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Espressività ed emozione nell'esperienza musicale. Orientamenti ...

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Università degli Studi di Palermo<br />

Dipartimento di Filosofia, Storia e Critica dei Saperi<br />

Dottorato di ricerca in Estetica e Teoria delle arti – XXI ciclo<br />

Settore scientifico disciplinare: M-Fil/04<br />

Coordinatore: Prof. Luigi Russo<br />

ESPRESSIVITÀ ED EMOZIONE NELL’ESPERIENZA MUSICALE<br />

ORIENTAMENTI TEORICI NEL DIBATTITO ANALITICO<br />

Tesi di: Domenica Lentini<br />

Tutor: Ch. ma Prof.ssa Silvia Vizzardelli<br />

Co-tutor: Ch. mo Prof. Salvatore T<strong>ed</strong>esco


INDICE<br />

INTRODUZIONE ..................................................................................... P. 1<br />

CAPITOLO PRIMO<br />

Prospettive di ricerca e testi seminali<br />

1. Il rapporto musica-emozioni al centro del dibattito .................................... p. 14<br />

2. Premesse storiche ........................................................................................ p. 23<br />

2. 1 Arthur Schopenhauer ............................................................................ p. 26<br />

2. 2 Eduard Hanslick .................................................................................... p. 29<br />

2. 3 Susanne K. Langer ............................................................................... p. 34<br />

3. Externality claim vs Arousal theory ............................................................ p. 39<br />

CAPITOLO SECONDO<br />

Musica e forma<br />

1. Musica assoluta: superficie o profondità? La proposta di Peter Kivy ......... p. 47<br />

2. Per una teoria dell’espressione <strong>musicale</strong> ..................................................... p. 57<br />

3. L’espressività <strong>musicale</strong>: una breve storia .................................................. p. 71<br />

4. Kivy dialoga con Levinson e Davies ........................................................... p. 77<br />

5. Formalismo e formalismo arricchito ............................................................ p. 84<br />

6. La risposta disposizionale di Derek Matravers ............................................ p. 94<br />

I


CAPITOLO TERZO<br />

Musica, metafora e isomorfismo<br />

1. Introduzione al dibattito sulla metafora ....................................................... p. 113<br />

2. I testi seminali ............................................................................................. p. 115<br />

2. 1 Il bello <strong>musicale</strong> di Hanslick ............................................................... p. 115<br />

2. 2 Metaphor di Max Black ........................................................................ p. 119<br />

2. 3 Che cosa significano le metafore di Donald Davidson ......................... p. 124<br />

2. 4 Metafora come luce della luna di Nelson Goodman ............................ p. 127<br />

3. Nick Zangwill: musica, metafora <strong>ed</strong> <strong>emozione</strong> ............................................ p. 132<br />

4. Roger Scruton: immaginazione e metafora .................................................. p. 144<br />

4.1 Suoni e note .......................................................................................... p. 147<br />

4. 2 Metafora ................................................................................................ p. 153<br />

4. 3 Metafora e similitudine ......................................................................... p. 156<br />

4. 4 Un’appropriata trasgressione ................................................................ p. 159<br />

4. 5 Musica e metafora ................................................................................. p. 162<br />

5. Malcolm Budd: metafora e isomorfismo ...................................................... p. 165<br />

6. Stephen Davies: le caratteristiche esteriori delle emozioni .......................... p. 197<br />

7. Jerrold Levinson: isomorfismo dell’esperienza vs isomorfismo descrittivo ....... p. 214<br />

BIBLIOGRAFIA ................................................................................................. p. 233<br />

II


Gli avversari passionali hanno fantasticato di una mia polemica<br />

contro tutto ciò che sia sentimento, mentre ogni lettore<br />

imparziale e attento non farà difficoltà a riconoscere<br />

che io protesto solo contro la falsa ingerenza dei sentimenti<br />

nella scienza, ossia io combatto contro quei visionari<br />

dell’estetica che con la pretesa di insegnare qualcosa al<br />

musicista, non fanno che interpretare i loro sogni da fumatori<br />

di oppio sonoro. Io sono completamente d’accordo con<br />

l’opinione che il valore ultimo del bello si trova all’interno<br />

dell’imm<strong>ed</strong>iata evidenza del sentimento. Ma sono altrettanto<br />

sicuro che il richiamo al sentimento come spesso accade,<br />

non consente di ricavare leggi musicali.<br />

La musica ha un contenuto, sebbene sia <strong>musicale</strong>, in quanto<br />

scintilla del fuoco divino non inferiore alla bellezza di<br />

ogni altra arte. Ma solo negando inesorabilmente alla musica<br />

ogni altro “contenuto”, se ne salva il contenuto spirituale.<br />

Infatti non con il ricorrere a un sentimento indefinito<br />

– in cui, nel migliore dei casi, consiste il contenuto – si può<br />

attribuirle un significato spirituale, ma riconoscendo la<br />

bella e ben definita forma sonora come creazione dello spirito,<br />

compiuta su un materiale atto a essere spiritualizzato.<br />

EDUARD HANSLICK


INTRODUZIONE<br />

Quando si esamina il problema della relazione tra la musica e le emozioni da un<br />

punto di vista storico, si resta inevitabilmente colpiti dal fatto che l’estetica <strong>musicale</strong><br />

sembra avere oscillato, fin dall’antichità, fra concezioni che privilegiano l’autonomia<br />

della musica nelle sue soluzioni formali, e concezioni che invece considerano<br />

quest’arte inscindibilmente legata alle dinamiche emotive. Il più delle volte, una di<br />

queste due concezioni sembra dominare. Vi è una sorta di alternanza nel corso della<br />

storia della musica e delle teorie musicali. Talvolta esse coesistono in uno stesso periodo<br />

storico.<br />

È innegabile che quella del rapporto musica-emozioni è un’annosa questione<br />

che ha affascinato e allo stesso tempo impegnato i filosofi quasi dall’inizio della filosofia<br />

stessa. Una questione che ci interpella ancora oggi, riaffermandosi nella recente discussione<br />

degli estetologi analitici di area anglo-americana, i quali danno oramai da diverso<br />

tempo, e in particolare con una ricca fioritura negli ultimi trent’anni, un contributo<br />

teoretico di notevole importanza, colmando così anche quel vuoto che si registra purtroppo<br />

ancora nella tradizione estetologica continentale. Nell’attuale dibattito analitico,<br />

la tradizionale questione del rapporto tra musica <strong>ed</strong> emozioni riceve sempre maggiore<br />

attenzione, come testimoniano peraltro le dense conversazioni, i dialoghi intrecciati, le<br />

analisi punto-per-punto. Senza poi trascurare il fatto che numerose sono le tesi in campo<br />

e altrettanto numerose le pubblicazioni di vario genere centrate esclusivamente sulla<br />

questione. Una trattazione ricca del tema dell’espressività e del rapporto musica-vita<br />

emotiva la troviamo nelle due principali riviste di area anglo-americana, il “British<br />

Journal of Aesthetics” e il “Journal of Aesthetics and Art Criticism”. Possiamo<br />

senz’altro dire che la musica, e segnatamente il rapporto musica-emozioni, è la forma<br />

d’arte che ha più stimolato il dibattito analitico se teniamo conto della quantità <strong>ed</strong> estrema<br />

varietà dei contributi ad essa d<strong>ed</strong>icati.<br />

Pensando alla fecondità di tale ricerca ma anche alla modesta attenzione che essa<br />

riceve nella nostra tradizione, il presente lavoro nasce con l’intenzione di colmare<br />

una lacuna, dando la giusta rilevanza al dibattito che negli ultimi anni è venuto sviluppandosi.<br />

Diciamo subito che l’idea, nello specifico, è quella di ricostruire, a partire da<br />

un orientamento tematico, le conversazioni, i dialoghi teorici che si stanno svolgendo,<br />

dando particolare rilievo a quei filosofi le cui singole teoriche sono paradigmatiche di<br />

1


una certa tendenza. D’altronde entro la straordinaria moltitudine di proposte che animano<br />

la discussione, ci è parso opportuno ricercare un “criterio” orientativo, una sorta<br />

di guida rossa che consentisse di intraprendere il viaggio senza smarrirci tra i percorsi<br />

laterali che, pure, si aprono ad ogni crocicchio.<br />

Abbiamo scelto dunque innanzitutto un criterio tematico. In questo senso, per<br />

ciascun punto o problema che ci siamo impegnati a trattare, il nostro obiettivo non è<br />

stato – compito che sarebbe stato peraltro infruttuoso se non impossibile – quello di<br />

presentare l’insieme delle teorie o dei punti di vista che lo hanno affrontato, ma al contrario,<br />

di fare appello per la trattazione di ciascun tema a una sola voce, spesso più significativa<br />

rispetto al tipo di problematica in questione o significativa in relazione alla<br />

vicendevole corrispondenza creatasi tra quanti dialogano sulla m<strong>ed</strong>esima problematica.<br />

Abbiamo dunque preferito affrancarci da ogni pretesa, diciamo così, di “completezza”,<br />

per descrivere quelle che ci sembrano una serie di questioni importanti (musica-forma,<br />

musica-metafora, musica-isomorfismo) <strong>ed</strong> esemplificarle attraverso il riferimento ad<br />

alcuni dei numerosi autori che ne trattano (Kivy, Davies, Levinson, Matravers, Goodman,<br />

