per lo spazio di pensiero stimolato e offerto e per la chiarezza <strong>del</strong>le risposte fornite. Come di chi, in quanto esistente, si pone e formula un suo giudizio, non livellandosi al pensiero prevalente. NOTE AL TESTO [1] Psicologo Dirigente, Asl 7, Ancona 10
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