10.06.2013 Views

L'IMPOSSIBILE CURA - 1999 - Società Amici del Pensiero

L'IMPOSSIBILE CURA - 1999 - Società Amici del Pensiero

L'IMPOSSIBILE CURA - 1999 - Società Amici del Pensiero

SHOW MORE
SHOW LESS

Create successful ePaper yourself

Turn your PDF publications into a flip-book with our unique Google optimized e-Paper software.

|<br />

AA.VV.<br />

L’IMPOSSIBILE <strong>CURA</strong><br />

Trattare la tossicodipendenza?<br />

a cura di<br />

M. Gabriella Pediconi e Carla Urbinati<br />

Presentazione di Giacomo B. Contri<br />

SEMINARI<br />

ANCONA<br />

|<br />

::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::<br />

e-book


L'ODIO E LA COLLERA<br />

CHI! GUARISCE: LA <strong>CURA</strong> POSSIBILE<br />

PREFAZIONE<br />

Giacomo B. Contri<br />

3<br />

The Tigers of Wrath are wiser<br />

than the Horses of Instruction.<br />

Le tigri <strong>del</strong>la collera sono più intelligenti<br />

dei cavalli <strong>del</strong>l’istruzione.<br />

William Blake<br />

Il titolo di questo libro L’impossibile cura non è deprimente, non nega la possibilità <strong>del</strong>la cura.<br />

Al contrario: la designa individuandone per differenza la via impossibile. Lo vedremo subito.<br />

Ma prima un breve richiamo in forma scolastica. Il concetto di cura è più ampio di quello di terapia,<br />

il cui concetto è quello che ricaviamo dalla medicina. Una terapia è un’azione diretta,<br />

rappresentabile come un segmento (o eventualmente una successione di segmenti) a freccia che va<br />

dal terapeuta, attivo, al paziente, passivo.<br />

Passivo anche quando poco dopo lo si rende attivo, ma solo nell’eseguire istruzioni, ed ecco i casi<br />

psicoterapeutici di ipnosi-comportamentismo-cognitivismo, e altri ancora. Che sono tuffi casi di<br />

istruzione senza preliminare iniziativa <strong>del</strong> soggetto. Il bambino che Cristo, poi Freud, apprezzava, è<br />

il bambino che prende iniziativa prima <strong>del</strong>l’istruzione, ossia che è già, in proprio, istruito e colto per<br />

sua quotidiana coltivazione <strong>del</strong>l’unica istruzione che abbia ricevuto senza scuola, quella nel<br />

principio di piacere, e come principio.<br />

Non cambia nulla, concettualmente, se il mezzo <strong>del</strong>la terapia è fisico medicina o psichico <br />

psicoterapia (ma cambia realmente: la medicina non è comando, la psicoterapia sì). Esiste una<br />

cura (la psicoanalisi) che, puramente e semplicemente, non è terapia né psicoterapia per il fatto che<br />

la sua azione è azione primaria <strong>del</strong> paziente, cui subentra come collaborazione l’azione <strong>del</strong> curante<br />

che con quello intrattiene un rapporto secondo una legge condivisa, che è la legge <strong>del</strong>la partnership<br />

per un fine di soddisfazione. Passare al regime <strong>del</strong>la soddisfazione: ecco la guarigione. La patologia<br />

è un regime di insoddisfazione. Il soggetto cambia regime: nuova Costituzione.<br />

È possibile trattare in via diretta i «tossici»? Tutti sanno che no, per primi i tossici stessi. Ma prima<br />

di parlare di loro, collochiamoli nella classe <strong>del</strong>le patologia incurabili per via diretta, cioè<br />

espropriamoli <strong>del</strong>l’idea dico di un’idea, non di un bene di essere una classe privilegiata: finché<br />

sono tossici, sono dei qualunque tra dei qualunque.<br />

Infatti non sono curabili direttamente nemmeno i <strong>del</strong>iranti, sopratutto se sono di specie paranoica:<br />

essi sostengono il loro <strong>del</strong>irio a muso duro.


Non lo sono gli anoressici, che brandiscono l’anoressia come un corpo contundente.<br />

Non lo sono gli omosessuali specialmente se gay, che addirittura ostentano il loro stato fino al<br />

pubblico pride.<br />

Non lo sono i querulomani, che con artefatta mitezza combattono la loro battaglia pseudogiuridica.<br />

Non lo sono i melanconici, di cui la querulomania è una variante.<br />

Neppure menziono la perversione, nelle sue forme piu diverse, che in tutti questi casi è di casa.<br />

Queste sottoclassi (ne ho dimenticata qualcuna? Rinvio la discussione sul cosiddetto «autismo»,<br />

intendo proprio quello infantile e precocissimo) militano la loro posizione, faccia a faccia, muro a<br />

muro, muso a muso, e duro (salvo miti apparenze). Il loro mo<strong>del</strong>lo è la militanza politica<br />

novecentesca (e chissà che questa non abbia imparato qualcosa, benché non tutto, da loro).<br />

Ricordate le ultime parole di Jago: «Da questo momento non dirò una sola parola».<br />

E all’occorrenza fino alla morte, cioè la morte stessa è brandita come arma <strong>del</strong>la medesima<br />

militanza. Vittoria <strong>del</strong>la morte, cui rispondeva già S. Paolo: «Dov’è o morte la tua vittoria?».<br />

In queste sottoclassi non si fa che azione diretta come unico principio, il principio <strong>del</strong>l’azione senza<br />

il verbo: che si oppone al terapeuta ossia a quello che pretende di curare con un’azione diretta: ecco<br />

il muso-a-muso, muro a muro. Ma lo psicoterapeuta se l’è andata a cercare.<br />

Chi e come è possibile curare? Partiamo dal chi, poi il come. È possibile curare chi...<br />

Quest’ultima frase è cominciata male, per i puntini che attenderebbero la definizione di un oggetto.<br />

No: è possibile curare Chi! punto e esclamativo un soggetto non servo (significa: non causato<br />

da un comando). In ciò niente di arcano né di speculativo. Chi! è chi inizia, una persona... onesta,<br />

chi inizia una via. Onestà e iniziare coincidono.<br />

Quanto alla possibilità di una cura, Chi! inizia chiamando le sue cose con il loro nome, cioè<br />

riconoscendole per il fatto di dichiararle, confessarle, alle orecchie di un altro in grado di recepirle:<br />

sintomo insonnia, compulsione, bocca che si chiude o stomaco che vomita, corpo che si raffredda<br />

o si surriscalda senza meta... inibizione <strong>del</strong>l’azione possibile o <strong>del</strong> pensiero possibile, insomma<br />

<strong>del</strong> lavoro, salvo aprirsi solo all’azione maligna e sul pensiero come premeditazione di essa;<br />

angoscia, o l’affetto di un movimento deviato dalla sua meta da un ricatto menzognero sull’amore.<br />

Ossia almeno per un momento non fa più il tossico, il <strong>del</strong>irante, l’anoressico, l’omosessuale, il<br />

queruomane, il melanconico. Dice, e in prima persona. Non mente più sulle sue cose. Agisce sì ma<br />

bene, senza mentire, di cui l’omettere doloso è un caso particolare.<br />

Ma non tutte le omissioni sono dolose, come ben sa la collera silenziosa <strong>del</strong> bambino che ha pagato<br />

nella sua pelle l’offesa alla sua sincerità ingenua e mal ripagata.<br />

Inibizione, sintomo, angoscia: riconoscendoli il soggetto si riconosce con una parola ottocentesca<br />

«nevrotico», cioè curabile perché è qualcuno che si difende ancora, benché inefficacemente. Ecco<br />

ciò che significa che la psicoanalisi cura solo le nevrosi; significa che anche il tossicomane, lo<br />

psicotico eccetera può riconoscere la sua nevrosi (= la triade: inibizione-sintomo-angoscia), e<br />

dunque iniziare ad avere cura di sé per mezzo di un altro.<br />

Ora il come. Il come va derivato dal Chi! Ha iniziato, che continui. Come il Parlamento «ne ha<br />

facoltà», purché la dichiari a qualcuno capace di riconoscerla. È questa capacità di riconoscimento a<br />

fare lo psicoanalista. E poiché, dopo iniziato, ne ha facoltà, che continui nella rigenerazione <strong>del</strong>la<br />

facoltà. Ha iniziato nella buona via poi negata dalla patologia inaugurata da un «trauma» offensivo<br />

<strong>del</strong>la facoltà stessa: che continui, anche se ancora è nelle peste e nelle peste <strong>del</strong>la psicopatologia.<br />

Il tossicomane, come quelli <strong>del</strong>le altre specie, agisce come missionario <strong>del</strong>l’impotenza, a partire<br />

dalla sua. Resta nell’odio come soluzione o fine agito: senza il sostegno <strong>del</strong>l’azione <strong>del</strong> soggetto<br />

la patologia non esisterebbe invece di rammentare la sua giusta collera come mezzo. Nel primo si<br />

allea al suo offensore, con la seconda si difende e difende un principio che è di moralità: il principio<br />

di piacere, o di soddisfazione, che significa conclusione, portare a buon e logico fine.<br />

Ciò che chiamiamo «psicoanalisi» è una legge di pace che propone di rinunciare all’odio ma non<br />

alla collera: fino a rendere questa non più necessaria, e ormai coatta nella nevrosi, ma contingente,<br />

quella sollecitabile da un nuovo evento offensivo perché venga giudicato senza più insulto per il<br />

4


soggetto. Non l’odio che ferisce ma la collera che giudica senza condanna, che risolve la sanzione<br />

nel giudizio ossia chiama le cose con il loro nome.<br />

Questo, sia detto di passaggio, è secondo me anche il concetto di Ultimo giudizio: in cui non si<br />

manda nessuno all’inferno, ma vi si lascia chi proprio ci vuole restare. Noi ci occupiamo,<br />

modestamente, <strong>del</strong> penultimo.<br />

TEMI<br />

Chi<br />

Cura<br />

Guarigione<br />

Incurabili<br />

Militanza<br />

Odio<br />

Psicoanalisi<br />

Psicoterapia<br />

Psicopatologia<br />

Tossicodipendenza<br />

5


SI CONSEGNA<br />

REO NON CONFESSO<br />

Introduzione<br />

Maria Gabriella Pediconi<br />

Ha qualcosa di eccezionale la notizia di qualcuno che si costituisce davanti alla giustizia per confessare sua<br />

sponte un <strong>del</strong>itto commesso. Chi lo fa sa cosa lo aspetta: reo confesso. Un caso di imputabilità.<br />

L’ipotesi è che si diano casi in cui il reo si consegni senza che sia confesso, mancandogli altresì sapere e<br />

volere. Un caso di assenza di imputabilità.<br />

Il tossicodipendente si consegna.<br />

Una volta al gruppo dei pari: non solo perché coetanei, ma per essere «tutti sulla stessa barca», anzi zattera,<br />

<strong>del</strong>l’adolescenza.<br />

Poi, dopo, ancora al gruppo dei pari, questa volta appaiati dal «ci siamo passati e ti possiamo capire» certe<br />

sabbie mobili <strong>del</strong>l’auto-aiuto. Una consegna mal-messa che non aiuta a riaprire le danze, piuttosto è l’ultimo<br />

atto e serve per chiuderle. Per sempre ex.<br />

Tossicodipendenza, adolescenza. Non si tratta appena di un legame storico, ontogenetico, c’è legame<br />

programmatico. La tossicodipendenza si regge sulla teoria <strong>del</strong>l’adolescenza, costruzione individuale e<br />

culturale che mina lo statuto legale <strong>del</strong>le proprie relazioni costituzionali. Il dubbio è ormai sistematico, la<br />

crisi fa da specchio alla decisione già e non ancora presa di non-sapere-più. Si sa… solo… dipendere… dalla<br />

sostanza-gruppo-programma-vissuti…<br />

«Nelle dinamiche gruppali il paziente (tossicodipendente) ritrova e può riprodurre gli schemi familiari (…)<br />

una madre simbiotica e un padre assente (…)». [1] Fonte melanconica <strong>del</strong> masochismo, istituzionalizzata.<br />

Chi direbbe oggi che la tossicodipendenza non esiste?<br />

Se esiste la tossicodipendenza i tossicodipendenti possono stare tranquilli: avranno ciò che è nei loro diritti.<br />

Il concetto di tossicodipendenza fa diritto, crea un nuovo gruppo sociale e gli assegna una nuova funzione.<br />

Alla tossicodipendenza si viene iniziati e si tratta di uno dei casi di smentita <strong>del</strong>l’inizio, <strong>del</strong>la possibilità<br />

stessa di iniziare. Talmente è banale la prima volta «vuoi provare?» che si perde nella notte dei tempi.<br />

Quella prima volta ha appena fatto inizio per essere subito fissata nella/dalla sua coltivazione, ossia la sua<br />

cultura, l’idea che ci sia una tossico-dipendenza, che l’individuo possa consegnarsi a una sostanza.<br />

Se di dipendenza si tratta è da una cultura, da una psicologia, da un pensiero che è tossico, ingannatore,<br />

prima di «farsi».<br />

M. Gabriella Pediconi<br />

Urbino, Maggio 2001<br />

7


UN LAVORO IN CORSO<br />

Introduzione<br />

Carla Urbinati<br />

Questo testo raccoglie le lezioni <strong>del</strong> modulo clinico <strong>del</strong> seminario dal titolo Curarsi di relazioni e curare<br />

attraverso le relazioni tenutosi ad Ancona nel <strong>1999</strong>.<br />

Nato dal dialogo e dal lavoro di cura di pazienti tossicodipendenti condivisi con la Dott.ssa Valeria<br />

Tossichetti, questo seminario è stato proposto a colleghi dei servizi pubblici e privati impegnati a vario titolo<br />

nella cura. La conoscenza e la stima per lo Studium Cartello hanno orientato l’invito ai docenti di questa<br />

scuola, che ringrazio per la generosa e preziosa disponibilità.<br />

Le lezioni e le supervisioni in cui si è articolato il lavoro seminariale hanno offerto una feconda opportunità<br />

di confronto tra le idee e la pratica clinica dei partecipanti e il pensiero elaborato dallo Studium Cartello.<br />

Il gradimento suscitato in alcuni da quest’opportunità ha fatto di tale iniziativa un’introduzione ad altri<br />

momenti di lavoro ancora in corso in compagnia <strong>del</strong>lo Studium Cartello: il seminario <strong>1999</strong>-2000 dal<br />

titolo Il pensiero <strong>del</strong> bambino e il pensiero <strong>del</strong>l’adulto. Dalla psicologia alla psicopatologia e il seminario<br />

2000-2001 dal titolo Dalle cure <strong>del</strong>l’inizio all’inizio <strong>del</strong>la cura. Verso una scienza <strong>del</strong>la psicopatologia.<br />

Carla Urbinati<br />

Ancona, Maggio 2001<br />

NOTE AL TESTO<br />

[1] La citazione è tratta da un articolo di Mario degli Stefani e Mauro Cibin dal titolo Droga, farmaco e<br />

gruppo, comparso sulla rivista «Argonauti» n. 84 di marzo 2000. Esso viene citato come rappresentante <strong>del</strong>la<br />

stretta corrispondenza tra discorso scientifico sulla tossicodipendenza, sapiente, esperto, e discorso profano,<br />

comune.<br />

[2] Il tossicodipendente è cambiato, lo dicono gli esperti, lo documenta la cronaca. Ma di cosa ci-si vuole<br />

convincere? Vogliono convincerci, il tossicodipendente esiste quindi hanno ragione gli investimenti che<br />

avvalorano interventi di sostegno, assistenza e prevenzione, hanno ragione gli esperti.<br />

TEMI<br />

Adolescenza<br />

Dipendenza<br />

Imputabilità<br />

Tossicodipendenza<br />

8


DALLA DIAGNOSI ALLA RIABILITAZIONE:<br />

NOTE SULL’ITER FORMATIVO<br />

Valeria Tossichetti [1]<br />

Le pagine che seguiranno costituiscono l’esito <strong>del</strong>le attività elaborate nell’ambito <strong>del</strong>la sezione clinica di un<br />

Corso di Formazione, finanziato dalla Regione Marche ed organizzato dal Dipartimento <strong>del</strong>le Dipendenze<br />

<strong>del</strong>la Asl 7 di Ancona.<br />

Il Corso è stato istituito per la formazione degli operatori pubblici e privati impegnati nell’inserimento<br />

lavorativo di soggetti con problematiche di dipendenza.<br />

L’intero iter formativo si è svolto ad Ancona, in diverse sezioni, dal Dicembre ’98 all’Ottobre ’99.<br />

Una serie di problematiche emerse in itinere nella pratica quotidiana <strong>del</strong> lavoro di reinserimento, hanno<br />

motivato la consistente sezione clinica.<br />

Partendo dall’assunto che il lavoro non è una terapia né un modo di fare assistenza, ci siamo resi conto che il<br />

punto nodale <strong>del</strong> lavoro <strong>del</strong>l’altro e per l’altro, aveva a che fare con l’identità e con la capacità di relazione<br />

<strong>del</strong> soggetto.<br />

I sintomi, che spesso si presentavano, dopo qualche mese di avvenuto inserimento, ne costituivano la<br />

manifestazione più eclatante.<br />

L’apporto <strong>del</strong>lo Studium Cartello ha favorito una profonda riflessione teorica e metodologica, permettendo<br />

alternative innovative nella pratica clinica.<br />

Cito, ad esempio, la definizione diagnostica <strong>del</strong>la dipendenza da sostanze, non come classe a sé, ma come<br />

tentativo più radicale nella direzione di una possibilità di uscita «perversa» dalla patologia; definizione che<br />

arricchisce l’ipotesi di Cancrini, condivisa da un discreto numero di Servizi, sull’origine <strong>del</strong>la<br />

tossicodipendenza come tentativo, elusivo, di autoterapia da parte <strong>del</strong> soggetto, <strong>del</strong>la patologia sottostante –<br />

traumatica, nevrotica, psicotica, sociopatica.<br />

Un altro esempio, estremamente significativo, riguarda la visione <strong>del</strong>l’attività lavorativa come modo di<br />

mettere le «mani in pasta» sull’angoscia che ne consegue, un’angoscia che non va contenuta, ma lavorata.<br />

Allora, permettere l’inserimento di un soggetto considerato cronico, con terapia metadonica a lungo termine,<br />

non offre l’illusione bonaria che tutto vada bene, perché il soggetto sta lavorando, né avalla la connotazione<br />

ideologica, spesso contenuta nella teoria <strong>del</strong>la riduzione <strong>del</strong> danno, per la quale, non essendo pensabile<br />

un’ipotesi di recupero, ci si accontenta di limitare i danni sociali e sanitari.<br />

Ciò consente di parlare di cura, e quindi di possibilità di guarigione. Senza quest’ultima categoria rischiamo<br />

di creare nuove cronicità <strong>del</strong>l’utenza e dei servizi.<br />

Ulteriori spunti di riflessione riguardano la figura <strong>del</strong> tutor; le modalità di approccio terapeutico alle varie<br />

forme di «militanza» e di manipolazione di chi utilizza, o ha utilizzato, sostanze; il confronto diagnostico con<br />

le classificazioni nosografiche; la considerazione <strong>del</strong>la persona e <strong>del</strong> suo sviluppo.<br />

Ringrazio i docenti <strong>del</strong>lo Studium per lo spazio di pensiero stimolato e offerto e per la chiarezza <strong>del</strong>le<br />

risposte fornite. Come di chi, in quanto esistente, si pone e formula un suo giudizio, non livellandosi al<br />

pensiero prevalente.<br />

NOTE AL TESTO<br />

[1] Psicologo Dirigente, Asl 7, Ancona<br />

10


TEMI E AUTORI<br />

Tossicodipendenza<br />

11


Ancona, 23 Gennaio <strong>1999</strong><br />

ASPETTI INTRODUTTIVI AL LAVORO DI<br />

REINSERIMENTO E RIABILITAZIONE [1]<br />

Pietro R. Cavalleri<br />

1- LA RELAZIONE RAPPRESENTA IL PUNTO CRUCIALE<br />

DELL'ESPERIENZA UMANA E IL CANONE DELLA NORMA:<br />

LA RELAZIONE E' LA REALTA' NORMATIVA DELLA PSICHE<br />

Il tema <strong>del</strong>l’intervento si appunta sulla prima parte <strong>del</strong> titolo <strong>del</strong> Convegno: Curarsi di<br />

relazioni e curare attraverso la relazione. Questo titolo costituisce un’enunciazione e<br />

individua un programma «forte»: la relazione rappresenta il punto cruciale <strong>del</strong>l’esperienza<br />

umana, ben aldilà <strong>del</strong>la prospettiva «internazionale». È il parametro rispetto a cui è possibile<br />

definire e operare con un concetto di normalità che non sia puramente statistico: ogni<br />

patologia costituisce una deformazione <strong>del</strong>la relazione che il soggetto intrattiene con i propri<br />

altri.<br />

2- LA RELAZIONE PRESUPPONE CHE VI SIANO DUE GAMBE:<br />

SOGGETTO (S) E ALTRO (A)<br />

S: un individuo, dotato di una facoltà in grado di rappresentarsi la relazione, di pensarla,<br />

giudicarla, domandarla, desiderarla, investire energie, operare economicamente, lavorare per<br />

propiziarla. In altri termini, presuppone l’esistenza di un S che viva già aldilà<br />

<strong>del</strong>l’automatismo <strong>del</strong>la sola «natura», in cui accadono solo interazioni. Non siamo come le<br />

molecole di un gas chiuso nella bottiglia, soggette al moto browniano che ne determina gli<br />

scontri.<br />

Questa facoltà è anche eminentemente una facoltà giuridica: pensiero <strong>del</strong>le condizioni<br />

(legali) perché sia possibile stabilire una partnership.<br />

A: un altro individuo, un altro S che occupa un altro posto (A), una posizione dissimmetrica,<br />

un S il cui intervento comporti il beneficio <strong>del</strong>la relazione. Il dinamismo di domanda-offerta<br />

descrive un rapporto asimmetrico, perché ciò che ritorna al soggetto in virtù <strong>del</strong> suo lavoro<br />

di domanda non è il puro complemento di ciò che al domandante mancava, ma è il prodotto<br />

<strong>del</strong> lavoro di un altro soggetto, che a sua volta domanda di essere materia di nuovo lavoro di<br />

S.<br />

Abbiamo dunque le due gambe che possiamo rappresentare con le lettere S e A e con una<br />

12


prima fondamentale osservazione: il soggetto che occupa il posto di A non è un oggetto, ha<br />

uno statuto speciale inconfondibile e riconoscibile fin dall’inizio: vive anch’esso in un<br />

regime aldilà <strong>del</strong>la natura che non lo omologa in nessun momento alla categoria degli<br />

oggetti e non lo rende confondibile con essi.<br />

Il lemma «altro» non è un lemma utilizzato sistematicamente da Freud, tuttavia compare in<br />

almeno due passi, con un rilievo assolutamente significativo. Lo incontriamo per la prima<br />

volta in una lettera a Fliess [2] in cui Freud scrive:<br />

Sono infinitamente felice che tu mi conceda il dono di essere per me l’Altro […].<br />

Non riesco proprio a scrivere se non ho un pubblico…<br />

Con questa dichiarazione Freud testimonia che il moto (intellettuale, ma non solo) può<br />

avvenire solo qualora ne sia rintracciabile il compimento, la meta, in un altro reale al di<br />

fuori <strong>del</strong> soggetto.<br />

La seconda citazione compare nella pagina iniziale <strong>del</strong>lo scritto Psicologia <strong>del</strong>le masse e<br />

analisi <strong>del</strong>l’Io:<br />

Nella vita psichica <strong>del</strong> singolo l’altro è regolarmente presente […] e pertanto in<br />

quest’accezione più ampia ma indiscutibilmente legittima, la psicologia individuale<br />

è al tempo stesso, fin dall’inizio, psicologia sociale. [3]<br />

«Altro», allora, è il socius, il compagno, il terapon (da cui terapia e terapista): non si tratta<br />

di una «prospettiva <strong>del</strong> micro» (miscrosociale), al contrario: universale. Il socius è l’«uno<br />

per tutti», l’uno che rappresenta per il soggetto i tutti, senza comportare alcuna fissazione a<br />

un altro prefissato dalla natura.<br />

Che vi sia relazione tra S e A l’avvenimento <strong>del</strong>la relazione tra S e A costituisce dunque<br />

la realtà normativa <strong>del</strong>la psiche, l’accaduto e la legge che trasforma l’organismo biologico<br />

in corpo umano e che ne permette il moto.<br />

3- LA RELAZIONE È LA REALTÀ NORMATIVA DELLA PSICHE PERCHÉ È<br />

L’ACCADUTO PSICHICO DI SODDISFACIMENTO ORIGINARIO, ESPERITO<br />

DAL SOGGETTO PER L’INTERVENTO DI UN ALTRO REALE<br />

L’efficacia normativa propria <strong>del</strong>la relazione è data dall’essere in se stessa quell’accaduto<br />

psichico di soddisfacimento originario esperito dal soggetto per l’intervento di un altro<br />

reale. La virtù o potestà normativa di questo accaduto sta nel fatto che esso non è riducibile<br />

a un atto avvenuto una tantum, bensì può essere descritto come sequenza ripetuta di atti, in<br />

mancanza dei quali ne andrebbe <strong>del</strong>la stessa sopravvivenza biologica <strong>del</strong> soggetto.<br />

Potremmo dire che, in un tempo inizialissimo, tutto ciò che permette la prosecuzione <strong>del</strong>la<br />

vita biologica <strong>del</strong>l’individuo è da lui esperibile con il carattere di apporto soddisfacente<br />

(apporto che corrisponde al principio di piacere).<br />

Potremmo inoltre esprimere l’accadere <strong>del</strong>la norma attraverso una frase che individua<br />

quattro movimenti, la cui effettiva pensabilità individuale non è soggetta ad altra condizione<br />

che l’essere stati recettori dei primi atti di accudimento <strong>del</strong> corpo, in forza dei quali si è<br />

stabilita la realtà di psiche-e-soma: [4] «Allattandomi (), mia madre mi ha eccitato () al<br />

desiderio di agire () per riottenere soddisfazione per mezzo di un altro ()». La normalità è<br />

dunque l’efficacia <strong>del</strong> regime di domanda () e offerta (), con il circuito che domanda e<br />

offerta mettono in moto.<br />

13


Il fatto che il soggetto, passivamente, sia per così dire preso in un movimento che gli<br />

mostra la propria costituzione in quanto essere soddisfacibile solo per mezzo di un altro, è<br />

ciò che dà vigore legale a questo accaduto, ovvero lo rende legge vigente, la cui funzione<br />

sarà quella di permettere al soggetto la ripetizione, il riaccadere, non più solo passivo,<br />

<strong>del</strong>l’esperienza di soddisfazione.<br />

Quando parliamo di norma, dunque, mettiamo in risalto due caratteri che, presi dal lato <strong>del</strong><br />

soggetto, ne definiscono la posizione:<br />

il primo carattere definisce il soggetto in quanto passivo nei confronti <strong>del</strong>la norma: la<br />

norma è eteronoma, è posta dall’altro, è l’iniziativa, l’atto <strong>del</strong>l’altro;<br />

contemporaneamente, il secondo carattere lo definisce in quanto attivo nei confronti <strong>del</strong>la<br />

norma e questo è ciò che risulta di capitale importanza per seguire le vicissitudini<br />

successive, incluse le deformazioni che la psicopatologia ci mostrerà : l’atto <strong>del</strong>l’altro,<br />

causante il beneficio <strong>del</strong> soggetto, permette al pensiero di avviarsi come presa d’atto <strong>del</strong><br />

soddisfacimento e di proseguire come elaborazione attorno alle condizioni necessarie perché<br />

il soddisfacimento si ripeta.<br />

4- L'ATTO NORMALE ISTITUISCE IL SOGGETTO EVOCANDONE:<br />

4.1. LA FACOLTÀ DI GIUDICARE DELLA DESIDERABILITÀ DELL’APPORTO DELL’ALTRO<br />

4.2. LA FACOLTÀ DI PENSARE (ELABORARE) LE CONDIZIONI CHE FAVORIRANNO IL<br />

RIPETERSI DEL BENEFICIO SPERIMENTATO ATTRAVERSO LA RELAZIONE<br />

Se dunque possiamo considerare l’atto normativo nel suo coté passivo come istituente<br />

<strong>del</strong> soggetto (in quanto consiste in un accaduto che istituisce il soggetto come corpo<br />

pensante), in secondo luogo, ma nel medesimo tempo, dobbiamo riconoscerlo nel suo coté<br />

attivo come istituente una facoltà autonoma <strong>del</strong> soggetto: giudicante <strong>del</strong>la desiderabilità<br />

<strong>del</strong>l’apporto di A (è ciò che Freud ha chiamato «principio di piacere», in cui noi<br />

individuiamo la facoltà di un primo giudizio) e pensante (in quanto elaborante) le condizioni<br />

<strong>del</strong>la ripetibilità <strong>del</strong> beneficio. In questo senso possiamo qualificare il pensiero come<br />

normativo, ovvero operante per la statuizione <strong>del</strong>la norma che consenta il compimento<br />

pulsionale nel suo definitivo orientamento all’altro in quanto fonte <strong>del</strong> beneficio.<br />

Quando diciamo «beneficio» dovremmo infine avere chiaro che la parola rappresenta la<br />

formula contratta per indicare «beneficio derivante dalla relazione», non essendo<br />

rintracciabile, nel soggetto umano, alcuna altra forma di beneficio all’infuori di quella che<br />

egli stesso saprà costruire agendo la propria domanda nei confronti <strong>del</strong>l’altro, in modo tale<br />

che a un altro (di volta in volta uno <strong>del</strong>l’universo degli altri, escludendo ogni fissazione<br />

preconcetta a un altro predeterminato) risulti gradito corrispondervi. Non esiste<br />

soddisfacimento o beneficio «naturale» – nel senso di «istintuale» –, derivante al soggetto<br />

senza che egli compia questo lavoro, sia che lo compia in anticipo, per ottenere il piegarsi<br />

<strong>del</strong>l’altro alla sua domanda, sia che lo compia successivamente a un atto grazioso di<br />

qualsiasi altro nei suoi confronti: la soddisfazione <strong>del</strong> corpo presuppone e implica il<br />

pensiero <strong>del</strong>l’apporto <strong>del</strong>l’altro, e il lavoro <strong>del</strong> pensiero sulle condizioni <strong>del</strong>l’apporto<br />

14


<strong>del</strong>l’altro.<br />

5- NELLA PSICOPATOLOGIA:<br />

5.1. LA FACOLTÀ DI PENSIERO NON È ANNULLATA<br />

Che la facoltà di pensiero non sia annullata negli stati psicopatologici sembra oggi<br />

un’affermazione ovvia. L’apparente ovvietà è il segno di qualcosa che, circa un secolo fa, è<br />

accaduto nella cultura, dopo che Freud definì le produzioni sintomatiche come «intenzionali<br />

e dotate di senso». Affermare che il sintomo è dotato di senso significa riconoscere che nella<br />

patologia vi è un nucleo di ragione, anche nel senso corrente per cui si riconosce che<br />

qualcuno ha <strong>del</strong>le buone ragioni che ne sostengono pur sempre il comportamento. Già<br />

questo non è poco, ma l’affermazione risulta di portata ancor più radicale se seguiamo lo<br />

sviluppo freudiano e intendiamo correttamente la funzione <strong>del</strong>le produzioni sintomatiche.<br />

Esse non sono in primo luogo espressive <strong>del</strong> contenuto patologico, ma rappresentano <br />

almeno in nevrosi e psicosi un tentativo di guarigione posto in essere dal soggetto stesso<br />

in risposta all’insulto patologico. [5] Sono cioè un tentativo di ricostruzione di una norma<br />

che permetta di mantenere la possibilità di accedere alla relazione, dopo che un accadimento<br />

ha reso problematica la soddisfazione fino a quel momento collegata a essa.<br />

Il tentativo di guarigione non produce la guarigione come esito: se non dessimo il necessario<br />

rilievo alla distinzione tra tentativo ed esito, snatureremmo non solo il pensiero di Freud, ma<br />

il concetto stesso di guarigione, svilita a una sorta di «tutto va bene» fondamentalmente<br />

perverso, in cui a ciascuno resterebbe l’unica «libertà» di scegliersi il modo che più gli<br />

aggrada di essere malato entro un ridotto spettro di possibilità.<br />

Nella psicopatologia il pensiero non cambia scopo, ma continua ad applicarsi al medesimo<br />

tema: come mantenere il vincolo tra esigenza di soddisfacimento e apporto <strong>del</strong>l’altro.<br />

Esprime pertanto due distinte tendenze:<br />

1. costituisce sempre una denuncia <strong>del</strong>la relazione insoddisfacente in atto (non è detto che la<br />

relazione da denunciarsi debba essere quella attuale, essa è in atto nella traccia mnestica<br />

degli atti che hanno costituito le relazioni fondamentali. È la traccia mnestica che rende<br />

queste relazioni attuali). La psicopatologia, dunque, parte da un giudizio («Questo non mi fa<br />

bene» o «Tu non mi fai bene») che però difetta nell’individuare correttamente tanto<br />

l’imputazione quanto il suo imputato. Si tratta di un giudizio che facilmente abortisce nella<br />

vendetta. Il sintomo è il sostituto <strong>del</strong>la omessa denuncia;<br />

2. permanendo un errore che non permette al soggetto di individuare ciò che correttamente<br />

sarebbe da imputare come insoddisfacente, la psicopatologia rappresenta il tentativo<br />

inconcluso (la ripetizione patologica è lo stigma di questa inconclusione) e insoddisfacente<br />

di ricostruire (o costruire ex novo) una norma per mantenere una qualsivoglia relazione<br />

(anche nell’evitamento <strong>del</strong>le relazioni), secondo il corretto principio (non negato né da<br />

nevrosi né da psicosi) che beneficio vi sarà solo in dipendenza di una relazione. [6]<br />

Sono questi i due caratteri di ogni vicissitudine psicopatologica che fanno sì che noi si possa<br />

descrivere la psicopatologia – nel suo insieme e quindi a prescindere dalle successive<br />

partizioni interne a essa – come un tutto avente un massimo comune denominatore, rispetto<br />

al quale le sue partizioni interne rappresentano solo distinte modalità di infrazione giuridica<br />

alla norma giuridica <strong>del</strong>la vita psichica.<br />

In ciascuna <strong>del</strong>le forme raccoglibili dalla clinica (ma subito diremo che accanto, e prima,<br />

<strong>del</strong>la psicopatologia clinica esiste ed è operante una psicopatologia non-clinica) potremo<br />

trovare l’ossequio, camuffato e deformato, alla norma. In altri termini: la psicopatologia non<br />

15


è autonoma nel pensare le proprie norme, le proprie modalità, in ordine al soddisfacimento<br />

desiderato: le costruzioni di cui è capace mantengono comunque un riferimento alla norma,<br />

di cui rappresentano la contraffazione in uno o più dei suoi punti.<br />

5.2. IL MANTENIMENTO DELLA FACOLTÀ DI PENSIERO DEFINISCE IL MALATO COME<br />

IMPUTABILE, OVVERO PUNTO FINALE DELLA CATENA CAUSALE<br />

Il vero punto di forza <strong>del</strong>la scoperta freudiana è che il malato, il soggetto <strong>del</strong>la<br />

psicopatologia, non è completamente inerme nei confronti <strong>del</strong>la costruzione<br />

psicopatologica, in quanto non è mai deterministicamente consegnato agli eventi patologici<br />

che si concatenerebbero con una successione preordinata e senza possibilità di alternative.<br />

Al contrario, a ogni passo si trova davanti a un bivio che lo costringe a compiere (o a<br />

rinnegare, così come, piuttosto, a rinnovare o confermare) una scelta.<br />

Una osservazione rilevata a chiarissime lettere da Freud nel 1920 ci introduce al concetto di<br />

imputabilità:<br />

Fintantoché seguiamo lo sviluppo <strong>del</strong> caso a ritroso, a partire dal suo<br />

esito finale, la catena degli eventi ci appare continua e pensiamo di<br />

avere raggiunto una visione <strong>del</strong>le cose <strong>del</strong> tutto soddisfacente e<br />

fors’anche completa. Ma se percorriamo la via opposta, se partiamo<br />

dalle premesse a cui siamo risaliti mediante l’analisi, e cerchiamo di<br />

seguirle fino al risultato, l’impressione di una concatenazione<br />

necessaria e non altrimenti determinabile viene completamente meno.<br />

Ci accorgiamo immediatamente che l’esito sarebbe potuto essere<br />

diverso e che questo diverso esito avremmo potuto capirlo e spiegarlo<br />

ugualmente bene. […] la conoscenza <strong>del</strong>le premesse non ci<br />

permetterebbe di prevedere la natura <strong>del</strong> risultato. [...] La<br />

concatenazione causale può sempre essere individuata con certezza se si<br />

segue la direzione [retrograda] <strong>del</strong>l’analisi, mentre viceversa la sua<br />

previsione nella direzione <strong>del</strong>la sintesi è impossibile. [7]<br />

Giacomo Contri ha osservato che Freud scopre un nuovo ordine causale che inserisce a<br />

pieno titolo tra la causalità necessitata propria <strong>del</strong>l’ordine naturale (determinismo) e la<br />

facoltà di determinazione libera <strong>del</strong>l’atto; questo nuovo ordine causale è rappresentato dalla<br />

coazione, vero tertium che non rappresenta certamente il genere degli atti liberi, ma che non<br />

coincide neppure con l’ordine <strong>del</strong>la necessità, non foss’altro che nel punto in cui lascia<br />

comunque libero il soggetto di farsi imputante <strong>del</strong>la propria patologia, denunciando il<br />

sintomo e facendo ricorso a quel tribunale di appello costituito dalla cura.<br />

Nella condizione psicopatologica che sarà il risultato <strong>del</strong>le scelte successive da lui<br />

effettuate, il malato occuperà pertanto il posto <strong>del</strong>l’imputabile, vale a dire il posto di colui<br />

che, per sua fortuna, non potrà identificare se stesso né al posto <strong>del</strong>la vittima, né in quello di<br />

un puro effetto di antecedenti dotati di un proprio automatismo necessitante il<br />

comportamento.<br />

La critica <strong>del</strong>la correlazione tra malattia psichica e colpa ci rende avvertiti che la stessa, se<br />

non più ingenua tesi, opera nell’associare, al contrario, malattia e innocenza: che la malattia<br />

costituisca la prova <strong>del</strong>l’innocenza <strong>del</strong> malato è ciò che Freud ha individuato nel concetto di<br />

«vantaggio secondario». Se la figura <strong>del</strong>la vittima definisse esaurientemente la posizione <strong>del</strong><br />

soggetto malato, la guarigione sarebbe una meta totalmente immaginaria, una sorta di<br />

miraggio su cui si innesta la cura, ma in realtà un punto di arrivo inesistente perché<br />

16


guarigione sarebbe possibile solo a condizione di rendere non avvenuto quanto già<br />

avvenuto, cioè a condizione di sottrarre, invece che ricondurre, il malato alla realtà. Al<br />

contrario, la guarigione è possibile perché nella cura il soggetto, ricostruendo la strada<br />

compiuta, si riconduce ai bivi dove precedentemente aveva imboccato direzioni patologiche,<br />

spesso perché non in grado neppure di concepire la strada alternativa o di configurare la<br />

possibilità di un’alternativa di pensiero.<br />

6- SENSO DI COLPA PATOLOGICO VS. DIFETTO DI GIUDIZIO: LA<br />

PATOLOGIA CLINICA RENDE IL SOGGETTO IMPUTABILE DI UNA<br />

INCONCLUSIONE DEL PENSIERO<br />

Il malato è imputato per difetto di giudizio: ha compiuto scelte (e non ha solo subìto) sulla<br />

base di un’offerta patogena derivante dall’altro (i suoi «maggiori») che non ha saputo<br />

adeguatamente giudicare. La facoltà di giudizio, nel bambino, si arresta nell’atto di<br />

formulare un corretto giudizio sanzionatorio nei confronti <strong>del</strong>l’altro ammalante in quanto,<br />