Zangwill, Scruton, Budd e Davies).<br />

Seguendo questi criteri metodologici, abbiamo così iniziato il nostro percorso di<br />

ricerca, cercando di penetrare quanto più possibile nel cuore di questa discussione, per<br />

capire quali ancora sono i problemi, gli interrogativi e dunque anche le soluzioni più<br />

significative a quella che, dicevamo, si è sempre dimostrata essere una problematica<br />

scivolosa. Un punto va chiarito: come nel passato, non è in discussione l’idea che tra la<br />

musica e le emozioni vi sia una qualche speciale relazione, dato pressoché inamovibile,<br />

ma ancora una volta tutte le complessità sono legate alla difficoltà di stabilire in che<br />

termini è possibile giustificare questa relazione, in che senso essa possa sussistere, quali<br />

le motivazioni profonde.<br />

L’attenzione, precisiamo, nell’attuale dibattito, nella maggior parte dei casi, è<br />

diretta in particolar modo alla musica assoluta, cioè alla musica strumentale senza testo,<br />

titolo o programma. È rispetto ad essa infatti, che è certamente più problematico<br />

giustificare l’idea che vi sia una relazione con le emozioni, visto che, diversamente dalle<br />

arti a vario titolo rappresentative (si pensi alla pittura figurativa, al teatro, letteratura,<br />

ecc.) la musica pura non è un’arte contenutistica che intrattiene legami evidenti con il<br />

nostro mondo rappresentativo.<br />

Dal nostro approfondimento è emerso che due sono le concezioni dominanti nel<br />

dibattito analitico. In un primo momento ha riscosso consenso soprattutto l’idea di chi,<br />

2


in antitesi con le affermazioni scettiche di Hanslick, ritiene che è certamente sensato<br />

parlare della musica in termini espressivi, perché essa possi<strong>ed</strong>e le emozioni e le possie-<br />

de come proprietà percettive della sua struttura. In aperta polemica con tale posizione,<br />

si è successivamente affermata invece l’idea di quanti ritengono che le proprietà emoti-<br />

ve stiano alla musica piuttosto che come proprietà percettive, come proprietà disposi-<br />

zionali. Secondo tale idea, la musica è cioè espressiva delle stesse emozioni che essa<br />

normalmente desta o suscita nell’ascoltatore. Peter Kivy, che è uno dei più illustri e attivi<br />

rappresentati del dibattito, ci informa non a caso di come l’antica querelle concernente<br />

il problema del rapporto della musica con le emozioni il più delle volte, nella recente<br />

discussione, sfoci in una accesa diatriba tra queste due posizioni, rispettivamente<br />

ribattezzate come cognitivismo <strong>ed</strong> emotivismo. E come Kivy, anche Derek Matravers,<br />

si riferisce alla stessa diatriba caratterizzandola nei termini dell’opposizione tra sostenitori<br />

del requisito dell’esternalità (externality requirement) e teorici della teoria eccitazionistica<br />

(Arousal Theory). Gli stessi Kivy e Matravers sono tra i principali protagonisti<br />

di questa querelle, essendo il primo il più estremo sostenitore della tesi cognitivista<br />

e il secondo il più estremo sostenitore di una teoria eccitazionistica. Proprio Kivy e<br />

Matravers sono infatti i due veri contendenti, perché hanno radicalizzato rispettivamente<br />

le loro tesi e di conseguenza accentuato il loro dissidio teorico. Più sfumate sono invece<br />

le tesi di altri autori, visto che tra quanti si fanno sostenitori dell’idea che la musica<br />

è espressiva perché le emozioni sono una sua proprietà, si riscontra, il più delle volte,<br />

anche una parziale convergenza con una teoria eccitazionistica o Arousal Theory. Ci<br />

è parso questo nello specifico il caso di Malcolm Budd ma anche di Jerrold Levinson e<br />

Stephen Davies, i quali infatti pur muovendo da quel presupposto fondamentale, diciamo<br />

pure, cognitivista, non negano comunque il potere che la musica ha di suscitare<br />

emozioni in chi ascolta. Naturalmente, essendo il punto di partenza quello di una tesi<br />

anti-emotivista, non è ridondante precisare che questo riconoscimento non ha come<br />

conseguenza la conclusione – come invece spesso accade con gli emotivisti – che sia<br />

anche questa la ragione per cui si può spiegare la portata o capacità espressiva della<br />

musica.<br />

Sulla scorta quindi di queste premesse generali è doveroso sottolineare che per<br />

chi ha voluto dimostrare la tesi che la musica è espressiva in quanto “incarna” le emozioni<br />

nella sua struttura, la questione dell’espressività si dimostra certamente più complessa<br />

e articolata, dal momento che diverse sono le questioni da dover fronteggiare.<br />

Primo fra tutti vi è il problema di come, ovvero secondo quale processo, la musica sia<br />

3


capace di incarnare le emozioni ordinarie. In secondo luogo, occorre spiegare quale<br />

ruolo giocano queste proprietà espressive nella struttura <strong>musicale</strong> alla quale apparten-<br />

gono. Infine, l’ultima questione: dato che le emozioni ordinarie risi<strong>ed</strong>ono, in quanto<br />

proprietà espressive, nella musica, e non nell’ascoltatore, cosa significa dire che una<br />

persona è emotivamente colpita dalla musica.<br />

Come può dunque la musica ‘incarnare’ le emozioni ordinarie? Per ragioni di<br />

ordine e di chiarezza abbiamo individuato due tipi di risposta a questa domanda: una<br />

risposta “dal basso” e una risposta “dall’alto”.<br />

La risposta “dal basso” è quella secondo cui il problema espressivo è da ricondurre<br />

sul piano di una risposta imm<strong>ed</strong>iata, a partire soprattutto dalla riabilitazione di<br />

una tesi isomorfica. L’idea è che proprio sulla soglia dei nostri decorsi percettivi si rivelino<br />

somiglianze, similarità, tra le dinamiche della musica e quelle del comportamento<br />

espressivo umano. Il senso dei decorsi percettivi è cioè una proiezione che si radica<br />

in una struttura. Le nostre percezioni, come del resto la fenomenologia ha ben mostrato,<br />

non sono delle esperienze puntuali <strong>ed</strong> isolate, ma disegnano una trama. Questa trama,<br />

fatta di ritenzioni e protensioni, rappresenta quello che qui chiamiamo ‘struttura’.<br />

Ed è proprio grazie a questa nozione che possiamo arrivare a concepire le proprietà<br />

emotive come analogicamente ancorate alla struttura <strong>musicale</strong>.<br />

L’orizzonte dell’affettività da una parte e l’insieme delle strutture percettive<br />

dall’altra non sono due dimensioni che stanno in un qualche rapporto tra loro, ma due<br />

aspetti di un’unica realtà, strutturalmente isomorfici. Secondo questa lettura,<br />

l’isomorfismo si presenta con il suo massimo di necessità, ogni qualvolta si voglia fuggire<br />

da ipotesi riduzionistiche che, ispirate all’autorità della logica scientifica tendono a<br />

riaffermare il principio secondo cui la musica non può provare emozioni né può essere<br />

triste, a meno che tali attribuzioni non si dicano poetiche o metaforiche, per la circostanza<br />

che l’esperienza (la possibilità) di sentire emozioni dentro di sé è propria solo<br />

degli esseri senzienti.<br />

Una risposta “dal basso” è quella che abbiamo facilmente riconosciuto nella cosiddetta<br />

teoria del profilo (Contour Theory) di Peter Kivy, ma anche nella tesi espressiva<br />

(Emotion-characteristics-in-appearances Theory) di Stephen Davies. Nel caso specifico,<br />

Kivy sostiene che certamente deve esservi una somiglianza tra la struttura, il<br />

profilo, il contorno della musica e le manifestazioni acustiche e visive dell’espressione<br />

emotiva umana. Kivy precisa che, nonostante l’apparenza, non si tratta di una teoria<br />

rappresentazionale, perché le emozioni non sono percepite come rappresentate, vale a<br />

4


dire in maniera m<strong>ed</strong>iata, ma in modo imm<strong>ed</strong>iato: l’analogia tra la musica e gli aspetti<br />

acustici o visivi delle emozioni umane è in altri termini subliminale, dobbiamo cioè<br />

trovarci in uno stato di inconsapevolezza rispetto all’esistenza dell’analogia stessa, non<br />

dobbiamo in alcun modo presupporla. A seguito delle obiezioni ricevute, Kivy recentemente<br />

ha anche seriamente messo in discussione la validità della teoria del profilo,<br />

seppure arrivando alla conclusione che attualmente siffatta teoria non ha, diciamo così,<br />

una degna sostituta, anzi – egli precisa – resta ancora la più attraente. Quale soluzione<br />

adottare, in ultima analisi, Kivy non ce lo dice. Si ferma solo a constatare che attualmente<br />

c’è un accordo generale sul fatto che la musica esprima le qualità emotive come<br />

qualità percettive, e che quindi la cosa migliore da fare, stabilite così le cose, è di attendere<br />

fiduciosi che nel futuro si trovi una spiegazione più convincente. Muovendosi da<br />

questa acquisita consapevolezza egli infatti ha preferito spostare l’attenzione alle altre<br />

due questioni dell’espressività, al ruolo cioè che tali qualità giocano nella struttura e<br />

nell’esperienza <strong>musicale</strong>.<br />

Come per Kivy, anche per Davies l’espressività della musica dipende prevalentemente<br />

da una somiglianza che si può cogliere percettivamente nell’imm<strong>ed</strong>iatezza.<br />

Una somiglianza che percepiamo tra il carattere dinamico della musica e il movimento,<br />

l’andatura, il comportamento o l’atteggiamento dell’uomo. Se la musica è espressiva,<br />

non lo è perché essa possi<strong>ed</strong>e le emozioni, nel senso in cui un essere senziente le possi<strong>ed</strong>e:<br />

alla musica mancano i pensieri, le attitudini, e i desideri che sono caratteristici<br />

dell’esperienza emotiva e che contribuiscono a far sì che esse siano le emozioni che<br />

sono. Ciò che la musica invece presenta in quanto arte espressiva sono le caratteristiche<br />

esteriori delle emozioni, vale a dire: la nostra esperienza dei brani musicali e, in particolare,<br />

del movimento in musica è simile alla nostra esperienza di quelle forme di<br />

comportamento che, negli esseri umani, sfociano nelle caratteristiche esteriori delle<br />

emozioni. L’analogia risi<strong>ed</strong>e nella maniera in cui queste cose sono esperite, piuttosto<br />

che essere fondata su una qualche inferenza che cerchi di stabilire una relazione simbolica<br />

tra alcune componenti specifiche della musica e alcuni particolari del comportamento<br />

umano. Un’analogia che possiamo per l’appunto cogliere subito, in quanto sostiene<br />

Davies, l’<strong>emozione</strong> è imm<strong>ed</strong>iatamente, non m<strong>ed</strong>iatamente, presentata nella musica.<br />

Inoltre, una risposta “dal basso” è anche quella che abbiamo potuto rintracciare<br />

nella spiegazione di Malcolm Budd e Jerrold Levinson; sebbene sia necessario precisare<br />

che nell’uno e nell’altro caso la spiegazione del problema espressivo della musica<br />

5


non passa da un’unica e precisa soluzione, ma da una serie di categorie concettuali u-<br />

gualmente adottabili (nel caso di Budd), e da una serie di requisiti (nel caso di Levin-<br />

son) che un’adeguata spiegazione dell’espressività deve soddisfare. Tra queste catego-<br />

rie concettuali/requisiti, vi è appunto quello dell’analogia che possiamo cogliere tra la<br />

musica e il comportamento espressivo umano. Muovendosi da un’ottica possibilista,<br />

entrambi giungono poi a declinare il problema espressivo della musica a partire dal co-<br />

involgimento immaginativo che vi è nella nostra esperienza di essa come espressiva.<br />

Significativa è in tal senso l’adesione da parte di Budd ad una tesi finzionale, e altret-<br />

tanto significativa la teoria della persona di Levinson.<br />

In questo nostro tentativo di individuare delle linee esemplificative di lettura,<br />

abbiamo anche parlato di una risposta “dall’alto” che è quella di chi riporta il problema<br />

espressivo della musica ad un tipo di risposta che non è imm<strong>ed</strong>iata come quella che si<br />

rivela in una dinamica percettiva, ma m<strong>ed</strong>iata dalla incidenza della nostra componente<br />

immaginativa nell’esperienza della musica. Emblematica in tal senso la prospettiva teo-<br />

rica di Roger Scruton, filosofo di chiara ascendenza kantiana le cui tesi non potrebbero<br />

intendersi se non entro una teoria dell’intenzionalità e dell’immaginazione. Per quanto<br />

concerne nello specifico la musica, Scruton separa il fenomeno dei suoni fisici<br />

dall’esperienza della musica; la differenza non risi<strong>ed</strong>e in una semplice variazione di<br />

grado e la musica non sarebbe il risultato di una sequenza organizzata di note e accordi,<br />

ma suoni e musica sono entità di genere differente che agiscono nell’ambito delle rispettive<br />

sfere d’appartenenza: i primi fanno parte del mondo fenomenico degli esseri di<br />

natura e in esso vengono ascoltati concettualmente come suoni naturali semplici, mentre<br />

la musica chiama in causa unicamente la sfera intenzionale del solo essere di natura<br />

(l’uomo) capace di relazionarsi contemporaneamente con la propria facoltà immaginativa<br />

per trascendere la sua condizione materiale del qui e ora. L’esperienza <strong>musicale</strong> è<br />

propriamente il tentativo razionale dell’uomo di evolversi da se stesso, dalla propria<br />

condizione di finitezza naturale per dislocarsi su un piano di intenzionalità immaginativa<br />

che rappresenta l’antitesi di quella relazione analogica che ogni altro essere di natura<br />

intrattiene attraverso l’apparato sensoriale con il proprio ambiente di riferimento.<br />

Questa spiegazione è la stessa che confluisce nella tesi principale di Scruton,<br />

secondo la quale la nostra esperienza della musica coinvolge un elaborato sistema di<br />

metafore – metafore di spazio, movimento e di animazione. Già nel nostro apprendimento<br />

<strong>musicale</strong> di base è in gioco un complesso sistema di metafore, il quale non è la<br />

descrizione veritiera di un qualche fatto materiale, o di qualcosa che riguardi sempli-<br />

6


cemente il mondo fisico dei suoni. La metafora non può essere eliminata dalla descri-<br />

zione della musica, poiché essa definisce l’oggetto intenzionale dell’esperienza musica-<br />

le. Esplicitamente dichiara: «togliete di mezzo le metafore, e non potrete più descrivere<br />

l’esperienza della musica» 1 .<br />

Questa affermazione – che l’esperienza della musica è irriducibilmente metafo-<br />

rica – è stata rifiutata, tra gli altri, da Malcolm Budd, il quale sostiene che fino a quan-<br />

do non sarà stato compreso lo scopo che sta alla base della metafora, la caratterizzazio-<br />

ne di tale esperienza come metaforica è del tutto irrilevante. Detto in altri termini, Budd<br />

afferma che ciò che si dà nell’esperienza <strong>musicale</strong> di una determinata persona, e che<br />

quindi viene colto in essa, è, in quanto irr<strong>ed</strong>ucibilmente percettivo (anziché metaforico),<br />

impossibile da specificare senza fare riferimento all’oggetto di quell’esperienza,<br />

vale a dire, senza fare riferimento alla musica stessa.<br />

A questa critica si è aggiunta anche quella di Davies, il quale, in accordo con<br />

Budd, è dell’idea che quando la musica viene descritta come ‘triste’, la parola ‘triste’ è<br />

usata proprio nel senso in cui è normalmente riferita ai discorsi ordinari del sentimento,<br />

ovvero letteralmente. Nello specifico, egli precisa che i termini che denotano emozioni<br />

utilizzati per descrivere determinati aspetti (o modi di apparire) sia delle persone che<br />

degli oggetti naturali o delle opere d’arte, sono parassitari rispetto all’uso che di tali<br />

termini si fa per riferirsi alle emozioni che vengono vissute; essi rappresentano cioè un<br />

uso secondario. I termini che denotano emozioni descrivono per l’appunto quella apparenza<br />

acustica, quelle caratteristiche esteriori dell’<strong>emozione</strong> che sono alla base della<br />

stessa spiegazione dell’espressività nella teoria di Davies.<br />

Dialogo questo cui abbiamo dato rilevanza nell’ultimo capitolo del nostro lavoro,<br />

nel quale spesso si sfiora anche l'altra questione legata al problema del rapporto musica-emozioni,<br />

e cioè quella della natura linguistica della musica, il problema della sua<br />

semanticità. Problematica questa che il tema musica-emozioni si porta dietro come fosse<br />

la sua ombra, e che come tutta la storia stessa della musica lascia intrav<strong>ed</strong>ere, pone<br />

sul tappeto l’ipotesi di una prossimità tra musica e linguaggio. Un’ipotesi che<br />

nell’attuale dibattito, abbiamo però potuto constatare, non trova facilmente adesioni.<br />

Non si è cioè propensi a considerare l’idea che la musica possa essere semplicemente<br />

un linguaggio tra i linguaggi. Si ripensa così alla concezione langeriana della musica<br />

come simbolo inconsumato e si riflette allo stesso modo sulla concezione simbolica<br />

goodmaniana delle arti. Nello specifico, ci si interroga su quanto ancora si possa parla-<br />

1 R. Scruton, Understanding music, in “Ratio”, 25 (2), 1983, pag. 106.<br />

7


e di linguaggio in presenza di siffatte concezioni simboliche e quanto la musica in ul-<br />

timo possa avere affinità tali da poter essere ricondotta al linguaggio. Abbiamo così vi-<br />

sto che in alcuni casi, particolarmente chiaro quello di Stephen Davies, muovendo dal<br />

rifiuto di quelle tesi che prospettano l’idea della musica come simbolica, ci si sposta sul<br />

versante di altre questioni, quali: qual è l’esatto modo di definire una metafora, e quale<br />

la sua funzione illuminante all’interno delle descrizioni emotive della musica? E a se-<br />

guire come intendere tali descrizioni? Si tratta di descrizioni metaforiche o letterali?<br />

Altrettanto marcate e diversificate poi ci sono parse anche le soluzioni date sul<br />

versante dell’altra problematica, quelle cioè di come giustificare il potere meraviglioso<br />

che la musica ha di commuoverci. È questa certamente l’altra importante questione che<br />

debbono fronteggiare quanti negano una teoria eccitazionistica e difendono invece<br />

l’idea che le emozioni “musicali” siano quelle che riconosciamo nella musica, piuttosto<br />

che nella dinamica emotiva dell’ascoltatore. Interessante a tal proposito è stato per noi<br />

seguire il dibattito serrato tra Kivy, Levinson e Davies, i quali si trovano in sintonia<br />

tanto in relazione all’idea che le proprietà emotive siano proprietà percettive della mu-<br />

sica stessa, quanto nel rifiutare perentoriamente una teoria eccitazionistica. Il maggior<br />

punto di dissenso sta invece nel fatto che mentre per Kivy la musica ci commuove e-<br />

motivamente per la sua bellezza, per Davies e Levinson la musica ci colpisce emotiva-<br />

mente in virtù del potere che le qualità espressive hanno di suscitare in noi delle emo-<br />

zioni ad esse corrispondenti. In altre parole, stando alle spiegazioni proposte da Davies<br />

e Levinson, il meccanismo di stimolazione delle emozioni è attivo quando la musica è<br />

espressiva di tristezza, di felicità, o di qualcos’altro, sia o meno essa una buona musica,<br />

ovvero una musica bella. Secondo la teoria di Davies, l’espressività è infatti di per se<br />

stessa contagiosa (teoria della tendenza o del contagio), sia o meno essa incarnata in<br />

un’opera d’arte di alto livello o in qualcosa che non è affatto un’opera d’arte:<br />

l’espressività provoca direttamente le emozioni. Secondo la teoria di Levinson, tutto<br />

ciò che è necessario affinché la musica stimoli un’<strong>emozione</strong> è che vi sia un’empatia nei<br />

confronti di un personaggio <strong>musicale</strong> che immaginiamo esprime tale <strong>emozione</strong> (teoria<br />

della persona). Per Kivy invece la musica, affinché commuova, deve essere bella, ovvero<br />

musicalmente riuscita. Inoltre, una diversa concezione è anche quella che tali autori<br />

manifestano rispetto a come si debbono intendere le emozioni che la musica ha destato:<br />

per Kivy, si tratta di emozioni pure, nude e crude, emozioni che, egli precisa, avvalendosi<br />

della teoria di Brentano, hanno un oggetto, una cr<strong>ed</strong>enza e un feeling. Mentre<br />

nel caso di Davies e Levinson le emozioni stimolate dalla musica non sono emozioni<br />