“per cavarsela” in quel frangente, dovrebbe sapere fare i conti anche con la legittimazione<br />

culturale-educativa di cui gli atti <strong>del</strong>l’altro patogeno si ammantano. Questa osservazione ci<br />

riporta all’insistenza freudiana circa il fattore economico, vale a dire il computo <strong>del</strong>le forze<br />

in campo, tra le quali hanno particolare rilievo quelle rappresentate dalla cultura.<br />

Il malato è dunque imputato per difetto di giudizio, per qualcosa che lui stesso «ci ha<br />

messo», per una teoria che ha raccolto, ma che poi ha attivamente sviluppato nelle<br />

conseguenze patogene. Il malato, pertanto, ancor prima di essere imputabile degli atti e per<br />

gli atti che deriveranno dalle manifestazioni <strong>del</strong>la sua malattia, risulta imputabile <strong>del</strong> fatto di<br />

avere sostituito la corretta imputazione all’altro <strong>del</strong>l’atto patogeno con cui lo ha ammalato,<br />

con la costruzione patologica, la quale non è, semplicisticamente, un insieme di sintomi, sia<br />

pure dotati di senso e di una propria interna intelligibilità, bensì è una sofisticata teoria<br />

autogiustificatoria <strong>del</strong> proprio non riuscire a concludere in ordine a un dato problematico<br />

<strong>del</strong>l’esperienza. La costruzione psicopatologica perciò sta al posto <strong>del</strong>l’imputazione<br />

mancante, è un difetto (per il quale possono beninteso essere individuate <strong>del</strong>le attenuanti)<br />

<strong>del</strong>la capacità soggettiva di corretta imputazione e sanzione <strong>del</strong>l’altro.<br />

La ricostituzione di questa corretta facoltà di imputazione e sanzione all’altro è lo scopo<br />

<strong>del</strong>la cura, in quanto è solo questa capacità che consente al soggetto di non fissarsi<br />

(attraverso le componenti <strong>del</strong>la malattia: inibizione, sintomo, angoscia) all’altro patogeno, in<br />

una interminabile contesa, per rendersi nuovamente disponibile a nuove relazioni secondo il<br />

principio di piacere, cui altri altri potranno corrispondere. L’abito psicopatologico è<br />

intessuto con una stoffa la cui trama è la contesa, in modo tale che veramente ogni malato è<br />

rappresentabile come uno di quei guerrieri Unni – che compaiono in un quadro di Kaulbach,<br />

citato dallo stesso Freud [8] – i quali, morti in battaglia fatti ormai invisibili, ma fissati<br />

alla contesa fino aldilà <strong>del</strong>la loro stessa vita pure continuano a combattere per l’eternità<br />

contro il nemico di un tempo. Il difetto di giudizio è l’imputazione cardine con cui il<br />

soggetto, nella cura, finalmente si confronta: la fuga dalla realtà comportata dalla<br />

psicopatologia è tutta racchiusa in questo sottrarsi <strong>del</strong> malato al lavoro di giudizio.<br />

7- DALL'IMPUTAZIONE PRINCIPALE (DIFETTO DI GIUDIZIO)<br />

DISCENDONO IMPUTAZIONI CONSEGUENTI: IL PASSAGGIO ALL'OFFESA<br />

Ogni altra imputazione (il malato è infatti imputabile anche degli atti e per gli atti che<br />

17


deriveranno dalle manifestazioni <strong>del</strong>la sua malattia) è successiva e secondaria a questa.<br />

Certo, egli è imputabile <strong>del</strong>le formazioni psichiche che definiamo abitualmente come<br />

componenti <strong>del</strong>la malattia e che rappresentano la sanzione cui egli non può sottrarsi: i suoi<br />

sintomi (che rappresentano in unum il conflitto e la soluzione compromissoria <strong>del</strong>lo stesso),<br />

le inibizioni cui è soggetto (veri e propri reati di omissione di atto normale), l’angoscia e la<br />

fissazione alla condizione patogena stessa (che il quadro di Kaulbach rappresenta in maniera<br />

così plasticamente convincente): il malato è imputabile di essi, e non ne è solo vittima, in<br />

quanto egli è il soggetto che esercita la propria competenza nel costruirli e nell’elaborarli.<br />

Ma, a proposito di queste componenti <strong>del</strong>la malattia, occorre avere la capacità di<br />

individuare, di esse, non soltanto la ricaduta soggettiva, bensì anche quella oggettiva<br />

(ovvero sugli altri che saranno privati a loro volta, a causa <strong>del</strong>la indisponibilità <strong>del</strong> soggetto,<br />

<strong>del</strong>la possibilità di mantenere con lui una relazione soddisfacente), realtà, questa, che fa il<br />

soggetto-malato imputabile anche sul versante oggettivo, ovvero per gli atti <strong>del</strong>la sua<br />

patologia, che regolarmente, concernendo altri reali, dilagano al di fuori di una supposta ma<br />

inesistente «interiorità».<br />

La psicopatologia, pertanto, di cui, fino a questo momento abbiamo mostrato<br />

insistentemente il carattere difensivo, quantunque non efficace (abbiamo detto infatti che<br />

essa è contemporaneamente denuncia e tentativo di risoluzione falliti), soggiace alla<br />

tentazione (che in alcuni casi si fa ben più che tentazione, si veda la perversione, ma anche<br />

la psicosi, e perfino la stessa nevrosi non ne è esente) di assumere a propria volta un<br />

carattere offensivo: ogni formazione psicopatologica ha una ricaduta di carattere<br />

insoddisfacente non solo sullo stesso soggetto malato (si tratterebbe, in questo caso, <strong>del</strong>la fin<br />

troppo idealizzata «sofferenza» <strong>del</strong> malato), ma è anche obiettivamente provvista di un<br />

tratto fastidioso che ricade sull’altro, anche qualunque, che il malato tiranneggia, se non<br />

altro attraverso il suo costante negarsi alla soddisfazione, vuoi in quanto si sottrae alla<br />

soddisfacibilità, vuoi sottraendosi al compito di operare soddisfacentemente nei confronti<br />

<strong>del</strong>l’altro.<br />

8- IL COMPIMENTO DI QUESTO PASSAGGIO ALL’OFFESA REALIZZA LA<br />

PSICOPATOLOGIA NON-CLINICA<br />

Accanto, e prima, <strong>del</strong>la psicopatologia clinica esiste ed è operante una psicopatologia<br />

prevalentemente non-clinica, in cui si attua uno spostamento più deciso sul versante<br />

<strong>del</strong>l’offesa. Possiamo descrivere questo spostamento come spostamento in tre direzioni:<br />

1. in primo luogo il soggetto compie uno spostamento verso un pensare ed un agire tanto<br />

offensivo nei riguardi <strong>del</strong>l’altro da rinnegarne la soggettività: l’altro è reso sostituibile con<br />

un oggetto e con ciò si raggiunge il limite massimo di allontanamento dal pensiero stesso di<br />

«relazione», che consiste in atti che sono contemporaneamente di domanda-e-offerta<br />

reciproca, tra partner che occupano i posti non simmetrici di Soggetto e soggetto nel posto<br />

di Altro.<br />

2. in secondo luogo, si attua lo spostamento all’asintomaticità, nel senso che il sintomo<br />

(benché non liquidato completamente) non è più riconosciuto come tale e ne viene rinnegato<br />

(Verleunung) lo statuto di formazione che accusa apertamente il colpo <strong>del</strong>la propria<br />

inconclusività. Il passaggio a questa condizione produce l’illusione di rinnegare, insieme al<br />

sintomo, la contingenza <strong>del</strong>la propria soggettività e <strong>del</strong> corpo stesso, permettendo al<br />

soggetto di aspirare a trasformare il proprio singolo caso in teoria di portata generale, alla<br />

ricerca di un’omologazione culturale che possa offrire copertura agli insuccessi <strong>del</strong>la<br />

malattia, propiziandone la durata nel tempo.<br />

18


L’osservazione di Freud a proposito dei feticisti testimonia che:<br />

Non occorre aspettarsi che queste persone ricorrano all’analisi a causa<br />

<strong>del</strong> feticcio; esso, infatti, mentre è certamente riconosciuto da coloro<br />

che ne dipendono come un che di anomalo, solo in rari casi è vissuto<br />

come un fattore di sofferenza; perlopiù queste persone si dichiarano<br />

pienamente soddisfatte <strong>del</strong> loro feticcio o addirittura mostrano di<br />

apprezzare le facilitazioni che esso procura alla loro vita amorosa». [9]<br />

Questa citazione, oltre a commentare lo spostamento verso l’asintomaticità, ci introduce<br />

agevolmente al terzo spostamento in atto nella perversione:<br />

3. il nucleo <strong>del</strong>la perversione rappresenta un passaggio dalla psicopatologia clinica a quella<br />

non-clinica, ovvero il passaggio da quelle che Freud ha definito come «neuropsicosi da<br />

difesa» a quelle che Giacomo Contri ha proposto di chiamare, con una battuta,<br />

«neuropsicosi da offesa», evidenziando quanto di offensivo trasuda, per così dire, dalla<br />

configurazione che abbiamo illustrato essere propria <strong>del</strong>la perversione.<br />

L’appellativo di «non-clinico» si giustifica in primo luogo per l’assenza di domanda di cura:<br />

è questa assenza che rende questi soggetti inaccessibili alla cura. Il perverso, infatti, non si<br />

rivolge né a medici né a psicoanalisti e, semmai acceda alla cura, ciò accade solo in virtù di<br />

un «resto» di nevrosi o di psicosi, ovvero di psicopatologia clinica, che egli ancora non ha<br />

liquidato. Soggetti cosiffatti si rivolgono più frequentemente ai detentori dei mezzi di<br />

comunicazione, e ciò introduce alla comprensione <strong>del</strong> secondo senso <strong>del</strong>la definizione di<br />

«non-clinico»: il terreno di coltura <strong>del</strong>la perversione non è mai il caso personale (il vero<br />

perverso non si limita alla giustificazione debole <strong>del</strong>: «Sono fatto così...», appellandosi al<br />

proprio caso in quanto «particolare»), il terreno di coltura <strong>del</strong>la perversione è rappresentato<br />

bensì dalla presunzione militante di mettere la perversione stessa al posto <strong>del</strong>la norma, di<br />

costruire una neo-norma i cui singoli articoli rappresentano una deformazione punto a punto<br />

<strong>del</strong>la norma originaria in tutte le sue parti. La perversione è missionaria e «perfeziona» le<br />

inconcludenze <strong>del</strong>la psicopatologia clinica.<br />

9- LA TOSSICOMANIA SI COLLOCA IN QUESTO SPAZIO:<br />

TRA PSICOPATOLOGIA NON-CLINICA E PERVERSIONE<br />

Dal punto di vista psicologico, non vi è autonomia <strong>del</strong>la tossicomania. L’abuso di sostanze è<br />

un accessorio che cristallizza la distorsione <strong>del</strong>la relazione operata nella psicopatologia<br />

clinica, raccogliendone gli insuccessi con l’ambizione di trasformarli in successi”.<br />

Il problema <strong>del</strong>la cosiddetta “doppia diagnosi” è un falso problema, perché “Tossicomania”<br />

non individua una categoria e non è un giudizio diagnostico. La classificazione proposta dal<br />

DSM tende un tranello, in quanto pone la condizione di “Abuso di sostanze” allo stesso<br />

livello di vere e proprie entità nosografiche come “Schizofrenia” o “Depressione<br />

Maggiore”. Così facendo induce nell’errore di ritenere che la tossicomania sia in se stessa<br />

una malattia, confondendo entità nosografica (diagnosi) e dato significativo dal punto di<br />

vista epidemiologico. Se pure ha senso (dal punto di vista amministrativo, di economia<br />

sanitaria, di studi di epidemiologia) conoscere quanti soggetti sono coinvolti nel problema<br />

droga, ciò non significa che tale condizione si caratterizzi unanimemente dal punto di vista<br />

psicopatologico.<br />

Infatti, nel momento in cui si tratta di precisare la “stoffa psicopatologica” <strong>del</strong>la<br />

tossicomania, anche il DSM va a ritrovarla in quelle condizioni che descrive come “Disturbi<br />

19


di Personalità” (in particolare nel “Disturbo di Personalità Antisociale”), ovvero in quelle<br />

condizioni che più da vicino riflettono quanto noi descriviamo attraverso il concetto di<br />

Psicopatologia non-clinica.<br />

Esaminando un po’ più da vicino la legge che abbiamo enunciato, vediamo che nella<br />

perversione:<br />

1, al posto <strong>del</strong>l’Altro viene messo un oggetto;<br />

2, , l’atto inaugurale <strong>del</strong>l’altro ancora qualunque, risulta fissato in se stesso, nel<br />

rinnegamento <strong>del</strong> dinamismo soddisfacimento-domanda che esso mette in moto e nella<br />

pretesa di un impossibile ritorno al cattivo aldilà rappresentato dall’idea di un godimento<br />

che sarebbe perfetto solo in quanto automatico e comandato;<br />

3, al posto di e di , in circolo continuo di domanda e di offerta tra S e A, vi è una linea di<br />

comando: S è comandato ad agire o a sottomettersi all’azione: perversione praticata o<br />

masochismo sono la forma <strong>del</strong>l’azione quando la norma, essendo decaduto l’altro dal suo<br />

posto, viene sostituita dal comando (Superio);<br />

4, e terminiamo con , il corpo. Quanto possiamo dire <strong>del</strong> corpo, nella perversione, riguarda<br />

il corpo <strong>del</strong> soggetto, in quanto, essendo l’altro sostituito da un oggetto, la forma che il<br />

corpo <strong>del</strong> partner assume, per il perverso, non può più essere definita come forma di corpo<br />

umano, non vi è più reciprocità. Lo stesso corpo di S, sottratto alla legge pulsionale e perciò<br />

esposto alla confusione tra piacere e dolore, diviene materiale di illimitata sperimentazione e<br />

di indefiniti trattamenti.<br />

10. ADDENDUM [10]<br />

Sono d’accordo con Coletti quando distingue «Tossicomania di area sociopatica, nevrotica,<br />

psicotica» proprio perché ciò dimostra ancora una volta la non autonomia <strong>del</strong>la<br />

tossicodipendenza. Ma occorre precisare che la tossicomania non solo parassita la<br />

condizione psicopatologica di partenza, bensì a questa apporta un elemento nuovo. La<br />

tossicomania fa fare un passo in più alla patologia clinica, introduce un elemento di<br />

maggiore irrevocabilità nella patologia: rappresenta una soluzione più radicale (non nella<br />

direzione <strong>del</strong>la guarigione) alle inconcludenze e alle debolezze <strong>del</strong>la psicopatologia clinica.<br />

Rappresenta una possibilità di «uscita» perversa dalla patologia (anche nel senso <strong>del</strong>lo<br />

spostamento verso l’area <strong>del</strong>la illegalità penale).<br />

Da ultimo, Coletti faceva notare che le varie denominazioni che sono state date ai Servizi<br />

che si sono fino ad oggi occupati di tossicodipendenza sono accomunate dal contenere tutte<br />

una «T»: NOT, SERT ecc., che ne fissa lo stile operativo. Concordo sul fatto che la fissità<br />

<strong>del</strong>la «T» costituisca una vera e propria induzione alla tossicomania (come si dice<br />

«induzione alla prostituzione»), e continuerà ad essere così fino a che la T non sarà caduta<br />

non solo dalla denominazione dei Servizi, ma soprattutto dalla testa degli operatori.<br />

NOTE AL TESTO<br />

[1] Questo intervento è stato presentato nel Convegno dal titolo Curarsi di relazioni e<br />

curare attraverso la relazione. Tossicomania, reinserimento, riabilitazione che ha preceduto<br />

e introdotto i lavori <strong>del</strong> Seminario.<br />

[2] S. Freud, Lettere a Wilhelm Fliess (1887-1904). Lettera n. 167 <strong>del</strong> 18 maggio 1898.<br />

Boringhieri, Torino 1986, p. 351.<br />

[3] S. Freud, 1921, Psicologia <strong>del</strong>le masse e analisi <strong>del</strong>l’Io, OSF, IX:261. Corsivo mio.<br />

[4] Cfr. Giacomo B. Contri, Il pensiero di natura. Dalla psicoanalisi al pensiero giuridico,<br />

20


Sic Edizioni, Milano 1998.<br />

[5] Cfr. S. Freud, 1924, La perdita <strong>del</strong>la realtà nella nevrosi e nella psicosi, OSF, X:39-43.<br />

[6] Ecco un modo di intendere il concetto di «dipendenze <strong>del</strong>l’Io», e in particolare quella<br />

che Freud chiama la dipendenza dalla realtà.<br />

[7] S. Freud, 1920, Psicogenesi di un caso di omosessualità femminile, OSF, IX:162.<br />

[8] Si veda il quadro di Kaulbach sulla disfatta degli Unni nella battaglia di Châlons, citato<br />

in L’Io e l’Es (OSF, IX:501).<br />

[9] S. Freud, 1927, Feticismo, OSF, X:491.<br />

[10] Questo Addendum riprende sinteticamente gli stimoli innescati dal dibattito conclusivo.<br />

TEMI E AUTORI<br />

Altro<br />

Cura<br />

Giudizio<br />

Guarigione<br />

Imputabilità<br />

Militanza<br />

Norma<br />

Offesa<br />

<strong>Pensiero</strong><br />

Psicopatologia<br />

Psicoanalisi non clinica<br />

Soggetto<br />

Senso di colpa<br />

Relazione<br />

Riabilitazione<br />

Tossicodipendenza<br />

21


Ancona, 20 Febbraio <strong>1999</strong><br />

DALLA PSICOLOGIA ALLA PSICOPATOLOGIA<br />

M. Gabriella Pediconi<br />

Il tema che mi è stato affidato raccoglie il lavoro che lo Studium Cartello sta facendo da anni, difficilmente<br />

sintetizzabile in poco tempo. Quello che vi dirò è un’offerta al vostro pensiero, essendo le fonti consultabili.<br />

[1] Voi potete rinnovare quest’offerta per farvene un’idea, che spero vi diventi gradita oltre che chiara. Il<br />

gradimento è la migliore introduzione alla chiarezza <strong>del</strong>le idee.<br />

1. PSICOLOGIA, ANZI PSICOLOGIE<br />

In questa specifica c’è già un passaggio. Questo plurale non è solo sintomo di pluralismo, ma entra nel<br />

merito di quella che lo Studium Cartello definisce la psicologia amica, in altre parole la psicologia non è una<br />

teoria. Ciò equivale ad affermare che non esiste «La» psicologia, esistono «Le» psicologie «con le gambe».<br />

Altro modo per dire la stessa cosa è che la psicologia si incontra in piazza, oppure si incontra in questa sala;<br />

alla psicologia possiamo dare un nome, il nostro nome personale. Psicologia e singolo individuo coincidono,<br />

in questo senso non esiste la psicologia, ma solo le psicologie. Psiche, psicologia, singolo, individuo,<br />

competenza soggettiva, legge di moto sono nomi <strong>del</strong>lo stesso concetto.<br />

Se fosse possibile realizzare una radiografia <strong>del</strong>la nostra psiche, probabilmente la radiografia <strong>del</strong>la psiche<br />

sarebbe rappresentata dall’immagine che segue, tratta dal testo di G.B. Contri, Il pensiero di natura.<br />

I quattro momenti sono:<br />

α: l’apporto esterno. Il contributo che un altro qualunque (Aq) offre al soggetto.<br />

β: la possibilità di un eccitamento. La scoperta <strong>del</strong> soggetto che sta in S come corpo, quindi come<br />

possibilità di sperimentare un eccitamento, una messa in moto.<br />

γ: un lavoro che è la direzione che da S ritorna verso A, che è un altro <strong>del</strong>l’universo di tutti gli altri (Au). Il<br />

moto che parte dall’eccitamento si rende concreto in un lavoro.<br />

22


δ: soddisfazione. Momento <strong>del</strong> ritorno <strong>del</strong> contributo di A al moto di S. S ci mette il lavoro, A ci mette un<br />

altro pezzo di lavoro, quindi due lavori. La soddisfazione è ottenuta per mezzo di due lavori: «Allattandomi<br />

mia madre (apporto esterno) mi ha eccitato al desiderio (eccitamento) di agire per ottenere (lavoro) la<br />

soddisfazione per mezzo di un altro (soddisfazione)».<br />

La costituzione <strong>del</strong>la psiche, come si dice la Costituzione italiana, avviene in un certo tempo; non è<br />

immediata, non è una fotografia, si può invece raccontare; la nostra costituzione ha una sua storia. Questa<br />

costituzione può anche essere detta con la frase «Allattandomi mia madre mi ha eccitato al pensiero, al<br />

desiderio di agire per ottenere la soddisfazione per mezzo di un altro». In questa radiografia ci sono <strong>del</strong>le<br />

frecce che indicano il senso, la direzione di un moto, quindi è una questione dinamica. Questa costituzione<br />

non è un mo<strong>del</strong>lo, si può raccontare. Questo movimento si realizza in due tempi e si articola in quattro<br />

momenti che è utile tenere presenti perché la psicopatologia si presenta come infrazione a uno o più dei<br />

momenti che costituiscono il moto a meta un movimento che ha per legge la soddisfazione.<br />

Il concetto di moto è molto più ampio come avete potuto vedere nei momenti <strong>del</strong>la sua articolazione di<br />

quello di comportamento, il quale specifica solo uno dei momenti <strong>del</strong> moto. [2]<br />

Questa rappresentazione grafica, che noi chiamiamo clessidra, [3] non è un mo<strong>del</strong>lo, ma un modo di<br />

raccontarsi <strong>del</strong> soggetto, noi ci possiamo raccontare attraverso i quattro momenti <strong>del</strong> moto essa è la<br />

nostra bussola, in altre parole rispetto a questa clessidra succedono fatti, avvenimenti, deviazioni, infrazioni<br />

che ci permettono di riconoscere il Nord, il Sud e di orientarci nel mondo non solo <strong>del</strong>le psicologie ma anche<br />

<strong>del</strong>le psicopatologie.<br />

La psicopatologia, come la psicologia, è «roba» da tutti i giorni, basta aprire il giornale o guardare la<br />

televisione per dire: lì si tratta di psicologia o di psicopatologia. Quello sulla psicopatologia è un giudizio che<br />

noi applichiamo, tendiamo ad applicare, possiamo usare tutti i giorni. Così pure affermiamo che la<br />

psicopatologia è una questione di letterati, filosofi, scienziati. Qui parliamo <strong>del</strong> quotidiano come parliamo dei<br />

massimi sistemi.<br />

Dante Alighieri – e qui noi facciamo un’altra Divina Commedia, la nostra, di tutti i giorni – esordisce nel<br />

primo canto <strong>del</strong>l’Inferno dicendo che lì lui non ci capiva più niente. «Nel mezzo <strong>del</strong> cammin di nostra vita,<br />

mi ritrovai per una selva oscura che la retta via era smarrita» Dante Alighieri parte dal giudizio che un certo<br />

giorno, non il primo, perché era nel mezzo <strong>del</strong> cammin <strong>del</strong>la sua vita e <strong>del</strong>l’altrui vita ma qualche giorno<br />

dopo, dopo aver percorso un pezzo di strada, lui si è accorto che non aveva più la bussola. Nel caso <strong>del</strong>la<br />

psicopatologia si tratta di aver perso la bussola.<br />

Per accorgersi che si tratta di aver perso la bussola è bene mantenere la posizione <strong>del</strong> Soggetto, la<br />

costituzione soggettiva, come criterio di discriminazione. Essere esperto in psicopatologia viene dall’avere la<br />

bussola, dall’averla riconquistata; dall’essere un po’ guariti. Il fare scienza <strong>del</strong>la psicopatologia connette il<br />

nostro lavoro alla possibilità <strong>del</strong>la guarigione.<br />

La clessidra è il nostro test di realtà. Non è banale né secondario dire qual è il nostro test di realtà, perché <br />

penso sia noto a tutti ce ne sono stati tanti, soprattutto filosofici; tra loro uno dei più comuni è la risposta<br />

alla domanda: «Sogno o son desto?». Il test di realtà suona come «datti un pizzicotto», se, infatti, dandomi<br />

un pizzicotto sentirò dolore saprò di essere desto. C’è gran differenza tra il dire che il test di realtà è la<br />

clessidra ovvero l’individuazione di due posti in una relazione S – A, e il dire che per essere reale bisogna<br />

soffrire. La sofferenza non è il nostro test di realtà.<br />

Tento di descrivere questo passaggio da psicologia a psicopatologia mantenendo la posizione di S, in altre<br />

parole guardando dove va a finire il soggetto nella psicologia; si potrebbe anche dire come va a finire o come<br />

non va più a finire vale a dire come non va più a soddisfazione, come si dice di un luogo di destinazione:<br />

andare a Milano. Quando S non va più a finire o si accorge di mettere in dubbio il suo andare a finire – come<br />

Dante Alighieri – si tratta di un’infrazione alla psicologia quindi di una smentita; qualcuno, qualcosa, un<br />

certo fatto, una certa serie di fatti hanno smentito la mia psicologia, hanno smentito la mia posizione di<br />

soggetto; allora da S smentito il mio moto diventa predicibile. Quando non ero in una selva oscura il mio<br />

moto non era predicibile, tutto poteva succedere. Quando mi trovo in una selva oscura faccio la Divina<br />

23


Commedia, compio cioè passi che diventano predicibili; infatti si può fare scienza solo <strong>del</strong>la psicopatologia,<br />

non <strong>del</strong>la psicologia poiché non è una teoria.<br />

2. L’IMPUTABILITÀ<br />

La nostra vita psicologica, la clessidra, la psicologia di cui parliamo è una vita di diritto. La vita psichica è<br />

vita giuridica. Per il soggetto le sue relazioni fin da bambino fanno diritto.<br />

Mi piace rilevare <strong>del</strong>la parola diritto due connotati. Le relazioni fanno diritto sia nel senso <strong>del</strong>la direzione<br />

diritta che è soprattutto una direzione economica. Le relazioni sono investimenti da far fruttare come i nostri<br />

conti in banca. E anche diritto come retta via, nel senso che le relazioni fanno bene, o fanno il male.<br />

Le relazioni sono la moralità <strong>del</strong>la nostra esperienza. Moralità nel senso giuridico di obbligazioni e sanzioni.<br />

Io sono obbligata a mio marito, a mio figlio e senza coercizione. L’obbligazione, nella vita psichica come<br />

vita giuridica, è il legame senza il dovere. Si tratta <strong>del</strong>l’imputabilità, concetto che coincide con la psicologia.<br />

Un effetto <strong>del</strong>l’imputabilità, <strong>del</strong>la vita psichica come vita giuridica, è che le psicologie con le gambe vivono<br />

di meriti e di demeriti. Ai nostri altri imputiamo l’amore oppure no, la grazia oppure no, le pene oppure no,<br />

così come altri ci imputano l’amore, la grazia, le pene.<br />

La psicologia è una questione di imputazione; stiamo continuando a dire che vita psichica è vita giuridica,<br />

cioè vita di relazione.<br />

La legge, l’ordinamento <strong>del</strong>l’imputabilità è già tutto compiuto fin da bambini. Lo Studium Cartello dice che<br />

dalla maturità si parte; si parte dalla psicologia mentre la psicopatologia è nel mezzo <strong>del</strong> cammin di nostra<br />

vita non all’inizio. L’uomo nasce sano e viene ammalato. Ci sono tante teorie psicologiche – la maggioranza<br />

, che vogliono farci pensare che tutti in fondo siamo un po’ malati.<br />

Rispetto alla maturità di partenza possiamo imputare al bambino passaggio fondamentale nel percorso<br />

dalla psicologia alla psicopatologia non solo dei meriti ma anche un’insufficienza di pensiero. Nel pensiero<br />

<strong>del</strong> bambino, compiuto rispetto alla legge di moto, che sa cioè distinguere piacere da dispiacere, sa pensare<br />

l’altro come collaboratore – pensare la soddisfazione e pensarla per mezzo <strong>del</strong>l’altro sono due nozioni che<br />

fanno parte <strong>del</strong>la maturità di partenza – rimane un’ingenuità che chiamiamo anche impreparazione alla<br />

patogenesi. È stato Giacomo Contri a suggerire il concetto di ingenuità come il segno <strong>del</strong> peccato originale<br />

nel pensiero, nella costituzione <strong>del</strong> pensiero fin da bambini.<br />

Nel bambino c’è impreparazione al fatto che il maleficio, un’azione maligna, possa venire anche da un altro<br />

benefico, proprio da colui che ha servito, favorito, che è stato necessario alla costituzione <strong>del</strong>la psicologia,<br />

che egli possa cambiare di segno la sua azione, e possa introdurre uno scandalo che si oppone alla legge <strong>del</strong>la<br />

soddisfazione. L’ingenuità è la possibilità di cadere in un errore senza colpa originale. Questa è<br />

l’impreparazione alla patogenesi.<br />

Dire che nella psicopatologia si entra attraverso un errore <strong>del</strong>l’altro, raccolto dal soggetto nell’ingenuità, è<br />

una buona notizia. È una buona notizia perché l’imputabilità è anche la possibilità <strong>del</strong>la cura. Se io non<br />

riconosco nessun lavoro di S nella costruzione <strong>del</strong>la sua psicopatologia, io – operatore, amico, partner – non<br />

posso farci niente. L’imputabilità coincide con il riconoscimento che il soggetto ci mette <strong>del</strong> suo nella<br />

costruzione <strong>del</strong>la psicopatologia, <strong>del</strong> suo errore e quindi può metterci <strong>del</strong> suo nella correzione di questo<br />

errore.<br />

Giacomo Contri per sottolineare questo lavoro d’imputazione ama citare Chesterton che fa concludere uno<br />

dei suoi racconti, il cui protagonista è Padre Brown, con l’annuncio di una buona notizia: c’è stato un<br />

omicidio. Il racconto è tutto costruito per simulare un suicidio, ma l’investigatore individua che non si è<br />

trattato di un suicidio ma di un omicidio. Si è trattato di omicidio, ovvero c’è stato cioè un omicida.<br />

Si esce dal racconto e si passa alla cura. Se qualcuno ha compiuto un <strong>del</strong>itto, con questo qualcuno si può<br />

lavorare; si lavora con il soggetto cioè con ciò che di soggetto rimane nella psicopatologia – non ho detto<br />

soggettivo, perché l’alternativa in questa psicologia non è tra oggettivo e soggettivo. Parlare di <strong>del</strong>itto, di<br />

errore vuol dire parlare di libertà cioè di soggetto imputabile e quindi vuol dire parlare di cura.<br />

24


3. L’INGANNO<br />

Entriamo un po’ di più nel dettaglio <strong>del</strong> «si nasce sani e si viene ammalati». Un altro soggetto, probabilmente<br />

partner, un altro significativo nella relazione e di cui ci eravamo serviti per imparare la legge <strong>del</strong>la<br />

soddisfazione, agisce in modo da ingannarci. Ci stiamo occupando così di eziopatogenesi, da dove comincia<br />

la psicopatologia.<br />

Il soggetto non si ammala da solo, viene ammalato per mezzo <strong>del</strong>l’intervento patogeno da parte di un altro,<br />

un altro non qualunque ma un altro individuato come <strong>del</strong>l’universo di tutti gli altri; un altro che è stato e che<br />

è co-istitutivo <strong>del</strong>la norma. Insisto sulla significatività <strong>del</strong>l’altro patogeno che non è mai uno qualunque<br />

incontrato per strada e ci dice qualcosa, ma un altro che era parte <strong>del</strong>la nostra legge.<br />

Questo atto patogeno che chiamiamo inganno, per indicare anche la malafede, è un atto storico, databile<br />

avviene cioè in un certo tempo – «nel mezzo <strong>del</strong> cammin di nostra vita». L’atto patogeno è databile non nel<br />

senso che avviene quella sola volta ma databile perché possiede una sua sistematicità. Non c’è il trauma –<br />

così come non c’è la psicologia – ma c’è un intervento traumatico sistematico, un intervento patogeno.<br />

La tanto sbandierata teoria <strong>del</strong> trauma copre proprio la sistematicità degli interventi patogeni. In questo<br />

Freud ha individuato con precisione la funzione <strong>del</strong> ricordo di copertura. Quando ci troviamo di fronte ad<br />

una persona che insiste su «quella volta», probabilmente con quella volta copre anche tante altre volte.<br />

L’inganno, come atto databile e sistemico, ha come contenuto la sconfessione <strong>del</strong>la psicologia; è inganno<br />

sulla legge che guida la relazione, ma, attraverso contenuti particolari, conduce alla messa in dubbio<br />

sistematica di quella legge sulla quale io mi ero costituito, sulla quale il soggetto si reggeva in piedi. Il<br />

contenuto <strong>del</strong>l’inganno è una teoria <strong>del</strong>la relazione che si mantiene non più per quella legge che io fin da<br />

bambino ho conosciuto poiché ne ero costituito e avevo partecipato alla sua costituzione.<br />

La teoria <strong>del</strong>la relazione offerta con l’inganno si mantiene secondo un’altra legge, che possiamo vedere<br />

rappresentata da alcune frasi come «Io sono tua madre!», «Lo dico per tuo bene». Il mio bene è stabilito da S<br />

rispetto ad una relazione, altrimenti diventa un bene imperativo. Queste frasi, proposte in una certa<br />

sistematicità, indicano una teoria <strong>del</strong>la relazione che non si regge secondo la norma <strong>del</strong>la soddisfazione.<br />

Sono frasi perverse, esse cioè pervertono, spostano, sostituiscono la direzione <strong>del</strong>la costituzione soggettiva.<br />

Così comuni da essere in bocca anche a chi perverso come struttura psicopatologica generale, e quindi<br />

come tale pervasiva non è; queste frasi possono essere pronunciate anche da un nevrotico o appartenere<br />

alla psicopatologia comune, si tratta di frasi note a tutte le orecchie.<br />

L’inganno riguarda la legge che guida la relazione, pervertita da una teoria che segue un’altra legge.<br />

4. L’ERRORE<br />

Parlando <strong>del</strong>l’inganno abbiamo individuato cosa ci mette l’Altro Soggetto <strong>del</strong>la nostra relazione costitutiva,<br />

mentre l’errore individua ciò che ci mette il soggetto. Il soggetto si ritrova di fronte all’inganno da ingenuo,<br />

non è pronto, non se lo aspetta che la madre riproponga imperativamente la sua maternità. Che la propria<br />

madre si metta dalla parte di chi non appoggia più la costituzione, ma la mette in dubbio.<br />

Il momento <strong>del</strong>l’inganno è per il soggetto un momento passivo, in cui non si sa più se dare retta alla propria<br />

costituzione oppure alla teoria proposta dalla madre che ha co-istituito la costituzione. Nella crisi il soggetto<br />

può sbagliare, può scegliere la madre, piuttosto che la costituzione; può scegliere di rinunciare alla propria<br />

costituzione per mantenere la relazione.<br />

In questo momento il soggetto evita, sospende il giudizio sull’altro. L’errore in questo momento passivo è<br />

una sospensione <strong>del</strong> giudizio, in altre parole un non giudizio, un difetto di giudizio là dove il giudizio<br />

25


potrebbe essere: «Mamma ti stai sbagliando, me lo hai insegnato proprio tu». Il soggetto si impedisce, fugge<br />

da questo suo giudizio.<br />

Il difetto di giudizio, da momento passivo, può passare al momento attivo. L’errore può diventare una<br />

produzione <strong>del</strong> soggetto; ovvero questa sospensione non può rimanere ad eternum. Freud l’ha chiamata<br />

rimozione, che non conduce a termine ciò che il pensiero ha iniziato. Potrei giudicarti, ma rimando nel<br />

tempo, me lo dimentico, faccio in modo di dimenticare, non mi autorizzo a giudicarti e faccio conto che tu<br />

mi vada bene lo stesso nella tua sistematicità perversa che mi introduce ad una legge <strong>del</strong> rapporto che non è<br />

più la legge <strong>del</strong>la soddisfazione.<br />

Rispetto all’errore il soggetto si trova prima in una posizione passiva, poi in una posizione attiva: l’errore<br />

diventa attivo.<br />

Qual è il contenuto <strong>del</strong>l’errore? Il contenuto <strong>del</strong>l’errore è sempre lo stesso, la sessualità. Lo impariamo da<br />

Freud: la sessualità come la sostituzione dei sessi nella relazione o addirittura dei posti nella relazione con il<br />

concetto astratto di sessualità.<br />

Non tratto più mio padre e mia madre in quanto soggetti <strong>del</strong>la relazione con me, ma come funzioni, ruoli<br />

nella relazione. Si passa da soggetti <strong>del</strong>la relazione a soggetti astratti <strong>del</strong>la relazione.<br />

5. MALATTIA E PSICOPATOLOGIA<br />

Inganno ed errore come apporto alla psicopatologia da parte <strong>del</strong> Soggetto e da parte <strong>del</strong> suo Altro nella<br />

relazione introducono alla malattia. La crisi precede almeno nel senso temporale la vera e propria<br />

psicopatologia.<br />

L’immagine, tratta dalla Città dei malati, secondo volume, edito da Sic, mostra come tra la psicologia (io<br />

normale bambino sano) e la psicopatologia ci sia un momento temporale di passaggio che può essere più o<br />

meno lungo, ma in ogni modo concettualmente distinto, definito malattia. In questo il soggetto è costretto al<br />

dubbio.<br />

La frase «il beneficio <strong>del</strong> dubbio» è perversa; dal dubbio quale beneficio può venire? Può venire beneficio<br />

dall’inventario, dall’inventario dei beni c’è beneficio. Dall’inventario <strong>del</strong> dubbio c’è poco da farsene<br />

beneficio. Meglio non aspirare al beneficio <strong>del</strong> dubbio.<br />

La malattia dunque è quello stato in cui il soggetto è costretto nella condizione di dubitare <strong>del</strong>la norma da lui<br />

stesso originariamente posta – il soggetto nella malattia è in terremoto permanente – senza avere ancora<br />

elaborato un’altra legge patologica.<br />

26


La malattia è un momento di passaggio, non si può rimanere tanto tempo lì senza aver trovato una qualche<br />

sistemazione. Da lì occorre ripartire o per la costituzione di un secondo giudizio, quindi per una costituzione<br />

rinnovata in cui l’altro <strong>del</strong>la relazione possa essere giudicato anche <strong>del</strong>l’offesa, oppure si entra nella<br />

psicopatologia cioè si fa propria la teoria patogena.<br />

La malattia rappresenta il primo tempo transitorio <strong>del</strong>la psicopatologia, è un punto di accesso comune alle<br />

quattro forme di psicopatologia: nevrosi, psicosi, perversione e psicopatologia precoce. Essa è un passaggio<br />

obbligato quanto instabile e che prevede ancora una possibile uscita dalla crisi o come secondo giudizio o<br />

come annessione alla psicopatologia.<br />

Le componenti <strong>del</strong>la malattia, inibizione, sintomo, angoscia, sono quelle descritte da Freud.<br />