8


vere e proprie, che hanno cioè una precisa componente cognitiva e intenzionale, ma<br />

quasi-emozioni o emozioni sbiadite.<br />

In aperta polemica con i teorici cognitivisti o teorici dell’esternalità, dunque in<br />

netta rottura con quello che ci è parso essere l’orientamento dominante nel dibattito analitico,<br />

troviamo i teorici dell’Arousal. Declinata infatti in forme certamente più singolari<br />

e sofisticate, anche nell’attuale dibattito viene a rivivere la teoria disposizionale<br />

(qui ribattezzata Arousal Theory) che tanta fortuna ha avuto da Platone fino al XVIII<br />

secolo. Da questo punto di vista, come avevamo anticipato, si ritiene che le proprietà<br />

emotive appartengono alla musica piuttosto che come proprietà percettive come proprietà<br />

disposizionali, vale a dire: la musica esprime le sue distinte emozioni per la sua<br />

pr<strong>ed</strong>isposizione a causarle nell’ascoltatore. Uno dei più illustri rappresentanti di questa<br />

tendenza, anzi probabilmente il primo a riaffermare polemicamente un’idea di tipo disposizionale<br />

per la comprensione del problema espressivo, è Derek Matravers. Egli sostiene<br />

infatti che sebbene l’esperienza <strong>musicale</strong> causi uno stato mentale caratteristico<br />

che non è un’<strong>emozione</strong> vera e propria, dotata cioè di una componente cognitiva, bensì<br />

una sensazione, possiamo descrivere un brano <strong>musicale</strong> come triste soltanto perché esso<br />

suscita in noi quelle sensazioni che nella vita reale sono parte dell’esperienza della<br />

tristezza. Certamente anche in quest’orientamento non possiamo esimerci di evidenziare<br />

come numerose siano le varianti teoriche in gioco, ma le nostre scelte ci hanno portato<br />

infine a un approfondimento esclusivo della tesi di Matravers, soprattutto in vista,<br />

avevamo anticipato, del dibattito serrato che egli intrattiene con Kivy.<br />

Innegabile comunque è, in tal senso, la difficoltà che emerge ogni qualvolta si<br />

voglia dare, anche se approssimativamente, una classificazione delle teorie esaminate,<br />

poiché diverse sono le sfaccettature che le caratterizzano e con le quali bisogna necessariamente<br />

confrontarsi. Per questa ragione fuorviante è, dal nostro punto di vista, il<br />

tentativo di categorizzazione proposto da Jerrold Levinson nell’opera The Pleasures of<br />

Aesthetics. Si tratta infatti di un percorso espositivo all’insegna della parzialità dove infine<br />

prevale la logica strumentale di far venire fuori quegli aspetti delle varie teorie che<br />

per qualche misura non pervengono ad una spiegazione dell’espressività esaustiva rispetto<br />

all’elenco dei desiderata dallo stesso stilato. Un elenco di esigenze cui, in ultimo,<br />

solo la sua teoria sembra soddisfare pienamente. Ma Levinson non è l’unico a muoversi<br />

seguendo una logica di questo tipo. Aspetto questo il più delle volte imbarazzante ma<br />

soprattutto dicevamo fuorviante perché ciò che infine sembra affermarsi come obiettivo<br />

9


primario non è più quello di guardare al problema in esame ma controbattere nel modo<br />

più efficace e convincente le argomentazioni altrui.<br />

Ad ogni modo, questo è dunque il quadro sintetico delle posizioni in gioco, che<br />

come si è detto animano il dibattito analitico contemporaneo intorno al problema del<br />

rapporto tra musica <strong>ed</strong> emozioni. Mi sembra opportuno anticipare ora l’ordine secondo<br />

cui tali posizioni saranno esposte e analizzate nel corso della nostra ricerca.<br />

Nel primo capitolo, abbiamo voluto dar spazio ad un’introduzione di carattere<br />

generale del dibattito, esaminando i percorsi storici che hanno favorito la rinascita di<br />

questa particolare attenzione alla questione del rapporto musica-emozioni e disegnando<br />

anche i percorsi metodologici caratteristici della ricerca analitica. Fino poi a ricostruire<br />

in un percorso rapido e sintetico le premesse storiche che sono alla base del dibattito.<br />

Nel secondo capitolo, d<strong>ed</strong>icato al tema musica-forma, un’attenzione particolare<br />

è stata destinata alla concezione di Peter Kivy. L’idea è stata quella di seguire attenta-<br />

mente le tappe più significative della sua indagine sul problema espressivo, fino ad ar-<br />

rivare all’approdo al formalismo arricchito (enhanc<strong>ed</strong>). Nell’ambito di questo percorso<br />

interessante è anche stato per noi seguire il dialogo che Kivy intrattiene con i filosofi<br />

contemporanei Levinson e Davies, in relazione al problema di come intendere il potere<br />

della musica di commuoverci e al tipo di emozioni che la musica è in grado di destare.<br />

Il passo successivo è stato poi quello di prendere in esame la teoria di Derek Matravers,<br />

sia in vista dell’aspra polemica con Kivy sia in considerazione del fatto che egli, anticipavamo,<br />

è uno dei più illustri rappresentati dell’altra tendenza riattivatasi nel dibattito.<br />

Infine nel terzo e ultimo capitolo abbiamo rivolto una particolare attenzione al<br />

tema dell’uso delle metafore nelle descrizioni musicali e a quello ad esso connesso<br />

dell’isomorfismo. Nello specifico, dopo aver d<strong>ed</strong>icato una primissima parte ai testi seminali<br />

che sono alla base della discussione, interessante è stato per noi seguire il dialogo<br />

tra coloro che, come Zangwill e Scruton, sostengono, seppure per ragioni diverse,<br />

una concezione metaforica delle descrizioni della musica in termini emotivi e coloro<br />

che invece, come Budd e Davies, vogliono riaffermare la letteralità di siffatte descrizioni.<br />

Il nostro è stato un lavoro di esposizione e di analisi, e piuttosto che schierarci<br />

da una parte o dall’altra, abbiamo preferito invece il più delle volte portarci fuori dalle<br />

nette opposizioni e dalle polemiche, spesso sterili, derivate nella maggior parte dei casi<br />

da sottili distinzioni terminologiche e da etichette di vario genere. In tal senso, impor-<br />

10


tante per noi è stato soprattutto rilevare invece quelle puntuali convergenze che di volta<br />

in volta emergono sotterraneamente, malgrado cioè i tentativi di dissimularle. La più<br />

significativa di queste convergenze è quella che abbiamo intravisto nell’idea dei teorici<br />

cognitivisti, i quali, pur muovendosi da posizioni che sembrano inconciliabili, quelle<br />

cioè di una risposta “dal basso” che riporta l’isomorfismo al suo massimo di necessità e<br />

di una risposta “dall’alto” che guarda invece a dinamiche intenzionali, hanno in ultimo<br />

sempre e comunque dovuto riconoscere il ruolo dei processi immaginativi in atto<br />

nell’esperienza <strong>musicale</strong>.<br />

Dimensione quella immaginativa decisiva, come emergerà nell’ultimo capitolo<br />

del nostro lavoro, tanto nelle teorie incentrate sulla metafora, tanto in quelle che, al<br />

contrario, vi rinunciano optando per una descrizione letterale dei termini implicati, che<br />

si pone come candidato principale a rivestire una funzione trans-categoriale, capace di<br />

stabilire cioè connessioni che favoriscono il passaggio da un dominio di riferimento<br />

concettuale ad un altro. Da questo punto di vista sembrerebbe infatti che la musica crei<br />

delle forze immaginative che favoriscono e orientano le nostre possibili associazioni.<br />

Inoltre, per quanto possa sembrare un azzardo una simile ipotesi, ci è parso in-<br />

fine che le distanze non siano nemmeno così accentuate, come invece potrebbe rivelarsi<br />

ad un analisi superficiale, tra i teorici cognitivisti e i teorici disposizionalisti, dal momento<br />

che la spiegazione dell’espressività <strong>musicale</strong> nell’uno e nell’altro caso deve<br />

sempre fare i conti tanto con le proprietà della musica quanto con l’incidenza soggettiva<br />

di chi fa esperienza di essa. Anche per il cognitivista Kivy questo è un dato con cui<br />

dover confrontarsi, e noi cr<strong>ed</strong>iamo che egli stesso ne sia consapevole quando afferma<br />

che in realtà nella sua concezione <strong>emozione</strong> e cognizione non si diano come separate. E<br />

come Kivy anche Matravers riteniamo non possa fare a meno di riportarsi infine a delle<br />

proprietà che la musica comunque possi<strong>ed</strong>e e che ci pr<strong>ed</strong>ispongono ad un’<strong>emozione</strong>.<br />

Pensando soprattutto alla più aspra controversia che vi è tra i due, e d’accordo con<br />

quanto scrive Giovanni Piana sosteniamo che: «quanto più si esaspera il tema<br />

dell’oggettività e della sintassi, quanto più si sottolinea l’essere in sé dell’opera come<br />

un essere in sé che si separa da ogni legame con il mondo, tanto più nettamente<br />

l’impostazione del problema tende ad un completo ribaltamento non appena si avanza<br />

nuovamente la pretesa dell’espressione» 2 .<br />

Sembra dunque che quando ci si occupa del problema musica-emozioni non si<br />

possa venir fuori da quell’oscillazione cui accennavamo sopra, tra concezioni della mu-<br />

2 G. Piana, Filosofia della musica, Guerini e Associati, Milano 1991, pag. 271.<br />

11


sica che difendono la sua autonomia e concezioni che la v<strong>ed</strong>ono vincolata inscindibil-<br />

mente alla nostra esperienza. Eppure, come abbiamo voluto far emergere, tirandoci<br />

fuori dalle polemiche, dalle obiezioni e contro-obiezioni che caratterizzano la ricerca<br />

analitica, il più delle volte quelle due concezioni possono semplicemente coesistere.<br />

Anzi è proprio nel segno di questa integrazione, di questo riportare le cose ad unità che<br />

riteniamo si possa gettare adeguatamente luce sul problema del rapporto tra la musica e<br />

le emozioni. Più significativa in questo senso ci è parsa la sfida ardua intrapresa dal<br />

gruppo dei teorici cognitivisti o sostenitori dell’esternalità, i quali, certamente consape-<br />

voli del limite in seno alla concezione formalista della musica come ‘universo chiuso’,<br />

hanno voluto aprire questo stesso universo al legame negato.<br />

Altrettanto interessante per noi è stato riscontrare come entro questo stesso ordine<br />

di idee l’ipotesi isomorfica, nella maggior parte dei casi, resti ancora, dopo cioè i<br />

prec<strong>ed</strong>enti significativi di Pratt e Langer, l’ipotesi più accr<strong>ed</strong>itata. Per quanto osteggiata<br />

e malvista, ad essa si ritorna, talvolta anche carsicamente. Secondo questa lettura, la<br />

relazione specifica della musica con le emozioni è una relazione primitiva, prevalutativa.<br />

Sentire questo rapporto non è cioè una conseguenza di un atto di adesione, di apprezzamento<br />

estetico, di valutazione; non ci sentiamo coinvolti emotivamente dalla<br />

musica perché ne riconosciamo il valore estetico, si tratta piuttosto di un legame originario<br />

che può confluire nell’apprezzamento di un valore, oppure no (Kivy, Budd, Davies,<br />

Levinson).<br />

Al contrario chi nega l’ipotesi isomorfica, esemplare in questo senso la teoria di<br />

Scruton, lo fa proprio in vista della presunta coincidenza di espressività e valore estetico.<br />

Una posizione questa, noi sosteniamo, d’accordo con quanto suggerisce Silvia Vizzardelli,<br />

«che fa circuitare pericolosamente la nozione di espressività con il riconoscimento<br />

del valore estetico, al punto che anche processi almeno all’origine d’impatto<br />

imm<strong>ed</strong>iato, come la danza, vengono subito riassorbiti in esperienze più complesse e,<br />

potremmo dire, privati già in partenza della loro natura» 3 .<br />

3<br />

S. Vizzardelli, Musica, in Le arti nell’estetica analitica, (a cura di) Paolo D’Angelo, Quodlibet, Macerata,<br />

pag. 100.<br />

12


CAPITOLO PRIMO<br />

Prospettive di ricerca e testi seminali


1. Il rapporto musica-emozioni al centro del dibattito<br />

Obiettivo del nostro lavoro è quello di volgere l’attenzione al rinnovato interes-<br />

se del dibattito analitico per il tema musica-emozioni. Ci soffermeremo in particolare<br />

su tre questioni specifiche fondamentali, l’espressività della musica, il ruolo delle emo-<br />

zioni nell’esperienza <strong>musicale</strong> e l’incidenza delle allusioni emotive nelle descrizioni<br />

musicali. Tali questioni saranno esplorate alla luce di quelle che ad oggi possiamo con-<br />

siderare le più significative proposte teoriche degli studiosi di area angloamericana.<br />

Poiché, tuttavia, in Italia l’attenzione per questo tema specifico dell’estetica a-<br />

nalitica è ancora modesta 4 , riteniamo opportuno, almeno in questa prima parte, dare<br />

spazio ad una presentazione generale del dibattito, ricostruendo i percorsi che hanno<br />

favorito e, allo stesso tempo, accompagnato la nascita di una nuova attenzione per la<br />

tradizionale questione del ruolo del sentimento nella musica (sappiamo infatti che la discussione<br />

su questo tema è centrale nel pensiero <strong>musicale</strong> sin dagli albori della riflessione<br />

filosofica), ma anche e soprattutto analizzando quali sono i percorsi metodologici<br />

che definiscono e insieme strutturano l’identità della ricerca estetica analitica.<br />

Tra la seconda metà del XIX sec. e buona parte del XX, la riflessione filosofica<br />

sulla musica non occupava più una posizione significativa nemmeno nell’ambito delle<br />

filosofie orientate verso tematiche di ordine estetico. Il tributo di Susanne Langer a<br />

quest’arte intesa come simbolo presentazionale o incompiuto che possi<strong>ed</strong>e proprietà<br />

formali simili a quelle del feeling umano, sancisce un vero e proprio momento di svol-<br />

4 In realtà, come riferiscono Giovanni Matteucci e Paolo D’Angelo nel fascicolo monografico di «Discipline<br />

filosofiche», Elementi di estetica analitica, in Italia, purtroppo, si registra ancora una scarsa attenzione<br />

rispetto all’intero settore della recente filosofia analitica dell’arte. Se pure, possiamo constatare che<br />

dall’uscita di quel saggio, nel 2005, ad oggi la situazione è visibilmente mutata. “Discipline filosofiche”<br />

XV 2005, Elementi di estetica analitica, a cura di Giovanni Matteucci, Quodlibet, Macerata, 2005. (Avvertenza<br />

del curatore, pag. 5, Analitici e Continentali, in estetica, pp. 7-23). A conferma di quanto detto<br />

ecco alcuni testi di riferimento: Introduzione all’estetica analitica (a cura di) Paolo D’Angelo, Laterza,<br />

Roma, 2008; Estetica e Filosofia Analitica, (a cura di Pietro Kobau, Giovanni Matteucci e Stefano Velotti),<br />

Il Mulino, Bologna, 2007; S. Chiodo, Che cosa è arte. La filosofia analitica e l’estetica, Utet Università,<br />

Torino, 2007; A. Ottobre, Sulle proprietà estetiche, in «Rivista di Estetica», XLIII, 23, 2003, pp.<br />

84-106; A. Ottobre, L’abuso delle proprietà estetiche, in «Rivista di Estetica», XLVII, 35, 2007, pp.<br />

293-310. S. Velotti, L’opera d’arte: una nozione classificatoria o normativa? Note su Goodman, Danto<br />

e Dickie, in «Studi di Estetica», III serie, 31, 1, 2003; S. Velotti, La scelta di Danto, in «Rivista di Estetica»,<br />

III serie, 35, 2, 2007; S. Velotti, Estetica analitica: un breviario critico, Aesthetica Preprint, Palermo,<br />

2008; S. Velotti e A. Ottobre, Le proprietà estetiche, in A. Coliva, Filosofia analitica. Temi e<br />

problemi, Carocci, Roma, 2007, pp. 307-330. P. Kobau, Ontologie analitiche dell’arte, Milano, Albo-<br />

Versorio, 2005; Estetica analitica/1 (a cura di) Fernando Bollino, in «Studi di Estetica», 27, CLUEB,<br />

Bologna, 2007; Estetica analitica/2, Id., in «Studi di Estetica», 28, CLUEB, Bologna, 2007; Le arti<br />

nell’estetica analitica, (a cura di) P. D’Angelo, cit.<br />

14


ta 5 . Interessante, a tale proposito, riportare qualche testimonianza. In quella di Peter<br />

Kivy ad esempio, uno dei più eminenti filosofi contemporanei della musica di area angloamericana,<br />

facilmente rinveniamo il segno di questo attestato riconoscimento al lavoro<br />

di Langer, la quale – egli evidenzia – con la pubblicazione nel 1941 di Philosophy<br />

in a New Key, è riuscita a rompere il silenzio in cui era caduta la riflessione filosofica<br />

sulla musica dopo la pubblicazione de Il bello <strong>musicale</strong> di Eduard Hanslick (1854).<br />

Queste le sue parole a riguardo:<br />

Per la restante parte del diciannovesimo secolo e per buona parte del<br />

ventesimo, la speculazione filosofica relativa alla musica è rimasta in<br />

ombra. L’Inghilterra ha prodotto, nel 1880, un capolavoro, The<br />

Power of Sound di Edmund Gurney, ingiustamente trascurato per via<br />

della sua prosa ampollosa e delle sue dimensioni ingombranti. Il resto<br />

è silenzio, fino a che, nel 1941 Susanne K. Langer risuscitò, da sola,<br />

la filosofia della musica nel suo libro, Philosophy in a New Key. Il<br />

fatto che tale libro avrebbe avuto un grande impatto è qualcosa di veramente<br />

notevole, dato che solo uno dei suoi dieci capitoli ha a che<br />

fare con la musica. Ma il titolo del libro, dopo tutto, faceva riferimento<br />

alla musica, e suggeriva quindi che la musica era al cuore del progetto.<br />

Ad ogni modo, è ciò che la Langer scrisse sulla musica in quel<br />

libro che ebbe profonde conseguenze, e che lo ha consegnato alla<br />

memoria 6 .<br />

In realtà, come spiega opportunamente Kivy in questa stessa citazione, in quel<br />

periodo di stasi, in Inghilterra nel 1880 fu pubblicato il capolavoro di Edmund Gurney,<br />

The Power of Sound, il quale però fu ingiustamente trascurato a causa della sua ridon-<br />

dante prosa e delle voluminose dimensioni. Non ottenne quindi il rimarchevole effetto<br />

sortito dall’opera di Langer. Un effetto secondo Kivy tanto sorprendente quanto più si<br />

tiene conto del fatto che solo uno dei dieci capitoli che compongono quell’opera è inte-<br />

ramente d<strong>ed</strong>icato alla musica. Ciò nonostante – egli tiene a sottolineare – esso è suffi-<br />

ciente a renderci testimonianza del fatto che la musica sta al centro della sua impresa.<br />

Quanto Langer ha detto della musica in quel libro ha avuto un effetto molto profondo,<br />

<strong>ed</strong> è questa la ragione per cui merita di essere ricordata. Poco più avanti aggiunge:<br />

5 Cfr. Giovanni Piana, Intorno alla filosofia della musica di Susanne Langer, materiali di lavoro per un<br />

corso sul tema “Fenomenologia dell’espressione e filosofia della musica” tenuto nel 1986 (Università di<br />

Milano, Insegnamento di Filosofia teoretica I), pag. 2; Cfr. S. Vizzardelli, Filosofia della musica, Laterza,<br />