L’inibizione è l’effetto principale <strong>del</strong>l’esautorazione <strong>del</strong>la competenza soggettiva; l’inganno ha cioè come<br />

effetto un’inibizione <strong>del</strong> pensiero. Quando l’atto patogeno ha reso inutilizzabile la psiche, cioè la legge <strong>del</strong><br />

mio moto, il soggetto non sa più fare, non sa più fare le cose che prima faceva; oppure non sa più se fare o<br />

non fare, non sa prendere una decisione; e non sa più distinguere i vari fare l’uno dall’altro. Una inibizione,<br />

in quanto <strong>del</strong> pensiero, diventa inibizione <strong>del</strong> moto. Il moto è inibito da un terremoto <strong>del</strong> pensiero, da una<br />

sospesa autorizzazione <strong>del</strong> pensiero.<br />

Queste componenti cliniche <strong>del</strong>la malattia continuano ad essere legate a doppio filo alla norma; sono un<br />

richiamo permanente alla normalità. Equivale a dire che ciò che noi curiamo <strong>del</strong>la psicopatologia è la<br />

malattia, cioè curiamo la clinica, possiamo curare inibizione, sintomo, angoscia perché mantengono un<br />

rapporto diretto con la norma.<br />

Descriviamo l’angoscia come affetto normale <strong>del</strong>la malattia in quanto segnala che su quel punto non c’è<br />

legge, essa è la segnaletica <strong>del</strong>la mancanza di legge, segnala una carenza, un’insufficienza e quindi<br />

un’inibizione innanzi tutto <strong>del</strong> pensiero.<br />

Grazie al sintomo l’inibizione può mantenere una relazione con l’altro. Il sintomo vicaria la legge rimossa, la<br />

legge <strong>del</strong>la relazione cui si è voluto rinunciare per mantenerla. In questo senso il sintomo è una<br />

approssimazione <strong>del</strong>la legge. La relazione sintomatica è compromissoria, sia nel senso che il sintomo<br />

rappresenta un compromesso fra la norma e l’atto patogeno come pure nel senso che grazie al sintomo ci si<br />

compromette con l’altro, ci si lega con maggiore intensità all’altro patogeno. Inoltre il sintomo permette la<br />

coazione a ripetere, costringe a ripetere ciò che più segnala la relazione e nello stesso tempo il suo<br />

insuccesso.<br />

Perché si realizzi il passaggio individuale alla psicopatologia non sono sufficienti le componenti cliniche<br />

finora descritte, occorre individuare un collante non-clinico e precisamente il meccanismo noto come<br />

fissazione. La fissazione rappresenta il momento <strong>del</strong>la produzione <strong>del</strong>le teorie, il momento non-clinico <strong>del</strong><br />

passaggio alla psicopatologia.<br />

Uno dei punti di lavoro <strong>del</strong>la nostra Scuola è la distinzione tra clinica e non-clinica; ciò equivale a dire che<br />

nella psicopatologia possiamo distinguere qualcosa da curare, di cui prendersi cura ed è la clinica. Resta<br />

qualcosa di cui è meglio non prendersi cura: la non clinica.<br />

La non-clinica ha come obiettivo quello di fare fuori la clinica, il suo obiettivo aspira a liquidare il sintomo.<br />

Il perverso – per fortuna non esiste la perversione pura – è colui che vive di teoria, mette la teoria al posto<br />

<strong>del</strong>la relazione. Il perverso è colui che ha fatto fuori la legge <strong>del</strong> moto per metterci al suo posto una teoria, fa<br />

solo teoria.<br />

Dalla psicopatologia clinica il soggetto, investendo molto nella costruzione di teorie, può passare alla<br />

psicopatologia non-clinica; infatti i confini sono tutti aperti anche nel senso che non si dà passaggio che, una<br />

volta stabilito, non possa prevedere una correzione.<br />

La distinzione tra psicopatologia clinica e non clinica permette di individuare tante forme psicopatologiche<br />

in cui la clinica sembra non avere più tanto posto, e sono le forme più sostenute culturalmente. La nonclinica,<br />

in quanto composta <strong>del</strong>le teorie autogiustificatorie, si trova sui giornali o in televisione sotto forma di<br />

teorie <strong>del</strong>la cultura.<br />

27


Freud aveva ragione quando diceva che la cultura ci mette a disagio perché la cultura è il mercato <strong>del</strong>la<br />

psicopatologia non-clinica. La psicologia vive anche <strong>del</strong>la distinzione tra mercato <strong>del</strong>la clinica e mercato<br />

<strong>del</strong>la non-clinica.<br />

Il passaggio alla psicopatologia non-clinica si nutre <strong>del</strong>la convinzione che se mi giustificherò starò meglio,<br />

cioè <strong>del</strong>la illusione di una guarigione teorica - fatta di teoria - oppure di un’auto-guarigione.<br />

Nella diagnosi differenziale, anche nei casi di tossicodipendenza, è utile distinguere tra clinica e non clinica;<br />

cioè distinguere ciò che il soggetto ci mette di suo: teorizzazione autogiustificatoria attinta dalle teorie<br />

culturali a ciò che lo mantiene ancora attaccato alla malattia, alla crisi <strong>del</strong>la sua legge; i sintomi, l’inibizione<br />

e l’angoscia che ci parlano ancora <strong>del</strong> soggetto.<br />

La tossicomania è un tentativo di uscire dalla psicologia, dalla clinica, dalla vita come relazione per sostituire<br />

alla relazione una teoria. Posta questa diagnosi differenziale, lo Studium sostiene sia bene non curarsi <strong>del</strong>la<br />

tossicodipendenza; può essere ancora curata la malattia, per quanto ne resti nel tossicodipendente. Anche nel<br />

caso <strong>del</strong>la tossicodipendenza possiamo curarne la nevrosi, in altre parole ciò che resta <strong>del</strong> soggetto. In questo<br />

senso è ancora possibile occuparsi di una cura nel caso <strong>del</strong>la tossicodipendenza.<br />

DISCUSSIONE<br />

Che cos’è la realtà?<br />

La realtà non esiste, si tratta di farla. La realtà, prima <strong>del</strong>la psicologia, non si pone affatto come questione<br />

interessante per il soggetto, in quanto si tratterebbe di darne dimostrazione. Quando diciamo che la clessidra<br />

è il nostro test di realtà, affermiamo che questo movimento è tutta realtà: l’apporto di un altro qualunque –<br />

allattandomi mia madre – è realtà, l’eccitamento, come possibilità di sperimentare questo apporto come<br />

spinta di partenza, è realtà, lavorare affinché si ripeta questa soddisfazione di partenza è ancora realtà.<br />

La realtà o è psichica o non è realtà. In questo senso cominciare a perdere il contatto con la realtà mostra che<br />

ci sono dei cedimenti <strong>del</strong>la psicologia. Quando in Progetto di una psicologia Freud dice che occorre<br />

riconoscere una realtà anche ai dati sensoriali vuol dire che le sensazioni che raggiungono i nostri sensi senza<br />

legge non sono percepite.<br />

Precedentemente alla costituzione non si dà la realtà come realtà, occorre una legge anche per sentire la<br />

musica. La norma è il test di realtà nel senso che è fatta di realtà, comincia come pezzi di realtà, come<br />

possibilità di sperimentarne. Altrimenti dovremmo ammettere un’età <strong>del</strong>l’oro prima <strong>del</strong>la legge; prima <strong>del</strong>la<br />

legge non si dà il soggetto come realtà, ma solo come teoria, aderendo alla quale si comincia a farlo fuori.<br />

Che significa che la sessualità è il contenuto <strong>del</strong>l’inganno?<br />

La sessualità è un errore sulla realtà. Osservando la clessidra si vede che nel primo tempo (T1) la possibilità<br />

di sperimentare la soddisfazione è connessa con il lavoro che fa passare l’apporto di un altro qualunque<br />

attraverso un eccitamento, cui segue un altro lavoro che individua uno tra tutti gli altri <strong>del</strong>l’universo per<br />

dirgli «mi daresti un panino con la cioccolata?». Questa individuazione seconda è un’imputazione che fa<br />

universo, mette in ordine gli altri che incontro. In questo altro individuato non ci sono subito i sessi; per dire<br />

tu non ho ancora bisogno di dire: la mia donna, il mio uomo o il mio principe. Dire il mio principe o la mia<br />

signora è un nuovo passaggio, quello <strong>del</strong> secondo tempo (T2), è un altro giudizio, è il giudizio sull’altro.<br />

Uomo e donna non esistono in natura, si tratta di «farli» cioè di nominarli. «Io ti nomino come il mio<br />

principe», allora esiste il mio uomo, un uomo, in quanto concetto giuridico in un rapporto, da cui prende<br />

realtà psichica la differenza tra i sessi. Altrimenti le differenze biologiche restano una banalità, come afferma<br />

Giacomo Contri, in altre parole occorre un altro lavoro, de natura, pensiero di natura, perché la natura sia<br />

psiche.<br />

Questo secondo giudizio, giudizio sull’altro già individuato <strong>del</strong>l’universo, necessario perché l’altro sia<br />

nominato soggetto ovvero uomo-donna, può incontrare degli intralci, può essere scandalizzato, ci può essere<br />

28


una pietra d’inciampo che non permette, impedisce, si mette in mezzo, devia o infrange questo secondo<br />

giudizio.<br />

La nevrosi è la psicopatologia che meglio parla di questo errore sessualità, come Freud ha così bene<br />

mostrato. Nella nevrosi si vede bene che S e A, uomo e donna sono diventati dei ruoli attraverso il<br />

meccanismo <strong>del</strong>l’identificazione. Il nevrotico potrebbe essere nominato il miglior rappresentante <strong>del</strong>la teoria<br />

<strong>del</strong>la famiglia moderna: il nucleo familiare. Infatti, il nevrotico è sempre pronto a dichiarare che la causa<br />

<strong>del</strong>la sua nevrosi è rappresentata dai genitori, dalla mamma, dal padre o comunque da qualcuno che è passato<br />

dall’essere un altro individuato nella mia relazione, nominato principe, ad un ruolo.<br />

Il passaggio <strong>del</strong>l’errore sta in questa alternativa. O ti nomino principe e quindi sei un altro individuato nel<br />

mio universo e mi faccio beneficio anche <strong>del</strong>la banalità biologica che ti contraddistingue, ne faccio cioè un<br />

beneficio. Oppure diventi un ruolo, che vuol dire divento io stesso un ruolo.<br />

Altro problema nevrotico consiste nella distinzione tra esser uomo o donna oppure essere maschio o<br />

femmina. Nella psiche non esiste maschio e femmina esiste solo uomo e donna, passaggio da banalità<br />

biologica a de natura, pensiero, psiche intorno alla natura. L’errore interviene nel giudizio sull’altro, che vuol<br />

dire anche poterne dire sessualmente, nel passaggio tra prima individuazione e seconda individuazione.<br />

Questo resta di soggettivo anche nel tossicodipendente. La clinica si appoggia sull’inibizione, che si<br />

manifesta segnaleticamente – come con cartelli stradali – attraverso l’angoscia, che vive di sintomi. Vivendo<br />

solo le relazioni sintomatiche anche nel tossicodipendente può essere rintracciata la clinica, nella misura in<br />

cui il soggetto tossicodipendente non ha ancora aderito completamente alla sua tossicodipendenza, cioè non<br />

ha ancora aderito alla convinzione che si può vivere senza la relazione.<br />

Può guarire il tossicodipendente? Sì, se smette di mentire sulla relazione. Se smette di mentire, ad esempio,<br />

sul fatto che la sua relazione non esiste. Le sue relazioni esistono ma lui sembra fare di tutto perché non<br />

esistano più. Nella misura in cui non aderisce al suo programma non-clinico e mantiene un piede nella<br />

clinica noi possiamo prendercene cura, in quella misura possiamo rimanere in rapporto con lui.<br />

Al di fuori <strong>del</strong>la clinica, nella psicopatologia, non c’è rapporto. Non c’è rapporto con una teoria ma solo con<br />

un soggetto o con quanto rimane di clinica in un soggetto, quanto rimane di nevrotico. Il nevrotico aggiunge<br />

teorie – fa quindi un lavoro non-clinico – che contraddice la sua stessa clinica. Nella contraddittorietà <strong>del</strong><br />

comportamento nevrotico c’è il segno che ancora il soggetto esiste, che il soggetto ancora è psiche.<br />

Qual è il giudizio <strong>del</strong>lo Studium circa la definizione <strong>del</strong>la tossicodipendenza come sintomo di una malattia?<br />

Mi torna in mente una vignetta di Altan che nello Studium è diventata quasi un emblema, un tizio che si<br />

guarda allo specchio e si domanda: «Ma io sono uno s… o il sintomo di un disagio?».<br />

O il sintomo è un elemento <strong>del</strong>la malattia, quindi parliamo di clinica, oppure diciamo che la<br />

tossicodipendenza copre qualcosa. Allora lo diciamo in un senso attivo, copre come fosse un lavoro nel<br />

senso che il tossicodipendente vorrebbe coprire la sua clinica. Copre attivamente la possibilità di essere<br />

curato, in altre parole la sua malattia, fa di tutto per non esserlo più. Il tossicodipendente persegue un<br />

programma non clinico, come si evidenzia dai suoi moti mai a soddisfazione, sempre a teoria.<br />

Lei ritiene che alla base <strong>del</strong>la tossicodipendenza ci sia un sintomo? È solo la nevrosi da curare nella<br />

tossicodipendenza o anche le altre psicopatologie?<br />

La nevrosi rappresenta la psicopatologia nel senso che il nevrotico è ancora un soggetto da…, è un soggetto<br />

da divano, da curare. Il nevrotico è ancora capace di dire «il mio principe»; è tipico <strong>del</strong> nevrotico orchestrare<br />

un matrimonio e poi farlo fallire. Nella ricerca <strong>del</strong> partner, nel compromesso teorizzato, autogiustificato<br />

incoerentemente, quindi nella non coerenza c’è la possibilità <strong>del</strong>la cura.<br />

Non ci interessa fare nosografia astratta, cioè piazzare lì tutte le psicopatologie, ci interessa individuare<br />

l’errore per accedere alla sua correzione. Non ci interessa la corruzione ma la correzione; finché parliamo di<br />

psicopatologia parliamo di corruzione e ci interessa la sua possibile correzione: è in ciò l’utilità di<br />

individuare la nevrosi anche nella tossicodipendenza. Tante nosografie non danno alcuno spazio alla<br />

guarigione, così come si stenta a vedere l’interesse per la correzione in tante disamine <strong>del</strong>le multiformi<br />

29


psicopatologie quasi ci si accontentasse di metterle a posto. Quando il mettere a posto fissa nelle teorie c’è da<br />

averne paura.<br />

Richiesta di approfondimento circa le infrazioni ai quattro momenti <strong>del</strong> moto a meta nella nevrosi, psicosi,<br />

perversione e psicopatologia precoce.<br />

La clinica vive <strong>del</strong>la diversa infrazione ai momenti <strong>del</strong> moto a meta apporto esterno, eccitamento, lavoro e<br />

soddisfazione, ipotizzo come impossibile che la psicosi infranga solo il primo piuttosto che il quarto, il terzo<br />

o il secondo. Noi vediamo che S è in crisi quando questi quattro momenti o non ci sono più, sono parziali o<br />

sono messi l’uno prima <strong>del</strong>l’altro. Nella nevrosi è facile distinguere che il moto non va più a meta, così che,<br />

tra i quattro momenti, il quarto sembra subire maggiormente le conseguenze <strong>del</strong>la crisi.<br />

Nella psicopatologia precoce si vede che l’infrazione è avvenuta subito, probabilmente a carico <strong>del</strong>l’apporto<br />

che un altro qualunque ha offerto, anche se dobbiamo far attenzione a dire che è avvenuto troppo presto<br />

poiché all’esperienza <strong>del</strong>la soddisfazione tutti accedono per il fatto stesso di essere rimasti in vita.<br />

L’eventuale malattia <strong>del</strong>l’altro con cui io ho a che fare tutti i giorni non necessariamente costituisce per me<br />

un trauma. Così per correggere un mio errore non è necessario che tutti gli altri siano cambiati, l’inganno può<br />

sempre tornare; la questione è godere di una bussola rispetto all’inganno. Non c’è dunque da aspettare un<br />

mondo migliore per guarire; ci auguriamo tutti di guarire prima che il mondo sia cambiato. La correzione<br />

non interviene sull’altro, interviene su ciascuno in quanto soggetto. La nevrosi è una patologia da divano e in<br />

quanto tale curabile, perché si mantiene, anche se nella crisi, la posizione di soggetto. Sono da divano anche<br />

tutte le psicopatologie che contengono elementi <strong>del</strong>la nevrosi. La perversione pura, la tossicodipendenza<br />

pura, la paranoia pura, la non-clinica pura non esistono. È una fortuna che lascia aperta l’idea di una<br />

possibilità di cura.<br />

NOTE AL TESTO<br />

[1] La fonte <strong>del</strong> pensiero che propongo è il lavoro <strong>del</strong>lo Studium, in particolare nella sua forma di Scuola<br />

Pratica di Psicopatologia. La fonte consultabile è rappresentata dai seguenti libri di testo, editi da Sic:<br />

Giacomo B. Contri, Il <strong>Pensiero</strong> di natura; AA.VV., La città dei malati; AA.VV., A non è non A; AA.VV.,<br />

Università.<br />

[2] Il concetto di comportamento, nella corrente psicologica, molto spesso va per la maggiore e spesso<br />

questo concetto appare riduttivo rispetto ai quattro momenti segnalati <strong>del</strong> moto.<br />

[3] La chiamiamo clessidra perché c’entra con il tempo. La costituzione soggettiva avviene in un certo<br />

tempo; ha bisogno di tempo, non è una fotografia né una struttura.<br />

TEMI E AUTORI<br />

Errore<br />

Imputabilità<br />

Inganno<br />

Malattia<br />

Psiche<br />

Psicologia, e<br />

Psicopatologia<br />

Tossicodipendenza<br />

30


Ancona, 20 Marzo <strong>1999</strong><br />

LE QUATTRO FORME DELLA PSICOPATOLOGIA<br />

Raffaella Colombo<br />

La psicopatologia, iniziata con Freud dal passaggio che egli compie dalla neurologia alla metapsicologia,<br />

introduce nella storia <strong>del</strong> pensiero un concetto di normalità che riunisce psicologia, moralità, diritto, in<br />

un’unica competenza individuale e ci permette di fare scienza <strong>del</strong>la psicopatologia come scienza <strong>del</strong> pensiero<br />

di natura e <strong>del</strong>le sue deviazioni.<br />

A partire dal paragone con la norma, la scienza <strong>del</strong>la psicopatologia distingue quattro configurazioni<br />

psicopatologiche: nevrosi, psicosi, perversione, psicopatologia precoce. Poche, rispetto alle classificazioni<br />

nosografiche riconosciute dalla psichiatria in base a categorie prettamente somatiche utilizzate fino alla<br />

Seconda Guerra Mondiale (fino al DSM-I e DSM-II, pubblicati nel 1952 e nel 1968, che assumono nuove<br />

prospettive mutuate dalla psicoanalisi); molto poche, rispetto a quelle (circa 300), riconosciute dalla<br />

psichiatria odierna, che, salvo qualche eccezione, si avvale dei criteri diagnostici stabiliti dalla APA<br />

(«Associazione Psichiatrica Americana»): DSM III e DSM-IV (pubblicati nel 1980 e nel 1993), in cui si<br />

assiste a un completo abbandono dei riferimenti psicoanalitici e all’assunzione di criteri diagnostici da cui ci<br />

discostiamo decisamente.<br />

Tra i risultati più vistosi, ottenuti dalla scienza <strong>del</strong>la psicopatologia elaborata nel paragone con la norma,<br />

abbiamo le quattro psicopatologie, non come quattro diverse diramazioni o passaggi evolutivi dalla malattia<br />

alla psicopatologia. La psicopatologia come scienza <strong>del</strong> pensiero di natura tratta anzitutto <strong>del</strong>la nevrosi, e<br />

tratta di psicosi e perversione in quanto destini patologici <strong>del</strong>la nevrosi. Essa tratta inoltre di una quarta<br />

patologia psichica: la psicopatologia precoce, che, diversamente dalle altre, non presuppone malattia<br />

semplice.<br />

Abbiamo:<br />

la nevrosi come<br />

a. forma specifica di psicopatologia, che non figura invece più nelle ultime edizioni <strong>del</strong> DSM;<br />

b. malattia psichica comune, rispetto alla quale psicosi e perversione si configurano come destini;<br />

c. forma curabile di psicopatologia;<br />

d. esito patologico <strong>del</strong>la malattia non curata, il cui esordio comporta il passaggio biologico <strong>del</strong>la<br />

pubertà;<br />

la perversione come forma non-clinica <strong>del</strong>la psicopatologia;<br />

una nuova forma di psicopatologia: lo handicap psichico o psicopatologia precoce che si aggiunge<br />

alle tre forme già note: nevrosi, psicosi, perversione.<br />

32


HANDICAP PSICHICO O PSICOPATOLOGIA PRECOCE<br />

Questa forma di patologia psichica si distingue nettamente dalle altre perché è l’unica a avere un inizio<br />

collocabile nell’infanzia, anzi nella prima infanzia, prima ancora che l’individuo abbia avuto il tempo reale<br />

per venire ammalato. Annotando alcuni dati di osservazione comunemente disattesi, abbiamo individuato<br />

due tipologie distinte di handicap psichico: una tipologia organica e una tipologia con cause psichiche.<br />

Abbiamo constatato che, tra tutte le persone che vengono considerate e trattate da disabili psichici,<br />

comunemente ammesse in strutture per handicappati (per esempio i C.S.E.), ve ne sono molte che, pur non<br />

mostrando indizio medico alcuno di patologia organica (né attuale né anamnestico), si presentano tuttavia,<br />

dopo un certo numero di anni, con gli esiti tipici <strong>del</strong>lo handicap da cause organiche.<br />

Un primo risultato <strong>del</strong>l’indagine esplorativa è stata la scoperta <strong>del</strong>la causalità psichica comune a quella<br />

condizione di vita e di rapporti che raggruppa costoro sotto il medesimo tetto e verdetto: Handicap o<br />

disabilità psichica, ovvero incurabilità.<br />

Queste osservazioni ci hanno portato ad indagare ulteriormente intorno alla natura di questo tipo di patologia<br />

e a trovarne la precocità. Si può prendere la via attiva <strong>del</strong>la psicopatologia fin da piccoli, prima ancora di<br />

avere avuto il tempo di ammalarsi. Quando ciò che vi è stato fin qui descritto come inganno, cioè come<br />

agente patogeno <strong>del</strong>la malattia psichica interviene nella vita psichica individuale entro i primi due anni di<br />

vita, allora gli effetti saranno devastanti. Allorché un bambino viene trattato con l’inganno nel momento in<br />

cui sta ancora costituendo i propri moti - <strong>del</strong> parlare, <strong>del</strong> mangiare, <strong>del</strong> vedere, <strong>del</strong>l’udire, <strong>del</strong>l’espellere e<br />

ritenere-, cioè nel momento in cui non è ancora autonomo dal punto di vista funzionale, subirà<br />

un’interruzione nei moti stessi e inizierà a agire attivamente in modo patologico. Tanti gravissimi quadri<br />

patologici che si presentavano come debilità si mostrano per quello che sono; in realtà non si trattava di<br />

debilità irreversibile da eziologia ignota, si trattava e si tratta di patologia psichica dagli inizi precoci, la cui<br />

curabilità diventa una questione proponibile e affrontabile.<br />

NEVROSI<br />

«Lo studio <strong>del</strong>lo psicoanalista è l’ufficio dei soggetti smarriti». La battuta <strong>del</strong> Dr. G. Genga, che così<br />

commenta il racconto di un suo paziente che aveva dimenticato per l’ennesima volta la borsa nel suo studio,<br />

caratterizza la nevrosi.<br />

Nella nevrosi e non solo nei suoi destini patologici possiamo dire che smarrito è non l’oggetto, ma il<br />

soggetto. Ha perso posto e meta, ma rimane pur sempre Soggetto. Mantiene il sapere circa il suo posto di<br />

Soggetto, ma non ha più facoltà per ritrovarlo, mantiene la memoria <strong>del</strong>la legge di rapporto, mantiene cioè il<br />

sapere <strong>del</strong>la soddisfazione. Sa che il suo moto è un moto a meta con soddisfazione, ma scinde la meta dalla<br />

soddisfazione. Nella nevrosi il Soggetto non sa distinguere nell’Universo degli altri chi gli procurerà<br />

beneficio da chi no e non sa più domandare l’intervento <strong>del</strong>l’altro in modo tale da ottenerne la risposta: egli<br />

domanda come se prevedesse già la mancata risposta da parte <strong>del</strong>l’altro. Vorrebbe l’appuntamento, ma è lui<br />

stesso a sottrarvisi, oppure a lanciarsi in iniziative insostenibili. Vorrebbe prendere iniziativa ma, giunto al<br />

momento in cui sarebbe possibile agire, non la sostiene.<br />

Il pensiero <strong>del</strong>la norma pensiero <strong>del</strong> beneficio o <strong>del</strong>la soddisfazione è presente, ma il modo per ottenerla<br />

non è più certo: preso dal dubbio, il Soggetto si muove malamente, riuscendo solo a trovare espedienti utili a<br />

mantenere comunque il rapporto con l’altro. Un’immagine riuscita <strong>del</strong>la nevrosi come ritiro dalla<br />

soddisfazione ci viene fornita nel celebre film Via col vento dal rapporto continuamente mancato tra la<br />

protagonista Rossella O’Hara e il co-protagonista Red Buttler. La rimozione che caratterizza la nevrosi<br />

dichiara, con Rossella: «Ci penserò domani».<br />

Nella nevrosi troviamo<br />

33


sia il soggetto che si presenta perdente in partenza, che fa tutto da sé e fa tutto anche per l’altro, disposto a<br />

ogni rinuncia, disposto anche a pagare tutto per l’altro, trattenendo semmai per sé il rancore <strong>del</strong>l’insuccesso<br />

subito (in realtà cercato);<br />

sia il soggetto che si presenta come individuo brillante, che non dice mai: «no», disposto a invitare e a<br />

lasciarsi invitare per ritirarsi al momento <strong>del</strong>l’appuntamento.<br />

Il dubbio nevrotico non va confuso con il sospetto paranoico, ma ricondotto all’angoscia di una presunta<br />

perdita d’amore (<strong>del</strong>l’altro). «Se ciò che piace a me all’altro non piace, egli mi rifiuterà, dunque rinuncio io»,<br />

oppure: «Se io ottengo ciò che desidero, so che dovrò pagare caro».<br />

La nevrosi e la guarigione<br />

La nevrosi è la patologia cui principalmente ci riferiamo perché il soggetto <strong>del</strong>la nevrosi è il soggetto <strong>del</strong>la<br />

cura. Quando pensiamo ad un possibile trattamento e alla guarigione, noi pensiamo al soggetto <strong>del</strong>la nevrosi,<br />

e questo vale pure per lo psicotico e per il perverso che si rivolgano a un curante. La possibilità di cura nella<br />

psicosi e nella perversione non dipende tanto dall’entità <strong>del</strong>la patologia, ma dalla disponibilità <strong>del</strong> malato a<br />

riconoscersi tale. Il soggetto <strong>del</strong>la nevrosi è il soggetto di cui possiamo prenderci cura in quanto è colui che<br />

desidera la cura: che un individuo sia nella nevrosi lo si può dire nel momento in cui domanda una cura; con<br />

questo non è detto che egli voglia guarire. Chi davvero vuol guarire è il malato che ancora non è passato a<br />

contribuire attivamente con proprie teorie giustificatorie al proprio stato di malattia. L’unico malato<br />

realmente desideroso di guarire è il bambino, il bambino malato non ancora nevrotico.<br />

Avete già sentito nelle precedenti lezioni, che, diversamente dalle patologie di origine organica, rispetto alle<br />

quali il malato è passivo, la patologia psichica è in parte imputabile all’individuo: non si diventa nevrotici<br />

senza ragione. Si potrebbe quasi dire che ha avuto ragione quel soggetto nell’ammalarsi, ma le sue ragioni<br />

non sono state sufficienti per difendersi senza ammalarsi. «Pur di mantenere la norma mi ammalo, pur di non<br />

rinunciare alla soddisfazione di cui ho memoria e riuscire, malgrado ciò, a mantenere comunque il rapporto<br />

con te che mi hai trattato male, rinuncio a qualcosa, costruisco dei sintomi, inibisco il mio movimento ed uso<br />

<strong>del</strong>la fissazione a quanto rappresenti per me». Nella nevrosi, proprio le ragioni che hanno portato il soggetto<br />

a ammalarsi, cioè l’inganno <strong>del</strong>l’altro e il tentativo di mantenersi comunque nella norma, lavorano contro la<br />

guarigione. Nella nevrosi c’è il desiderio di mettere fine a uno stato di cose penoso, c’è la denuncia da parte<br />

<strong>del</strong>l’individuo <strong>del</strong>la propria condizione ma c’è un attaccamento alle condizioni nevrotiche tale per cui la<br />

guarigione risulta molto poco desiderabile quando non addirittura impensabile. Perché?<br />

La nevrosi nel suo rapporto con la norma<br />

Nella nevrosi:<br />

l’universo degli altri come fonte possibile di beneficio è mantenuto. L’individuo non ha obiezioni al fatto<br />

che da chiunque altro potrebbe venire beneficio e, pur dubitando, non ha preclusioni di principio;<br />

l’individuo ha mantenuto i posti e l’asimmetria dei posti tra Soggetto ed Altro;<br />

l’individuo si mantiene nel posto di Soggetto, pensa cioè da soggetto che vive di benefici e vuole la<br />

soddisfazione attraverso il rapporto;<br />

ma riguardo all’offesa, il pensiero <strong>del</strong> soggetto è insufficiente;<br />

riguardo al suo principio di piacere, grazie al quale si orienta all’altro per domandarne un apporto,<br />

l’individuo ha scisso il proprio beneficio (e soddisfazione) dalla soddisfazione <strong>del</strong>l’altro, quasi dicesse: «ciò<br />

che piace a me non piace a lui». Ricordiamoci che nella norma l’individuo riconosce l’altro che vive <strong>del</strong> suo<br />

stesso pensiero di natura. Nella norma l’individuo sa trovare un altro di cui dire quello che direbbe un figlio<br />

di un padre che sia tale: egli è colui che potrebbe dirmi: «Ciò che tu desideri a me piace». Nella nevrosi tutto<br />

questo è rimosso e tra l’orientamento <strong>del</strong> soggetto e quello <strong>del</strong>l’altro vige un regime di dubbio: «Forse l’altro<br />

non pensa come me, non ha il mio stesso criterio, anzi potrebbe persino sottrarmi il mio piacere».<br />

34


Oltre a coltivare il dubbio di pensiero (<strong>del</strong> beneficio), nella nevrosi il soggetto si deve giustificare.<br />

Un’applicazione <strong>del</strong>la giustificazione è rintracciabile nella compulsione a chiedere permessi e nel confondere<br />

la domanda libera con la richiesta di permesso: invece di prendere l’iniziativa e di cooptare un altro alla<br />

propria iniziativa invitandolo, il soggetto nella nevrosi chiede permesso all’altro. Questo passaggio<br />

esplicativo che rende indiretto il discorso là dove c’era un discorso diretto prende avvio dall’inganno per cui<br />

bisognerebbe spiegare all’altro il motivo di un proprio desiderio, ad esempio: «Ma perché ti piace uscire con<br />

quel ragazzo?». Il dover dare spiegazione intorno a quanto è certo proprio perché è certo che piace, insinua<br />

un dubbio sul principio di piacere e apre la breccia alla presa <strong>del</strong>le dilaganti teorie patogene e patologiche<br />

degli istinti che tutti conosciamo. Ci sarebbero un piacere istintivo, basso (cattivo) e un piacere alto (buono),<br />

mentre noi sappiamo benissimo che «quel che mi pare e piace» cosiddetto istintivo, in realtà non è affatto<br />

piacere, non essendo orientato al principio di piacere. Sto facendo allusione al lessico morale dei vizi. G.B.<br />

Contri ci ha fatto notare che il vizio di gola, come altri vizi di antica memoria, in realtà non è un piacere <strong>del</strong>la<br />

gola: l’anoressia, collocabile tra i vizi di gola, <strong>del</strong>la gola è un disturbo non meno <strong>del</strong>l’obesità o <strong>del</strong>la bulimia.<br />

La rilevanza psichica di un particolare biologico irrilevante: i sessi<br />

Nella nevrosi attaccati sono i sessi.<br />

La differenza sessuale biologica in sé non fa Uomo e Donna. In natura esistono soltanto maschio e femmina.<br />

Uomo e donna sono il risultato di un lavoro di pensiero. È in quanto prodotto <strong>del</strong> lavoro di pensiero che<br />

possono diventare bersaglio di un attacco. Già molto tempo prima <strong>del</strong>la crisi, l’individuo sa che ogni<br />

soddisfazione è di provenienza esterna. Fin da lattante egli sa che per ottenere soddisfazione al suo bisogno<br />

occorre l’intervento di un altro. Ad un certo momento, e questo accade nei primi anni di vita, l’altro – mezzo<br />

<strong>del</strong>la soddisfazione viene individuato dal bambino in quanto soggetto che ha a sua volta rapporti con altri.<br />

Il piccolo si accorge che quel che accade a sé, cioè essere in rapporto con un altro, vale anche per l’altro nei<br />

confronti di un terzo. È a questo punto che i sessi entrano in campo, non in quanto mezzo di godimento, non<br />

in quanto mezzo <strong>del</strong>la procreazione, ma come componenti <strong>del</strong>la legge di moto (o rapporto, o beneficio). Il<br />

rapporto nell’altro è caratterizzato con grande evidenza dalla differenza sessuale: il bambino si accorge che<br />

l’altro sono uomo e donna.<br />

La differenza sessuale nell’altro può diventare e diventa rilevante nella crisi con due diversi esiti:<br />

uno è un perfezionamento <strong>del</strong>la norma stessa. La differenza sessuale è un’occasione favorevole per<br />

scoprire che l’essere <strong>del</strong>l’altro diverso da me è un bene fruibile. Che io sia donna e che l’altro sia uomo non è<br />

un’obiezione, ma una felice occasione di rapporto. Ecco il coniugio;<br />

l’altra uscita dalla crisi è la patologia. Proprio l’altro, colto nei suoi rapporti come suggerimento per il<br />

pensiero, contraddice il pensiero <strong>del</strong> coniugio: «Ti sbagli, hai visto male, hai pensato male, non hai capito né<br />

puoi capire».<br />

Tipica <strong>del</strong>la nevrosi è ogni difficoltà interna al rapporto. I problemi emergono anzitutto nella difficoltà a<br />

pensare il coniugio che già aveva dato avvio alla malattia. Il bambino offeso nel suo pensiero, messo in crisi<br />

sul proprio principio di piacere, non si ritiene più degno di amore. Ammalato (nel suo pensiero) non oserà<br />

più offrire un dono alla mamma, indugerà molto prima di avvicinarsi a lei per essere preso in braccio, per un<br />

bacio o per parlare; ha un problema di coniugio cioè di rapporto (amoroso) con l’altro amante amato.<br />

La patologia inizia con la malattia applicandosi ai sessi, a quella piccola differenza che ad un certo momento<br />

viene investita attivamente dal soggetto che passato a sostenerne la rilevanza, opera il proprio passaggio alla<br />

psicopatologia sopravvalutando e rispettivamente sottovalutando il sesso (non i sessi). La caduta nella crisi<br />

avviene con teorie d’importazione sui sessi (non generate dal soggetto) che vanno sotto il nome di<br />

«sessualità» o istintività. I sessi diventano «il sesso», con una sua legge e una regolamentazione particolare;<br />

esisterebbe una sfera particolare <strong>del</strong>la vita: la sfera sessuale, isolabile da tutto il resto <strong>del</strong>la vita, con una<br />

gestione morale specifica. Quando nell’individuo si forma quest’idea, sostenuta dalle teorie imparate ed<br />

35


elaborate poi da lui stesso, siamo ormai nella nevrosi. Ritengo che da parte di voi tutti sia facilmente<br />

riconoscibile quanto «la sessualità» affligga o abbia afflitto ciascuno: l’idea <strong>del</strong>la vita sessuale come vita a<br />

sé, separabile da tutto il resto è un’idea comune con mille varianti da cui nessuno è stato preservato<br />

<strong>del</strong>l’inganno dopo la crisi.<br />

Nella nevrosi, avendo scelto di rinunciare alla soddisfazione per mantenere il rapporto con l’altro,<br />

l’individuo non rinuncia tuttavia alla pretesa di un risarcimento. In un modo o nell’altro l’altro dovrà pagare.<br />

Passeranno giorni, mesi, anni: il nevrotico non dimentica l’offesa. Per giorni, mesi, anni, egli rinuncia a<br />

difendersi assumendosi tutti i costi <strong>del</strong> rapporto, ma un giorno presenterà il conto. La rimozione non regge.<br />

Ciò significa che la nevrosi non può continuare a sostenersi uguale a se stessa, ma o si convertirà a un<br />

destino di guarigione, o si dovrà convertire a un destino di psicosi o di perversione.<br />

La falsa testimonianza nella nevrosi<br />

Il nevrotico rinuncia a tutto, ma non rinuncia alla falsa testimonianza quanto al reato <strong>del</strong>l’altro. Per guarire<br />

dovrebbe smettere di rinunciare a tutto, rinunciando solo all’omertà con la quale continua a difendere<br />

l’offensore. Quell’unica rinuncia di cui tra tutte bene-dire è rintracciabile nell’esempio che vi espongo. Un<br />

mio cliente mi riferisce un giorno per l’ennesima volta di avere perso tempo in modo «basso» mentre la sera<br />

prima è in casa solo. Al rientro <strong>del</strong>la moglie, non sentendosi presentabile, umiliato, la tratta malamente. Il<br />

giorno dopo si alza di cattivo umore. Non se ne capacita, si sofferma sui difetti di lei e si dilunga poi in<br />

autoaccuse. Questa è una ripetizione. Lui stesso dice: «Io tratto male mia moglie ma in realtà sono io che mi<br />

sento impresentabile». Rimuginando sul fatto di aver rovinato la serata, affronta male la giornata: lavora<br />

male, perde occasioni, si sente umiliato. Che cosa non fa quest’uomo? Invece di tornare sul fatto che ancora<br />

una volta ha perso tempo, che si è comportato male ecc., potrebbe ammettere semplicemente: «Sono stato<br />

stupido, punto e a capo». Dopo un attimo di silenzio il mio cliente mi dice, con il tono di chi ha fatto una<br />

spiacevole scoperta: «Ma questa è una rinuncia! Se io dicessi di avere agito da stupido e basta, rinuncerei a<br />

mettermi a posto la coscienza». Mettersi a posto la coscienza consisteva per lui nel cospargersi il capo con la<br />

cenere <strong>del</strong>le autoaccuse e nel trovare un antidoto quale il dedicarsi a letture professionali o in qualche modo<br />

«edificanti», riordinare la casa, scrivere una <strong>del</strong>le lettere che da tempo rimandava.<br />