Roma, 2007, pag. 77.<br />

6 Peter Kivy, New Essays on Musical Understanding, Clarendon Press, Oxford, 2001, pag. 96. Traduzione<br />

mia. D’ora in poi, dove non diversamente indicato, le traduzione sono mie.<br />

15


Per quel che mi riguarda, il suo negare che la musica potrebbe incarnare<br />

la particolare <strong>emozione</strong> che identifichiamo senza difficoltà in essa,<br />

inficia automaticamente il suo lavoro di ricerca, ma non dirò<br />

nient’altro al riguardo, se non ribadire che la Langer ha fatto sì che la<br />

musica tornasse ad essere un significativo oggetto d’indagine per il<br />

mondo filosofico anglo-americano, e ha preservato l’intuizione di<br />

Schopenhauer secondo cui l’espressività <strong>musicale</strong> si trova nella musica<br />

e non nell’ascoltatore. Per questi motivi a lei va il mio encomio e<br />

la mia gratitudine 7 .<br />

Anche qui possiamo cogliere più manifestamente i segni di questo tributo di<br />

Kivy a Langer, nella misura in cui le riconosce esplicitamente il doppio merito di avere<br />

reintrodotto la musica nel mondo della filosofia angloamericana come privilegiato og-<br />

getto di esame e di avere saputo valorizzare la teoria schopenhaueriana della musica<br />

secondo la quale l’espressività della musica risi<strong>ed</strong>erebbe non più nella capacità<br />

dell’ascoltatore di coglierla, ma nella musica stessa.<br />

Non è diversa la posizione di Stephen Davies – altro esponente di primo piano<br />

nell’ambito della filosofia analitica della musica – il quale anch’egli, nell’opera<br />

Musical Meaning and Expression 8 , non ha potuto fare a meno di evidenziare la rilevan-<br />

te influenza del pensiero di Langer, seppur limitandola soprattutto al ruolo che essa ha<br />

svolto nell’ambito degli studi di ermeneutica.<br />

La posizione della Langer ha sempre attirato sostenitori. L’ “estetica<br />

semiotica ,” di cui la teoria di Langer è un esempio imprescindibile,<br />

ha avuto il suo apice tra il 1940 e il 1950. Questo tipo di teoria non è<br />

molto più in voga tra i filosofi analitici anglo-americani dell’arte (si<br />

v<strong>ed</strong>a, tuttavia, Tarasti 1987), ma il fantasma della teoria langeriana<br />

sopravvive nell’ermeneutica europea 9 .<br />

Innegabile quindi il fatto che è proprio a partire dal lavoro di Langer che il tema<br />

del rapporto musica-emozioni è diventato protagonista – con una ricca fioritura soprattutto<br />

negli ultimi trenta anni – della riflessione filosofica sulla musica in area angloamericana.<br />

Come avremo modo di verificare in un secondo tempo, tutti coloro che si sono<br />

occupati di questo tema hanno dovuto fare i conti con le sue tesi, a volte anche tentandone<br />

il superamento. Quello di Langer, di fatto, è un merito riconosciuto anche da<br />

7 Ibidem, pag. 97.<br />

8 S. Davies, Musical Meaning and Expression, Cornell University Press, Ithaca, 1994.<br />

9 Ivi, pag. 124. L’immagine di questa teoria come fantasma che sopravvive in Europa pensiamo sia massimamente<br />

esplicativa dell’importanza che essa ha avuto e, aggiungiamo, ha ancora oggi. Anticipiamo,<br />

se pure prematuramente, che tale presenza è tangibile tanto quanto il fatto che ad oggi dall’impostazione<br />

langeriana della relazione della musica con le emozioni come una relazione di tipo isomorfico quasi nessuno<br />

degli studiosi è realmente riuscito a prendere le distanze.<br />

16


chi ha poi sviluppato metodi e prospettive diverse e dunque si è allontanato dalle sue<br />

tesi 10 .<br />

La musica torna così ad assumere all’interno del pensiero novecentesco un ruo-<br />

lo centrale, se non di primo piano, e sappiamo anche, adesso, che l’humus di questa<br />

rinnovata attenzione alla musica <strong>ed</strong> ai problemi estetici che ad essa si legano è quello<br />

dell’er<strong>ed</strong>ità tramandataci da Langer. Questo anche e soprattutto a dispetto di certe poe-<br />

tiche musicali novecentesche che hanno invece preferito d<strong>ed</strong>icare la propria energia <strong>ed</strong><br />

attenzione ai problemi della tecnica e della forma, con un non trascurabile sospetto per<br />

chiunque tentasse di indagare esteticamente o psicologicamente la portata emotiva del-<br />

la musica.<br />

Il segno più manifesto di questa apertura si può cogliere nell’ambito di una va-<br />

stissima produzione di scritti (articoli, monografie) interamente centrati sul nostro te-<br />

ma. Più precisamente, partendo dal riconoscimento che tra la musica (assoluta) e le<br />

emozioni certamente deve esserci una qualche relazione, ci si interroga su questioni del<br />

tipo:<br />

1. In che modo è possibile giustificare tale relazione? In che senso può sussi-<br />

stere?<br />

2. La musica ha una propria dimensione espressiva oppure la sua portata emo-<br />

tiva è inevitabilmente vincolata alla nostra risposta emotiva?<br />

3. E, se la musica incarna le emozioni nella propria struttura ci si chi<strong>ed</strong>e ancora:<br />

in che modo la musica può esprimere le emozioni nella varietà delle loro<br />

sfumature?<br />

4. Qual è il ruolo delle proprietà espressive e quale il loro legame con la struttura<br />

<strong>musicale</strong> cui appartengono?<br />

5. Che cosa significa essere profondamente commosso o impressionato dalla<br />

musica?<br />

10 V<strong>ed</strong>i, ad esempio, L. Addis, Of Mind and Music, Cornell University Press, New York, 1999, p. IX:<br />

«Molti anni fa, quando ero studente universitario in musica e prima di intraprendere uno studio formale<br />

della filosofia, lessi il libro di Susanne Langer, Philosophy in a New Key. Allora ero già stato colpito dal<br />

potere della musica, e perciò il libro esercitò su di me un forte impatto, in quanto sembrava che contenesse<br />

una spiegazione plausibile del perché la musica è così importante per la vita di così tante persone e<br />

ha una certa importanza nella vita di pressoché ciascun individuo. […] Sto raccontando questi dettagli<br />

autobiografici non perché essi hanno qualcosa a che fare con la verità o con la plausibilità della teoria<br />

della Langer o della mia, ma per individuare da subito quello che è il singolo e principale riferimento per<br />

le riflessioni che seguono. La mia teoria è uno sviluppo e una estensione della sua, e, pur distinguendosi<br />

per alcuni dettagli e soprattutto per lo scopo e per i fondamenti, non sarebbe stata possibile senza di essa».<br />

17


6. Come intendere la nostra risposta emotiva alla musica?<br />

7. Inoltre, altro problema nodale: la musica assoluta in quanto arte priva di testo,<br />

titolo o programma, ha una sua profondità, può essere in qualche modo<br />

vincolata a contenuti rappresentativi determinati, oppure si tratta di un’arte<br />

esclusivamente formale?<br />

8. La musica può essere paragonata a un sistema simbolico simile a quello della<br />

lingua?<br />

9. La relazione della musica con le emozioni è una relazione di tipo causaeffetto?<br />

Ora, la possibilità di dare una descrizione adeguata di quelli che potremmo definire<br />

gli aspetti costitutivi dell’identità di questo dibattito su un tema e un’arte specifici,<br />

passa dall’individuazione dei “tratti comuni” che interessano e insieme strutturano<br />

l’intero ambito della ricerca analitica 11 . Uno di questi “tratti comuni” è rintracciabile<br />

nella tendenza a pr<strong>ed</strong>iligere una scansione dei contenuti filosofici per problemi e soluzioni<br />

(cosa significa rappresentare un oggetto in pittura? La musica può rappresentare<br />

qualcosa? Che cosa significa per un’immagine esemplificare qualcosa? Che tipo di piacere<br />

procura l’ascolto <strong>musicale</strong>? In che senso il tempo entra nella nostra percezione<br />

della pittura? In che misura la storia della produzione di un’opera d’arte è rilevante per<br />

il suo apprezzamento?). Interessante per noi è che quasi sempre il problema tende ad<br />

essere affrontato con particolare attenzione ad una singola forma artistica (ci si interroga<br />

sull’ontologia dell’opera <strong>musicale</strong>, sulla rappresentazione nella pittura): esiste, per<br />

così dire, un’attenzione particolare per le cosiddette “estetiche speciali” 12 .<br />

Inoltre, tratto caratterizzante dell’impostazione analitica è quella che potremo<br />

chiamare la “circolarità” della discussione. Mi riferisco al fatto che ciascuno degli aderenti<br />

al dibattito realizza, quasi sempre, l’opportunità di pervenire all’individuazione di<br />

una propria chiave interpretativa o di aderire ad una determinata prospettiva, confrontandosi<br />

non solo con quelle teorie che hanno segnato la riflessione filosofica sulla mu-<br />

11<br />

Un’utile informazione a tale riguardo è quella di Paolo D’Angelo, il quale seguendo le indicazioni di<br />

Franca D’Agostini, ripropone le quattro definizioni, m<strong>ed</strong>iante le quali si può tentare di dare risposta alla<br />

domanda “Cos’è la filosofia analitica?”, (nella quale egli evidenzia rientra anche quella specifica<br />

sull’estetica analitica): definizione storica (riferimenti ad autori e scuole), filosofica (assunzioni fondamentali<br />

e premesse metodologiche caratterizzanti), stilistica (forma del discorso e sviluppo argomentativo),<br />

metafilosofica (concezione della filosofia e dei suoi compiti). Cfr. F. D’Agostini, Che cos’è la filosofia<br />

analitica?, in F. D’Agostini e N. Vassallo, a cura di, Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino,<br />

2002, pp. 3 sgg.<br />

12<br />

Per ulteriori approfondimenti cfr. Le arti nell’estetica analitica (a cura di) P. D’Angelo, cit., pag. 7-12,<br />