Rinunciare a mettersi a posto la coscienza è la possibilità di cominciare a pensare, perché la coscienza non si<br />

tratta di rimetterla a posto, ma di rimetterla al posto che le spetta; si tratta di spostare la coscienza usurpatrice<br />

dal posto che era già stato <strong>del</strong> giudizio iniziale. Il giudizio qual è? Sono stato stupido. Un peccato di<br />

omissione è l’imputabilità nevrotica. L’omissione <strong>del</strong> giudizio continua a mantenere l’individuo nella<br />

posizione di accusa. Il soggetto accusa se stesso e agisce in modo tale che l’altro non arrivi a giudicarlo,<br />

evitando il giudizio con espedienti e sentendosi comunque un reo che l’altro potrebbe scoprire; teme di<br />

sbagliare, si comporta in modo tale da non sbagliare mai e compulsivamente sbaglia. Non giudicando accusa<br />

e accusando mente. Mentendo sostiene la propria nevrosi.<br />

Ma i sessi, particolare biologicamente irrilevante, motivo di crisi <strong>del</strong> pensiero ingenuo, bersaglio <strong>del</strong>la<br />

patologia, causa di rovina dei rapporti nella patologia, nel pensiero di natura diventano rilevante possibilità di<br />

ricostituzione <strong>del</strong>la norma.<br />

PSICOSI<br />

Mentre nella nevrosi come pure nella normalità è mantenuta la norma nel modo faticoso appena descritto e la<br />

sovranità individuale permane a costo di pene e sudditanze umilianti per il soggetto, con il passaggio alla<br />

psicosi e, rispettivamente, alla perversione, avviene la caduta di sovranità con adesione piena alla menzogna<br />

sulla soddisfazione.<br />

Lo psicotico non è, come si intende comunemente, un individuo di cui ciascuno potrebbe dire che è pazzo.<br />

Lo psicotico può camuffare la sua attività <strong>del</strong>irante e nascondere i pensieri relativi alla «sessualità». Egli<br />

36


convive con la menzogna <strong>del</strong>l’umiliazione. Per mantenere tale posizione deve rigettare in permanenza la<br />

soddisfazione. Come? Con il comando. Proprio <strong>del</strong>la psicosi è avere eliminato l’iniziativa con il comando: il<br />

soggetto non deve prendere iniziativa, non deve fare in modo che la soddisfazione affiori anche solo<br />

lontanamente. Le due coppie di termini che costituiscono la norma, Soggetto e Altro, e in quanto sessuati,<br />

Uomo e Donna, vengono fatti coincidere. Dei sessi rimane solo la componente biologica maschio/femmina.<br />

L’individuo passato alla psicosi, perché di passaggio si tratta, si pensa come soggetto non per un altro ma di<br />

un altro, un altro tanto imponente da risultare assoluto e ridurre il soggetto a niente. Nella psicosi il soggettoniente<br />

diventa altro, mentre gli altri non esistono più: lo psicotico non vive di rapporti. Lo psicotico mantiene<br />

distinti i due posti S ed A, ma conta solo sull’altro cui lui stesso è uguale, mentre ogni altro non può e non<br />

deve prendere iniziativa. È evidente che con ciò l’Universo (degli altri) viene meno.<br />

I sessi nella psicosi<br />

Lo psicotico è muto quanto ai sessi, che vengono accuratamente relegati tra i pensieri privati di tipo<br />

pornografico. Non si confonda il silente pudore con la muta superbia <strong>del</strong> malato che rinnega la propria<br />

condizione. Avendo eletto un altro ad altro assoluto, l’io si deve inventare. Non potendo più essere un<br />

soggetto che domanda per ottenere il privilegio di cui vive, inventa un io che considera la sua condizione<br />

come una condizione senza uscita: «Io sono fatto così, non c’è niente da fare». Ritengo che chi di voi tratta<br />

con la tossicodipendenza avrà sentito spesso frasi come: «È così, non c’è niente da fare; non ne uscirò mai».<br />

Mentre nella nevrosi c’era la rimozione, nella psicosi c’è il rigetto di ogni domanda. «Tu non mi puoi<br />

invitare, tu non puoi muoverti». Si tratta di imperativi rivolti a un soggetto dalla parte <strong>del</strong>l’altro che<br />

comanda. Tra il soggetto e gli altri <strong>del</strong>l’universo c’è odio: «O io o loro». L’unico altro da ammirare – e<br />

odiare è quell’altro esclusivo di ogni altro che l’individuo ha eletto e di cui egli stesso vuole essere oggetto<br />

di ammirazione identificandovisi.<br />

Vi riporto un esempio breve da un’analisi: si tratta di un uomo che indugia ormai da anni volentieri sulla<br />

soglia <strong>del</strong>la psicosi. Egli dice: «Quando, bambino, mi sono accorto che mia madre era di mio padre, per me è<br />

stata una <strong>del</strong>usione. Da quel momento sono crollato. Io non valgo niente. Solo gli altri sono importanti. Non<br />

sono capace di nulla. Io sono fatto così». Riconosce che il ragionamento non è coerente, che logicamente si<br />

può smontare come un castello di carte. Ammette: «Se lascio cadere queste mie teorie le chiama così io<br />

devo cambiare tutto, ma non saprei più che fare». Questa ammissione fa sì che quest’uomo non sia psicotico,<br />

perché indica che non si è asserragliato nell’idea non ci sia niente da fare.<br />

In Lady Macbeth di Shakespeare vi è un chiaro esempio di coppia <strong>del</strong>irante, folie à deux con corredo<br />

allucinatorio. Due individui che non sono sovrani, non sono né principi né re, ma due usurpatori che<br />

falliscono già in quanto nevrotici nel momento in cui avrebbero potuto diventare regnanti, cadono in preda<br />

alla follia, perdendo tutto. In quest’opera ritroviamo alcune formulazioni brillanti <strong>del</strong>la figura <strong>del</strong>la psicosi<br />

come destino patologico <strong>del</strong>la nevrosi.<br />

Eppure la psicosi non costituisce la «soluzione finale» per la norma individuale. Questa sarà congettura e<br />

pratica <strong>del</strong>la perversione.<br />

PERVERSIONE<br />

La perversione è un’operazione culturale realizzata su scala mondiale mediante i mezzi di comunicazione<br />

utilizzati dalla propaganda. Nella perversione ci sono la totale assenza <strong>del</strong>le passioni e il massimo<br />

<strong>del</strong>l’asetticità, malgrado attività cosiddette perverse (p.es. l’omosessualità), la cui pratica non qualifica in sé<br />

la perversione. Ciò che caratterizza la formula <strong>del</strong>la perversione è il rinnegamento <strong>del</strong> pensiero <strong>del</strong> beneficio,<br />

l’eliminazione definitiva <strong>del</strong> soggetto, l’irrisione <strong>del</strong>la memoria <strong>del</strong> beneficio, l’eliminazione di ogni<br />

differenza. La perversione opera una trasformazione <strong>del</strong>la norma individuale, per cui ognuno sarebbe uguale<br />

37


a ogni altro, non c’è alcuna soddisfazione, non esiste privilegio per nessuno. È evidente che nella perversione<br />

massima è la discriminazione di tipo razziale, a partire dai sessi.<br />

Come si configura il rapporto nella perversione, se vengono meno produzione e guadagno, i fattori che lo<br />

qualificano? Nella perversione non c’è guadagno in quanto tutti sono uguali. Al posto <strong>del</strong> rapporto subentra<br />

l’interazione. Le relazioni sono regolate da strategie di controllo, più precisamente strategie di comando.<br />

Mentre nella nevrosi avevamo la rimozione, e nella psicosi il rigetto <strong>del</strong>l’iniziativa e quindi il venir meno<br />

<strong>del</strong>la ricerca <strong>del</strong>la soluzione, nella perversione viene eliminata la questione stessa: «Non facciamoci più il<br />

problema <strong>del</strong>la soddisfazione, lasciamolo agli illusi (nevrosi) che ancora vi credono».<br />

Ho letto di recente la sceneggiatura di un film attualmente sugli schermi che rende bene l’idea <strong>del</strong>la<br />

perversione in quanto operazione culturale. Il riferimento è all’ultimo film di Benigni, La vita è bella. Non<br />

dico affatto che Benigni sia perverso, ma che il capolavoro che ha realizzato è un buon esempio di<br />

operazione perversa. Che cosa vediamo in questo film senza una virgola fuori posto, dagli attori straordinari,<br />

che ci presenta l’orrore con dolcezza fino a commuoverci?<br />

Fin dall’inizio <strong>del</strong>la vicenda, le situazioni paradossali che ci mostra ne segnalano il genere: è un film comico.<br />

Fin dall’inizio si tratta di gioco; dal momento in cui Guido incontra la donna che diventerà sua moglie in poi,<br />

i rapporti si realizzano come gioco, per gioco, prendendosene gioco. Durante tutto il film, la donna si<br />

presenta come «la stupita», colei che viene presa sempre di sorpresa, quasi non fosse in grado di pensare.<br />

Suo figlio Giosuè è una figura patetica di bimbo che tenta e ritenta di ribellarsi ai tentativi <strong>del</strong> padre di<br />

presentargli gli orrori <strong>del</strong> campo di concentramento come un grande gioco.<br />

Se volete un esemplare di quello che noi diciamo essere l’ingenuità <strong>del</strong> bambino, basta pensare a Giosuè, ma<br />

è anche grazie alla scelta <strong>del</strong>la figura di Giosuè, bambino arguto, pensante, tenace, che Benigni non ci risulta<br />

perverso.<br />

La storia narra la vicenda di una famiglia italiana durante l’occupazione nazista. Lui incontra lei, promessa<br />

sposa a un gerarca fascista. La sera <strong>del</strong>la festa di fidanzamento, allestita nell’albergo <strong>del</strong>lo zio ebreo di lui,<br />

avviene uno dei primi attacchi a danno degli ebrei: il cavallo <strong>del</strong>lo zio viene trovato coperto di vernice verde<br />

con la scritta «cavallo ebreo». Ma lui utilizza il cavallo per entrare nel salone improvvisando un numero<br />

circense e portarsi via la promessa sposa <strong>del</strong>l’altro. Lui e lei si sposano e avranno un bambino, Giosuè; nel<br />

frattempo lui, laico di origini ebraiche, ha aperto una libreria cui ha dovuto apporre la scritta «libreria ebrea».<br />

In quanto ebreo, viene internato con il bambino e con lo zio. Lei, non ebrea, assente al momento <strong>del</strong>l’arresto,<br />

li rincorre, sale sul treno in cui sono stati rinchiusi e si fa deportare. Arrivati al campo di concentramento, il<br />

bambino, che non capisce cosa stia accadendo, viene convinto dal padre con esibizioni clamorose che si<br />

tratta di un grande gioco. Era il giorno <strong>del</strong> suo compleanno: «Ecco il regalo per il tuo compleanno: un<br />

viaggio in treno». Il bambino continua a ribellarsi, piange, dice che quel gioco non gli piace, non crede<br />

neanche che si tratti di un gioco, non ha visto in giro nessun bambino, ha anche saputo che i bambini<br />

diventano saponette. Di volta in volta, il padre lo convince. Il film termina con l’entrata degli americani, la<br />

smobilitazione <strong>del</strong> campo e l’uccisione dei detenuti da parte <strong>del</strong>le SS. Il padre riesce a reggere la finzione<br />

fino al momento in cui vede che le donne vengono caricate sul camion, allora va alla ricerca <strong>del</strong>la moglie e<br />

nel tentativo viene ucciso. Nel frattempo il bambino, sempre d’accordo con il padre, resta nascosto per non<br />

perdere al gioco. Il padre gli aveva detto di uscire solo quando non avesse sentito più alcun rumore. Se vi<br />

fosse riuscito, avrebbe vinto gli ultimi settanta punti. Il bambino esegue, e quando esce si trova davanti un<br />

carro armato americano: «È vero, abbiamo vinto!». Il gioco-inganno è riuscito, il padre è morto.<br />

Questo «grande gioco», che usa <strong>del</strong>l’ingenuità <strong>del</strong> bambino a dispetto dei suoi tentativi per ribellarsi fino alla<br />

capitolazione finale, presentato come una vicenda in cui spicca il sacrificio <strong>del</strong> padre che vorrebbe difendere<br />

il figlio dall’orrore, è in realtà un gioco che corrisponde alle teorie dei giochi. Che sia un gioco strategico lo<br />

si vede dal fatto che non comincia con l’entrata nell’orrore <strong>del</strong> campo di concentramento, ma già fin dalle<br />

prime scene <strong>del</strong> film. La vita è bella è: la vita è un gioco, un gioco cattivo.<br />

38


In questo film troviamo un buon esempio <strong>del</strong>la perversione come ciò in cui il nevrotico è tentato di cadere.<br />

Così come il bambino ingenuo cede all’inganno <strong>del</strong>l’altro che mette in crisi il suo pensiero già ben formato,<br />

così nella nevrosi l’individuo, già cedevole, è tentato dalla perversione.<br />

Le tossicodipendenze mancano nelle quattro psicopatologie descritte. Come vi è già stato detto, esse non<br />

formano una classe psicopatologica a sé. Pietro Cavalleri durante il Convegno di apertura <strong>del</strong> Corso diceva<br />

che la tossicodipendenza spinge sul versante psicosi-perversione o, come ha chiarito Gabriella Pediconi,<br />

spinge verso la psicopatologia non clinica. Nella perversione non c’è più posto né per i sintomi, né per<br />

l’inibizione né per l’angoscia. Di questi fattori <strong>del</strong>la malattia l’individuo perverso sa, ma non ne fa sapere<br />

assolutamente nulla agli altri, risolve tutto strategicamente. La tossicodipendenza è una via larga alla<br />

menzogna, e quindi alla soluzione strategica <strong>del</strong>la propria angoscia.<br />

DISCUSSIONE<br />

Richiesta di approfondimento circa la questione dei vizi<br />

Riportare la psicologia nel suo ambito, la moralità, è stato il grande passo compiuto da Freud, che noi<br />

continuiamo.<br />

Ho fatto riferimento al vizio di gola quando ho introdotto il dubbio nella nevrosi. Il dubbio nevrotico deriva<br />

dall’incertezza riguardo al principio di piacere, quella facoltà individuale di giudizio che inizia con la<br />

distinzione tra piacere e dispiacere e che servirà da base al pensiero (competenza individuale di psicologia,<br />

morale, e diritto). Fin dai primi momenti dopo la nascita, la distinzione piacere – dispiacere è formata<br />

nell’uomo.<br />

Ne deriva che<br />

1. il piacere viene subito esperito come soddisfazione connessa alla risposta al bisogno fornita da un altro.<br />

L’allattamento ne è il primo documento. Il bisogno nasce con l’esperienza <strong>del</strong>la soddisfazione, non prima di<br />

essa;<br />

2. il piacere come soddisfazione non consiste nel venir meno <strong>del</strong> dispiacere come accade qualora si abbia per<br />

esempio mal di testa. In questo caso, il venir meno <strong>del</strong> dolore è provato come un piacere, analogamente al<br />

piacere residuo nella patologia. Nella patologia infatti, il piacere è perlopiù ridotto a eliminazione di<br />

dispiacere: qualsiasi cosa andrà bene purché il dolore sparisca; il concludere: «ci penserò domani» è un<br />

sollievo di pensiero sperimentato dall’insonne come piacere <strong>del</strong> corpo, che si lascerà prendere dal sonno. La<br />

soddisfazione propriamente non è questa, la soddisfazione è quel di più nell’ordine <strong>del</strong> guadagno che prima<br />

non c’era. Perciò è scorretto asserire che l’uomo ha dei bisogni primari (istinti) e dei bisogni più evoluti:<br />

anche il mangiare è un bisogno già colto.<br />

L’inganno mette in crisi il principio di piacere come capacità giuridica, separando nella vita psichica morale<br />

da psicologia. «Non esiste male che possa farmi bene», «Non esiste bene che possa farmi moralmente male»,<br />

dice il principio di piacere. Di fronte alla posizione <strong>del</strong>l’adulto pedagogo che mette a tacere il bambino con<br />

dichiarazioni dal tono serio quali: «Faccio questo per il tuo bene, anche se ti fa male», il bambino si troverà<br />

in difficoltà, prima si ribella ma poi si piega angosciato. Prova ne è che parlerà sempre meno con i genitori. Il<br />

principio di piacere è l’unità tra morale e bene come salute. L’idea secondo cui ci sarebbero degli istinti è un<br />

errore derivante dalla non ubbidienza individuale al principio di piacere. L’istinto è una corruzione <strong>del</strong><br />

principio di piacere, come dice bene San Paolo: «Faccio quello che non voglio e non faccio quello che<br />

voglio». Ma l’uomo non è nato così, è diventato così e si è ammalato, perché chi dice: «Mosso dall’istinto ho<br />

fatto quello di cui poi mi sono pentito, e l’ho fatto perché inizialmente sono stato mosso dal piacere», in<br />

realtà segnala che c’era poco principio di piacere: o chi parla non sa sostenere il beneficio ricevuto, o chi<br />

parla non si è mosso di sua iniziativa, ma su comando. L’imperativo morale «Devi godere!» è il comando<br />

39


perverso che produce le svariate difficoltà nel rapporto tra i sessi che rovinano la vita di molti, dalla frigidità<br />

all’impotenza ecc.<br />

Ho nominato i vizi perché già nella dottrina medioevale dei vizi vi è un’intuizione <strong>del</strong>l’imperativo morale<br />

come comando perverso. La dottrina dei vizi rimane tuttavia fonte di equivoco (presta il fianco alla<br />

perversione) finché non si individua – ma è stato Freud il primo a farlo – l’esistenza di una patologia psichica<br />

che in realtà è una patologia morale. Che il vizio sia in realtà patologia, trova la sua dimostrazione in quelle<br />

patologie psichiche che più evidentemente di altre sono innestate sul vizio. L’anoressia è un buon esempio di<br />

vizio di gola, la bulimia ne è un esempio ancora più calzante. Nell’anoressia, persa di vista è la connessione<br />

normale tra appetito e soddisfazione, fino a non sentire più l’appetito. «Faccio quel che mi pare e piace»<br />

dicono l’anoressica e la bulimica – il sesso femminile sembra esserne maggiormente colpito là dove né mi<br />

pare né mi piace, ma devo. All’anoressica non pare neanche più di avere fame. Credere che il piacere sia fare<br />

quel che pare e piace, significa: «A me, che ho perso il principio di piacere, non resta che credere che mi<br />

piaccia». In quanto centrata sull’atto alimentare sconnesso dalla sazietà, sul mangiare come pura funzione<br />

senza moto, la bulimia preserva bensì il malato dalla morte fisica, ma consiste in un progresso nella<br />

perversione. È bene precisare che normalmente il moto alimentare inizia con l’appetito e termina con il<br />

nuovo appetito, è l’atto alimentare più il tempo <strong>del</strong>l’astensione dal cibo tra un pasto e l’altro fino al<br />

riaffiorare <strong>del</strong>l’appetito. La soddisfazione <strong>del</strong> mangiare consiste nella sazietà unita al sapere che avrò ancora<br />

appetito e mangerò di nuovo. La bulimia è un’abolizione di tutto questo, è un insoddisfacente mangiare per<br />

mangiare senza meta, senza termine e senza inizio.<br />

Quanto detto finora vale anche per la cosiddetta concupiscenza. Il vizio di concupiscenza (la sessualità)<br />

consiste nell’isolamento <strong>del</strong>la vita dei sessi dall’esperienza individuale per farne, come si dice, la «sfera<br />

sessuale». Ma visto che i sessi, presi a sé stanti, non possono se non andare male, è certo che quando si<br />

additano i sessi come colpevoli <strong>del</strong>la disfatta <strong>del</strong> rapporto, vi è invece incapacità individuale di pensare al<br />

beneficio che la differenza sessuale costituisce. In breve, il vizio non è «il di più» di piacere, ma è il piacere<br />

astratto, il piacere eletto a principio, e là dove un piacere è eletto a principio diventa un imperativo<br />

impraticabile.<br />

La maldicenza è massima con il passaggio dalla nevrosi alla psicosi e perversione. Dire male <strong>del</strong>l’altro è<br />

proprio <strong>del</strong> vizio di invidia. Conviene non sottovalutare il caso <strong>del</strong>la falsa testimonianza «a fin di bene».<br />

Nella nevrosi la falsa testimonianza si presenta sotto le mentite spoglie <strong>del</strong>la difesa a oltranza <strong>del</strong>l’altro<br />

offensore: «Non posso giudicare l’altro in quanto ha sbagliato nei miei confronti perché lo condannerei e lo<br />

perderei». Non per questo essa è meno nociva: «Il peccato dei padri ricadrà sui figli». Facendo eccezione alla<br />

sua coerenza, il nevrotico che vive di scrupoli, nelle sue vesti di genitore, è capace di nefandezze a danno dei<br />

figli. Noi incontriamo molti genitori avviliti dalla difficoltà di rapporto con i figli, che vivono in proiezione<br />

di un futuro nefasto, immaginandosi già un figlio depravato o <strong>del</strong>inquente: il rischio <strong>del</strong> genitore è la<br />

perversione «a fin di bene». Il genitore che non ha scrupoli nel pensare male di suo figlio: «diventerà un<br />

drogato» induce anzitutto il figlio nella tentazione di prenderne la via di fatto, in secondo luogo, pensando<br />

suo figlio come un potenziale <strong>del</strong>inquente, lo ripudia: il figlio in quanto figlio non è mai un <strong>del</strong>inquente.<br />

Pensando male il figlio lo rinnega e rinnegandolo, rinnega la propria paternità.<br />

L’invidia è l’obiezione massima al rapporto. Diversamente dalla gelosia per cui «l’erba <strong>del</strong> giardino <strong>del</strong> Re è<br />

sempre più verde» e allora… «la voglio anch’io», l’invidia non vuole, o meglio, vuole niente: «Visto che io<br />

non ho, nessuno dovrà avere».<br />

Approfondimento sulla psicosi infantile<br />

Qualora un bambino si presentasse come psicotico non sarebbe sufficiente la sintomatologia per concludere<br />

con una diagnosi di psicosi. La psicosi è diagnosticabile per la sua indisponibilità rispetto alla nevrosi in<br />

paragone con la norma. Il bambino che tenta di gettarsi dalla finestra, o si pensa come un camion o una<br />

bistecca che il padre vuole mettere in pa<strong>del</strong>la, o che quando va in bagno pensa di far bambini, rimane<br />

malgrado ciò disponibile alla correzione dei suoi pensieri: non ci crede, desidera cambiare idea.<br />

40


Riguardo a ogni patologia, sarebbe un errore pensare che la diagnosi differenziale si possa basare sull’entità<br />

dei disturbi. Che la psicosi sia tale perché mostrerebbe più disturbi <strong>del</strong>la nevrosi, che la perversione sia più<br />

abile ma meno grave <strong>del</strong>la psicosi ecc., è falso. La gravità è interna a ciascuna patologia ed è corrispondente<br />

all’entità <strong>del</strong>la fissazione alla teoria, non all’entità <strong>del</strong>la sintomatologia. La gravità consiste<br />

nell’indisponibilità all’offerta di pensiero altrui, cosa che il bambino non coltiva, essendo invece disponibile<br />

a cambiare idea. Si potrà quindi dire che il bambino in questione, che si presenta come uno psicotico dal<br />

punto di vista descrittivo (sintomatologico), è malato, ma non che è psicotico. Parlare di psicosi precoce è<br />

fuorviante, tant’è vero che trattare un bambino che presenta sintomi di psicosi come se fosse psicotico<br />

significa fissarlo nella propria patologia, impedendogli di guarire. In tale modo, la terapia fungerebbe da<br />

alimento per incrementare la patologia. Per questo <strong>del</strong>itto è già stata fissata la pena «Guai a chi scandalizza<br />

uno di questi piccoli. Meglio sarebbe che si mettesse una macina al collo…».<br />

Questo è uno dei motivi per cui abbiamo iniziato a trattare <strong>del</strong>la psicopatologia precoce e <strong>del</strong> relativo<br />

trattamento.<br />

Aggiungo infine di essere favorevole alla nozione di borderline, pur non utilizzandola. Il termine offre un<br />

vantaggio a favore <strong>del</strong> malato, in quanto suggerisce che egli ha pur sempre la possibilità di scegliere la<br />

direzione da prendere. Indica che non si tratta di un problema di struttura patologica, per cui in taluni casi<br />

non vi sarebbe via di scampo, ma pone l’accento sull’iniziativa personale nello scegliersi il proprio destino:<br />

«Guarda che tu puoi ancora scegliere».<br />

Se Benigni non è perverso, la sua opera perversa dove si appoggia?<br />

L’opera è un tentativo di soluzione nevrotica all’orrore. «Occupiamoci <strong>del</strong>l’orrore e cerchiamo di farne<br />

qualcosa di presentabile»: ne è risultato un prodotto che, cercando di fare uso <strong>del</strong>l’orrore, ne ha seguito la<br />

via. L’esito non poteva non toccare la perversione. Benigni è il primo a dire – come scrive nell’introduzione<br />

– che la vicenda narrata non è realtà, è piuttosto irreale, addirittura surreale. «Ho fatto il film per cercare di<br />

togliere l’orrore dalla banalità in cui versava nell’indifferenza generale, per dirvi che veramente è<br />

impossibile». Invece è stato possibile.<br />

Noi riteniamo che, riguardo all’orrore prodotto dall’odio, manchi ancora veramente un giudizio. Finché si<br />

rimane nella nevrosi il giudizio sull’odio non si compie, perché nella nevrosi l’esistenza <strong>del</strong>l’odio si constata<br />

ma non si vuole ammettere. Ai fini <strong>del</strong> giudizio occorre scienza e giurisprudenza, cioè psicologia. Solo<br />

l’individuo guarito acquisisce una conoscenza <strong>del</strong>la psicopatologia tale per cui potrà farne scienza e<br />

esercitare la giuris-prudenza atta a sapere che nell’orrore non c’è nulla di utile: l’unico trattamento <strong>del</strong>la<br />

perversione consiste nel sapere per giudicare.<br />

TEMI E AUTORI<br />

Casistica<br />

Guarigione<br />

Nevrosi<br />

Normalità<br />

Perversione<br />

Psicopatologia<br />

Psicopatologia precoce o Handicap psichico<br />

Psicosi<br />

Sessi<br />

Vizio<br />

41


Ancona, 17 Aprile <strong>1999</strong><br />

DIAGNOSI E IMPUTABILITÀ.<br />

DALL’AFFIDABILITÀ DELLA DIAGNOSI<br />

ALLA DIAGNOSI DI AFFIDABILITÀ<br />

Glauco Genga<br />

Introduco il tema di questa mattina servendomi anzitutto di una nota autobiografica. Fino a dieci anni fa ho<br />

lavorato come psichiatra in diverse Unità Sanitarie Locali <strong>del</strong>la Lombardia, e ricordo di aver compreso in<br />

quegli anni che il tema <strong>del</strong>la diagnosi versava, come si dice, in cattive acque nella psichiatria e nell’ambiente<br />

degli operatori psicosociali: le riunioni di équipe che avevano a tema la discussione di casi clinici erano<br />

noiose, e anche un po’ imbarazzanti, non solo per me. E questo perché appena la discussione toccava un<br />

qualche punto rilevante o significativo, o implicava l’uso di un termine concettualmente impegnato, e<br />

impegnativo, nel dibattito fra indirizzi psichiatrici diversi, il primario si adoperava, peraltro saggiamente, per<br />

spegnere la discussione, piuttosto che alimentarla. Poteva trattarsi <strong>del</strong> termine borderline, o idealizzazione, o<br />

sintomi di conversione… A ben vedere, era la rinuncia a ogni possibile esperanto in psichiatria: si sapeva<br />

che tra gli operatori presenti, fossero essi psichiatri o psicologi o assistenti sociali, ve ne erano alcuni che<br />

praticavano come psicoanalisti, altri che trattavano i pazienti solo con farmaci, altri ancora con il<br />

biofeedback, etc. Era perciò impossibile parlare chiaro, occorreva in un certo senso abbassare il tiro, e di<br />

parecchio. Quel che non avevo compreso è la portata <strong>del</strong>l’intera questione <strong>del</strong>la diagnosi in psichiatria, che<br />

(oggi ne sono persuaso) troppe volte rivela l’insufficienza propria <strong>del</strong>la psichiatria stessa a cogliere il<br />

nocciolo <strong>del</strong>la patologia con cui ha a che fare. È un’insufficienza, o una debilità, che va di pari passo con una<br />

disistima per il paziente, con una specie di disprezzo che negli anni ho imparato a riconoscere, e che già<br />

Freud aveva colto nel suo maestro Charcot, quando al suo riguardo, riferisce di aver pensato in preda a uno<br />

stupore quasi paralizzante: «Ma se lo sa (il ruolo <strong>del</strong>la sessualità nella patogenesi <strong>del</strong>l’isteria), perché non lo<br />

dice mai?». [1]<br />

Certamente anche io ho fatto degli errori, come tutti ne facciamo; l’importante è poi accorgersene e cercare<br />

di farne tesoro. In particolare ricordo che una volta, durante una mia reperibilità notturna mi ero recato in<br />

Pronto Soccorso particolarmente seccato, e invece di iniziare il mio intervento dal locale in cui si trovava<br />

l’ammalato, per prima cosa mi sono rivolto agli infermieri chiedendo loro di che cosa si trattasse: infatti la<br />

maggior parte <strong>del</strong>le volte venivo chiamato nel cuore <strong>del</strong>la notte per quegli stessi pazienti che erano stati<br />

dimessi il mattino precedente dal reparto di diagnosi e cura, cosa che trovavo molto frustrante. Gli infermieri<br />

mi hanno mostrato una pila di carte che il paziente si era portato con sé arrivando con i familiari alle due di<br />

notte: prescrizioni, certificati, richieste di ricovero vecchie e nuove. Fra queste vidi una richiesta di ricovero<br />

in medicina stilata dal medico curante cinque giorni prima per un sospetto di imprecisata patologia<br />

neoplastica. Non appena lo vidi nella stanza accanto, mi accorsi che quell’uomo sulla quarantina cercava la<br />

conferma diagnostica di un sospetto di tumore, che peraltro non aveva, ed era già stato ricoverato più volte in<br />

42


medicina e in neurologia, cercando di convincere il proprio mondo di malattia, un po’ come S. Paolo dice<br />

«convincere il mondo di peccato». Anche la moglie e il figlio quattordicenne, che si era portati con sé alle<br />

due di notte, tra sabato e domenica, si presentavano un po’ malconci, in una scena molto penosa. Ho<br />

ascoltato tutto il racconto di questo paziente, i suoi timori di essere ammalato «dentro, sopra, sotto» mentre<br />

le certificazioni dicevano che non aveva nulla di organico, e avvertivo che il problema sarebbe stato quello di<br />

scegliere se fare il trattamento sanitario obbligatorio e ricoverarlo in psichiatria, o rinviarlo all’ambulatorio il<br />

mattino dopo, o infine rinviarlo a casa senza alcun appuntamento. Questo era in effetti il motivo per cui<br />

avevano chiamato lo psichiatra. Dopo averlo ascoltato, ho raccolto questi fogli e gli ho detto: «Scusi, ma lei,<br />

con una richiesta di ricovero di martedì scorso, viene qui la notte tra sabato e domenica, anziché aspettare<br />

lunedì?». Quest’uomo mi ha risposto prontamente e con sussiego: «Ma io ho il diritto di sapere quello che<br />

ho!». Ecco, questa potremmo chiamarla una scena di ordinaria psichiatria da ente pubblico, compreso<br />

l’errore da me commesso, e che poteva costarmi caro: in più di un caso in cui qualche mio collega è stato<br />

aggredito in reparto o in pronto soccorso da un paziente ho potuto riscontrare un simile errore diagnostico<br />

che ha fatto in un certo senso da spina irritativa, provocando l’aggressione. A me andò bene. Questa persona<br />

era venuta in pronto soccorso perché sapeva che l’ente pubblico, di cui io ero un funzionario, gli doveva<br />

assicurare l’attenzione di qualcuno che alle due di notte gli desse niente affatto una risposta, ma la conferma<br />

che da due anni cercava reiteratamente e in modo insoddisfacente. Non lasciamoci sfuggire che una pretesa<br />

<strong>del</strong> genere non ha nulla a che fare con l’angoscia.<br />

Nei termini giuridici consueti, costui non era un individuo socialmente pericoloso, eppure sicuramente era un<br />

individuo molto pericoloso perché aveva saputo coinvolgere tutti quelli che gli erano vicini nella sua<br />

patologia. Ma il punto è: quale patologia? La diagnosi più ovvia sembra quella di psicosi, e in particolare un<br />

<strong>del</strong>irio ipocondriaco, per la sua incrollabile certezza di essere affetto da una malattia <strong>del</strong> suo organismo,<br />

mentre non lo era affatto. Invece le cose non stanno così: questo è un caso di querulomania, ovvero una<br />

forma di perversione caratterizzata in questo caso dal muoversi in base al sapere che il diritto statuale vigente<br />

assicura ad ognuno il diritto a ricevere una certa prestazione medica non appena ne faccia richiesta. Un<br />

soggetto così, per il fatto di agire in questo modo, di fatto appoggia la sua richiesta di soddisfazione<br />

sull’intera costituzione italiana, e sa di farlo secondo un suo proprio fine che può essere detto<br />

extracostituzionale, se non addirittura anticostituzionale.<br />

Pertanto, fino a quando egli resta in una simile posizione di pretesa di una prestazione, possiamo essere certi<br />

che è un soggetto assolutamente incurabile, e intrattabile.<br />

È un caso in cui è evidente la parte <strong>del</strong>la patologia psichica che chiamiamo non clinica. Il fatto che costui si<br />

presentasse comunque all’attenzione <strong>del</strong> medico e <strong>del</strong>lo psichiatra, non fosse che per portare la sua lagnanza,<br />

rappresenta tuttavia la quota parte di patologia clinica.<br />

Dopo poco più di due anni che lavoravo in quell’USL, mi sono stancato: posso dire di aver fatto<br />

un’autodiagnosi, accorgendomi di stare entrando anch’io nella melanconia che si respirava in<br />

quell’ambiente, allo stesso modo in cui respiravamo lo smog <strong>del</strong>lo hinterland milanese sede di quell’USL.<br />

Ma la mia era anche una diagnosi sui miei colleghi, come pure sul tipo di storia di quella località, molto<br />

rappresentativa <strong>del</strong>la storia <strong>del</strong> sindacalismo italiano dal dopoguerra in poi.<br />

Ho preferito dedicarmi interamente a un altro lavoro, fino ad oggi considerato una libera professione,<br />

espressione tutta da riesaminare e riscoprire: la professione psicoanalitica. La differenza è stata enorme, ed è<br />

stato un passaggio salutare. Tanto per cominciare, in ogni analisi la direzione, e perfino l’ambizione sono<br />

tutte incentrate sulla prognosi, e dunque sulla guarigione quale possibile destino di una patologia individuale.<br />

Il problema da cui ripartire per il nostro tema di oggi non è dunque tanto la diagnosi, ma la prognosi, che<br />

oggi non interessa quasi più nessuno a riguardo <strong>del</strong>le malattie psichiche. Ciò ha strettamente a che fare con il<br />

problema <strong>del</strong>la guarigione: chiediamoci se questa parola oggi sia ancora spendibile, se abbia un senso.<br />

Possiamo parlare con ragione di guarigione dalla patologia psichica, per noi stessi e per le persone di cui ci<br />

occupiamo professionalmente?<br />

43


La diagnosi è il mezzo per arrivare alla prognosi, per poter dire se la patologia di un soggetto è suscettibile di<br />

miglioramento, o se invece va incontro ad un destino infausto.<br />

Già Raffaella Colombo ha ricordato che le varie forme <strong>del</strong>la psicopatologia non sono da considerare alla<br />

stregua di optional fra loro omologabili o equivalenti: non è per un caso né allo stesso modo che un soggetto<br />

si ammala diventando nevrotico, psicotico, perverso o handicappato: è vero invece che in tutti i casi il<br />

passaggio attraverso la nevrosi è obbligatorio, al punto che potremmo considerare la nevrosi una sorta di<br />

patologia comune, mentre le altre forme rappresentano destini diversi, e perfino tra loro contrapposti, <strong>del</strong>la<br />

nevrosi stessa.<br />

Si osserva che quanto più un quadro patologico è grave, tanto meno il soggetto è interessato in prima persona<br />

al proprio destino nella patologia. Di solito, tra medici siamo abituati a pensare che più una patologia<br />

presenta sintomi gravi e più è grave essa stessa, come accade ad esempio in un’infezione o in un processo<br />

degenerativo. Per ciò che riguarda la malattia psichica non è così: la gravità di una forma patologica non è<br />

data dalla gravità dei sintomi, anzi potremmo dire che più i sintomi clinici sono gravi e meno è grave la<br />

patologia, ovvero più favorevole è la prognosi. Ciò non è strano o illogico: la presenza di angoscia, inibizioni<br />

o sintomi spinge a ricorrere al medico o allo psicologo, ed è qualcosa che consente al soggetto di porsi<br />

almeno il problema di fare qualcosa, di prendere un’iniziativa per curarsi.<br />

La gravità <strong>del</strong>la psicopatologia coincide invece con la cancellazione, o liquidazione <strong>del</strong>la parte clinica di<br />

essa, in forza di una ragione perversa, la stessa ragione che viene fornita come sostegno alla patologia<br />

individuale dalla patologia presente nella civiltà. Sto alludendo alla legittimazione sociale e culturale che una<br />

forma di civiltà può offrire ad un atto criminoso.<br />

È lo stesso problema che si sono trovati ad affrontare gli psichiatri <strong>del</strong>l’American Psychiatric Association<br />

che hanno costituito nel 1974 la Taskforce incaricata di iniziare l’elaborazione <strong>del</strong> Diagnostic and Statistic<br />

Manual of Mental Disorders, noto come DSM. Nella cosiddetta diagnosi multiassiale, quello che viene<br />

chiamato disturbo di personalità sull’Asse II è ciò che noi indichiamo come patologia non clinica: un<br />

disturbo <strong>del</strong>la relazione con danno dei soggetti implicati in essa. Il danno è strutturato in modo tale che può<br />

non arrivare mai ad avere un’espressione clinica. La parola clinica viene dal greco clinein, che significa<br />

sdraiarsi, e per l’appunto nella clinica succede che qualcuno si reca all’ambulatorio <strong>del</strong> medico o in ospedale<br />

o sul divano di uno psicoanalista, affinché qualcuno possa raccogliere i dati relativi al suo disturbo ed<br />

esaminarli con l’ammalato in vista di una soluzione. Nella patologia non clinica tutto ciò non avviene, perché<br />

altre forme patologiche, culturalmente accettate e legittimate scoraggiano l’iniziativa <strong>del</strong> soggetto in tal<br />

senso.<br />

Quando frequentavo l’istituto di psichiatria mi veniva detto che il tal professore era un luminare anche<br />

perché sapeva fare diagnosi da come un paziente apriva o chiudeva la porta <strong>del</strong>la stanza in cui si svolgeva il<br />

colloquio. La cosa non mi ha mai convinto: nessuno può far diagnosi da come qualcuno apre o chiude una<br />

porta, per un motivo molto semplice: per porre una diagnosi occorre che qualcuno apra la bocca, pronunci<br />

<strong>del</strong>le frasi, si cimenti in qualche modo in una conversazione. La diagnosi stessa è in fondo un giudizio<br />

espresso sulla facoltà di giudizio di qualcuno: ma per essere posta, bisogna partire da singole frasi, o giudizi<br />

espressi articolando soggetto, verbo e predicato. Non ogni giudizio è una diagnosi (se io dico: questo è un<br />

bicchiere o questo bicchiere è vuoto, questo è un giudizio di realtà ma non è una diagnosi), ma vale che ogni<br />

diagnosi è un giudizio.<br />

Per saper porre giudizi di questo tipo occorre liberarci di una sorta di pedaggio intellettuale che tutti noi<br />

paghiamo circa il concetto di normalità, parola che ormai compulsivamente e insipientemente siamo portati a<br />

virgolettare, proprio perché il concetto di normalità è stato attaccato da ogni parte ed espunto. Lo si considera<br />

un modo di dire, come se la normalità psichica non esistesse, come se si avesse un po’ di vergogna a<br />

parlarne, a tal punto che si dice «normale-tra-virgolette». Vuol dire strizzare l’occhio perché tanto si sa che<br />

non esiste la normalità.<br />

La relazione di Pietro Cavalleri al Convegno di apertura di questo Corso vi ha illustrato che cosa sia una<br />

relazione normata da una legge di soddisfazione: quella è la normalità nei rapporti. L’esistenza di questa<br />

44


normalità ci viene testimoniata dall’osservazione di quei soggetti normali che sono i bambini, almeno finché<br />

non vengono ammalati. Il bambino è un soggetto che fino ad un certo momento è effettivamente e<br />

descrittivamente capace di muoversi e di rapportarsi con adulti e altri bambini avendo come fine <strong>del</strong> proprio<br />

moto la soddisfazione. Vi rimando a quel che accade tra Soggetto e Altro, così come lo abbiamo descritto<br />

nello schema che abbiamo chiamato clessidra: offerta, domanda, e poi ritorno <strong>del</strong>la soddisfazione:<br />

«Allattandomi, mia madre mi ha eccitato al bisogno di mettere in moto altri per la mia soddisfazione».<br />

Quella di decidere se accettare o meno di parlare di normalità psichica è una <strong>del</strong>le decisioni più importanti<br />

che possiamo prendere nella nostra vita; da questa decisione deriva, tra l’altro, come classificare le forme di<br />

patologia psichica.<br />

Ora mi servirò di alcune tavole che ci aiuteranno ad indagare meglio il nostro tema. Le tavole sono state<br />

messe a punto da Pietro Cavalleri, e sono tratte dal suo articolo Nosografia psicopatologica.<br />

Un’introduzione, [2] nel nostro testo La città dei malati, che vi invito a leggere.<br />

La prima tavola [3] mostra una rappresentazione <strong>del</strong>la nosografia psichiatrica che grosso modo si rifà a<br />

quella kraepeliniana e alla scuola tedesca <strong>del</strong> secolo scorso, qui rivisitata e aggiornata, in cui la<br />

classificazione <strong>del</strong>le forme patologiche non comprende alcun paragone con un concetto di normalità<br />

psichica, comunque esso sia inteso. Le forme psicopatologiche sono qui classificate secondo differenze o<br />

analogie tra i vari quadri clinici, e per descrivere così la patologia psichica non è necessario sostenere che<br />

esista al di fuori di questa tabella una possibilità chiamata normalità psichica, un modo di vivere normale,<br />

perché è sufficiente descrivere le diverse forme morbose tratteggiandone le reciproche differenze.<br />

Va segnalato che tra i meriti di Kraepelin vi è quello di aver descritto ciò che oggi è chiamato schizofrenia, e<br />

di averla chiamata dementia praecox. Poi Bleuler ha coniato e introdotto il termine schizofrenia, con il<br />

risultato che nei decenni successivi ha vinto, per così dire, la denominazione di Bleuler. Ma non era sbagliata<br />

la posizione di Kraepelin: chiamando dementia praecox la psicosi, o certi quadri di psicosi, egli poneva<br />

l’accento sulla prognosi, cioè sull’evoluzione che conduce il malato alla demenza in assenza di un disturbo<br />

organico che comporti la demenza: l’accento era dunque sul decorso, e sull’esito.<br />

In un clima positivista come quello <strong>del</strong>l’800 una tale classificazione <strong>del</strong>le malattie psichiche risentiva <strong>del</strong><br />

grande impulso che nella modernità, dal ’600 in poi, la scienza medica aveva tratto dalla pubblicazione <strong>del</strong>la<br />

prima tassonomia botanica di Linneo. Dalla classificazione di tutto il mondo vegetale in base alla variabilità<br />

45


esistente fra una specie e l’altra, si voleva passare alle malattie come fossero variabili previste dalla natura<br />

stessa. Si voleva trattare ciò che è patologico seguendo lo stesso procedimento che la botanica aveva usato<br />

per descrivere ciò che è fisiologico, mentre in presenza di un processo patologico occorre seguire un’altra<br />

strada, che tenga conto <strong>del</strong>l’agente patogeno, e <strong>del</strong>l’impatto di questo agente sull’organismo ammalato e sul<br />

decorso. La classificazione di Kraepelin, che non è esattamente quella di questa tabella ma cui questa tabella<br />

si rifà, risente di quel clima culturale. Ecco perché non vi troviamo alcuna annotazione di un paragone di<br />

tutto ciò che è patologico con qualcosa che sia normale e al di fuori <strong>del</strong> patologico.<br />

Nella seconda tavola [4] trovate la medesima classificazione, o meglio quello che essa è diventata<br />

dopo l’introduzione <strong>del</strong> DSM III già citato. Si può vedere come le caselle cui corrispondono i<br />

quadri psicopatologici siano aumentate di numero, come è descritto nei riquadri centrali:<br />

1. Disturbo ad esordio in infanzia, fanciullezza e adolescenza;<br />

2. Disturbi mentali organici;<br />

3. Disturbi da uso di sostanze;<br />

46


4. Schizofrenia;<br />

5. Disturbo <strong>del</strong>irante… e così via, il tutto in 17 riquadri.<br />

Nella colonna di sinistra, quella con i rettangoli punteggiati, troviamo una nostra considerazione su come<br />

queste categorie classificatorie possono distribuirsi secondo la nostra distinzione tra patologia clinica e nonclinica.<br />

Alcune aree sono tratteggiate in colore diverso, perché sosteniamo che mentre nevrosi e psicosi sono<br />

totalmente nella patologia clinica, altri quadri patologici come la melanconia, la perversione sessuale, o<br />

l’abuso di sostanze sono da porre nella patologia non-clinica. Infine nella colonna di destra è accennata la<br />

nostra proposta di classificazione: ognuna <strong>del</strong>le forme classificate in questo modo dal DSM, nella nostra<br />

classificazione può trovare posto soltanto in una <strong>del</strong>le seguenti quattro categorie:<br />

1. Nevrosi;<br />

2. Psicosi;<br />

3. Handicap psichico (psicopatologia precoce);<br />

4. Perversione.<br />

La terza tavola [5] mostra a sinistra un’area che designa l’esperienza costitutiva <strong>del</strong>l’Io normale, esperienza<br />

che abbiamo detto essere reale, osservabile e descrivibile almeno fino a un certo momento <strong>del</strong>la vita<br />

individuale; vi è poi un’area chiamata psicopatologia sulla destra e un riquadro messo a cavaliere tra le due<br />

che chiamiamo area <strong>del</strong>la malattia. L’Io normale esiste fino al momento in cui viene ammalato, cioè viene<br />

deviato dalla norma che egli stesso aveva posto nei suoi rapporti con gli altri. L’Io viene attivamente<br />

ammalato da un atto patogeno di un altro. L’inganno, il trauma precede il momento in cui possiamo<br />

rintracciare la presenza di sintomo, angoscia e inibizione. Distinguiamo dunque il concetto di malattia da<br />

quello di psicopatologia, perché per poter parlare di psicopatologia occorre che il soggetto ammalato passi ad<br />

elaborare attivamente la propria patologia, cioè occorre che ci metta <strong>del</strong> suo, che ne diventi collaboratore, o<br />

collaborazionista. [6] Il passaggio alla patologia vera e propria comporta una rinuncia più o meno ingente<br />

<strong>del</strong>le proprie difese, e allontana in modo più deciso, più grave e più pesante, dalla norma.<br />

47


Nella quarta tavola, [7] simile alla precedente, si vede come nell’area non-clinica si situano forme come la<br />

paranoia, la melanconia, la tossicomania, che di solito sono trattate come indipendenti tra loro, mentre noi le<br />

raduniamo nella medesima area <strong>del</strong>la patologia non clinica.<br />

Una distinzione correlata a questa classificazione è quella, già freudiana, tra lutto e melanconia. Non ci si<br />

mette a consolare un melanconico, mentre con una persona che abbia subìto un lutto è tutt’altra faccenda.<br />

Occorre anche qui operare secondo una diagnosi differenziale: una cosa è il lutto e un’altra è la melanconia.<br />

Una breve nota sulla parola depressione, che ha guadagnato terreno a partire dagli anni ’50: all’inizio di<br />

quella che è stata chiamata nella storia <strong>del</strong>la psichiatria l’era degli psicofarmaci, le industrie farmaceutiche<br />

dovevano vendere il loro prodotto, crearne la domanda, e a questo scopo occorreva una nuova entità clinica,<br />

che si distinguesse da quella che classicamente era la melanconia, e prima ancora il vizio morale <strong>del</strong>l’accidia.<br />

Si può intuire che quella era tutta un’altra tassonomia, un’altra classificazione: ciò che oggi siamo abituati a<br />

pensare come depressione in chiave biologica, era considerato uno dei sette vizi capitali. Si potrebbe entrare<br />

nel merito di quella classificazione, di origine medioevale (penso a Tommaso d’Aquino) e vederne i limiti e i<br />

possibili sviluppi. Resta il fatto che è un errore e perfino un <strong>del</strong>itto trattare con degli antidepressivi qualcuno<br />

che ha avuto un lutto, perché il lutto altro non è che il tentativo fisiologico, e non patologico, di cercare una<br />

via per disinvestire pensieri e affetti che erano fino a quel punto indirizzati al partner perduto per investire<br />

nuovamente su altri eventuali partner.<br />

Quando mi è capitato di prestare una consulenza nel ricovero per anziani <strong>del</strong> Comune di Milano, ho visitato<br />

una vecchia donna che era costretta in carrozzella, poiché le avevano amputato entrambe le gambe a causa<br />

<strong>del</strong>le complicanze <strong>del</strong> suo diabete. Il punto è che il medico di quel reparto voleva che le prescrivessi un<br />

antidepressivo, mentre questa donna non aveva mai condotto una vita da depressa o melanconica nei suoi<br />

precedenti settant’anni. Mi sono rifiutato, in nome <strong>del</strong>la scienza, oltre che <strong>del</strong> buon senso. Già costei doveva<br />

trascorrere il resto dei suoi anni in ricovero, poi c’era stata l’amputazione <strong>del</strong>le gambe: era evidente e<br />

ragionevole che avesse degli ovvi motivi per essere triste.<br />

Viceversa, se in un pronto soccorso viene portata una persona che se ne sta con la testa fra le braccia, tutta<br />

rannicchiata in un angolo, e non risponde alle domande che le vengono rivolte, questo può essere un caso <strong>del</strong><br />

tutto diverso. Se si riesce a venire a sapere che non le è successo niente, è probabile che non sia lutto, ma<br />

melanconia. Se non c’è nulla che motivi o giustifichi l’atteggiamento che ho un po’ descritto, dobbiamo<br />

pensare alla distinzione tra ciò che è normale e ciò che è patologico. La prima accezione di diagnosi cui<br />

dobbiamo tenere, è la distinzione fra ciò che va e ciò che non va, tra ciò che è normale e ciò che è patologico.<br />

48


Nella quinta tavola [8] le aree dei rettangoli raffigurati sono i medesimi, ma sotto sono indicate <strong>del</strong>le frecce,<br />

che alludono a quello che abbiamo chiamato insulto recato al soggetto dall’altro patogeno. In altre parole<br />

nella classificazione <strong>del</strong>le forme patologiche è compresa una qualche descrizione di come vanno le cose nella<br />

patogenesi, allorché si viene ammalati. L’azione, l’atto di qualcuno, di solito perverso e dunque attivamente<br />

impegnato ad ammalare altri, viene svolta nei confronti di qualcuno che è ancora sano, ma anche incapace di<br />

giudicare l’Altro nel suo atto. Inizia allora il percorso dalla salute alla malattia, e quindi alla patologia: non ci<br />

si ammala per caso, nulla di naturale nell’inizio <strong>del</strong>la malattia come anche nel suo decorso.<br />

La sesta tavola [9] mostra, con una freccia che va nella direzione opposta a quella di cui vi ho appena detto,<br />

come la malattia sia l’antefatto costante di tutte le patologie cliniche e non-cliniche, e ciò significa che si<br />

rimane malati fino alla patologia più grave. Vale a dire che rimane un residuo di elaborazione in proprio in<br />

assenza di una soluzione per ciò che è successo: il soggetto non ne viene a capo o, come diceva la volta<br />

scorsa Raffaella Colombo, il nevrotico è un soggetto smarrito. E questo è un punto su cui può fare leva chi<br />

voglia o debba trattare persone malate. Non esiste nessuno fra gli esseri umani che sia perfettamente<br />

patologico o perfettamente perverso. Il diavolo, se esistesse in persona, lo sarebbe in quanto, secondo la<br />

dottrina cattolica, il diavolo è uno continuamente al lavoro ad elaborare menzogne. Ma un soggetto siffatto<br />

non esiste in carne ed ossa: anche al più perverso dei perversi può accadere di non riuscire a dormire perché<br />

angosciato, solo che non ce lo verrà a dire. Ma la permanenza di quella parte di disturbo clinico, anche nei<br />

49


quadri più gravi, è ciò che all’occorrenza, in presenza di un filo di rapporto con qualcuno, consente di dire<br />

che non tutti i giochi sono fatti.<br />

Ora rispondo alla questione: a chi compete la diagnosi? Chi è competente in materia di diagnosi? Rispondo<br />

che è di competenza di ciascun individuo, non solo <strong>del</strong> medico, non solo <strong>del</strong>lo psichiatra, non solo <strong>del</strong>lo<br />

psicologo.<br />

Il pensiero di natura vive di diagnosi continua, esattamente come il pensiero <strong>del</strong> bambino vive di diagnosi<br />

continua. Questa è un’osservazione che mi proponeva questa mattina Gabriella Pediconi. La vita psichica di<br />

un bambino è fatta di diagnosi continua, diagnosi, appunto, sull’affidabilità <strong>del</strong>l’Altro. Il primo pensiero è<br />

totalmente centrato su questo, ed esso è presente anche in noi, e tuttavia costruzioni, o elaborazioni<br />

successive ci hanno più o meno allontanato dall’avere presente che esso è il nostro primo pensiero e<br />

interesse: il sapere se l’Altro cui ci rivolgiamo, con cui parliamo, con cui mangiamo, è o no un individuo<br />

affidabile, che merita attenzione e fiducia.<br />

Questo è anche, a mio giudizio, il motivo per cui oggi ci si sposa meno. Una capacità diagnostica è<br />

necessaria per sposarsi, ovvero occorre arrivare al giudizio di affidabilità circa il partner. Come si dice,<br />

qualsiasi cosa accadrà, con questo o questa tale, succederanno tante cose, fortunate o sfortunate, ma sul fatto<br />

che siamo <strong>del</strong>la stessa partita non torno più indietro, sul fatto che sia con me e per me non avrò ripensamenti.<br />

È un’idea laica e razionale di cosa sia un coniugio fra uomo e donna. Io dico che oggi ci sono meno unioni,<br />

benedette o meno sull’altare, e molte più storie per questa perdita progressiva <strong>del</strong>la capacità diagnostica. Se<br />

pensate al termine storia (come nella frase: «Ho avuto una storia con uno»), questo è un termine che ha<br />

appena vent’anni di storia, prima era «una storia d’amore», poi c’è stata l’elisione <strong>del</strong>l’amore, perché non ci<br />

crede più nessuno, ed è rimasta la storia. Ma se è così, una storia finirà male perché parte già con<br />

l’eliminazione <strong>del</strong>la possibilità che stia in piedi, e cioè parte in assenza <strong>del</strong> giudizio che <strong>del</strong>l’Altro potrò<br />

fidarmi fino all’ultimo giorno.<br />

Un esempio di quanto il pensiero <strong>del</strong> bambino ancora sano sia centrato su questo tema <strong>del</strong>la diagnosi di<br />

affidabilità <strong>del</strong>l’altro è dato da un’esperienza banale che mi è capitata di fare. Una volta ero con Giacomo<br />

Contri al bar sotto il suo studio, e il bar era piuttosto affollato, mentre andando a prendere qualcosa al banco,<br />

stavamo parlando. Ricordo che ad un certo punto Contri si è arrestato, e poco dopo si è fermato nel discorso,<br />

e mi ha fatto notare che cosa era successo vicino a noi: una bambina, avrà avuto cinque o sei anni, che nella<br />

folla era già con qualcuno, e dunque non era sola o smarrita, ci aveva visti mentre ci avvicinavamo al banco<br />

senza vederla, e subito aveva fatto un passo indietro. Ecco, cose così fanno parte <strong>del</strong>la psicologia <strong>del</strong>la vita<br />

quotidiana. Freud ha scritto la Psicologia <strong>del</strong>la vita quotidiana, noi dovremmo essere capaci di scrivere o<br />

almeno riflettere sugli atti <strong>del</strong>la psicologia <strong>del</strong>la vita quotidiana. Infatti, nella scena <strong>del</strong> bar, alla bambina non<br />

è successo niente di patogeno: ha solo fatto un passo indietro. Perché lo ha fatto? Fino a quel momento il bar<br />

era composto da due specie di persone: quelle che erano con lei, e che già erano riconosciute come affidabili,<br />

e tutti gli altri che erano la folla. A un certo momento la bambina, vedendoci avvicinare ha pensato: che cosa<br />

vogliono da me questi due? Non è un pensiero sospettoso o paranoico («questi due vogliono qualcosa da me<br />

o vogliono farmi <strong>del</strong> male») ma è pensiero <strong>del</strong> nesso che può essere o no istituito tra i propri moti e quelli di<br />

altri. Ha fatto bene a fare un passo indietro, come dire: ho bisogno di più elementi per giudicare. Sarà stata la<br />

confusione, o il timbro <strong>del</strong>la voce, o il fatto che non ci fossimo accorti di lei: la bambina si preparava ad un<br />

supplemento di indagine prima di concederci la sua prossimità. Il pensiero è sempre all’inizio pensiero di un<br />

possibile legame tra me e un altro, ed è certo che non ci si dà al primo venuto.<br />

Ora che c’entra l’imputabilità in tutto questo? La parola l’avete già sentita usare nelle lezioni precedenti, e<br />

avete sentito dire che all’interno di una relazione normata, soddisfacente, ogni atto <strong>del</strong> soggetto verso l’altro<br />

e <strong>del</strong>l’altro verso il soggetto è atto imputativi, vale a dire che riconosce un effetto su di sé di un’azione svolta<br />

da un altro. Può essere un effetto benefico o malefico, ma un atto di pensiero riesce ad attribuire a qualcuno<br />

quello che mi è successo. È proprio ciò che, innanzitutto nella nevrosi, e nella patologia in generale, non<br />

riesce più: ho il mal di testa e non so cosa mi è successo, non ho più le mestruazioni e non riesco a<br />

riconoscere che cosa è successo in assenza di patologia organica. Sono quelle patologie che venivano<br />

50


chiamate a fine ottocento funzionali. La gravità <strong>del</strong>la malattia psichica è inversamente proporzionale alla<br />

capacità di riconoscere nei propri rapporti questi nessi di imputazione, più si è ammalati e meno si è capaci<br />

di attribuire a qualcuno degli effetti che ho riscontrato su di me.<br />

Un buon esempio di che cosa sia un atto di imputazione mi è offerto da un lapsus, che testimonia sempre un<br />

buon grado di confidenza nel rapporto, e cioè di giudizio di affidabilità <strong>del</strong>l’interlocutore. Il lapsus non è un<br />

errore, ma è la correzione di un errore che esiste nella coscienza e che esisteva fino al momento prima, e<br />

introduce nel discorso manifesto, palese, un altro pensiero che non si era disposti a riconoscere come<br />

esistente.<br />

Si tratta di una donna che si era rivolta a me, ormai cinque o sei anni fa, per un’analisi che le era stata<br />

consigliata da un neurologo a motivo dei suoi moltissimi disturbi, anche fisici, oltre a risultati un po’<br />

disastrosi tra cui un matrimonio fallito, il fatto che stava dilapidando l’eredità piuttosto cospicua, etc. Cioè<br />

andava tutto a rotoli e si capiva che il neurologo, non sapendo più che pesci pigliare, l’ha inviata allo<br />

psicoanalista. Bene, questa donna, che si presentava in modo un po’ spinoso, come sempre pronta a mordere,<br />

ha esordito nel nostro primo appuntamento, dicendo: «Il dottore voleva darmi un’accusa, pardon una cura,<br />

ma io non volevo…». Ottimo lapsus tra accusa e cura: il suo pensiero, approfittando <strong>del</strong>la parziale omofonia,<br />

aveva colto che lei c’entrava qualcosa con il suo star male, cioè che era imputabile per i suoi disturbi.<br />

Non so se il lapsus l’avrebbe mai fatto davanti al neurologo stesso, ma l’ha fatto davanti a me, e ciò è bastato<br />

per prenderla in cura. Cura non facile, ma ho potuto far sempre riferimento a questo lapsus che ho raccolto<br />

dal primo momento perché evidentemente questa donna, anche così malata, era una persona che teneva vivo<br />

un contenzioso con qualcuno. Questo pensiero, cioè il poter riconoscere, in questo caso un lapsus, un atto di<br />

parola, una normalità di pensiero in atto, non ancora vigente, è ciò che salva la possibilità di una cura, è<br />

come dire: ne combinerai tante, ma è di questo che si tratta qui, lavoreremo su questo.<br />

Concludo dicendo che con il DSM-III si è andati maltrattando la diagnosi, e poi ancora con il DSM-III-R e<br />

IV: il Manuale è tutto costruito in odio al concetto di diagnosi come ve ne ho parlato questa mattina. Ciò è<br />

vero a tal punto che ne è stata espunta la categoria di nevrosi, perché la nevrosi è quel tipo di emergenza<br />

<strong>del</strong>la patologia che con Freud ha provocato l’intera nostra cultura occidentale, e dunque il pensiero di tutti.<br />

Il DSM è stato costruito, dicono gli Autori, in modo avalutativo, ateoretico, in modo che risulti una sorta di<br />

esperanto per gli psichiatri di tutto il mondo, senza implicare posizioni teoretiche diverse o contrapposte. Ma<br />

ecco una sorpresa: nel testo italiano, pubblicato da Masson, a p. 16 <strong>del</strong>l’Introduzione, leggiamo una<br />

Raccomandazione cautelativa che dice letteralmente così: «Lo scopo di DSM-III-R è quello di fornire<br />

descrizioni chiare <strong>del</strong>le categorie diagnostiche allo scopo di consentire ai clinici e ai ricercatori di<br />

diagnosticare, di comunicare, di studiare e di curare i diversi disturbi mentali. È chiaro che l’inclusione in<br />

questa sede, a scopo clinico e di ricerca, di una categoria diagnostica quale il Gioco d’Azzardo Patologico o<br />

la Pedofilia, non implica che tale condizione soddisfi i criteri giuridici, o comunque non medici, di ciò che<br />

costituisce una malattia, un disturbo od una disabilità mentale. I concetti clinici e scientifici implicati nella<br />

categorizzazione di queste condizioni come disturbi mentali possono essere <strong>del</strong> tutto irrilevanti in sede<br />

giuridica, ove ad esempio si debba tenere conto di aspetti quali la responsabilità individuale, la valutazione<br />

<strong>del</strong>la disabilità e l’imputabilità [corsivo mio]». [10]<br />

Gli autori <strong>del</strong> DSM-III-R, e dunque l’OMS, dicono cioè: fate attenzione, voi che state per usare questo<br />

Manuale, usatelo pure per i vostri protocolli di ricerca e negli ospedali, ma sappiate che se c’è di mezzo<br />

un’assicurazione o un processo penale perché è stato commesso un reato, voi consulenti e periti non potete<br />

avvalervene, o state molto attenti perché l’imputabilità è espunta da questo trattato. Ora, dite voi se una<br />

posizione siffatta può essere detta ateoretica.<br />

È invece un manifesto che dice: nella classificazione <strong>del</strong>le malattie psichiche non deve entrare alcuna<br />

considerazione sull’imputabilità <strong>del</strong> soggetto. Questa è proprio grossa.<br />

Ora mi avvio alla conclusione leggendo e commentando con voi un esempio tratto dal testo di Casi Clinici che<br />

ha accompagnato tre anni dopo l’edizione italiana <strong>del</strong> DSM-III. Lo trovo un ottimo testo, per le esposizioni<br />

51


di casi e le interpretazioni offerte alla luce <strong>del</strong>le categorie diagnostiche <strong>del</strong> DSM. È dunque molto utile per<br />

riflettere e discutere su come fare diagnosi.<br />

Questo caso è stato chiamato dagli autori L’eterna paziente. [11] Già l’aggettivo eterna fa capire che<br />

qualcosa in esso non si risolve. Dunque, nel ’45, all’età di diciotto anni, questa paziente iniziò a manifestare<br />

preoccupazioni sull’eventualità di lasciare la casa per andare al collège, e un giorno mentre era con la madre<br />

a fare le spese cominciò avere dei momenti durante i quali smetteva di camminare e diventava rigida per<br />

pochi secondi senza spiegazione, poi riprendeva a parlare e ad agire appropriatamente. Il giorno dopo si fece<br />

più silenziosa, a volte faceva osservazioni inappropriate, ma altre volte invece agiva e parlava piuttosto<br />

normalmente<br />

Allora abbiamo: silenzi, rifiuto di alimentarsi, commenti inappropriati come «Papà uccidimi!». Tutti questi<br />

comportamenti fecero sì che i parenti la conducessero ad un consulto medico e poi all’ospedalizzazione,<br />

quasi coincidente con il giorno in cui la paziente avrebbe dovuto essere ammessa al college. Nei primi giorni<br />

di ricovero il comportamento suggerì vagamente che avrebbe potuto avere allucinazioni visive. Attenzione.<br />

Non si dice che le avesse davvero, ma che ci fu qualcosa che suggerì vagamente che avrebbe potuto avere<br />

allucinazioni visive. A volte dava risposte confuse o stupide che mal si accordavano con il suo quoziente<br />

intellettivo di 121 ottenuto ai test psicologici. Se lasciata da sola, la paziente era in grado di scrivere lettere<br />

coerenti e racconti che erano giudicati addirittura pubblicabili. In parte a causa <strong>del</strong>la mancanza di progressi e<br />

in parte per la bizzarria <strong>del</strong> suo comportamento (vuol dire che ne aveva fatte di tutti i colori in questo primo<br />

ricovero), fu diagnosticata una Dementia Precox Catatonica, che oggi si chiamerebbe schizofrenia<br />

catatonica: questa fu la prima diagnosi. Durante i primi giorni di ricovero fu sottoposta a psicoterapia<br />

individuale quattro volte alla settimana, poi continuò la psicoterapia dentro e fuori l’istituzione.<br />

Ecco dove il trattamento comincia a dettare una certa strada alla patologia, dove avrebbero potuto essere<br />

possibili altre strade. Nove diversi terapisti si occuparono di lei nei vent’anni seguenti: dall’inizio <strong>del</strong> suo<br />

ricovero ella era frequentemente negativista, provocava scontri fisici, si mutilava lievemente, si autoinduceva<br />

il vomito. Questi comportamenti fecero in modo che ella ricevesse molta attenzione. E qui chi ha l’orecchio<br />

un po’ attento, pensa all’isteria… Ella asserì che era intenzionata a provare qualsiasi tipo di terapia possibile<br />

persino la lobotomia. I suoi desideri furono esauditi tranne che per la lobotomia; ricevette una dozzina di<br />

trattamenti elettroconvulsivi, quattro dozzine di subcoma insulinici, terapia <strong>del</strong>la danza, terapia<br />

occupazionale, terapia di ricreazione, psicodramma (le piaceva molto), psicoterapia di gruppo, terapia<br />

artistica, oltre alla terapia individuale e molta attenzione da pastori (protestanti) e da preti (cattolici) in<br />

vent’anni di questo dentro e fuori <strong>del</strong> ricovero.<br />

Dopo i primi tre burrascosi anni di ricovero, fu affidata alle cure di una donna psichiatra, divenne molto più<br />

calma, si iscrisse ad una università locale, riuscì bene negli studi (…), e nonostante ciò il vomito «isterico»<br />

(il termine è virgolettato nel testo, per prenderne accuratamente le distanze), la violenza e le azioni bizzarre<br />

si verificavano ogni qualvolta si menzionava la possibile dimissione dall’ospedale. Ecco il punto: è stata<br />

chiamata eterna paziente perché non si riusciva a dimetterla, essendosi essa affezionata a questi trattamenti;<br />

in effetti esiste il caso che la vittima si affezioni al suo persecutore.<br />

Una sera, dopo sei anni privi di avvenimenti di rilievo e un soddisfacente funzionamento <strong>del</strong> suo lavoro, si<br />

presentò all’ospedale sconvolta dal fatto di non essere riuscita a raggiungere per telefono il suo terapista.<br />

Chiese di essere ricoverata, e fu ricoverata nonostante le difficoltà nel determinare la genuinità <strong>del</strong> suo<br />

comportamento (cioè: c’è o ci fa? come si direbbe popolarmente) e <strong>del</strong>le sue affermazioni concernenti il<br />

suicidio e la confusione. Di nuovo fu immediatamente trattata con diversi tipi di psicoterapia, inclusa la<br />

psicoterapia individuale, e questi sforzi si protrassero per circa un decennio. Quando la paziente raggiunse<br />

l’età dei 40 anni, fu operato un cambiamento nell’approccio <strong>del</strong>la sua valutazione al trattamento, nel<br />

momento in cui si decise che ella aveva una personalità «isterica». Nei cinque anni seguenti ci fu una serie di<br />

sforzi atti ad inserirla nella comunità, ma questi furono bloccati da negativismo, minacce, automutilazioni,<br />

vomito autoindotto e comportamenti atti a polarizzare l’attenzione; nessuno di questi fu premiato dalla<br />

terapia individuale. Alla fine, quando raggiunse i 45 anni fu dimessa nonostante le sue proteste di non essere<br />

52


pronta. Quando le fu detto che la dimissione sarebbe diventata operativa nonostante le sue obiezioni, la<br />

paziente vomitò, ma la terapista disse che sarebbe stata lo stesso dimessa; allora si abbassò i pantaloni e<br />

defecò nell’ufficio <strong>del</strong>la dottoressa, ma fu in ogni caso dimessa. Negli ultimi dieci anni ha continuato a<br />

funzionare fuori dall’istituzione ospedaliera di solito con il supporto di una casa alloggio.<br />

Quale diagnosi si poteva fare?<br />

L’associazione dei suoi sintomi fin dall’inizio non corrispondeva a nessun disturbo riconoscibile, sembrava<br />

capace di produrli volontariamente, è questo che metteva in scacco i medici. «Nel passato quel caso sarebbe<br />

potuto essere chiamato isteria a causa <strong>del</strong>la natura esagerata e drammatizzata dei suoi sintomi»: insufficienza<br />

<strong>del</strong>la diagnosi, perché c’è <strong>del</strong>l’altro circa il passaggio al college, o la frase «papà uccidimi»… Nel DSM III<br />

la produzione volontaria dei sintomi, avendo escluso l’isteria, è chiamato Disturbo Fittizio con Sintomi<br />

Psicologici. Per farla breve, alla fine fanno la diagnosi di disturbo fittizio con sintomi psichici, e sull’asse II<br />

Disturbo di Personalità non altrimenti specificato, perché anche qui non se la sentono di spendere nessun<br />

altro termine. Quindi, si perde la diagnosi di isteria ma accanto alla diagnosi si perde una donna che a<br />

diciotto anni avrebbe potuto avere tutt’altro trattamento, tutto un altro iter: bastava non precipitarsi subito a<br />

trattarla, e distinguere il momento <strong>del</strong> trattamento obbligatorio o necessario (in Italia il TSO) e il momento<br />

<strong>del</strong>l’invio a qualcuno che l’accogliesse in studio, quando fosse stata un po’ più in sé, per riprendere il filo di<br />

tanta ribellione. Ecco, questo è un esempio di come l’avere o il non avere dei concetti chiari in testa porta a<br />

trattare diversamente i pazienti.<br />

NOTE AL TESTO<br />

[1] Cfr S. Freud, Opere, Vol. VII, pag. 387, Bollati Boringhieri, Torino 1980.<br />

[2] Pietro R. Cavalleri, Nosografia psicopatologica. Un’introduzione, in AA.VV. La Città dei malati, vol. II,<br />

SIC Edizioni, Milano 1995.<br />

[3] Ibidem, p. 155.<br />

[4] Ibidem, pp. 156-7.<br />

[5] Ibidem, p. 159.<br />

[6] L’Io diventa più esattamente un collaborazionista <strong>del</strong> nuovo regime totalitario in cui la patologia<br />

consiste; il termine può essere speso in precisa analogia con il giudizio storico dato sul Maresciallo Petain<br />

nella Francia invasa dai nazisti nella Seconda Guerra mondiale.<br />

[7] Ibidem, p. 160.<br />

[8] Ibidem, p. 166.<br />

[9] Ibidem, p. 171.<br />

[10] AA..VV., Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, Masson, Milano 1988.<br />

[11] AA.VV., DSM-III-R Casi Clinici, Masson, Milano 1991, p. 64 e sgg.<br />

TEMI E AUTORI<br />

Atto patogeno<br />

Diagnosi<br />

Imput<br />

Malattia<br />

Passaggio alla malattia<br />

Psicopatologia<br />

Psicopatologia non clinica<br />

53


Ancona, 22 Maggio <strong>1999</strong><br />

<strong>CURA</strong>BILITÀ E IN<strong>CURA</strong>BILITÀ DELLA PATOLOGIA<br />

VALUTAZIONE DELL’EFFICACIA DELLA <strong>CURA</strong><br />

IL CONCETTO DI GUARIGIONE<br />

1. GUARIGIONE E ORIENTAMENTO<br />

Maria Gabriella Pediconi<br />

Pensando al lavoro di questi mesi in compagnia con il pensiero <strong>del</strong>lo Studium, mi è venuto in mente che<br />

questo è stato un Corso di Orientamento.<br />

Quest’orientamento riguarda:<br />

la distinzione tra Psicologia e Psicopatologia;<br />

la distinzione tra Psicopatologia Clinica e Psicopatologia Non Clinica;<br />

il trattamento e la cura, argomento di questa lezione.<br />

La questione <strong>del</strong>l’orientamento è di ciascuno, rispetto alla quale la vita innanzi tutto la nostra personale e<br />

poi quella di chi incontriamo, compresi gli ospiti <strong>del</strong>le nostre Comunità va bene o va male.<br />

Se abbiamo una bussola e questo vale non solo per i marinai ci muoviamo bene anche in mare aperto;<br />

affrontiamo bene anche le questioni cosiddette «nuove» che ci accadono.<br />

Se invece non abbiamo la bussola ci capita di non sapere cosa stiamo facendo; decidiamo per una via e ci<br />

sembra di non sapere se abbiamo preso la decisione giusta; ci impegniamo con la grave impressione di non<br />

sapere che esito avrà la nostra impresa: insomma ci ritroviamo disorientati.<br />

La questione di orientamento o <strong>del</strong>la bussola, come la vado chiamando, è una questione anche di sapere, non<br />

solo da sapere, ma di che cosa si sa.<br />

La bussola, che fin dal primo incontro avete sentito nominare, noi la chiamiamo <strong>Pensiero</strong> di Natura.<br />

Il <strong>Pensiero</strong> di Natura – che è di ciascuno, sin da bambino è quel pensiero fondativo di qualsiasi relazione –<br />

attuale o possibile sul principio di beneficio. Il <strong>Pensiero</strong> di Natura fonda le relazioni sul principio di<br />

beneficio.<br />

Il verbo fondare non appartiene all’idea di un pensiero primo, originario, ma è piuttosto un criterio di vaglio.<br />

Ogni volta che intraprendiamo una relazione nuova, poiché abbiamo una bussola, ci regoliamo secondo<br />

questo principio di beneficio, che è un criterio di vaglio. Un esempio possiamo trovarlo nelle note parole di<br />

San Paolo che invitava a vagliare tutto per trattenere il meglio.<br />

Si tratta di un vaglio che avviene in ogni momento in ogni relazione, nel tempo <strong>del</strong>le 24 ore. È la forma <strong>del</strong>lo<br />

scritto di Freud dedicato alla psicopatologia <strong>del</strong>la vita quotidiana.<br />

In questo vaglio di tutte le relazioni secondo un principio di beneficio, il nostro <strong>Pensiero</strong> di Natura chiama gli<br />

altri a lavorare almeno con noi, se non per noi. Si tratta di un pensiero che fa la relazione e non la vaglia<br />

54


soltanto secondo una specie di sfruttamento; è uno sfruttamento che fa la relazione. Forse così possiamo<br />

quasi recuperare la parola sfruttamento che ci fa pensare subito a cose turpi.<br />

Può capitare di perdere la bussola.<br />

È esperienza comune, quanto meno di sentirsi disorientati. Può capitare che non si vaglino più le proprie<br />

relazioni, quelle famigliari e di lavoro; può capitare di non voler lavorare su quello che ci succede, o su<br />

quello che sentiamo per timore di scoprire che un Altro non è all’altezza, per timore di scoprire che un Altro<br />

non ci sta, <strong>del</strong>ude le nostre attese. Può quindi capitare di sospendere il giudizio per non sapere ciò che noi<br />

abbiamo già osservato, e cioè che un Altro con noi non ci sta, o non ci sta più bene.<br />

Mi veniva in mente a questo proposito quella canzone che dice: «La verità ti fa male lo sai…». Fa parte di<br />

questo momento di disorientamento una verità che, siccome la chiamiamo verità, sappiamo già di cosa si<br />

tratta, non è sconosciuta, ma si tratta di scoprirla. Si può passare la vita è questa la psicopatologia a<br />

cercare la verità che ci si ostina a non sapere.<br />

Il tempo <strong>del</strong>la Patologia è tutto speso a cercare di sapere o di ricordare Freud la chiamava rimozione ciò<br />

che si sa benissimo, e che si è lasciato lì, per timore di scoprire che c’entrava un Altro, proprio quello che<br />

non ci aspettavamo.<br />

La bussola può capitare di perderla in un momento in cui ci si trova senza mezzi di giudizio, si sospende il<br />

giudizio.<br />

Persa la bussola non è tutto perso, è di questo che parliamo oggi.<br />

Dire che persa la bussola non si è perso tutto, è un punto fondamentale per ricominciare non solo nelle 24<br />

ore, ma anche per porre un pensiero di novità dentro quelle relazioni che ormai ci sembrano perdute. Non è<br />

così con molti dei vostri ospiti? Nell’errore si può tornare a desiderare la correzione.<br />