49.<br />

18


sica (tra queste, quella di Hanslick, Schopenhauer, Langer, Pratt, Meyer, Gurney, Coo-<br />

ke, Wittgenstein), ma anche e soprattutto creando una sorta di dialogo intrecciato, me-<br />

diante il quale ognuno può rinviare costantemente alle posizioni teoriche dell’altro.<br />

Nessuno di loro, infatti, rinuncia ad un continuo e reciproco scambio; quasi come se<br />

questa conversazione si svolgesse attorno ad una tavola rotonda, nella quale le opinioni<br />

rimbalzano continuamente da un punto all’altro senza uscire mai al di fuori di essa. Gli<br />

esempi migliori a tale proposito sono quelli ricavati dall’esperienza diretta della lettura<br />

di alcuni di questi saggi, per esempio quello di Malcolm Budd, il quale nella prefazione<br />

a Music and the Emotions 13 , dopo avere introdotto il tema di questa sua opera, motiva<br />

la scelta personale di costruire l’indagine proprio a partire da un attento esame delle<br />

principali teorie del rapporto musica-emozioni, evidenziando il fatto che l’intento non è<br />

certamente quello di fornire una ricostruzione di tipo storiografico, bensì di investigare<br />

sulla possibilità o meno che esistano dinamiche relazionali tra suoni <strong>ed</strong> emozioni, per<br />

approdare così ad una personale soluzione del problema. Ne consegue la scelta di operare<br />

secondo questo particolare metodo di confronto, vale a dire: valutando attentamente<br />

e portando all’esame critico quelle teorie che a parer suo rappresentano il contributo<br />

più significativo sull’argomento, Budd tenta di creare le premesse necessarie ad un superamento<br />

di limiti e incongruenze riscontrate. L’applicazione di simile proc<strong>ed</strong>imento<br />

favorisce l’individuazione di due linee teoriche generali, emblematiche: nella prima<br />

colloca quel gruppo di studiosi (Hanslick, Pratt e Gurney) che ha cercato di dissolvere<br />

qualsiasi tentativo di subordinazione della musica alle emozioni, siano esse<br />

dell’ascoltatore, dell’esecutore o del compositore, mentre nella seconda prende in considerazione<br />

le teorie di coloro (Schopenhauer, Langer e Cooke) che per diverse ragioni<br />

hanno invece pensato di subordinare il valore estetico della musica alla significante relazione<br />

con i sentimenti. Da questo tipo di suddivisione resta fuori invece la teoria di<br />

Leonard Meyer, poiché – precisa Budd – si tratta di una teoria ibrida che cerca di conciliare<br />

i due opposti punti di vista, quello del “formalismo” e dell’“espressionismo”.<br />

Se in questo caso specifico, come si è evidenziato, il percorso d’indagine si<br />

struttura m<strong>ed</strong>iante l’unico canale dei riferimenti prelevati, molto selettivamente a dire il<br />

vero, dalla tradizione del pensiero estetico, essendo questa un’opera del 1985, cioè di<br />

un periodo in cui il dibattito cominciava a prender pi<strong>ed</strong>e, esistono invece altri esempi 14<br />

13<br />

M. Budd, Music and the Emotions. The Philosophical Theories, Routl<strong>ed</strong>ge and Kegan Paul, London,<br />

1985, Prefazione, pp. x, xi, xii.<br />

14<br />

Cfr. ad esempio, Peter Kivy, New Essays on Musical Understanding, cit.; Id., Introduction to a Philosophy<br />

of Music, Oxford University Press, New York, 2002; trad. it. Filosofia della musica.<br />

19


di opere nelle quali il riferimento alla tradizione filosofica viaggia accanto al dialogo<br />

serrato con quelli che potremmo chiamare i compagni di viaggio, con quella comunità<br />

di studiosi <strong>ed</strong> interpreti che si muove intorno allo stesso problema. È il caso anche di<br />

dire che spesso questi due piani vengono ad intersecarsi strutturando così un campo di<br />

tensione nel quale le varie posizioni gravitano, o come dicevamo poc’anzi, circolano<br />

tutte in un’area comune che è quella di questa rinnovata attenzione alla musica e alla<br />

relazione di essa con il sentimento.<br />

Riassumendo, possiamo dunque dire che l’impronta circolare del dibattito definisce<br />

un metodo e incide anche sul piano propriamente stilistico dell’argomentazione<br />

che è quello, parafrasando ancora una volta D’Angelo, nel quale forse si fa massima la<br />

tensione fra analitici e continentali, in estetica, vale a dire: il relativo chiudersi degli estetici<br />

analitici nella propria tradizione che si incrocia peraltro e coesiste con l’altra<br />

“chiusura alla storia dell’estetica”. Nella tavola rotonda attorno cui si<strong>ed</strong>ono questi studiosi,<br />

potremmo dire, che non tutti gli ospiti sono ben accetti. La tendenza degli analitici<br />

è infatti quella di fare cerchio non solo attorno ai problemi specifici inerenti le singole<br />

arti ma anche attorno ad una tradizione filosofica selezionata secondo criteri stabili.<br />

In questo senso, la circolarità del dibattito è quindi da noi identificata come una<br />

chiusura, che è pur vero, non sempre è del tutto ermetica. In effetti, come in parte abbiamo<br />

già evidenziato, non è difficile individuare quali sono i capisaldi teorici su cui<br />

poggia la riflessione degli analitici sul tema qui in questione, vista la ricorrenza degli<br />

stessi autori e delle stesse tesi come presupposti comuni della discussione. Potrei quindi<br />

come in uno schema così evidenziarli:<br />

— l’impostazione langeriana del rapporto musica-emozioni;<br />

— la concezione formalista di Eduard Hanslick;<br />

— la teoria schopenhaueriana della musica;<br />

— l’idea (Wittgenstein e Cooke) di una possibile analogia tra simbolismo <strong>musicale</strong><br />

e simbolismo linguistico;<br />

— il motto di Pratt “music sounds the way the emotion feel”, alla base delle tesi<br />

isomorfiche;<br />

Questo almeno per quanto concerne strictiori sensu le premesse storiche, mentre per<br />

quello che riguarda da vicino il dibattito vivo, possiamo senz’altro individuare anche<br />

qui come in uno schema le teorie più importanti:<br />

Un’introduzione, Einaudi, Torino, 2007. Malcolm Budd, Music and the Emotions: The Philosophical<br />

Theories, cit.; Stephen Davies, Musical Meaning and Expression, cit.<br />

20


— La teoria cognitivista (Peter Kivy);<br />

— La teoria metaforica (Nick Zangwill, Roger Scruton);<br />

— La teoria della persona (Jerrold Levinson);<br />

— La teoria della tendenza o del contagio (Stephen Davies);<br />

— La teoria sintomatica delle emozioni o modello disposizionale (Derek Matra-<br />

vers);<br />

— La teoria finzionale (Malcolm Budd)<br />

In realtà, sappiamo anche che negli ultimi anni la ricerca analitica sta iniziando<br />

a muoversi in una nuova direzione, cercando di colmare lo “spazio vuoto” derivato da<br />

questa secchezza di riferimenti alla tradizione, e allo stesso tempo, lo abbiamo detto,<br />

dalla circoscrizione dello spettro d’indagine alle tesi degli autori a loro prossimi. Viene<br />

meno, per così dire, sul piano argomentativo quella copiositas, quella densità che sca-<br />

turisce inevitabilmente dal reperimento dei loci communes o luoghi comuni, cioè degli<br />

argomenti che l’esperienza ha accumulato relativamente a qualsivoglia soggetto di discussione.<br />

Si tratterebbe quindi, secondo l’insegnamento di Vico nella più celebre delle<br />

sue sette orazioni inaugurali, la De nostri temporis studiorum ratione, di arricchire con<br />

la topica il repertorio di argomenti 15 , per evitare che la ricerca si sclerotizzi intorno a<br />

nodi problematici ripetitivi. Cr<strong>ed</strong>iamo quindi che, come anche in questo caso ha saputo<br />

bene evidenziare D’Angelo, il relativo chiudersi degli estetici analitici nella propria<br />

tradizione è insieme un punto di forza e un elemento di debolezza:<br />

Un punto di forza, perché il fatto che si parta da un numero limitato<br />

di autori, prossimi nel tempo e omogenei (un po’come se si passa il<br />

paragone, nei sistemi di common low vige il principio dello stare decisis),<br />

rende la discussione molto più intensa di quanto non appaia<br />

nella nostra tradizione filosofica, dove le varie tradizioni spesso si<br />

sovrappongono senza incontrarsi o, se si incontrano, non riescono a<br />

dialogare veramente. Chi segua attraverso gli anni le due maggiori riviste<br />

dell’estetica analitica, il «Journal of Aesthetics and Art Criticism»<br />

americano e il «British Journal of Aesthetics» inglese, non può<br />

non restare colpito dalla frequenza delle riprese dei m<strong>ed</strong>esimi temi o<br />

problemi, e dal numero di saggi che dialogano con altri saggi. Questa<br />

forza è però pronta a rovesciarsi in una debolezza. L’orientamento<br />

quasi esclusivo verso autori di lingua inglese (parlo sempre<br />

dell’estetica, questo vale meno per altra filosofia analitica) e recenti<br />

non solo fa correre continuamente il rischio di cadere nella fallacia<br />

della ignoratio elenchi (cioè nel lasciarsi sfuggire qualche soluzione o<br />

15 Cfr. G. Vico, De nostri temporis studiorum ratione, Armando, Roma, 1974, pag. 25. Sappiamo che il<br />

termine topica o inventio indica la prima delle cinque parti della retorica, quella concernente, appunto, il<br />

reperimento dei topoi ovvero di tutti quegli aspetti sotto i quali è possibile considerare una questione.<br />