Il concetto di guarigione viene inaugurato dalla voglia di correzione, di correggere. Il termine correzione<br />

porta con se l’idea che c’è stato un errore e quindi la voglia di scoprire, di mettere le mani, di rimettersi a<br />

lavorare su un errore.<br />

A quella stessa bussola che è fin dal bambino e che abbiamo individuato come <strong>Pensiero</strong> di Natura può<br />

capitare di accedere da guariti.<br />

2. LA COMPETENZA INDIVIDUALE<br />

Prima di svolgere la questione <strong>del</strong>la guarigione voglio anticipare una nota. Rilevo come valore non tanto il<br />

riconoscimento <strong>del</strong>le comunanze, notate da alcuni di voi, tra le conclusioni <strong>del</strong>lo Studium Cartello e quelle di<br />

autori come Kernberg, Bergeret, Olivenstein, ma il fatto che voi abbiate fatto un lavoro di paragone, tra<br />

quello che avete sentito in questi nostri incontri e quello che avete sempre sentito, o meglio che, secondo<br />

quanto sentito, ognuno di voi, mettendosi al lavoro con i propri strumenti, riabilitato nella sua competenza di<br />

operatore, competenza teorica e pratica, abbia fatto le sue conclusioni.<br />

Il cuore <strong>del</strong> suggerimento <strong>del</strong> lavoro di Studium è che ciascuno sia riabilitato nella propria competenza<br />

teorica e pratica di arrivare a <strong>del</strong>le conclusioni.<br />

Voi siete degli esperti in tossicodipendenza perché avete le mani in pasta. Ci accorgiamo però che le mani in<br />

pasta possono non condurre a <strong>del</strong>le conclusioni; l’invito è dunque a portare i vostri lavori a conclusione, cioè<br />

alla riabilitazione <strong>del</strong> vostro giudizio. L’invito è alla riabilitazione <strong>del</strong>la competenza soggettiva, nel paragone<br />

con la bussola e non con teorie che portano con sé l’idea di conclusioni obbligatorie. Non si tratta di<br />

convincerci di certe teorie, ma di convincerci, nel senso di con-vincerci, cioè di legarci insieme dentro un<br />

certo lavoro, che poi arrivi a conclusione. A ognuno il giudizio.<br />

Il paragone è sempre con la normalità. Se lo possiamo riferire agli ospiti dei vostri servizi, significa<br />

cominciare a pensare che a questo e quello sarebbe potuta andargli bene, sarebbe potuta andargli<br />

diversamente, non era necessario che gli andasse così, ciò vuol dire uscire dalla logica causa-effetto ed<br />

entrare nel nesso <strong>del</strong>l’imputabilità.<br />

55


Sottolineo questa differenza. Un conto è paragonare le teorie o le forme psicopatologiche: è quello che fa il<br />

D.S.M. Un altro è il paragone con la normalità, che vuol dire imputabilità; quella persona ci ha messo <strong>del</strong> suo<br />

nella costruzione <strong>del</strong>la propria posizione da malato, così pure i suoi altri lo hanno appoggiato da complici. In<br />

questo caso siamo fuori <strong>del</strong>la logica <strong>del</strong>la necessità.<br />

Se affermiamo che a quel nostro ospite sarebbe potuta andargli bene è più facile sostenere che potrebbe<br />

tornare ad andargli bene.<br />

Noi non siamo fanatici di questa o quella terapia, anche se ne pratichiamo una. Né vogliamo convincere<br />

nessuno a curarsi. Abbiamo sperimentato quanto sia difficile, fino all’impossibile, convincere qualcuno <strong>del</strong><br />

pensiero di farsi curare. Resta la possibilità di invitare alla cura, come si dice invitare a pranzo qualcuno,<br />

potrebbe non venire!<br />

3. GUARIGIONE E DESIDERIO<br />

Il concetto di guarigione è tanto decisivo quanto fastidioso.<br />

Me ne sono accorta, circa tre anni fa, partecipando ad una sessione di diploma per Assistenti Sociali. Durante<br />

la discussione di una tesi dedicata ai Servizi Sociali e al trattamento ero sorpresa, oggi dico piuttosto<br />

ingenuamente, <strong>del</strong> fatto che non si citasse la guarigione. Ho persino provato a chiedere quale fosse il fine dei<br />

trattamenti in questione, mi è stato risposto che il fine era far star meglio la persona, riadattarla, reinserirla. E<br />

la guarigione? Mi hanno guardato come fossi una marziana, lo era piuttosto il concetto di guarigione, la<br />

grande esclusa dai discorsi sapienti.<br />

Lì ho cominciato a riflettere su quanto fossero ancora nuove le conclusioni cui Freud era arrivato,<br />

affermando che, quando si parla di cura, può darsi come fine il concetto di guarigione.<br />

Di guarigione non parla più nessuno, piuttosto rimane l’idea <strong>del</strong> miracolo.<br />

Anche Freud, in Scritti sull’isteria, uno dei suoi primi lavori, parte proprio dall’osservazione che «da sempre<br />

negli uomini si sono osservate guarigioni miracolose», e proprio osservando questi casi, cosiddetti<br />

miracolosi, ci si accorge di una parte svolta <strong>del</strong>la psiche. Freud è acuto. Tutti sappiamo che quando non ci<br />

fidiamo <strong>del</strong> medico dubitiamo anche <strong>del</strong> benefico effetto dei farmaci che lui ci prescrive.<br />

Dunque la disposizione alla guarigione fa parte <strong>del</strong>la possibilità stessa di guarire.<br />

Nel libro Il <strong>Pensiero</strong> di Natura di Giacomo B. Contri si legge che il concetto di guarigione è fatto oggetto,<br />

quando è presente, di una contesa. Si tratta di guarigione, o piuttosto di una riorganizzazione? La contesa<br />

guarigione versus riorganizzazione.<br />

Quando Freud parla di guarigione in Scritti sull’isteria, L’Io e l’Es, negli scritti tecnici – usa alcune battute<br />

per sostenere che lui non ha guarito nessuno, preferisce così piuttosto che eliminare la finalità <strong>del</strong>la<br />

guarigione a causa dei limiti di uno solo.<br />

Come se dicesse: manteniamo la finalità, così che ognuno ci si metta a lavorare sopra, non facciamone una<br />

teoria!<br />

Quando sento parlare di guarigione come riorganizzazione mi viene in mente la funzione matematica per cui<br />

cambiando il posto ai fattori, riorganizzandoli, il risultato non cambia. Niente novità! Parlare di<br />

riorganizzazione significa trattare la guarigione in senso matematico, trattarla male, pervertirla, poiché i<br />

fattori riorganizzati sono sempre gli stessi, quelli <strong>del</strong>la patologia.<br />

Dell’idea di riorganizzazione si alimenta la filosofia degli ex. In molti, fuoriusciti da qualsivoglia giro più o<br />

meno strano, presentano con venature nostalgiche la loro vecchia e lontana esperienza come la carta di<br />

identità! La filosofia degli ex è la filosofia <strong>del</strong>la riorganizzazione. Si sono riorganizzati, ma sono guariti?<br />

La filosofia degli ex anima molto i gruppi di auto aiuto. Conosco la filosofia di quegli alcolisti che poi si<br />

mettono a fare, fino alla propaganda, gli anonimi. Quando erano alcolisti uno poteva dire: «Tu bevi troppo!»,<br />

si poteva imputare la patologia. Da alcolista anonimo non gli si può più imputare né vizio né patologia: è<br />

passato a farne uno stile di vita, e a farlo per il bene.<br />

56


Anche molti psicoterapeuti liquidano il concetto di guarigione, dicendo che si tratta per lo più di imparare a<br />

convivere con la propria malattia. Nel nostro lavoro trattiamo queste affermazioni come criminali,<br />

nell’ordine <strong>del</strong>la perversione.<br />

Ma se non si tratta di riorganizzazione, di cosa si tratta, quando si parla di guarigione?<br />

Quando si parla di guarigione non si tratta neanche di semplice cambiamento. Cambiamento è una parola di<br />

gran moda, soprattutto in certi ambienti psico.<br />

La guarigione può presentarsi come cambiamento, ma non basta osservare un cambiamento per dire che si<br />

tratta di guarigione.<br />

Cambiamento è un concetto preteso neutro. Quando notate che un soggetto è cambiato vi auguro di chiedervi<br />

sempre in che senso, in quale direzione. Cambiamento è una parola cui bisogna ancora dare un senso, non<br />

l’ha di suo. Esiste anche il cambiamento in peggio, ne è un esempio il passaggio alla asintomaticità. Se un<br />

tizio si presentava qualche tempo fa pieno di sintomi e poi questi sintomi scompaiono, ecco una<br />

asintomaticità quantomeno ambigua: rilevato un cambiamento dobbiamo osservare se si tratta di un<br />

cambiamento verso la guarigione o verso la perversione.<br />

4. RESISTENZA ALLA GUARIGIONE<br />

Freud in un passo de L’Io e l’Es dice che «La psicoanalisi non ha certo il compito di rendere impossibili le<br />

reazioni morbose, ma piuttosto quello di creare per il malato la libertà di optare per una soluzione o per<br />

l’altra».<br />

La guarigione lascia quindi la possibilità <strong>del</strong>la malattia, almeno come tentazione. Essa rappresenta una<br />

caduta, la caduta <strong>del</strong>l’obiezione di principio alla bussola. La caduta <strong>del</strong>l’obiezione di principio al ricevere<br />

soddisfazione da un altro. La guarigione è la correzione di un’obiezione di principio.<br />

Sappiamo che è diverso fare un’obiezione piuttosto che fare un’obiezione di principio, cioè partire<br />

dall’obiezione. Quando si parte dall’obiezione non si fa nessun rapporto, mentre quando si mette l’obiezione<br />

dentro un rapporto si può usare per farsene qualche cosa.<br />

Questa caduta <strong>del</strong>l’obiezione, questa possibile correzione, incontra una grandissima resistenza, ovvero le<br />

nostre resistenze sono rivolte proprio ad ostacolare questa caduta. Il malato resiste proprio a ciò che lo<br />

libererebbe dalla sua malattia.<br />

Nella quinta conferenza sulla psicoanalisi <strong>del</strong> 1909 Freud individua le caratteristiche di questa resistenza alla<br />

guarigione.<br />

Non solo l’Io si rifiuta di abbandonare le rimozioni con cui si è staccato dalle sue inclinazioni<br />

originarie, ma non intende altresì rinunciare al soddisfacimento sostitutivo, almeno fino a quando<br />

rimane incerto se la realtà offrirà qualcosa di meglio.<br />

Non solo il soggetto si ostina a non capire né ricorda fatti e frasi che hanno dato avvio alla patologia, ma<br />

<strong>del</strong>la stessa malattia si fa sostenitore attivo; il soggetto cioè trova continue giustificazioni per sintomi e<br />

pensieri che lo assillano.<br />

Quindi anche Freud osserva che nella malattia psichica la guarigione, finché non è già in qualche modo<br />

avvenuta, non è affatto sentita come un bene, ma piuttosto come un male.<br />

La guarigione pertanto non viene favorita dal malato neanche concettualmente, piuttosto il malato presenterà<br />

la sua pseudo-domanda di cura. Ma io guarirò? Chissà se guarirò? Quando si trova qualche pensiero,<br />

nevrotico, sulla guarigione, si tratta di un dubbio. In altri termini il pensiero malato sulla guarigione è un<br />

pensiero di dubbio. La malattia, la patologia si regge proprio su questo dubbio.<br />

57


5. ANTICIPO DI GUARIGIONE<br />

Ma allora, il malato dove troverà la voglia di guarire? Dove troverà la forza di guarire?<br />

Il desiderio <strong>del</strong>la guarigione è una novità che si trova in un rapporto. Esso è fondato su un anticipo, ho<br />

pensato all’anticipo <strong>del</strong>la buonuscita. Qualcuno può anticipare al malato la guarigione almeno<br />

concettualmente. Questo anticipo prende la forma <strong>del</strong>la non esclusione <strong>del</strong>l’idea che questa persona potrà<br />

tornare ad accedere alla bussola, quindi una non esclusione di una correzione possibile. Tale anticipo è la<br />

fondazione di un trattamento economico <strong>del</strong>la psiche.<br />

Per guarire occorre l’apporto di un altro. In questo senso guarire non è l’effetto di una causa, perché niente<br />

può causare una guarigione, come niente ha causato l’ingresso nella psicopatologia. Non c’è una causa,<br />

eppure possiamo rintracciare <strong>del</strong>le responsabilità, sia nella psicopatologia che nella guarigione;<br />

responsabilità di almeno due soggetti.<br />

Sulla via <strong>del</strong>la psicopatologia come sulla via <strong>del</strong>la guarigione rintracciamo l’apporto di almeno due soggetti.<br />

In questo modo il concetto di guarigione è tratto fuori dal nesso causa-effetto. È errata la corrispondenza che<br />

suona «se un certo trattamento allora guarigione». In questa frase la parola certo può essere intesa sia nel<br />

senso di quello che nel senso di certezza.<br />

Il concetto di guarigione può essere compreso nel nesso tra atto e imputazione. Non si tratta di una<br />

conseguenza di antecedenti: essa è tutta da fare, da costruire.<br />

Interessante è sottolineare che quando si vede un po’ di guarigione in atto se ne possono individuare almeno<br />

due protagonisti; si può cioè individuare una relazione in cui questa guarigione comincia ad essere.<br />

Qual è il test <strong>del</strong> guarito? Che comincia a succedere qualcosa, comincia a ri-succedere qualcosa. Una forma<br />

di questo accadere psichico è proprio la domanda di cura. Non occorre precisare che si tratta di un nuovo<br />

accadere psichico, sarebbe una tautologia. Accadere psichico non deriva da alcuna causa. Domanda di cura,<br />

cioè tizio comincia cioè a volere una cura.<br />

Nella patologia non accade più niente, solo ripetizioni; tanto meno accade che il malato voglia guarire, che<br />

voglia uscire dalle complicazioni <strong>del</strong> suo pensiero. Se accade la domanda di cura non è perché prima si<br />

poteva prevedere, oppure perché si stava troppo male.<br />

Quando accade la domanda di cura, attenzione a non confonderla con un semplice cambiamento. Nella<br />

domanda di cura occorrono almeno due protagonisti. Della domanda di cura, là dove si tratta di guarigione,<br />

si possono individuare almeno due protagonisti. Penso che questo sia un bel test da usare. La domanda di<br />

cura contiene come protagonista il soggetto che la fa e un soggetto che si è messo in suo aiuto, in altre parole<br />

un altro soggetto che annota e giudica quell’accadimento come una novità. «Parlando tutte queste volte con<br />

te mi è venuto il desiderio di farmi curare», ecco due protagonisti.<br />

Dire che la guarigione è un miracolo può contenere l’errore <strong>del</strong>la non individuazione di questi due<br />

protagonisti, cioè non si capisce da dove sbuca, da dove viene, come si è istituita e chi l’ha istituita. Nel caso<br />

di cura si tratta di un pensiero istituito, cioè di un pensiero <strong>del</strong>la norma di quella bussola di cui parlavamo.<br />

La competenza alla guarigione è un anticipo da parte di un altro che il soggetto annota poiché comincia ad<br />

accadere. In un certo senso dalla guarigione si parte, non è il punto di arrivo, anche se ci vuole un lavoro.<br />

Una cura, se parte, parte dall’offerta <strong>del</strong>la guarigione, cioè dalla riabilitazione stessa di questo concetto, che è<br />

il concetto <strong>del</strong>la salute, e l’offerta avviene in un rapporto.<br />

In Psicopatologia <strong>del</strong>la vita quotidiana Freud nota che si possono trovare spunti di pensiero guarito o spunti<br />

di pensiero malato nel pensiero di tutti i giorni, indicando che il pensiero da osservare per vedere se comincia<br />

ad accadere un po’ di guarigione è proprio il pensiero da tutti i giorni.<br />

Vi propongo alcuni esempi di pensiero sulla via <strong>del</strong>la guarigione, riprendendoli da qualcosa che ultimamente<br />

mi è capitato di ascoltare.<br />

Primo. Una persona che conosco, a dieta per motivi di salute, sa che al mattino deve mangiare soltanto<br />

yogurt magro. Al supermercato deve acquistare yogurt magro bianco, non essendone affatto contenta. Il<br />

mattino dopo, mentre mangia lo yogurt prescritto, di colore bianco, si dice: «Ma come lo fanno buono questo<br />

58


yogurt magro!». Solo dopo si accorge di aver comprato yogurt corretto alla crema di latte e vaniglia.<br />

Raccontandomi la svista ha commentato: «Meno male che ho l’inconscio!». È vero, ad avercelo è una<br />

risorsa. Ha trovato un compromesso rispetto a quello che le stava capitando.<br />

Secondo. Uomo sulla quarantina. Molto inibito. Professore di liceo, non sogna quasi mai. Nella sala<br />

d’aspetto <strong>del</strong> suo psicoanalista incontra una giovane donna molto bella, ma non sembra badarci. La notte<br />

sogna di essere in auto con una bella ragazza, conversa con lei in modo disteso. L’aveva notata, eccome.<br />

Quando si stupisce di questo sogno annota una nuova via <strong>del</strong> suo pensiero.<br />

Terzo. Una giovane donna sogna di essere alla guida di un’auto nei pressi di un incrocio. Deve decidere se<br />

dare o prendersi la precedenza. Le viene in mente che due uomini <strong>del</strong>la sua vita le hanno dato opposti<br />

suggerimenti: l’uno ha consigliato di prendere sempre la precedenza, l’altro di darla sempre. Il giudizio<br />

nuovo riguarda la possibilità di valutare l’occasione volta per volta. Si tratta di un accesso a un pensiero<br />

guarito.<br />

6. IL SAPERE DELLA GUARIGIONE<br />

La cura può essere trattata come un sapere circa tre questioni:<br />

sapere intorno alla psicologia. Ciò non significa saperne circa le teorie psicologiche, ma vuol dire sapere<br />

che si è figli e sapere di chi si è figli; vuol dire sapere di essere uomini come essere figli. La bussola è <strong>del</strong><br />

figlio.<br />

sapere intorno alla psicopatologia.<br />

sapere intorno alla perversione. Sapere cioè che la perversione è una specie particolare di associazione per<br />

<strong>del</strong>inquere, senza che ci sia la mafia organizzata. Associazione per <strong>del</strong>inquere, ovvero quell’ordinamento tra<br />

due soggetti, in cui uno ha rinunciato a difendersi per allearsi con l’offensore. La perversione è quel pensiero<br />

che ha rinunciato a difendersi e dice tanto mi è andata male, e allora che mi vada peggio.<br />

Si tratta di un pensiero di negazione, di negazione <strong>del</strong>la psicologia, <strong>del</strong>la possibilità <strong>del</strong>la cura e <strong>del</strong>la<br />

guarigione; una negazione raffinata. Vi suggerisco di leggere l’introduzione <strong>del</strong> Libro mistico edito da Sic in<br />

cui sono presentati gli scritti di Balzac e di Swedenborg, in cui la perversione fa da filo conduttore.<br />

Nell’introduzione G.B. Contri presenta il pensiero perverso come il pensiero <strong>del</strong>la mistica. Non si tratta di<br />

Hitler, il quale aveva ancora tutti i suoi difetti individuabili, la perversione è molto più raffinata.<br />

Che cosa si cura? Di che cosa ci si prende cura?<br />

Non <strong>del</strong>la patologia. Se ci mettiamo a curare la patologia corriamo il rischio di alimentarla, di farcene<br />

complici. Tanto meno la perversione è da curare, perché essa fa da tentatore, è una fonte di corruzione.<br />

Possiamo prenderci cura <strong>del</strong>la psicologia, esattamente di ciò che sembrerebbe non averne bisogno. Ci<br />

prendiamo cura <strong>del</strong> nostro bene, con possibilità di curare quello altrui.<br />

7. GUARIGIONE E TOSSICODIPENDENZA<br />

Circa una valutazione <strong>del</strong>l’efficacia <strong>del</strong> trattamento, mi sono chiesta se il tossicodipendente può guarire.<br />

Parlare di guarigione dei tossicodipendenti, sembra proprio un controsenso. Mi sono domandata come si<br />

possa parlare <strong>del</strong>la guarigione di coloro che mantengono con ostinazione la posizione di anti-guarigione.<br />

Amano per esempio farsi chiamare ex.<br />

Mi sono allora chiesta, cosa facciamo con loro, attendiamo il miracolo oppure ci mettiamo a fare i buoni,<br />

rischiando di perdere tempo, non sapendo dove ci porta?<br />

Una qualche utilità <strong>del</strong> trattamento dei tossicodipendenti mi sembra possa stare nella formulazione di questo<br />

giudizio: «Fino a quando rimarrai tossico, ti opporrai alla guarigione, sarai un anti, ti metti cioè in una<br />

posizione contro».<br />

59


Di quale tipo di anti si tratta? Si tratta di una posizione perversa che lavora per negazione. Il<br />

tossicodipendente nega innanzitutto di essere nevrotico, cioè di avere una clinica. Nega di avere dei punti da<br />

correggere e quindi nega di essere curabile.<br />

In questa posizione contro, l’eroina, come le altre sostanze ha una sua funzione: ricostruire una clinica<br />

sostitutiva alla clinica <strong>del</strong>la nevrosi. C’è quindi un preciso intento ricostruttivo, poiché la posizione <strong>del</strong>la<br />

tossicodipendenza è una posizione anti-clinica.<br />

A proposito <strong>del</strong>la sostanza accenno soltanto al lunghissimo dibattito filosofico circa sostanza e apparenza e<br />

rilevo una parentela tra i due concetti di sostanza, entrambi filosofici.<br />

Posto che la clinica si regge sui quattro elementi, inibizione, sintomo, angoscia, e fissazione, l’anti-clinica<br />

<strong>del</strong>la ricostruzione sostitutiva ottiene che:<br />

ci si fissa alla sostanza piuttosto che ai genitori,<br />

l’astinenza sostituisce l’angoscia,<br />

al posto <strong>del</strong> sintomo troviamo la teoria <strong>del</strong>l’assunzione,<br />

invece <strong>del</strong>l’inibizione troviamo il gruppo.<br />

Ecco l’anti-clinica con tutti i suoi elementi.<br />

Saperci fare con il tossicodipendente potrebbe coincidere con la formulazione di un giudizio: sei un<br />

tossicodipendente.<br />

Un giudizio è premessa a qualsivoglia trattamento <strong>del</strong>la tossicodipendenza.<br />

Questo giudizio si contrappone ad una convinzione comune in tutti gli ambienti frequentati dai tossici, «è un<br />

<strong>del</strong>inquente però ha sofferto tanto».<br />

Entrambi fanno capo ad un trattamento, in direzioni diametralmente opposte.<br />

Si parla anche <strong>del</strong>la tossicodipendenza come sbocco di un disagio precedente, come di una complicazione<br />

aggiunta ad errori di vecchia data. Io propongo che la tossicodipendenza non aggiunge niente ma piuttosto<br />

toglie, toglie la nevrosi, toglie cioè la clinica in cui può prendere spazio una domanda di cura.<br />

Il trattamento non può essere condivisione di questa patologia. Seppure vogliamo riabilitare la parola<br />

condivisione nel caso <strong>del</strong>la tossicodipendenza dobbiamo dire che essa comincia nel momento in cui non ci si<br />

lascia corrompere dal loro pensiero corrotto, si diventa esigenti, acuti, non ci si fa fregare; rimanendo capaci<br />

di offrire sempre una nuova possibilità.<br />

Ma quando non ci si lascia tentare? Quando si possiede una bussola personale, la propria ritorniamo così<br />

all’orientamento da cui siamo partiti.<br />

NOTA BENE<br />

Lo Studium Cartello propone una distinzione tra psicopatologia clinica e non clinica. Gli elementi che<br />

compongono la malattia appartengono alla clinica e sono rintracciabili in tutte le psicopatologie.<br />

Inibizione. Il pensiero non è più abilitato, non si sente di concludere. «Non me la sento di uscire di casa» è<br />

un’inibizione. Vuol dire non me la sento di concludere circa il dubbio su questa relazione, non so se potrà<br />

andare bene.<br />

Sintomo. Tuttavia continuo a fare, a vivere. Nel mio agire si ritroveranno <strong>del</strong>le azioni, degli atti di<br />

compromesso, quegli atti ripetitivi, ad esempio la compulsione, in cui io vorrei non farlo ma sono costretto, il<br />

mio pensiero cioè ricrea un rapporto con chi mi ha offeso. Il sintomo è quella parte <strong>del</strong>la clinica per cui io<br />

non vorrei agire così, ma mi trovo costretto per mantenere comunque una relazione di compromesso con<br />

l’altro patogeno.<br />

Angoscia. C’è un affetto, che segue sia le mie inibizioni sia i miei sintomi e poi anche la vita quotidiana.<br />

Quest’affetto mi segnala che le cose non funzionano. Lo abbiamo chiamato segnale di un’assenza di legge,<br />

mi dice che in certi momenti io non so che bussola sto usando, oppure mi dice che sono senza bussola. Si<br />

60


tratta di un affetto molto importante, poiché mi offre l’accesso ad un pensiero di errore che conduce<br />

all’ammissione: sono io che mi sto sbagliando!<br />

Fissazione. Mi accorgo di avere <strong>del</strong>le inibizioni, ci sono <strong>del</strong>le azioni cui mi sento costretto e non so dove<br />

pescano, sono oggetto di attacchi di angoscia eppure mi giustifico, mi costruisco una teoria sulla mia<br />

psicopatologia, sulla mia clinica, mi ci metto a lavorare sopra teoricamente.<br />

Questi quattro elementi sono individuabili in patologie molto diverse tra loro, anche nei tossicodipendenti.<br />

Essi tuttavia lavorano tanto proprio per togliere questi quattro elementi.<br />

I tossicodipendenti pretendono di mettere al posto <strong>del</strong>l’inibizione la vita di gruppo. Al posto <strong>del</strong>la fissazione<br />

che costruisce teorie giustificatorie <strong>del</strong>la malattia sulle disgrazie dei genitori mettono la dipendenza come<br />

tale. La sostanza fa tutto, essa causa assuefazione, quindi il pensiero non c’entra più.<br />

DISCUSSIONE<br />

Che significa prendersi cura <strong>del</strong>la psicologia piuttosto che <strong>del</strong>la psicopatologia?<br />

Se un giorno i vostri ospiti si accorgessero che voi siete egoisti, cioè badate a voi stessi e dicessero stizziti:<br />

«Ma tu sei qui per curare me oppure pensi solo a te stesso?». Ecco un giudizio. Per essere all’altezza si<br />

potrebbe rispondere: «Ti sei accorto che esiste una cura di sé? Bravo! Comincia anche tu».<br />

La cura <strong>del</strong>la psicologia di qualcuno non esclude il rapporto, ma prevede che il rapporto possa essere<br />

nuovamente inaugurato da personalità. L’invito è a diventare <strong>del</strong>le personalità, che vuol dire anche <strong>del</strong>le<br />

personalità con cui uno entra in paragone. In questo modo la questione <strong>del</strong>l’aiuto non è esclusa, ma non è<br />

tematizzata come l’oggetto <strong>del</strong>la cura.<br />

Curate il rapporto con loro senza far fare tutto a loro; cioè senza che loro tengano le redini <strong>del</strong> rapporto. Che<br />

le redini <strong>del</strong> rapporto siano tenute dalla normalità, dalla bussola.<br />

Con la bussola si dà la possibilità di trovarsi pronti ad offrire una nuova possibilità dicendo «Tu su questo<br />

stai mentendo. Valla a raccontare a qualcun altro».<br />

Per questa prontezza occorre un grande lavoro di paragone personale, anche con il rischio di sbagliare;<br />

l’errore infatti sta in mezzo e non solo va ricompreso, ma va anche molto lavorato.<br />

La paura, falsa paura, di sbagliare non ci fa fare questo lavoro di giudizio, ci inibisce al giudizio. Se il tizio<br />

cui dico che sta mentendo mi dicesse: «Ma come ti permetti?», potrei essere in grado di ribattere: «Ho visto<br />

questo e quello per cui non ritengo che tu me la racconti giusta».<br />

La perversione <strong>del</strong> tossicodipendente sta nell’uso <strong>del</strong>la sostanza?<br />

Osserviamo, nonostante la tragica programmazione <strong>del</strong> lavoro <strong>del</strong>la perversione, che non esiste il perverso<br />

puro. Anche il perverso è incoerente, santa incoerenza!<br />

La fortuna di questi soggetti è che gli scappa di avere l’angoscia, gli scappa di sognare. L’incoerenza dice<br />

che il lavoro <strong>del</strong>la perversione non è andato fino in fondo.<br />

Se offriamo una nuova possibilità è solo grazie all’osservazione <strong>del</strong>la consistenza <strong>del</strong> loro lavoro perverso,<br />

riconoscendo quindi che loro non fanno finta di togliere la clinica, ma che loro ci provano davvero, anche<br />

nell’incoerenza.<br />

Un indice di guarigione potrebbe essere che un utente <strong>del</strong> vostro servizio non si presenti più come ex, sarà<br />

test <strong>del</strong> fatto che ha saputo usare <strong>del</strong>la propria incoerenza nella perversione.<br />

Il saperne <strong>del</strong>la perversione e <strong>del</strong> suo lavoro di corruzione vuol dire essere pronti a giudicarla senza escludere<br />

il soggetto. Al soggetto si può dare una nuova opportunità dicendogli «non mi venire a parlare di questo, <strong>del</strong><br />

tuo vissuto … parliamo piuttosto di un’altra cosa».<br />

61


Si tratta di un’offerta concettualmente nuova; uno spunto di lavoro o di paragone che magari questa persona<br />

non ha mai incontrato. Potrebbe aver incontrato solo persone che lo hanno trattato da tossicodipendente.<br />

Approfondimento sul concetto di ex-tossicodipendente<br />

L’invito è ad una distinzione. C’è un modo di lavorare con i tossicodipendenti che è da ex. Un altro modo di<br />

lavorare con i tossici dice che mi è capitato di tornare con loro. Questa distinzione individua percorsi molto<br />

differenti.<br />

In genere i tossicodipendenti fanno partire la loro esperienza da quando hanno iniziato a farsi. Proprio<br />

pensarsi ex fa partire la propria esperienza da quando si è iniziato a farsi e poi si è divenuti ex. La<br />

riabilitazione <strong>del</strong> pensiero è riabilitazione anche <strong>del</strong> pensiero di un prima.<br />

Approfondimento sul concetto di guarigione come caduta <strong>del</strong>l’obiezione di principio al <strong>Pensiero</strong> di Natura<br />

La guarigione conserva la possibilità <strong>del</strong>la malattia come tentazione, in altri termini l’errore è una ricchezza<br />

<strong>del</strong>la nostra esperienza.<br />

Abbiamo detto che nello stato morboso come sulla via <strong>del</strong>la guarigione sono individuabili almeno due<br />

soggetti. Se una persona viene da me e mi racconta di una relazione con riferimenti a inibizione, sintomo,<br />

angoscia, fissazione, oppure lapsus e dimenticanze, mi sta dando gli strumenti per individuare se mi parla in<br />

un regime psicopatologico o se mi sta invitando a partecipare ad una sua conclusione guarita.<br />

Il mio campo di osservazione rimane sempre il modo di muoversi mio o di questo soggetto con la bussola<br />

dentro le relazioni.<br />

L’accorgersi di un errore avviene nel momento <strong>del</strong>la sua correzione.<br />

Gli esempi di guarigione che vi ho proposto potevano essere detti tutti come degli errori. Dire: «Io ho<br />

sbagliato lì», segue il pensiero che mi sto correggendo proprio su quel punto lì. In questo c’è lo spunto che<br />

viene da una relazione. Implica una dinamica di relazione. Anche un sogno, un conto è ricordarlo ed un<br />

conto è annotarlo. L’annotarlo è per qualcuno, cioè è per raccontarlo.<br />

Giacomo B. Contri ama definire il pensiero di natura come l’ordinamento <strong>del</strong>l’appuntamento. La nostra<br />

bussola vive di appuntamenti, come stiamo ai nostri appuntamenti è un indicatore <strong>del</strong> processo, <strong>del</strong>la<br />

dinamica <strong>del</strong>la nostra bussola.<br />

Quando qualcuno dei vostri ospiti, programmaticamente contro tutti gli appuntamenti, comincerà ad essere<br />

puntuale con voi, si riaprirà una possibilità. Il giorno prima potremmo avergli detto: basta di fare il tossico!<br />

Un esempio che viene dalla clinica. Un giovane ragazzo si presenta dopo un lungo percorso di comunità e di<br />

reinserimento. Chiede una cura e denuncia attacchi di angoscia. Nell’andamento dei colloqui è divenuto<br />

assillante il pensiero di voler assolutamente tornare a stare con la madre. La madre, ripetutamente derubata,<br />

aveva sempre evitato di giudicarlo, non gli aveva mai detto niente. Ciò equivale a dire: «Mi puoi fare di<br />

tutto, ma resti sempre il mio bambino!». Questa si chiama perversione: messa in dubbio sistematica <strong>del</strong> fatto<br />

che un mio atto riceverà una sanzione penale o premiale. La frase ipotetica di questa madre è paragonabile a<br />

quella di un operatore che dica: «Sei un <strong>del</strong>inquente ma hai sofferto tanto!».<br />

Della bussola fa parte che ad un’azione segua una sanzione premiale prima che penale.<br />

TEMI E AUTORI<br />

Cura<br />

Competenza individuale<br />

Desiderio<br />

Guarigione<br />

Malattia<br />

62


Orientamento<br />

<strong>Pensiero</strong> di Natura<br />

Psicologia<br />

Psicopatologia<br />

Psicopatologia non clinica<br />

Resistenza<br />

Sapere<br />

Tossicodipendenza<br />

63


Ancona, 19 Giugno <strong>1999</strong><br />

IL TUTOR<br />

Maria Antonietta Aliverti<br />

L’impotenza è una patologia individuale da cui si può guarire. Il Tutor, per come lo abbiamo definito nello<br />

Studium Cartello di Milano è un avvocato <strong>del</strong>la salute, nel senso di sapere per sé cos’è salute e quindi sapere<br />

anche come favorire in altri, che nella situazione di salute non sono, la possibilità di trovarla. Infatti è una<br />

scoperta. Esiste la salute, esiste la normalità, esiste la malattia. Non è vero che siamo tutti un po’ malati, non<br />

è vero che c’è un continuum tra normalità e patologia, posso dire che non è vero anche nella mia esperienza,<br />

che è l’esperienza di chi, diventato medico perché gli piaceva l’idea di curare qualcuno, si è trovato poi ad<br />

incontrare persone che non si lasciavano affatto curare, rifiutavano la cura: i cosiddetti handicappati psichici,<br />

che pure, accompagnati in un certo modo, miglioravano. Cambiavano, ma non guarivano. Per caso, o meglio,<br />

per Provvidenza, ho incontrato qualcuno che mi ha permesso di riformulare per me stessa il concetto di cura<br />

e l’esperienza di cura che facevo. Ho trovato che quest’altro modo di curare era accettato, non c’era nessuno<br />

che si opponesse a questo. E’ per questo che Freud mi ha interessato.<br />

Quello <strong>del</strong> Tutor non è un titolo nuovo; in Lombardia è utilizzato, per esempio, per indicare insegnanti che<br />

nell’ambito <strong>del</strong>la scuola aiutano i ragazzi che sono in difficoltà, oppure gli insegnanti che si riuniscono in<br />

quelli che si chiamano gruppi d’ascolto <strong>del</strong>la problematica giovanile. In altro campo <strong>del</strong> sapere sappiamo che<br />

la tutela è una professione o, comunque, una fattispecie definita dalle leggi <strong>del</strong>lo Stato. Chi è il tutore di un<br />

bambino? Chi è il tutore di chi non sappia badare a se stesso? Tutto questo è definito dalle leggi <strong>del</strong>lo Stato.<br />

Mi sono trovata con genitori che mi chiedevano: «Val la pena interdire mio figlio?». Allora mi sono<br />

indirizzata a conoscere anche il diritto, a comprendere la distinzione ad esempio tra interdizione ed<br />

inabilitazione.<br />

Ho costituito venti anni fa una realtà di accoglienza e di cura che è l’«Anaconda» di Varese, dall’inizio ho<br />

detto: desidero collaboratori, non dipendenti, cioè persone che lavorino con me e non persone che dipendano.<br />

La cooperativa è diventata un’azienda, che oggi gestisce tre servizi e segue una settantina di persone: vi<br />

lavorano quarantacinque operatori, per coloro che vogliano imparare a curare sono a disposizione dieci borse<br />

di studio per anno. Una realtà complessa, anche dal punto di vista organizzativo. Di anno in anno chiedo alle<br />

persone con cui lavoro chi voglia fare il Tutor; qualcuno riduce il proprio orario di rapporto dipendente ed<br />

impegna il resto <strong>del</strong> tempo in questo lavoro nuovo.<br />

Il Tutor si trova a trattare con questioni di vario tipo: difficoltà scolastiche, disagio giovanile,<br />

tossicodipendenza, malattie psichiche, malattie organiche. Si occupa di queste problematiche, ma a partire da<br />

un posto assolutamente preciso, che è quello di un soggetto libero. Si tratta di sapere con certezza chi sono io<br />

e chi è l’altro con cui entro in rapporto. Il Tutor sa lo scopo <strong>del</strong> suo operare, un operare da libero<br />

professionista, caratterizzato da tre aspetti fondamentali:<br />

mettersi al servizio di un individuo, non per esempio <strong>del</strong> contesto;<br />

mettersi a sostegno dei suoi fini di soddisfazione;<br />

contrastando sistematicamente il suo rinunciare ad essere il protagonista <strong>del</strong>la propria vita.<br />

64


In tutta la psicopatologia, poco o tanto si rinuncia ad essere protagonisti <strong>del</strong>la propria vita.<br />

È dunque una professione con caratteristiche proprie, diverse da quelle di altri lavori.<br />

Si tratta di aver chiare le leggi dei propri rapporti. La vita psichica è questione legislativa.<br />

Per lo più il Tutor ha un’età oltre i venticinque anni, è utile che abbia un titolo di studio oltre la scuola media<br />

superiore, dai corsi triennali alle lauree nelle varie discipline. È comunque qualcuno che si è riformato<br />

personalmente, cioè ha dato forma diversa al proprio agire, avendo inteso che il titolo conseguito in<br />

precedenza non abilitava di per sé a questo lavoro. Abilita a questo lavoro la cura <strong>del</strong>la propria competenza<br />

di giudizio, perché se si tratta di aiutare qualcuno ai fini <strong>del</strong>la propria soddisfazione, mettendo in pista la<br />

propria iniziativa, occorre aver minimamente sperimentato su di sé come questo sia possibile. Non è un<br />

lavoro in cui si consegue un titolo e si esce dalla scuola: nello Studium si entra ad un certo punto <strong>del</strong>la<br />

certezza <strong>del</strong> proprio giudizio, e si entra per starci. La concezione stessa <strong>del</strong>la scuola nostra è diversa. Questa<br />

professione è venuta configurandosi come l’altra faccia <strong>del</strong>lo psicoanalista e come in questo caso necessita di<br />

una formazione adeguata.<br />

Gli aspetti di questa formazione riguardano:<br />

il come porsi rispetto al soggetto che si prende in carico. Non si prendono in carico allo stesso modo un<br />

adulto, un bambino, un anziano, un tossicodipendente, un nevrotico, un handicappato psichico. Sono<br />

modalità diverse anche se lo scopo resta uno: «Tu puoi vivere in termini soddisfacenti per te». Oggi tutto<br />

rischia di diventare una patologia: i bambini sono a rischio, essere anziani è una patologia, il giovane vive di<br />

incertezza. L’unico tratto <strong>del</strong>la vita in cui l’individuo sembrerebbe avere qualche caratteristica <strong>del</strong>la<br />

normalità è l’adulto, fatto salvo che trovare un adulto reale è cosa rara. Riguardo al come porsi nei confronti<br />

<strong>del</strong> soggetto, il criterio primo è l’età cronologica.<br />

il come porsi rispetto alla famiglia, quando c’è.<br />

il come porsi riguardo ai Servizi di diagnosi e cura presenti sul territorio.<br />

un sapere circa la patologia organica e la patologia psichica. Non perché si debba essere medici o<br />

psicoanalisti, ma perché si sappia a chi far riferimento quando si abbiano dei dubbi: spesso patologia<br />

organica e psicopatologia sono presenti in modo poco districabile nel singolo individuo. Negli anni, tuttavia,<br />

ho capito che «handicappato» non è una diagnosi, ma una definizione assolutamente generica <strong>del</strong>la<br />

situazione di vita di quella persona. Ora, se si vuol curare, e curare mira a una guarigione, occorre<br />

individuare dove stia la patologia, con quali mezzi si possa contrastare, senza dimenticare che si tratta<br />

sempre <strong>del</strong> rapporto con un individuo, ossia con un corpo che pensa.<br />

un sapere circa le provvidenze economiche, di vario tipo, per il soggetto. La legge in vigore relativa<br />

all’handicap ha l’aspetto positivo di prevedere queste provvidenze economiche, ma mostra di fondarsi su un<br />

errore, che è quello di ritenerli degli irrecuperabili al vivere, che possono solo peggiorare. Questa legge non<br />

prevede la possibilità che possano migliorare. Alla conoscenza <strong>del</strong>le provvidenze economiche si aggiunge<br />

quella che riguarda l’iter per l’accesso a un lavoro, nonché la conoscenza <strong>del</strong>le garanzie giuridiche per chi<br />

non sa badare a se stesso. Se si ha chiaro l’obiettivo verso cui ci si muove, si individuano anche gli esperti ai<br />

quali si può chiedere, mantenendo per sé il solo criterio <strong>del</strong> giudizio.<br />

Nel lavoro di Tutor occorre sapere anche che non ci si muove esclusivamente a partire dal dettato <strong>del</strong>le leggi<br />

statali. L’esperienza di ogni adulto vive di leggi individuali, oltre che nel rispetto <strong>del</strong>le leggi <strong>del</strong>lo Stato.<br />

Sposarsi o meno, avere figli, avere amici, avere i più diversi interessi, tutto ciò è libera iniziativa personale<br />

posta in essere secondo un diritto che, pur essendo individuale, non è privato. Ossia, pubblico non è solo lo<br />

statale.<br />

Viviamo nel mercato comune di domande e di offerte e il Tutor dice: «Io ci sono, sono capace di fare<br />

questo», e si assume personalmente, senza aver sopra alcun ombrello, la responsabilità di rispondere ad un<br />

bisogno definito. A volte, la domanda <strong>del</strong>l’altro non è chiara: fa parte <strong>del</strong> lavoro anche l’aiutare a chiarirla.<br />

65


L’esperienza <strong>del</strong>la malattia psichica è impotenza, essendo qualcosa che uno ha trovato come risposta a certe<br />

questioni che non riusciva a risolvere altrimenti, e che poi sostiene come unica soluzione, ma non lo è. Dà<br />

vantaggi secondari, ma ha dei costi pesantissimi per la persona.<br />

Ripartiamo per un attimo dall’esperienza <strong>del</strong> bambino. I bambini sono tutti diversi, hanno un’unica cosa in<br />

comune: l’esigenza di star bene. L’uomo è quel punto <strong>del</strong>la natura, in cui la natura è una questione di<br />

soddisfazione. Non è la natura <strong>del</strong> cane. La natura umana non trova soddisfazione senza ragione, la ragione è<br />

implicata nella soddisfazione. Questo perché ognuno, sin da bambino, ha raggiunto con facilità<br />

quest’esperienza, ognuno è stato allattato, accudito, accolto. Il corpo umano è qualcosa di assolutamente<br />

reale: si tocca, si sente. Il bambino è stato allattato, è stata lavato, è stato curato, non nel senso medico, ossia<br />

«Curo la tua malattia», ma: «Curo che tu stia bene», come si dice: «Ho cura dei gerani <strong>del</strong> mio balcone»,<br />

perché mi fa piacer vederli belli. «Curo che tu stia bene», detto e agito, nel caso <strong>del</strong> bambino da parte<br />

<strong>del</strong>l’adulto, ammesso che l’adulto sappia dirlo. Poi si cresce e si comincia a pensare in proprio ciò che si<br />

desidera. Il desiderio nasce dal bisogno soddisfatto, non da una mancanza. Il desiderio nasce proprio perché<br />

c’è stata la soddisfazione di un bisogno prima; il bambino pensa: «Se sono stato soddisfatto fino adesso,<br />

come faccio a continuare a star bene? Se fino adesso c’è stato mio padre, mia madre o chi per essi che mi<br />

hanno aiutato, come posso continuare quest’esperienza?». Ognuno ha fatto esperienza di qualche desiderio<br />

che si è scontrato con un’impossibilità: «Desidero ma…» oppure «Mi piacerebbe ma…», sono le frasi dove<br />

il «ma» toglie il «mi piacerebbe». Oppure anche l’esperienza di insuccesso <strong>del</strong>le proprie azioni messe in atto<br />

per raggiungere quella soddisfazione: «Ho fatto tanto, mi sono dato tanto da fare, ho mosso tanto, ma non ci<br />

riesco, non è possibile»; così si è tentati o indotti a rinunciare al proprio desiderio.<br />

L’impossibile esiste per me, perché riguarda l’altro, ma questo non significa che io sia impotente. Il potere<br />

riguarda il desiderio, poi sarà questione <strong>del</strong>la risposta <strong>del</strong>l’altro. Bisogna dunque distinguere impossibilità ed<br />

impotenza.<br />

Ci sono persone che non si rendono più conto che certe incapacità sono rimediabilissime: il mondo diventa<br />

qualcosa che fa paura, con cui non si riesce più a trattare; ci si chiude in casa, non si riesce più nemmeno ad<br />

andare a fare la spesa. In sostanza un senso di incapacità che arriva alla malinconia, alla perdita <strong>del</strong>la gioia di<br />

vivere, alla perdita di ogni iniziativa individuale. Ho presente un Tutor che sta seguendo un uomo di<br />

venticinque anni che non si alza più dal letto, non ha più voglia di fare alcunché. E’ arrivato al quinto anno di<br />

medicina, ha genitori che sembra gli vogliano bene, non ha problemi economici, ma si lamenta di non avere<br />

amici e ha paura <strong>del</strong> momento in cui si laureerà. Che cosa è successo? Da che punto si può riprendere una<br />

situazione così? Il problema è: «Come faccio a fargli venire la voglia?». Senza voglia, senza desiderio<br />

l’essere umano non vive, sopravvive, stare a letto tutto il giorno è sopravvivere, ma vivere è un’altra cosa.<br />

Questa rinuncia a vivere porta con sé odio, a volte angoscia, a volte senso di fallimento, senso di colpa o<br />

altro. Dal senso di colpa è meglio guarire. Esistono le colpe reali, esistono gli errori miei, ma la colpa è<br />

sempre in relazione a qualcuno, e allora basta riconoscerla nei confronti di questo qualcuno.<br />

Ho parlato di odio: è una possibilità <strong>del</strong> pensare di ognuno, non esiste l’aggressività, si tratta invece <strong>del</strong> fatto<br />

che io so amare e so odiare, sono capace di odiare. Freud è partito dal pensare: il paziente ha una qualche<br />

ragione per essere «così», ha trovato quell’unica soluzione, che pure è costosa e fastidiosa, ma alla quale può<br />

rassegnarsi: «Non voglio più pensarci, ho già deciso così», cioè «Mi impedisco altre possibilità», anche<br />

perché si trova sempre qualcuno che legittima la lamentela, mentre il punto è legittimare il lavoro. C’è tutta<br />

una cultura che legittima la droga; se dico che l’eroina mi soddisfa è falso, ma uno preferisce dire il falso,<br />

arrivando a una conclusione errata magari a partire da esigenze reali che tuttavia sono rinnegate.<br />

L’odio è memoria di una violenza subita: non si nasce malati, non si nasce drogati, non si nasce<br />

handicappati. Si nasce sani, ma, a volte, si pensa che sia più facile subire, anziché riprendere l’iniziativa. La<br />

violenza non è soltanto quella di chi mi prende a pugni, esiste una violenza molto più soft, ma che è<br />

altrettanto violenza, è quella che mira a che tu rinunci ai tuoi desideri. È la violenza insita in ogni<br />

atteggiamento paternalistico, in ogni atteggiamento pedagogico. Secondo la pedagogia i casi sono due: o il<br />

66


ambino è una tabula rasa che io devo riempire, perché lui non sa ed invece io so, si chiama cognitivismo,<br />

oppure – peggio – il bambino ha <strong>del</strong>le forze, degli istinti, che deve imparare a controllare. Se avessimo<br />

l’istinto <strong>del</strong>la sopravvivenza non ci sarebbe l’anoressia.<br />

Un atteggiamento paternalistico, pedagogico o anche terapeutico – nel senso medico di «Io ti curo» e non «Io<br />

ho cura di te» – sono atteggiamenti inadeguati. L’altro è lì a spiare ogni indizio di insuccesso <strong>del</strong> soggetto,<br />

perché è lì a dimostrare che il destino può essere solo fallimentare, per lui non esiste destino di realizzazione<br />

o di soddisfazione. Questi atteggiamenti corrispondono a frasi <strong>del</strong> tutto comuni, <strong>del</strong> tipo: «Non ce la farai<br />

mai» o «Siamo tutti sulla stessa barca» o «Adesso sei giovane, ma guarda che la vita è un’altra cosa», come a<br />

dire: «Metti via quello che vuoi». Altri esempi: «Non hai volontà, non sei un uomo», «Sei sempre il solito»,<br />

ossia «Sbagli sempre, hai sbagliato anche questa volta», «Adesso è tardi, hai perso una opportunità». La<br />

concezione <strong>del</strong> tempo è diversa, nella patologia e nella guarigione. Il tempo infinito, il tempo perso è <strong>del</strong>la<br />

patologia; il tempo come ricchezza è <strong>del</strong>la salute: «Io ho tempo». Le frasi ricordate sopra hanno il sapore<br />

<strong>del</strong>la scontatezza, di un sapere presunto.<br />

La normalità psichica è tutta altra cosa, significa che io ho una norma <strong>del</strong> mio agire, che diventa un termine<br />

di paragone di tutte le mie azioni. La norma di soddisfazione, che io ho sperimentato nell’infanzia, miro a<br />

ritrovarla in ogni esperienza <strong>del</strong>l’età adulta. Per questo io ho voluto correggere certi miei percorsi, perché il<br />

mio desiderio non si riducesse a un’intenzione, magari pia. Il desiderio è efficace per definizione, è capacità<br />

di domanda. Lo psicoanalista coglie la domanda quando è domanda reale, non quando è pretesa o lamento.<br />

Se non si riconosce la capacità d’iniziativa individuale, il rapporto, che è questa legge di domanda e di<br />

offerta fondata sull’imputazione di merito, viene sostituito da comandi, da rimproveri, da assistenza fondata<br />

su un errore di pensiero: «Siccome tu non sai pensare a te stesso, ci devo pensare io». Ci devo pensare io,<br />

alla tua, di vita. Ora, se a questo sguardo errato <strong>del</strong> genitore – essere genitori è un successo, partorire un<br />

figlio è una cosa semplice, generare la competenza di pensiero di un figlio è diverso – si aggiungono errori<br />

diagnostici, cioè si aggiunge la legittimazione di certa scienza, allora l’ingresso nel campo <strong>del</strong>la<br />

psicopatologia è un’autostrada aperta. Recentemente ho accolto in studio due genitori in angoscia con un<br />

figlio di due mesi, perché il neuropsichiatra di turno, visitando il figlio ha detto: «Signora, la prospettiva è<br />

che questo cresca, ma non sia mai normale».<br />

Il giudizio di questo neuropsichiatria è falso in termini prognostici. Come faccio a dire che qualcuno,<br />

domani, non sarà un normale? Che cosa mi autorizza a dire così? Mi autorizza il mio errore di pensiero,<br />

consistente nel credere che esista una psicologia <strong>del</strong>l’età evolutiva. Un essere umano è un accadimento<br />

psichico, non è un problema di sviluppo. Non si può parlare di una sequenza tipo quella che dal seme porta<br />

alla pianta, poi ai rami, ai frutti. L’uomo è un’altra cosa. L’uomo vive di desideri.<br />

Nel nostro lavoro abbiamo cominciato a dire: «Attenti alle diagnosi!»: attenzione che la diagnosi non<br />

interpreti come ostilità, quello che è ancora un tentativo maldestro di difesa. La realtà è che il bambino, o<br />

quell’individuo, non ce l’ha con me, sta difendendo quel minimo di competenza che gli è rimasta, in cui la<br />

difesa è dal disinvestimento altrui. Ci sono persone su cui più nessuno è capace d’investire nulla, poi esistono<br />

anche errori che consistono nel riferire ad una patologia organica ciò che invece è patologia psichica. Per<br />

esempio, siccome ha la sindrome di Down sarà un’insufficiente mentale: non si tratta in realtà di deficit, ma<br />

di eccesso di pensiero. Trattare il corpo umano non è una cosa semplice, così come avere lucidità<br />

diagnostica, capacità d’osservazione. Occorre ricordarsi che il corpo umano non è semplicemente un<br />

organismo. La medicina tratta l’organismo: organi, apparati, sistemi che funzionano o non funzionano. Ma<br />

quel corpo, che ha il cuore come me, ha l’apparato respiratorio come me, ma ha il sistema nervoso diverso<br />

dal mio, può raggiungere, come me, l’esperienza <strong>del</strong>la soddisfazione? È questa la sfida.<br />

Qui è utile la presenza di un Tutor. È normale oggi che persone che conosco vengano accompagnate a visite<br />

mediche dal Tutor perché egli tutela la loro competenza (cosa che spesso il genitore non fa) ottenendo così<br />

una fiducia circa il proprio dire da parte <strong>del</strong> cliente. Può essere utile un Tutor accanto ad un individuo che<br />

non riesce più ad avere voce in capitolo circa ciò che lo riguarda e la diagnosi e il trattamento sono cose che<br />

67


anzitutto lo riguardano, non cose che riguardano innanzitutto altri. Abbiamo anche visto che è utile che il<br />

contratto con la famiglia sia un contratto preciso e professionale.<br />

Una prima capacità <strong>del</strong> Tutor è l’individuazione <strong>del</strong>la capacità di rapporto in chi diventerà suo cliente.<br />

Occorre chiedersi qual è il lavoro a cui io chiamo, e qual è il lavoro <strong>del</strong>l’altro a cui io posso associarmi.<br />

La caratteristica <strong>del</strong> lavoro <strong>del</strong> Tutor è l’attenzione ai dettagli, al particolare, l’attenzione al rilievo personale<br />

che certe cose hanno. È un lavoro che si svolge in tutti i luoghi di vita <strong>del</strong> soggetto, non in un ambito<br />

particolare. Il Tutor, nel suo lavoro, può aver bisogno anche di uno spazio proprio, ma è uno spazio limitato,<br />

che può servire per incontrare i genitori o il soggetto, per impostare il contratto.<br />

Val la pena dedicare molto lavoro alla definizione <strong>del</strong> contratto, perché è nel dibattito sul contratto che si<br />

chiariscono domande e offerte.<br />

La presenza di Tutor ha significato per me la possibilità di dimettere per qualche ora persone dal centro che<br />

dirigo. Se un centro di accoglienza diventa l’unico ambito di vita di una persona, pur con tutta la buona<br />

volontà possibile, viene ad assomigliare troppo a un carcere e nessuno può aver come prospettiva di vita una<br />

struttura chiusa, così come nessuno può essere messo in carcere se non viola le leggi <strong>del</strong>lo Stato. Le altre<br />

leggi, quelle <strong>del</strong>la giurisprudenza individuale, vanno affrontate in altro modo.<br />

Giacomo B. Contri, nel Convegno sulla figura <strong>del</strong> Tutor tenutosi a febbraio a Milano, diceva che il Tutor è<br />

assimilabile a un avvocato, e circa le specie di avvocatura ne indicava almeno tre, sottolineando che con il<br />

Tutor noi forse ne abbiamo aggiunta una quarta o forse la quarta unisce due su tre.<br />

La prima specie di avvocati sono quelli formati nelle facoltà di diritto, le facoltà universitarie; la seconda<br />

specie di avvocato storico, non riconosciuto da tutti, è un tale di nome Gesù Cristo: noto che nel nostro<br />

mondo Dio stesso è un pre-giudicato, per ognuno ci sono dei pre-giudicati, altri, cioè, che abbiamo già messo<br />

via. Essere normali vuol dire che il giudizio è dato a posteriori, non a priori. La terza specie diceva Contri<br />

è lo psicoanalista che è un avvocato di processo d’appello. Il Tutor unisce parte <strong>del</strong> lavoro <strong>del</strong> primo, con<br />

parte <strong>del</strong> lavoro <strong>del</strong> terzo, di fronte ad un soggetto che è diviso tra l’abdicazione ai propri diritti e l’arroccarsi<br />

sui propri diritti. Nel malato psichico non c’è più l’esperienza <strong>del</strong>la normalità psichica, esperienza<br />

caratterizzata dal fatto che c’è il soggetto di fronte a tutto il reale, e si tratta di imparare a trattare<br />

convenientemente questa relazione tra me e il reale. Nella patologia il soggetto si lascia giudicare da<br />

un’istanza astratta che lui stesso ha costruito, anziché stare semplicemente al giudizio di gradimento<br />

<strong>del</strong>l’altro. Il Tutor può essere un soggetto che stabilisce con questo individuo un patto, che rispetta per<br />

primo, e che lo chiama a riprendere iniziativa rispetto al reale riguardo cui egli non sa più muoversi, mentre<br />

il reale può essere tutto di beneficio. Si tratta di imparare a difendere la propria competenza e poi si vede che<br />

può essere anche gustoso il vivere. L’esperienza <strong>del</strong> gusto è anch’essa un’esperienza ricevuta. Noi non<br />

mangiamo semplicemente perché abbiamo fame. Non so se vi sono mai capitati dei pranzi, ad esempio di<br />

lavoro, in cui vi erano antipatiche le persone con cui mangiavate: in questi casi si gusta meno il pranzo, si<br />

mangia ma non si gusta. Il gusto è possibile solo nel rapporto.<br />

La norma è una possibilità, non è la regola, e consiste anche nella capacità di accettare <strong>del</strong>le regole. Se dico<br />

che prendo in carico un drogato, devo saperlo prender in carico, altrimenti è meglio che non lo faccia. Non si<br />

tratta di prender in carico il drogato, ma si tratta di far compagnia alla persona, all’individuo in modo che<br />

dalla droga si stacchi. Non si tratta di prender in carico l’handicappato psichico, si tratta di accompagnare<br />

l’individuo a liberarsi <strong>del</strong>l’handicap. L’handicap psichico è una costruzione non clinica <strong>del</strong>la psicopatologia,<br />

esattamente come la tossicodipendenza è una non clinica. Non c’è niente da curare nella tossicodipendenza,<br />

c’è da offrire l’opportunità che qualcuno se ne stacchi. Quest’offerta può anche avere <strong>del</strong>le clausole pattizie<br />

estremamente chiare.<br />

È bene far mente locale al fatto che drogato, come minimo, vuol dire niente sesso, cioè l’abbandono di<br />

un’esperienza profondamente umana. Ma non esiste «il sesso», che è un’altra teoria come quella degli istinti,<br />

da cui è meglio liberarsi. Esistono un uomo e una donna, nel genere umano i sessi sono due, definiti<br />

68


corporalmente, fin qui sono solo dei connotati biologici, come dire ho due mani. Cosa me ne faccio <strong>del</strong> mio<br />

sesso? Questa è la cosa interessante. Essere uomo o essere donna è un accaduto psichico. Esistono tante<br />

questioni non da capire, ma da ripensare, per liberarsi di pensieri di troppo, che riducono la facoltà di agire e<br />

di muoversi.<br />

DISCUSSIONE<br />

Richiesta di approfondimento riguardo alla questione degli istinti.<br />

L’uomo ha pulsioni, non istinti. La pulsione nella definizione freudiana è la rappresentanza psichica di un<br />

bisogno organico. Rappresentanza, non rappresentazione. L’istinto è per definizione una forza che si esercita<br />

e raggiunge il proprio obbiettivo, senza possibilità d’interruzione. L’istinto <strong>del</strong> mangiare è <strong>del</strong>l’animale,<br />

anche se ho un cane che, se non siamo in casa, non mangia, nell’uomo il mangiare non è comunque così, e<br />

nella patologia psichica i primi segnali che la cosa non va riguardano il mangiare, il dormire, il rapporto con<br />

gli altri, l’andare in bagno. Si parla di quattro moti corporali fondamentali. Il concetto di moto include quello<br />

di azione e quello di comportamento. Mangiare è un moto corporale. Il controllo degli sfinteri, l’alienare i<br />

resti è un moto di pensiero <strong>del</strong> bambino all’interno di un buon rapporto. Faccio così, per far piacere a te. Un<br />

bambino normale cresce così. Quando si presenta la questione <strong>del</strong>l’enuresi a sette, otto, dieci anni, di fronte<br />

all’altro conveniente che gli dice: «Guarda che puoi» lui pensa: «No, io non posso», ancorandosi a idee<br />

costruite in precedenza e patologiche. Ricostituire la possibilità <strong>del</strong> pensiero libero è un lavoro non semplice.<br />

I quattro moti corporei fondamentali sono: il mangiare l’alienare i resti, il guardare, il parlare. Il parlare è un<br />

accaduto psichico, non è una tappa <strong>del</strong>lo sviluppo; e quando il bambino dice la prima frase, è assolutamente<br />

evidente che questa prima frase ha dietro un lungo pensare. Il parlare non è un’abilità, ma una facoltà,<br />

esattamente come nei tribunali si dice: «Lei ha facoltà di parlare». Dopodiché uno scopre che parlare non è<br />

così immediato, uno scopre la propria inibizione: «C’è questa cosa che non ho chiara, c’è quest’altra cosa<br />

che non ho capito…». Ognuno ha costruito teorie. Il problema non è che uno le abbia, il problema è che<br />

ognuno pratica le proprie teorie, alcune <strong>del</strong>le quali sono utili, mentre altre non sono utili. Non c’è distanza tra<br />

teoria e pratica; ognuno è psicologo, parlando dice <strong>del</strong> proprio pensare, <strong>del</strong>le difficoltà in cui esso si imbatte.<br />

Richiesta di approfondimento circa il modo in cui il Tutor si prende cura <strong>del</strong> suo cliente.<br />

Se il Tutor è ciò di cui si è detto, e si prende cura, ad esempio, di uno che non lavora da dieci anni, e nel suo<br />

intervento si limita a dire alla persona: «Guardi è bene che lei lavori», e basta, quella persona continuerà a<br />

non lavorare. L’intervento <strong>del</strong> Tutor sarà piuttosto: «Siccome per me è utile che lei lavori, andiamo insieme a<br />

vedere che possibilità ci sono». L’attività <strong>del</strong> Tutor è caratterizzata dalla varietà di offerte.<br />

Quando il primo impatto con l’handicappato psichico è: «Guarda che tu puoi», «Guarda che non ti è chiesto<br />

di fare niente a priori», tale impatto è scioccante, in senso positivo. Ricevere da queste persone la risposta:<br />

«Non lo so», alla domanda: «Preferisci il riso o la pasta?», ci permette di dedurre che scegliere il riso o la<br />

pasta è un sapere. Il sapere sulla relazione si chiama rapporto.<br />

Una cosa è presentare alla persona <strong>del</strong>le possibilità, altra cosa è sceglierle al suo posto.<br />

L’intervento <strong>del</strong> Tutor non è una presenza per tutte le stagioni, significa: «Ad un certo punto cammini da<br />

solo». Lo shock per l’altro è trovare davvero qualcuno che riconosce la sua competenza di pensiero. È<br />

facilissimo non riconoscere questa competenza già al bambino. Un esempio. Un bambino di quarta<br />

elementare dice: «Voglio tenere la giacca in classe perché ho freddo» e la maestra risponde: «No, perché<br />

nessuno dei tuoi compagni ha la giacca, quindi non fa freddo». Il corpo di quel bambino, di chi è? Non<br />

lavoriamo per l’omologazione, lavoriamo per l’individuo. Se poi queste cose sembrano banali, bene, la<br />

69


nostra vita è fatta di banalità. Proviamo a non stare attenti alla banalità e poi vedremo come diventa la nostra<br />

vita.<br />

Il Tutor aiuta la persona a trafficare con ogni realtà.<br />

È importante considerare l’età cronologica <strong>del</strong> cliente, proprio per tenere il criterio <strong>del</strong>la normalità. È stato<br />

per me uno scandalo intellettuale incontrare persone di 25 o 30 anni che sopravvivevano, non vivevano più;<br />

paragonando la loro vita con la mia, ho detto: «Qui c’è qualcosa che non va», e allora ho cominciato a dire:<br />

«È possibile per voi vivere come me». La maggior parte <strong>del</strong> mondo scientifico mi ha detto: «Ma cosa vuoi<br />

fare con queste persone? Ormai sono adulti e non si può fare più niente». Loro non potevano fare più niente,<br />

«Io – mi sono detta – posso», nel senso che si vanno a cercare le risposte che servono, non ci si ferma alla<br />

prima risposta che viene data. Se la prima risposta non serve, non serve. L’Anaconda è stata costituita nel<br />

1980, e io tra l’80 e il ’90 sono andata a incontrare psicologi, psichiatri e psicoanalisti di ogni corrente. Non<br />

ho trovato nessuno che mi sapesse rispondere in modo adeguato, finché sono arrivata a Freud, attraverso<br />

Giacomo Contri. Se con lui inizialmente e poi con tanti altri mi sono trovata a riprendere un lavoro è<br />

semplicemente perché ho trovato una risposta che mi consentiva di aver cura, che è quello che volevo. Ne ho<br />

trovato uno che mi ha detto: «Lei sta facendo una cosa nuova, io seguo Freud e so curare le nevrosi, vediamo<br />

se possiamo darci una mano». Questa è una posizione corretta: «Io ho un sapere, te lo metto a disposizione,<br />

se poi ti serve bene, altrimenti cerca altrove». Ciò significa che non è il mio sapere la risposta a tutto. La<br />

risposta è: «Cerca ciò che ti serve, ma prima devi sapere che cosa ti serve».<br />

Molti operatori che oggi lavorano a l’«Anaconda» quando sono arrivati dicevano: «Non so come fare», non<br />

dicevano: «Non so cosa fare». Anch’io ci ho messo tempo a capire come fare, ma si può capire tutto, non ci<br />

sono aree di sapere precluse, anzi c’è un sapere di ciascuno che data dall’infanzia.<br />

Propongo un esempio di contratto stipulato da un Tutor con una famiglia<br />

Si tratta di una ragazza che frequenta la terza media e non ottiene risultati a scuola, con una situazione molto<br />

povera, sia dal punto di vista economico, che dal punto di vista <strong>del</strong> pensare; la madre è disoccupata, il padre<br />

pulisce le carrozze ferroviarie di notte.<br />

La figlia risulta inibita, non ha cura di sé, si sente inferiore alle compagne perché frequenta una scuola<br />

privata di Milano che costa molto, per cui i genitori si sono indebitati per mandarla in questa scuola.<br />

È già stata posta diagnosi di insufficienza mentale da parte dei servizi <strong>del</strong>l’ASL.<br />

Ho proposto a questa famiglia di affiancare alla ragazza un Tutor.<br />

La Tutor ha dapprima definito con la famiglia un lavoro di osservazione, ha cioè detto alla famiglia: «La<br />

prendo in carico per un mese, poi vi dirò che tipo di lavoro farò successivamente».<br />

Nel caso di bambini l’osservazione spesso è fatta in casa, con la clausola, che ritengo debba essere ferrea:<br />

quando il Tutor è in relazione con il bambino, i familiari non devono essere presenti. Il rapporto è una<br />

questione personale, senza altre interferenze. Nel momento in cui intervengono <strong>del</strong>le interferenze finisce<br />

ogni possibilità di trattamento.<br />

Per gli adulti o gli adolescenti ci vuole uno spazio che possono essere uno o due locali di cui il Tutor può<br />

usufruire.<br />

Normalmente l’osservazione dura un mese, con circa due incontri a settimana. Al termine <strong>del</strong> mese il Tutor<br />

dice alla famiglia se può o meno seguire la persona, dopodiché si mettono per iscritto gli obiettivi, le<br />

modalità, i tempi, i luoghi.<br />

La proposta fatta dopo il mese di osservazione è stata la seguente:<br />

Obiettivi: conseguimento di una autonomia personale relativa a sei aspetti:<br />

cura <strong>del</strong> proprio corpo,<br />

coltivazione dei propri interessi,<br />

capacità di prendere l’iniziativa per costruire rapporti con altri,<br />

spostamenti fuori casa, uso mezzi pubblici di trasporto,<br />

70


utilizzo <strong>del</strong> denaro,<br />

conseguimento <strong>del</strong>le competenze necessarie per sostenere un corso di formazione al lavoro e per la<br />

successiva attività lavorativa.<br />

Con questa ragazza, data l’età di quattordici anni, si tratta di vedere come può prepararsi a imparare un<br />

mestiere. Imparare un mestiere è un’esperienza adulta.<br />

Un’osservazione personale: autonomia significa che uno si muove secondo una legge propria, nomos, in<br />

greco, significa legge. Altra cosa è l’autosufficienza. Quest’ultima è, ad esempio, «So muovere le mani»,<br />

l’autonomia corrisponde a «Le muovo a ragion veduta».<br />

Modalità e contenuti<br />

Il lavoro con i genitori<br />

ha richiesto come condizione per la presa in carico, la <strong>del</strong>ega di alcuni compiti educativi, quali la decisione<br />

<strong>del</strong>le attività da svolgere e il relativo metodo, i colloqui con i responsabili di eventuali corsi di formazione.<br />

Sono previsti colloqui con i genitori, a scadenza mensile, durante i quali verranno comunicate osservazioni,<br />

questioni emerse, passi compiuti.<br />

Il lavoro con la ragazza<br />

«I primi due mesi di lavoro non saranno organizzati con un programma prestabilito, ma di volta in volta,<br />

stabiliremo cosa fare. Saranno due mesi di prova al termine dei quali comunicherò le mie considerazioni ai<br />

genitori in un colloquio.<br />

Le attività potrebbero essere: uscite per andare al cinema o mangiare una pizza, andare in oratorio, visitare<br />

una mostra, cucinare insieme, andare a comprare un vestito o altro ancora in base al desiderio <strong>del</strong>la ragazza.<br />

Ritengo questo – scrive la Tutor – il modo migliore per favorire la nascita di nuovi interessi, desideri da<br />

coltivare che arricchiscano la sua vita; solo all’interno di questi desideri sarà possibile il conseguimento <strong>del</strong>le<br />

autonomie <strong>del</strong> punto 1.<br />

In quest’ottica discuteremo <strong>del</strong> futuro lavoro che dovrà svolgere e quindi <strong>del</strong>la preparazione specifica che<br />

dovrà conseguire, non escludo che il raggiungimento di tale decisione possa essere preceduto da un periodo<br />

di approfondimento didattico generale, nel caso in cui la ragazza manifestasse questa richiesta.<br />

Quando la sua decisione riguardo il lavoro sarà matura stabilirò il programma <strong>del</strong>le attività attinenti alla<br />

formazione professionale, analogamente dopo qualche tempo verranno svolte quelle attività che la ragazza<br />

avrà mostrato di preferire».<br />

Tempi<br />

Durata complessiva <strong>del</strong> lavoro: un anno, al termine <strong>del</strong> quale si verificherà l’opportunità o meno <strong>del</strong>la<br />

continuazione <strong>del</strong> lavoro in altra forma, da decidere in relazione ai risultati raggiunti.<br />

Il lavoro prevede tre incontri settimanali <strong>del</strong>la durata indicativa di due ore ciascuno. La durata effettiva di<br />

ciascun incontro potrà variare in base al genere di attività o in base a quando il Tutor riterrà opportuno<br />

concludere il lavoro.<br />

Nel mese di trattamento <strong>del</strong> Tutor questa ragazza ha cominciato a guadagnarci qualcosa dall’andare a scuola.<br />

Osservazioni conclusive<br />

Sapere, giudizio, memoria sono atti di pensiero. L’inibizione <strong>del</strong> pensiero è porre un limite al pensiero<br />

stesso: «Questo posso pensarlo, questo non posso pensarlo». Limitare il pensiero significa impedire la<br />

soddisfazione. Esistono limiti posti dal pregiudizio, i quali invitano a trasgredire; esistono i limiti reali, i<br />

quali invitano a lavorare.<br />

Educazione e psicologia sono la stessa cosa, perché non credo che si debba controllare nessuno, ma che si<br />

possa accompagnare ognuno a trovare ciò che gli può essere soddisfacente.<br />

71


TEMI E AUTORI<br />

Bambino<br />

Cura<br />

Giudizio<br />

Istinto, i<br />

Handicap<br />

<strong>Pensiero</strong><br />

Sapere<br />

Tossicodipendenze<br />

Tutor o Avvocato <strong>del</strong>la salute<br />

72


Ancona, 4 Settembre <strong>1999</strong><br />

<strong>CURA</strong>RSI DI RELAZIONI E <strong>CURA</strong>RE ATTRAVERSO LE<br />

RELAZIONI<br />

1. <strong>CURA</strong> DI SÉ, <strong>CURA</strong> DELL’ALTRO<br />

Giacomo B. Contri<br />

Non intendo svolgere una trattazione sistematica intorno alla psicopatologia <strong>del</strong>le tossicodipendenze; basti<br />

dire che colloco le tossicomanie tra le perversioni e, per chiarezza espositiva, non tra le nevrosi né tra le<br />

psicosi. Dato tale ordine didattico per presupposto, o meglio per implicito, il mio intervento va piuttosto<br />

considerato come una chiacchierata, la cui utilità, se vi sarà, futuro anteriore: sarà chi legge a stabilirlo <br />

consisterà in una e una sola cosa: invitare, e insieme augurare, a chi si occupa di tossici che la meta <strong>del</strong><br />

lavoro sia l’aver cura di se stessi. La parola cura è applicata alla propria persona. All’espressione corrente<br />

«cura di sé» si può dare un significato estensivo che comprende tutte le ventiquattro ore, a partire dall’ora in<br />

cui ci si alza, ci si rade e si prende cura di altri aspetti <strong>del</strong>la propria persona. Si darà il caso che capiti di poter<br />

curare altri, ma ciò è strettamente subordinato all’avere cura di se stessi. La relazione è diretta, univoca. [1]<br />

Non ho usato a caso la parola tossico, più popolare rispetto a tossicodipendente. Si tratta di una preferenza;<br />

nel secondo caso, con tossicodipendente è lo stesso tossico a dirci di essere dipendente dal tossico. Occorre<br />

aver cura <strong>del</strong> proprio intelletto e cominciare a dubitare che esista la tossicodipendenza nel senso chimico<br />

<strong>del</strong>la parola; se ha un nome, un nome ormai moderato, è ideologia. Il tossico è un missionario <strong>del</strong> tossico, un<br />

militante. Ma non si può cedere all’idea che il tossicodipendente sia un dipendente dal tossico.<br />

Bastano questi pochi segnali per sommuovere l’intero campo. Con i tossici, come per tutta la psicopatologia,<br />

non è possibile una relazione medica o similmedica, se con tale relazione immaginiamo uno specialista, un<br />

professionista con un pacchetto di azioni che ritiene adeguate per raggiungere uno scopo come la guarigione.<br />

Con i tossici non esiste una relazione fondata su causa-effetto, su azione adeguata <strong>del</strong>lo specialista ed effetto<br />

più o meno riuscito nel paziente. Se il tossico è un militante e lo è il campo è segnato in modo<br />

completamente diverso. Neppure per un istante rinuncio a includere le tossicomanie nelle perversioni.<br />

Aver cura di sé stessi è la condizione senza la quale è escluso in partenza l’avere cura di altri ed è prioritario<br />

per chi si occupa di tossici, che, come prima conseguenza, hanno il potere di farci scoprire impotenti: con<br />

loro non si ottengono risultati, se ne vanno come sono venuti, sfottono. Sto parlando di frustrazione nel senso<br />

più comune <strong>del</strong>la parola. Anche senza essere pronti intellettualmente o verbalmente a descrivere e analizzare<br />

questo sentimento, tutti abbiamo un’idea generale o almeno un sentimento generale <strong>del</strong>la frustrazione:<br />

qualcosa va storto. In genere però si omette di descrivere, o esplicitare, che nella frustrazione c’è offesa. La<br />

frustrazione non è innanzitutto l’esame andato male o l’affare andato storto, in essa qualche cosa dipende da<br />

un’offesa, da un insulto. Lavorare con i tossici è frustrante, con una parola più rude, è offensivo. Se a<br />

73


qualcuno che lavora con i tossici all’interno di un Servizio o in uno spazio chiuso a ciò deputato venisse la<br />

mosca al naso e dicesse al tossico: «Ti aspetto fuori», proprio come si diceva da ragazzi, mostrerebbe una<br />

reazione psicologicamente legittima. A nessuno possiamo permettere di offenderci. Il tossico offende.<br />

Constatare questo è già avere cura di sé stessi. Chi ha esperienza, anche non professionale, di psicotici<br />

ritrova la stessa cosa, benché non in tale misura, non a tempo pieno, non a pieno ritmo e già lo psicotico<br />

non scherza!<br />

Senza scomodare i dieci comandamenti o i sette vizi capitali, sto introducendo termini che hanno il sapore di<br />

linguaggio morale, di esperienza morale. La frustrazione, e l’offesa a essa correlata, corrisponde bene alla<br />

parola tedesca usata da Freud, Versagung, che significa disdire un appuntamento o un patto, avendo<br />

qualificato l’appuntamento come due in un posto. Uno dei due non si presenta all’appuntamento. Culmine<br />

<strong>del</strong>la frustrazione è il saltare <strong>del</strong>l’appuntamento che si attendeva e desiderava, unito all’offesa di non essere<br />

stati trattati degnamente. Che qualcuno dia un appuntamento e non venga o lo disdica come metodo è<br />

un’indegnità. Può capitare di disdire un appuntamento, ma ci sono persone che hanno come regola il disdire<br />

gli appuntamenti, il denunciare i patti. A questo riguardo i tossici fanno di più: può essere che vengano, anzi<br />

vengono con l’aria di venirci e fisicamente ci sono in alcuni casi persino con aria di modestia, di stare a<br />

sentire mica tanto ma non entrano mai in un patto di lavoro. Sotto l’apparenza <strong>del</strong>lo starci, la disdetta <strong>del</strong><br />

patto è persino anticipata. È la frustrazione.<br />

Avere appuntamenti è la più comune <strong>del</strong>le esperienze; non ci si pensa, ma le ventiquattro ore <strong>del</strong>la giornata<br />

sono in larghissima parte vita di appuntamento, regime di appuntamenti. In una famiglia in cui ci si vede a<br />

colazione, a pranzo e a cena ci sono tre appuntamenti; i rapporti di lavoro sono appuntamenti; la relazione tra<br />

un uomo e una donna è un regime di appuntamenti. Freud ma sono pochi a starlo a sentire sostiene che<br />

persino il sonno comincia a entrare nelle nostre menti secondo il regime <strong>del</strong>l’appuntamento, persino<br />

quell’esperienza fisicamente isolata, per niente autistica che è il sogno non esiste niente di meno autistico<br />

<strong>del</strong> dormire e <strong>del</strong> sognare, e specialmente <strong>del</strong> sognare.<br />

Questo fa parte <strong>del</strong>l’avere cura di sé. Se qualcuno, nel tentare di prendersi cura di sé, volesse rendersi conto<br />

di che cosa è umanamente o psichicamente, basterebbe che facesse, come si dice, l’esame di coscienza su<br />

quanta parte <strong>del</strong>le proprie ventiquattro ore rientra o non rientra nel regime <strong>del</strong>l’appuntamento. Si è tanto più<br />

matti uso ancora una parola popolana quanto meno le ventiquattro ore rientrano nel regime<br />

<strong>del</strong>l’appuntamento. [2] Se la vita va bene, la parola appuntamento si estenderà tendenzialmente alla totalità<br />

<strong>del</strong>le ore quotidiane. La mia definizione più diretta e credo più intelligibile di salute di uno stesso concetto<br />

si possono dare più definizioni teoriche è registrare la propria esistenza quotidiana come regime di<br />

appuntamento. Capisco benissimo che a partire da bambini piccoli si può cominciare a venire ammalati. È<br />

facile pensare a come ci si reca male all’appuntamento <strong>del</strong> caffè, <strong>del</strong> pranzo e <strong>del</strong>la cena... e non mi riferisco<br />

solo all’abito o all’avere il viso sudicio o al puzzare…<br />

Auguro poi a tutti di diventare sensibili al puzzo, non riguardo all’olfatto, ma al timpano. Se un giorno<br />

riuscisse di aver un senso olfattivo <strong>del</strong>l’udito, di sentire cioè come taluni modi di parlare puzzano per il fatto<br />

di essere di un certo tipo, in alcuni casi anche forbiti, ci si renderebbe conto anche olfattivamente, olfatto<br />

uditivo, <strong>del</strong> cattivo odore dei discorsi di molti assistiti. Sto parlando di quello che nella storia <strong>del</strong> pensiero è<br />

stata chiamata facoltà <strong>del</strong> giudizio. Non serve necessariamente avere fatto studi superiori. L’olfatto è un<br />

mezzo <strong>del</strong> giudizio, l’udito è un mezzo <strong>del</strong> giudizio. Se a un concerto, qualcuno stona, riconoscerlo è<br />

esercitare un giudizio. Avere un naso che funziona e sentire un cattivo odore in strada è un giudizio. Per<br />

individuare un errore non occorrono due tappe: la constatazione e il giudizio. Il giudizio è la constatazione.<br />

Recita il titolo di un vecchio film: «Poveri ma belli». Una persona appena giudicante, direbbe: «Niente<br />

affatto, i poveri sono sempre brutti». Non esistono i poveri belli. Poveri ma belli è una <strong>del</strong>le menzogne<br />

tipiche <strong>del</strong> drogato. Si dice: povero sì, ma almeno interiormente, da qualche parte <strong>del</strong> suo spirito, non fosse<br />

che perché si ritiene vittima <strong>del</strong>la storia, <strong>del</strong>le droghe, <strong>del</strong>la società, <strong>del</strong>la famiglia o di quant’altro, avrebbe<br />

quella sorta di bellezza morale che deriva dall’essere vittima. Muoversi per una mancanza è esattamente ciò<br />

74


che fa il perverso e in particolare il tossico. Passa la vita a denunciare la sua mancanza, la sua miseria, la sua<br />

riduzione in quello stato. Non credeteci, non cascateci.<br />

2. IDIOTA, CAROGNA, FANATICO<br />

Per descrivere il drogato partirò da un aggettivo: idiota. È il termine usato anche in senso tecnico nella<br />

psicopatologia per quei soggetti che sono in grado, per esempio, di moltiplicare tra loro numeri di molte cifre<br />

in pochi secondi, sono gli idiots savantes¸ gli idioti scientifici in francese, o Fachidiot, idiota professionista<br />

in tedesco. C’è un’altra parola che pesco sempre dalla storia <strong>del</strong>la psichiatria, benché sia stata fatta sparire,<br />

proprio come si dice furto con destrezza, è la parola «demenza», usata in latino da Kraepelin, uno dei più<br />

grandi psichiatri tedeschi a cavallo <strong>del</strong> secolo, che specialmente per quelle che sono poi state chiamate<br />

schizofrenie, parlava di dementia praecox. Non c’è grande differenza tra idiota o demente, e bravo è stato<br />

Dostoevskij ad accorgersene, quando ha intitolato uno dei suoi più importanti romanzi L’idiota, introducendo<br />

nella civiltà questa parola al di là <strong>del</strong> puro uso popolare con cui si dà <strong>del</strong> cretino a un amico. Dostoevskij ha<br />

lanciato l’idiota proprio nel senso di un’odierna operazione pubblicitaria a livello di cultura mondiale. [3]<br />

Per continuare la descrizione, senza lesinare i termini, uso una parola carica di sinonimi e comune<br />

all’esperienza di chiunque abbia a che fare con i tossici: carogna. Fare di tutto per rovinare la famiglia, per<br />

disgustare coloro con cui viene a contatto, far sentire dei falliti coloro che si occupano di lui: chi vive così è<br />

una carogna. Potremmo usare altri aggettivi, anche non pienamente sinonimi, per completare il concetto;<br />

potremmo parlare per esempio di cattiveria. In ogni caso verificheremmo il livello morale di ciò di cui si<br />

tratta.<br />

C’è un terzo tratto, sfuggendo il quale sfuggirebbe il nocciolo <strong>del</strong>la tossicomania. Lo spiego a partire da una<br />

celebre frase di Marx: «La religione è l’oppio dei popoli». Il buono di questa frase è sempre sfuggito. Tutti si<br />

sono unicamente occupati di riconoscere se la religione sia o non sia l’oppio dei popoli, lasciandosi sfuggire<br />

l’aspetto più tagliente e acuto. La frase di Marx dice che a essere l’oppio o l’eroina non è l’oppio, ma una<br />

cultura: una cultura è l’oppio dei popoli, una certa idea, un certo pensiero; per Marx questo oppio-cultura,<br />

oppio-idea è la religione. La tossicomania, la tossicodipendenza cui non credo sono una cultura. Basta<br />

notare che i tossici, a differenza degli psicotici, riescono ad andare in televisione per farsi intervistare dai<br />

giornalisti. Riandando alle loro risposte sulla loro condizione si scopre un’ideologia perfetta, un vero<br />

discorso dalla A alla Z, un discorso che non è affatto religione, ma che non è meno completo di una<br />

religione. Con una differenza: la religione <strong>del</strong> tossico, la cultura <strong>del</strong> tossico è fanatica. È il terzo aggettivo<br />

<strong>del</strong>la mia descrizione. Fanatici come la setta indiana degli Hasciscim, gli assassini. I tossici non sono<br />

assassini nel senso fisico, ma appartengono a una specie distinta di fanatismo. Ho cominciato ad<br />

accorgermene agli inizi degli anni Ottanta, osservando a Firenze, sui gradini <strong>del</strong>la chiesa di piazza Santo<br />

Spirito una autentica comunità di tossici. Tra i tossici esiste una comunità culturale <strong>del</strong>la tossicomania,<br />

composta da persone che ritengono di intendersi tra loro e che nessun altro al di fuori di quella comunità<br />

culturale può intendere: «Solo noi intendiamo». Nella tossicomania esiste un noi, come in una comunità,<br />

vuoi religiosa, vuoi fanatica non confondo religione e fanatismo ; vi sono persone che testimoniano di<br />

essere in contemplazione di qualcosa che altri altrove non contemplano, non possono contemplare.<br />

Riprendo il primo giudizio descrittivo. Dicevo idiota, idiota scientifico, idiota professionista come il demente<br />

kraepeliniano: i tossici sono totalmente impegnati a rovinare l’intera esistenza, loro e altrui in un modo che<br />

infrange ogni considerazione pratica, logica, di piacere. Non c’è esperienza di piacere, neanche nel famoso<br />

flash, neanche in una pretesa virtù istantanea, negata alla povera umanità comune. È ammissibile che in una<br />

certa sostanza ci sia un istante di sollevamento dall’angoscia, ma dire che si tratti di un’esperienza<br />

privilegiata, simile a quella di Dante nel XXXIII <strong>del</strong> Paradiso, quando vede direttamente la Trinità, no. Non<br />

permettete ai vostri intelletti di lasciarsi fregare fino al punto di ammettere che nell’assunzione di quella<br />

sostanza vi sia almeno un istante effimero, effimero sì, ma sublime. Sono frottole. Tutti sappiamo bene che<br />

75


siamo abbastanza contenti se una qualsiasi cosa ci libera da un momento di angoscia. Niente di più. Contro<br />

ogni logica, logica pratica, il tossico insiste a vita, stalinisticamente, sulla sua linea. Negli anni sessantottini<br />

si parlava di militanti duri e puri, oggi il militante duro e puro è il tossico.<br />

3. RINUNCIA AL GIUDIZIO<br />

Se in qualche punto il mio pensiero fosse refrattario a qualsiasi ragionamento sensato, qualcuno potrebbe<br />

dire a ragione che nella mia testa intesa come mente, come pensiero c’è un buco, come accade in talune<br />

patologie cerebrali che hanno come conseguenze <strong>del</strong>le paralisi: in questi casi possiamo dire che in quella<br />

certa zona c’è un buco funzionale <strong>del</strong>la sostanza cerebrale ma al momento non facciamo una lezione di<br />

neuropatologia. Il buco di cui si parla per i tossici è un buco <strong>del</strong> giudizio, una rinuncia al giudizio. Mi sto<br />

avvicinando a individuare la condotta, che è condotta <strong>del</strong> pensiero, <strong>del</strong>le parole e <strong>del</strong> moto.<br />

Pensiamo al modo in cui il tossicomane è arrivato a bucarsi, a quella che si chiama la prima volta. Se ricordo<br />

per esempio il Carducci, una <strong>del</strong>le scuole di Milano in cui il fenomeno <strong>del</strong>l’eroina, specialmente per alcuni<br />

anni, è stato più intenso, con spacciatori davanti alla scuola e studenti diventati poi spacciatori, l’avvio più<br />

comune <strong>del</strong> bucarsi era una frase banale, ma tipica: «Ma prova anche tu! Non hai il coraggio di farlo!».<br />

Queste frasi descrivono la generalità dei casi: un’idea sciocchissima di coraggio o un’imputazione<br />

sciocchissima di mancanza di coraggio: chiamiamola una tentazione. Tanti psicoanalisti hanno scritto volumi<br />

enormi per spiegare che chi diventa tossico aveva già in precedenza una base patologica, ma non è affatto<br />

necessario andare a pensare a una psicosi soggiacente o a una perversione soggiacente, a dei precedenti già<br />

gravemente patologici che l’eroina ha rivelato, a un caso di psicopatologia ancora non manifesta. Non è vero.<br />

Tanti ragazzi, un po’ come tutti, potevano essere considerati all’inizio di una carriera di nevrotico, ma niente<br />

di più. Un ragazzo accetta di entrare in questa pista in seguito a una vile provocazione morale cui non ha il<br />

coraggio di dire di no. A tutti è accaduta una volta o l’altra l’esperienza di non saper dire di no. Ci sono tanti<br />

casi di fidanzamento cominciati soltanto perché non si è saputo dire di no, e non è che il caso più mite, ben<br />

diverso dall’eroina. Il non sapere dire di no non uso le parole canoniche, <strong>del</strong>la psicopatologia e <strong>del</strong>la<br />

psichiatria, anzi più le conosco, meglio riesco a staccarmene per parlare la lingua comune è un caso di<br />

rinuncia al giudizio. «Direi di no, ma non so dire di no», si distingue in due proposizioni: come la monaca di<br />

Monza: «...e la sventurata rispose»; il papà la voleva fare monaca a tutti i costi e lei non sa dire di no.<br />

Manzoni è stato molto bravo nell’individuare questi due momenti. È l’inizio di un buco <strong>del</strong> giudizio che<br />

tenderà a restare a vita. Ogni psicopatologia inizia così. Non interessa dire qui perché a quindici anni ero<br />

disposto a non sapere dire di no. A questo proposito aveva ragione Freud, quando sosteneva che<br />

bisognerebbe ritornare a dieci anni prima. Il bambino, diversamente da quanto si dice nella psicologia<br />

corrente, contrariamente alle bambinellerie sapute che si dicono sul povero frugoletto, è psichicamente<br />

inossidabile; come si dice dei gatti, ha davvero sette vite, sette vite psichiche. La sola esperienza in cui è<br />

privo di difese è l’essere còlto, catturato da un adulto nel punto in cui non sa dire di no. Diciamo che «…lo<br />

sventurato risponde» è quanto accade all’inizio <strong>del</strong>la droga dieci anni dopo. In quel punto di non giudizio,<br />

continuerà a non giudicare, fino a comportarsi come un perfetto idiota. Ma chi è ferito risponde: è l’unica<br />

giustificazione che si possa dare alla condotta di questo individuo idiota, carogna, fanatico. Cogliere il punto<br />

in cui lo potremmo difendere è la via attraverso cui, forse, si potrebbe fare qualcosa. Potremmo dire: l’offeso<br />

offende, l’ingannato inganna, l’indementito indementisce, l’ammalato nel senso <strong>del</strong>l’uso <strong>del</strong> verbo<br />

ammalare come verbo attivo e transitivo – ammala, il militarizzato milita e rende militante, l’indottrinato <br />

spero di aver reso la precisa dimensione dottrinale <strong>del</strong> drogato – indottrina. Si potrebbe continuare con<br />

coppie simili di termini in cui il primo termine vede il verbo usato passivamente e il secondo passato ad<br />

attivo e transitivo.<br />

Le precedenti tre connotazioni descrittive sono anche dei giudizi: non esiste un primo momento <strong>del</strong>la<br />

descrizione e un secondo momento <strong>del</strong> giudizio; chiamare le cose con il loro nome è il giudizio. Trovarsi a<br />

76


giudicare come se fosse un secondo tempo, rispetto a un primo prender nota, equivale a riconoscere il<br />

segnale di qualcosa già andato storto nel pensiero. «Quello mi sta derubando»: non c’è bisogno di una<br />

dissertazione sui ladri o sul comandamento; è già detto tutto.<br />

4. DISPREZZO<br />

Le connotazioni che ho illustrato si riuniscono tutte in una: disprezzo per il lavoro, disprezzo irriducibile.<br />

Non credo a chi dicesse che con alcuni l’ergoterapia funziona... Il lavoro viene prima di tutto nella scuola<br />

promossa da Studium Cartello questo concetto è tra i due o tre principali e il primo lavoro è<br />

l’appuntamento. All’appuntamento prima ci si reca e secondo, ma è la stessa cosa, ci si reca preparati,<br />

affinché sia un appuntamento. Se uscite con qualcuno e fate i malmostosi per tutta la sera, non avete<br />

lavorato, non siete andati all’appuntamento. [4] I genitori o i figli che arrivano alla prima colazione<br />

immusoniti, stanno denunciando l’appuntamento che pure si sono assunti. Nella vita psichica non esiste<br />

maltrattamento peggiore. Persino Gesù Cristo non sto parlando da credente o non credente, uso<br />

semplicemente di un testo che gira per il mondo e che chiunque può leggere ha detto questo prima di me<br />

nella parabola di quel certo signore, padrone con un figlio, il quale, allorché poniamo il figlio diventa<br />

maggiorenne non mi pare che la parabola dettagli a questo riguardo , dà una festa per il figlio. Vi invita la<br />

società bene, ma nessuno ci va. Il padrone di casa manda allora a raccogliere dalle strade tutti quelli che<br />

passano e li invita. Andrebbe tutto bene, se non fosse che uno degli invitati si presenta senza cravatta, nel<br />

testo si parla di un certo tipo di veste. Nei confronti di costui il padrone di casa è letteralmente spietato: lo fa<br />

sbattere fuori, là dove, come dice il testo, è pianto e stridore di denti, per concludere con una <strong>del</strong>le frasi più<br />

gravi mai pronunciate nella storia <strong>del</strong>l’umanità: «A chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto anche quello che<br />

ha». Questa frase è l’opposto <strong>del</strong>la comune ideologia, specialmente nel campo <strong>del</strong>la gente disgraziata: «A chi<br />

ha, ma… adesso vediamo…, ma a chi non ha sarà dato il doppio perché, poverino, non ha». Nella parabola a<br />

chi non ha è tolto tutto, addirittura la vita. Se qualcuno dicesse che per aver pronunciato questa frase Gesù<br />

Cristo è stato il più grande criminale <strong>del</strong>la storia <strong>del</strong>l’umanità, non sarei d’accordo perché vi aderisco, ma<br />

capirei. Nulla è stato detto di più grave. Nella mancanza di pietà <strong>del</strong> padrone di casa, la pietà è invece<br />

pienamente presente. Lo dimostro. Sviluppando tra le righe la parabola, immaginate che questo tale invitato,<br />

essendo povero, perciò senza papillon, senza veste, senza camicia andasse dal padrone di casa e dicesse:<br />

«Vengo volentieri, ma non ho la camicia»; il padrone avrebbe apprezzato la sua iniziativa, perché costui, nel<br />

pronunciarsi così, avrebbe veramente lavorato in vista <strong>del</strong>l’esser preparato al ricevimento. È il primo lavoro.<br />

Il drogato, e tanti altri, non fa questo lavoro, non fa alcun lavoro, non muove un dito per arrivare preparato<br />

all’appuntamento. Il suo rifiuto è massimo: sprezzo <strong>del</strong> lavoro. Ciò non significa che si debbano sbattere<br />

costoro là dov’è pianto e stridore di denti nessuno poi ce ne darebbe il potere, arriverebbero denunce con<br />

tutte le cose che sappiamo, senza contare che di solito dall’attività con i drogati si raccoglie un certo, benché<br />

minimo reddito pecuniario... ma suggerisco di raccogliere dalla parabola il valore tecnico in ordine al saper<br />

almeno fare qualcosa con costoro. È un modo per fare funzionare il giudizio: «Hai o non hai il requisito <strong>del</strong>la<br />

tunica, <strong>del</strong>l’abito, <strong>del</strong>la cravatta?». È necessario esigere un requisito, un cenno di lavoro in vista<br />

<strong>del</strong>l’appuntamento, un’iniziativa. È un modo per fare <strong>del</strong> bene innanzitutto a sé stessi, per fare qualche cosa<br />

per curarsi di costoro. Curarsi di costoro, significa far sì che si curino, che abbiano cura di sé. Recarsi alla<br />

festa <strong>del</strong>la parabola con il requisito richiesto è avere cura di sé, fosse anche solo su un punto. Nella pratica è<br />

possibile lavorare per ottenere <strong>del</strong> lavoro, con i tossici come con ogni altro soggetto.<br />

Sempre usando uno degli scenari ultimi <strong>del</strong> cristianesimo, mi è accaduto di dire: prendiamo uno<br />

schizofrenico catatonico, proprio uno di coloro che non si muovono, non aprono la bocca, non alzano un<br />

dito, tutt’al più si fanno alimentare, uno di coloro che puzzano e mostrano il rifiuto radicale di ogni iniziativa<br />

– per inciso, non penso che il catatonico sia soltanto psicotico: come minimo è anche uno schiavista che<br />

obbliga tutti gli altri a lavorare per lui, a eccezione di lui. È la definizione di schiavitù. Immaginiamo che<br />

77


all’ultimo giudizio il Signore Dio onnipotente, che giudica se fare o non fare entrare per la buona porta, si<br />

trovi davanti questo catatonico che ha avuto tutta la vita terrena per guarire un po’ e che poi ha avuto <br />

ammettiamo di credere nel purgatorio ancora un bel po’ di tempo per avere cura di sé. Ebbene, il<br />

catatonico arriva e fa ancora il catatonico davanti all’Onnipotente, il quale palesemente non ha altro<br />

desiderio che di farlo entrare, non somigliando all’esaminatore <strong>del</strong>la maturità che eventualmente può<br />

fregarti; l’Onnipotente gli dirà: «In vita non hai preso un’iniziativa per venire un po’ fuori, e neppure per<br />

tutto il tempo che sei stato in purgatorio… Almeno adesso apri la bocca, dimmi qualche cosa, smetti di fare il<br />

catatonico, guarisci». Se quello non apre la bocca, non muove un dito, non si mette la tunica, che cosa potrà<br />

dire l’Onnipotente? Dato che non gli potrà dire nulla, sarà l’inferno. È la definizione <strong>del</strong>l’inferno. Ha fatto, o<br />

meglio, ha non fatto tutto lui. Non c’è condanna, ma non ha neanche mosso un dito, nonostante le tre grandi<br />

occasioni avute.<br />

Consiglio un libro di lettura, che non appartiene alla psichiatria o alla psicopatologia, ma volesse il cielo che<br />

la dottrina psicopatologica ne accogliesse la logica, consiglio La bisbetica domata. Il tossico è peggio <strong>del</strong>la<br />

bisbetica che al più ha dei generici e letterari tratti isterici e dunque si rifiuta di andare all’appuntamento,<br />

benché alla fine ci vada lo stesso e faccia risultare felice quell’unione: all’inizio per l’iniziativa di lui, in<br />

seguito anche per l’iniziativa di lei si fanno molti matrimoni, ma il matrimonio tra due iniziative è<br />

fenomeno sempre più raro. Definire il coniugio come coniugio tra due iniziative è tutta la nostra psicologia.<br />

Petruccio ne fa di tutti i colori, se ne inventa di ogni specie, anche apparentemente contraddittoria, sembra<br />

che la maltratti, la lascia senza cibo, le fa prendere freddo, avendo come fine l’appuntamento con questa<br />

donna che gli preme. A partire dalla sua mente, non fa che lavorare dall’inizio alla fine, per la riuscita<br />

<strong>del</strong>l’appuntamento o incontro o coniugio o come dir si voglia, dopodiché anche lei entra nel medesimo<br />

regime. Giustamente, a un certo punto, quando vede che la relazione ha una riuscita, Petruccio esclama:<br />

«Ecco ora sta per iniziare il mio regno».<br />

Un’osservazione conclusiva. Nella condotta e nelle parole dei tossici, come di tutta la psicopatologia, non<br />

solo non c’è alcuna regalità, non solo non ci sono belle vesti verbali o di indumenti, ma tira un’aria visiva,<br />

uditiva persino olfattiva di miseria. Miseria è il connotato principale <strong>del</strong>la cultura odierna, ovvero<br />

l’inferno. La tecnica cui ho accennato mira a rendere almeno possibile il passaggio dall’inferno a una almeno<br />

iniziale marcia per un successo. Il concetto di paradiso è il concetto di successo e l’unico successo che meriti<br />

davvero questo nome è il successo di un rapporto. Fin dal secolo scorso il nostro mondo è infestato dalla<br />

parola successo, specialmente a partire dagli Stati Uniti, ma se nella vita andrà abbastanza bene, sarà il<br />

successo di un appuntamento e anzitutto <strong>del</strong>la relazione tra un uomo e una donna.<br />

5. PATERNITÀ<br />

Nell’uso corrente <strong>del</strong> termine materno e nell’idea di relazione mamma-bambino quale consta dall’infame<br />

ideologia che l’ha generata dico sempre le mie opinioni: considero l’idea mamma-bambino come una <strong>del</strong>le<br />

peggiori porcherie psicologiche <strong>del</strong>la nostra era, infamia teorica e tecnica in questa idea di madre è bandita<br />

l’idea di giudizio, comunque espresso e formulato, direttamente o indirettamente. È ciò intorno a cui ho<br />

parlato fin qui.<br />

Se mi capitasse di incontrarmi con qualcuno che non conoscevo e questo qualcuno, al nostro incontrarci, si<br />

comportasse male verso di me, non ci starei; guarderei subito l’orologio e gli direi: «Magari ci vediamo<br />

domani». Non avrei bisogno di sfoderare il mio repertorio di contumelie, non avrei bisogno di picchiarlo, di<br />

insultarlo, di giudicare come si dice in linea retta. Mi basterebbe dire: «Il tempo è scaduto». Non diamo<br />

per scontato che chi si rivolge a un centro di recupero tossici abbia messo un investimento, ben sapendo che<br />

invece rispetta chi ha un po’ investito su di me, chi si aspetta qualcosa. Nella parabola appena suggerita<br />

come grande categoria tecnica, il padrone di casa si arrabbia in maniera così ultimativa, perché l’altro è<br />

andato, ma non ha investito nulla: poteva starsene a casa sua. Di interessante vi è ancora che quelli che non<br />

78


vanno, non vengono giudicati o condannati, sono lasciati al loro destino, un po’ come si direbbe: «Sarà forse<br />

per un altra volta». L’offensività sta nell’andarci senza andare. È un insulto e un insulto non è trattabile, nel<br />

senso di curabile.<br />

Va poi detto che il giudizio non ha bisogno di essere espresso in linea sempre retta. Dava un esempio in tal<br />

senso il mio grande amico Lacan che quando voleva dire a qualcuno che era proprio un idiota gli diceva:<br />

«Come sei intelligente!». Meglio non sentirsi dare <strong>del</strong>l’intelligente da Lacan!<br />

Un certo tipo di storie di madri e padri appartengono al fango intellettuale <strong>del</strong>la nostra epoca. Occorre uscire<br />

da tali storie, proprio come si esce dai <strong>del</strong>iri. Non si ragiona sui <strong>del</strong>iri. Ci sono idee dalle quali si può solo<br />

uscire, e finita lì.<br />

Un’osservazione giustissima sull’idea di madre-bambino veniva da Freud, quando diceva che per il bambino<br />

in un primo tempo io aggiungo anche dopo la distinzione padre madre è una distinzione astratta. Padre<br />

sono tutti e due, salvo ricadere nella lutulenza <strong>del</strong> connotare la madre con certi tratti, con certi pattern e il<br />

padre con altri tratti, il che finirebbe poi nella ridicolaggine secondo cui la madre sarebbe quella che ha un<br />

certo costume, il padre quello che ne ha un altro. Se anche il mio papà fosse morto quando avevo sei mesi e<br />

fossi vissuto con mia madre e mia madre avesse avuto dei beni da lasciarmi in eredità, mia madre sarebbe<br />

stata mio padre. È l’eredità a connotare la paternità. Che poi a innestarmi sull’eredità sia una donna, mia<br />

madre, o un uomo, mio padre, ciò non abolisce che la paternità sia esercitata dall’una o dall’altro. È un<br />

concetto molto pratico, con tutte le conseguenze psicologiche <strong>del</strong> mondo. Paternità vuol dire una cosa sola:<br />

sono stato fatto erede di qualcosa. Se mio padre o mia madre parlavano bene, non nel senso degli studi, ma<br />

nel senso cui ho accennato, se erano cioè due per i quali la lingua, ossia quel che dicevano, era un bene, così<br />

che a colazione, a pranzo e a cena specialmente quando ero piccolo parlavano come Dio comanda <br />

come si dice , se quindi mio padre e mia madre mi hanno lasciato in eredità la lingua – che non è molto<br />

diverso dall’avermi lasciato in eredità un paio di stabili, due o tre miniere: con la buona lingua, gli stabili me<br />

li faccio io mio padre e mia madre mi avrebbero conferito le chiavi <strong>del</strong>la città. [3] Saprei come fare ad<br />

arricchirmi e ad arricchire, saprei approfittare <strong>del</strong>la realtà. Tutti parlano di realtà, ma non esiste realismo,<br />

neanche in senso gnoseologico, metafisico o filosofico se la relazione con il reale non è una relazione di<br />

beneficio. Il realismo è la relazione di beneficio con ciò che è fuori di me, con ciò o con chi è fuori di me.<br />

Per questo parlavo di stabili e miniere. Il realismo di Petruccio sta nel volersi annettere liberamente una<br />

donna. Se la relazione di mio padre con mia madre è stata quella di Petruccio e Caterina, ho ereditato la cosa<br />

più difficile per tutta l’umanità: il modo per introdurre e reggere il rapporto tra uomo e donna, quel rapporto<br />

che va sempre a rotoli. Freud ha chiamato quanto sto descrivendo «complesso edipico» e lo ha annotato<br />

come bene, perché significa innestarsi bene sulla relazione di quei due, uomo e donna.<br />

Freud ha poi aggiunto che viene un giorno, e forse addirittura dall’inizio, in cui questo cosiddetto complesso<br />

viene distrutto e tutto comincia ad andare a rotoli. Se da mio padre e da mia madre ho ereditato anche solo<br />

l’annusare la facoltà <strong>del</strong>la relazione con una donna, che eredità! Oggi quasi nessuno acquisisce una simile<br />

eredità. Paternità vuol solo dire eredità. Posso ereditare da mia madre, da mio zio, addirittura da persone più<br />

giovani di me. Se fossi erede di un mio nipotino per <strong>del</strong>le complicazioni notarili può capitare che un adulto<br />

erediti da un minore avrei una relazione filiale con il mio nipotino morto da piccolo. Spazzate via ogni<br />

altra idea di paternità e non ammettete l’idea di maternità. Perché mai il rapporto <strong>del</strong> bambino dovrebbe<br />

connotarsi in due modi distinti, uno con la madre, uno con il padre? Qualche cosa zoppica, qualunque<br />

contenuto si dia a questa distinzione.<br />

Quando sento parlare di femminilità, assolvo tutta la pornografia: è più pornografica la parola femminilità.<br />

Sento qualcosa di osceno, di moralmente osceno. Prendete, anche se non ci credete, una <strong>del</strong>le più celebri<br />

frasi dei vangeli: «Ecco l’ancella <strong>del</strong> Signore»: è la frase che uomo e donna, ambedue, devono pronunciare<br />

l’uno verso l’altra. Il tipico saluto italiano che conoscono anche in Cina: «Ciao», che significa schiavo,<br />

servus, ancella, di solito usata al genere maschile, è la frase più libera che si possa dire; è una descrizione<br />

<strong>del</strong>la libertà: «Mi metto a tua disposizione», ivi compreso: «Mi metto a disposizione di un altro», nel mio<br />

caso di un altro femminile, e la donna idem verso di me. È chiaro che l’ancillarità di una donna si descriverà<br />

79


verso di me come femminile e la mia come maschile: è pura questione di fatti, senza tirare in ballo la<br />

psicologia distinta <strong>del</strong>l’uomo e <strong>del</strong>la donna, <strong>del</strong> papà e <strong>del</strong>la mamma. Un figlio orfano con madre<br />

dispensante qualche eredità potrà benissimo dire di avere avuto padre e madre, salvo voler cadere nei<br />

piagnistei <strong>del</strong>la letteratura inglese ottocentesca <strong>del</strong> tipo Incompreso o Senza famiglia. Non esiste il senza<br />

famiglia e non sto parlando contro la famiglia. Una <strong>del</strong>le facoltà <strong>del</strong> bambino nel suo avere sette vite<br />

psichiche consiste, per esempio, nell’andarsi a cercare come al mercato degli adulti se non li ha. Porto<br />

sempre l’esempio di bambini con genitori un po’ «scassati» che prelevano sul proprio conto i genitori <strong>del</strong><br />

proprio compagno di banco. Da parte <strong>del</strong> bambino l’atto di attribuzione <strong>del</strong>la qualità di genitore ad altri<br />

adulti, magari incontrati in treno, si osserva normalmente. Ordinariamente il fenomeno <strong>del</strong>l’adozione<br />

comincia dal bambino.<br />

Ho spesso osservato che bambini piccoli, quando arrivano in visita amici o conoscenti più o meno coetanei<br />

dei genitori, chiamino papà l’amico di casa. Non è un lapsus: si è stabilita una relazione tale che è venuto<br />

spontaneo chiamare papà un altro tizio. Operazione corretta, molto corretta, tanto apparentemente semplice,<br />

quanto complessa. L’istituzione <strong>del</strong> padrinato, oggi decaduta o comunque povera di significato, che<br />

equivaleva poi all’idea: «Se tuo padre non va tanto bene, ce ne è un altro già pronto», era anche l’idea che<br />

non esiste l’ente papà o l’ente mamma. Non facciamo la psicometafisica <strong>del</strong> papà o <strong>del</strong>la mamma. Anche<br />

Gesù Cristo giunge allo stesso punto quando chiede: «Chi sono mio padre, mia madre? Chi sono i miei<br />

fratelli?».<br />

Ricordo il famoso episodio di Maso, l’omicida dei propri genitori. Non si discute che sia un criminale, ma<br />

nel suo atto c’è una logica: negare che quei due fossero per lui dei padri, cancellare i suoi genitori in cui non<br />

esisteva la qualità, la proprietà di padre e madre, cioè di padre. Egli ha dichiarato la perfetta indifferenza a<br />

fare di lui l’erede di alcunché.<br />

Il concetto di padre e di paternità non è legato al sesso, ma all’eredità.<br />

Per questo aggiungo ora, risalendo a secoli di discussione di idee, che non ha alcun senso connotare il padre<br />

trinitario come maschile. Il padre trinitario, tra altre cose, è l’asserzione che il valore o meglio il concetto di<br />

paternità non è legato, in sé, al sesso e contiene il concetto psicologico più capitale tra tutti quelli che<br />

conosco: padre è il concetto <strong>del</strong> conferimento di eredità e di modo di produzione <strong>del</strong>la ricchezza, persino al<br />

proprio figlio unigenito. Il tizio buttato fuori dalla festa è colui che non entra a contribuire alla produzione di<br />

ricchezza e difatti si presenta come puramente misero. Il mondo <strong>del</strong>la paternità è il mondo <strong>del</strong>la libera<br />

iniziativa. Il concetto di psiche è il concetto di facoltà di prendere iniziative e di recepire l’iniziativa altrui.<br />

Sul piano economico è ovvio per tutti si chiama libero mercato. Non faccio altro che invitare tutti a<br />

trasferire il concetto di libero mercato alla vita psichica, ossia alla vita dei nostri rapporti.<br />

NOTE AL TESTO<br />

[1] Con questo ho dato al contempo la definizione di ciò che è, o dovrebbe essere, uno psicoanalista:<br />

qualcuno che, pur essendo come ciascuno dipendente non importa dire ora da cosa non è pero<br />

dipendente, né può essere reso dipendente, dalla patologia di qualcun altro, il che è un caso raro, se non<br />

unico. Verrebbe persino da chiedersi se un soggetto <strong>del</strong> genere possa davvero esistere, perché è difficile<br />

immaginarsi che esista qualcuno che non dipende dalla patologia degli altri: tutti, poco o tanto, dipendiamo<br />

dalla patologia di altri, quando eravamo piccoli, oggi stesso. Siamo vicini alla definizione di Dio: se Dio<br />

esiste è qualcuno che non vive in subordine, poco o tanto, dalla patologia altrui. Dubitare <strong>del</strong>l’esistenza <strong>del</strong>lo<br />

psicoanalista è un atto logicamente legittimo, resta che lo psicoanalista è qualcuno che tende alla non<br />

dipendenza dalla patologia altrui. Lo sottolineo, non alla non dipendenza da nulla, ma alla non dipendenza<br />

dalla patologia altrui.<br />

[2] Una volta, pensando a un amico che si trovava negli States per uno stage abbastanza lungo e che aveva<br />

lasciato la moglie in Italia, mi chiedevo in che cosa costui continuasse a vivere nel regime <strong>del</strong>l’appuntamento<br />

80


con la moglie. Costui poneva in relazione con la moglie i suoi nuovi amici, glieli faceva conoscere, gliene<br />

parlava.<br />

[3] Allo stesso modo va notato ha lanciato l’adolescenza, uno dei più gravi artefatti <strong>del</strong>la società, di cui è<br />

stato tra i grandi sistematori e parzialmente inventori. Gli psicologi, anziché giudicare l’idea stessa<br />

<strong>del</strong>l’adolescenza come un crimine in sé, hanno poi inventato una psicologia <strong>del</strong>l’adolescenza. Il tossico è<br />

l’adolescente nella sua forma più offensiva.<br />

[4] Se esco con qualcuno a cena e al concludersi temporale <strong>del</strong>l’incontro riconosco di avere almeno un’idea<br />

in più nella testa, registro materialisticamente come un contatore di cassa un profitto, un incremento di<br />

capitale. Se mi alzo al termine <strong>del</strong>l’appuntamento con almeno un’idea in più, vuol dire che l’altro ha lavorato<br />

per me. Il nome amore si applica in immediata conseguenza di un giudizio economico. C’est l’amour! Tutto<br />

quanto il resto che si dice sull’amore, uomo donna, genitori figli… sono frottole. Se l’umanità sapesse fare<br />

questo, non anzitutto, ma anche nei rapporti sessuali, questi sarebbero sempre morali; agli uomini e alle<br />

donne invece, dopo aver fatto l’amore, accade di trovarsi con qualcosa di meno, come se avessero speso. È la<br />

sola questione morale dei rapporti tra i sessi.<br />

Sto offrendo un’idea, e non un’idea da poco, un’idea da pagarsi con parcelle da tremila dollari.<br />

[5] Parlo perché ho la lingua in bocca. La parola lingua, almeno in italiano, ha due significati: l’organo che<br />

sta in bocca e la lingua italiana. I linguisti hanno infatti distinto tra la lingua che sta là nel cielo <strong>del</strong>la lingua <br />

fuori di me, sopra di me e poi il modesto organo che occupa il cavo orofaringeo. Avere davvero la lingua<br />

italiana in bocca non è scontato. È un buon giorno il giorno in cui i due i significati di lingua sono ambedue<br />

nella mia bocca. Di solito ci vuole tempo.<br />

TEMI E AUTORI<br />

Altro<br />

Cura<br />

Disprezzo<br />

Fanatica<br />

Giudizio<br />

Psicoanalista<br />

Psicopatologia<br />

Rapporto<br />

Tossici<br />

© Studium Cartello – 2007<br />

Vietata la riproduzione anche parziale <strong>del</strong> presente testo con qualsiasi mezzo e per qualsiasi fine<br />

senza previa autorizzazione <strong>del</strong> proprietario <strong>del</strong> Copyright<br />

81


SOMMARIO<br />

L'ODIO E LA COLLERA CHI! GUARISCE: LA <strong>CURA</strong> POSSIBILE ............................................. 3<br />

PREFAZIONE ..................................................................................................................................... 3<br />

Giacomo B. Contri ..................................................................................................................................... 3<br />

SI CONSEGNA REO NON CONFESSO ........................................................................................... 7<br />

Introduzione ................................................................................................................................................... 7<br />

Maria Gabriella Pediconi ........................................................................................................................... 7<br />

UN LAVORO IN CORSO ................................................................................................................... 8<br />

Introduzione ................................................................................................................................................... 8<br />

Carla Urbinati ............................................................................................................................................ 8<br />

DALLA DIAGNOSI ALLA RIABILITAZIONE: ............................................................................ 10<br />

NOTE SULL’ITER FORMATIVO ................................................................................................... 10<br />

Valeria Tossichetti [1] ............................................................................................................................ 10<br />

ASPETTI INTRODUTTIVI AL LAVORO DI ................................................................................. 12<br />

REINSERIMENTO E RIABILITAZIONE [1] ............................................................................... 12<br />

Pietro R. Cavalleri ................................................................................................................................... 12<br />

Dalla Psicologia alla Psicopatologia .................................................................................................. 22<br />

M. Gabriella Pediconi .............................................................................................................................. 22<br />

Le quattro forme <strong>del</strong>la psicopatologia ............................................................................................... 32<br />

Raffaella Colombo ................................................................................................................................... 32<br />

DIAGNOSI E IMPUTABILITÀ. DALL’AFFIDABILITÀ DELLA DIAGNOSI ........................... 42<br />

ALLA DIAGNOSI DI AFFIDABILITÀ ........................................................................................... 42<br />

Glauco Genga .......................................................................................................................................... 42<br />

Curabilità e incurabilità <strong>del</strong>la patologia Valutazione <strong>del</strong>l’efficacia <strong>del</strong>la cura Il concetto di guarigione 54<br />

Maria Gabriella Pediconi ......................................................................................................................... 54<br />

83


Il Tutor ............................................................................................................................................... 64<br />

Maria Antonietta Aliverti ........................................................................................................................ 64<br />

Curarsi di relazioni e curare attraverso le relazioni ........................................................................... 73<br />

Giacomo B. Contri ................................................................................................................................... 73<br />

84

Hooray! Your file is uploaded and ready to be published.

Saved successfully!

Ooh no, something went wrong!