21


proposta decisiva, solo perché formulata troppo tempo fa o in una<br />

lingua diversa dall’inglese) ma affida una drammatica responsabilità,<br />

diciamo così al capostipite della discussione 16 .<br />

Ogni scelta è tale, definisce e allo stesso tempo struttura sempre un campo<br />

d’azione, il prezzo da pagare è che tutto quello che in questo non rientra resta inevitabilmente<br />

ai margini, e forse è anche naturale le cose stiano così; è pur sempre vero però<br />

che questo riconoscimento non dovrebbe nemmeno esimerci dal ponderare responsabilmente<br />

e accuratamente i pro e contro della scelta operata poiché è solo muovendosi<br />

da tale consapevolezza che il cammino di ogni ricerca, di qualsiasi tipo essa sia, può<br />

crescere, migliorarsi e arricchirsi. È in questo che riconosciamo meglio anche il segno<br />

distintivo di ogni possibile percorso di ricerca. Di questa nostra invece vogliamo ripercorrere<br />

i momenti più significativi, se pur anche noi operando delle scelte nel ventaglio<br />

molto ampio delle innumerevoli posizioni e spaziando nella complessità delle sottili<br />

sfumature di certe proposte teoriche, soprattutto di quelle che rappresentano il maggiore<br />

contributo all’argomento. Ma di questo renderemo conto più avanti con maggiore<br />

precisione. Per ora ci preme sottolineare, prima di concludere questa panoramica introduttiva,<br />

che un altro dei compiti fondamentali che speriamo di portare a termine in questa<br />

ricerca è quello di combattere contro il pregiudizio negativo che oramai da tempo si<br />

registra in Italia nei confronti della ricerca analitica 17 .<br />

C’è chi ci aiuta in questo. È stata appena <strong>ed</strong>ita da Einaudi la traduzione italiana<br />

del testo di Peter Kivy, Introduction to a Philosophy of Music 18 . È una goccia d’acqua<br />

nel deserto, ne pioveranno forse di nuove. Noi ce lo auguriamo, figurandoci nel pensiero<br />

che anche questo lavoro sul problema del rapporto musica-emozioni possa servire a<br />

riscattare l’estetica analitica dalla dimensione marginale in cui è stata relegata fino a<br />

non molto tempo fa. Ancora una volta, come ha saputo sottolineare D’Angelo, nel saggio<br />

al quale abbiamo più volte fatto riferimento in questo primo paragrafo, Analitici e<br />

continentali, in estetica, e come vogliamo sottolineare anche noi:<br />

Ben<strong>ed</strong>etto Croce diceva dei metodi della critica letteraria che sono<br />

tutti buoni quando sono buoni. La stessa cosa si potrebbe ripetere a<br />

16 P. D’Angelo, Analitici e Continentali, in estetica, cit., pp. 20-21.<br />

17 Le ragioni di questa scarsa fortuna dell’estetica analitica presso di noi sono diverse. Anche in questo<br />

caso preferiamo rinviare al breve, ma denso saggio di introduzione di Paolo D’Angelo, il quale fornisce<br />

tutta una serie di valide indicazioni a tale proposito.<br />

18 P. Kivy, Filosofia della musica. Un’introduzione, cit. In realtà, per completezza d’informazione, è anche<br />

giusto precisare che esistono traduzioni di altri saggi di filosofi angloamericani, dei quali solo alcuni<br />

riguardano specificamente la musica.<br />

22


proposito dei metodi filosofici. Per chi è interessato a discutere problemi,<br />

non ad attaccare etichette a questo o quel pensatore, le diatribe<br />

sulle appartenenze, le scuole o gli orientamenti non possono che apparire<br />

oziose, quello che conta essendo quanto ognuno, dal proprio<br />

punto di vista, può apportare alla chiarificazione del punto di cui si<br />

discute. Se è in giuoco un problema identificabile, diventa subito manifestamente<br />

assurdo non prendere in considerazione quello che molti<br />

altri hanno fatto per risolverlo 19 .<br />

E la filosofia della musica molto ci aiuta in questo cammino, se è vero quanto<br />

Giovanni Piana ha affermato nel suo breve saggio Intorno alla filosofia della musica di<br />

Susanne Langer:<br />

Ad una filosofia della musica noi chi<strong>ed</strong>eremmo ciò che chi<strong>ed</strong>iamo alla<br />

filosofia in genere: che aguzzi la nostra capacità di distinguere; che attiri<br />

la nostra attenzione su questo e quello, che ci fornisca strumenti<br />

svariati e criteri, guide <strong>ed</strong> orientamenti per discutere problemi che sorgono<br />

sul terreno, e soprattutto che sappia insegnarci la complessità e ci<br />

fornisca alcune tracce per penetrarla 20 .<br />

2. Premesse storiche<br />

Ricostruiremo ora le premesse storiche del dibattito, tenendo conto del fatto che<br />

gli autori di cui ci occuperemo sono autori complessi che in nessun modo abbiamo intenzione<br />

di affrontare, per così dire di petto, poiché scopo di questo primo capitolo è<br />

quello di portare in chiaro solo i centri di interesse per il dibattito analitico. Nostro<br />

compito sarà quello quindi di enucleare soltanto quanto della loro riflessione interessa<br />

specificatamente il problema qui affrontato, la relazione tra la musica e le emozioni,<br />

creando così un apparato teorico funzionale a quello che sarà il lavoro successivo. Lavoro<br />

m<strong>ed</strong>iante il quale, mettendo insieme i pezzi, perverremo ad una visione d’insieme.<br />

Quello che intendo dire è che, una volta compiuto questo primo passo a ritroso, più facilmente<br />

potremo avvicinarci, ad esempio, alla concezione metaforica di Zangwill, v<strong>ed</strong>ere<br />

in che modo egli riprende la tesi hanslickiana, oppure capire quali differenze in-<br />

19 P. D’Angelo, Analitici e continentali, in estetica, cit., pag. 23.<br />

20 G. Piana, Intorno alla filosofia della musica di Susanne Langer, cit., pag. 14.<br />

23


tercorrono, se differenze poi realmente sussistono, tra il formalismo arricchito (enhan-<br />

c<strong>ed</strong>) di Peter Kivy e il formalismo, ancora una volta, di Hanslick. Si potrà inoltre far<br />

emergere la straordinaria variabilità dei modi di intendere il sentimento, talora concepi-<br />

to come tonalità emotiva di fondo (pensiamo alla nozione langeriana di feeling,<br />

nell’accezione più ampia di qualsiasi cosa possa essere sentito), o, ancora prima, come<br />

sentimento in abstracto (Schopenhauer), e alla opposta concezione hanslickiana del<br />

sentimento sempre determinato dal contesto d’esperienza. Nozione, quella del sentimento,<br />

sulla quale inevitabilmente si gioca la partita per gli estetici analitici, ma anche<br />

per noi che tenteremo di orientarci, chiarendo le diverse prospettive teoriche, sia di<br />

quelle che guardano al sentimento come prodotto di un’esperienza particolare, la quale<br />

definisce l’intenzionalità del sentimento stesso, e negano quindi alla musica la capacità<br />

di rinviare ad un simile contesto (presupposto sul quale, possiamo sin da ora anticipare,<br />

si basa la cosiddetta teoria metaforica delle emozioni), sia di quelle che, spostando<br />

l’oggetto intenzionale dal piano della vita a quello del suono, ritengono si possa parlare<br />

di un vero e proprio sentimento della musica (la tesi in questo caso è quella alla base<br />

della cosiddetta teoria cognitivista). Tenteremo, inoltre, di esplorare quelle teorie che ci<br />

offrono una concezione anemica dell’<strong>emozione</strong> <strong>musicale</strong>, la teoria della persona e la<br />

teoria del contagio, senza trascurare il riferimento alla tesi più osteggiata, quasi fosse<br />

l’unico nemico da combattere, la cosiddetta teoria sintomatica delle emozioni o modello<br />

disposizionale.<br />

Dalle tracce di questa parziale <strong>ed</strong> estremamente selettiva ricostruzione storiografica<br />

delle tesi di Schopenhauer, Hanslick e Langer, risaliremo quindi alle posizioni<br />

teoriche degli autori che qui ci interessano, che sono poi gli stessi, come avevamo già<br />

preannunciato, le cui teorie costituiscono il più significativo contributo all’indagine sul<br />

tema musica-emozioni in area angloamericana. È su queste proposte teoriche, siamo<br />

certi oramai, che s’innesta la discussione degli estetici analitici. Dalla nostra panoramica<br />

storica resteranno fuori, ma solo temporaneamente, altre tesi di autori – come Pratt,<br />

Gurney, Cooke, Meyer e Wittgenstein – che occupano anch’essi un ruolo significativo<br />

nell’ambito di questa indagine.<br />

Faremo quindi con una rapida, ma intensa incursione, un percorso a ritroso<br />

all’interno di quelle teorie che per diverse ragioni sono state elette da alcuni degli aderenti<br />

al dibattito come le più rappresentative della riflessione filosofica sul rapporto tra<br />

musica <strong>ed</strong> emozioni, a partire dal diciannovesimo secolo: periodo nel quale, sappiamo,<br />

affonda le radici se non tutta, almeno una buona parte, della discussione degli estetici<br />

24


analitici su questa specifica problematica. A tale proposito, non ci sembra nemmeno<br />

scontato segnalare il fatto che la loro decisione di operare destinando una maggiore at-<br />

tenzione a quel periodo storico in particolare, non è una decisione di per sé casuale,<br />

bensì essa ci appare motivata e parallelamente guidata dal fatto che quello fu il momen-<br />

to in cui si realizzò per la prima volta una significativa e decisiva svolta rispetto al tra-<br />

dizionale modo di intendere l’espressività <strong>musicale</strong> 21 . Ad essere felicemente archiviato,<br />

secondo Kivy, è proprio il modello disposizionale, che a partire dalla filosofia platoni-<br />

ca, attraverso la camerata fiorentina nel XVI secolo, giunge ai nostri giorni con la co-<br />

siddetta “arousal theory of emotions”. La ‘convinzione’ che supporta tali teorie è che la<br />

musica è triste o felice perché ha il potere di suscitare tali emozioni nell’ascoltatore. A<br />

tale proposito, lo stesso Kivy, sostiene che la teoria schopenhaueriana delle emozioni<br />

musicali è la prima delle due rivoluzioni che il diciannovesimo secolo produsse. La se-<br />

conda avvenne nel 1854, nella forma di un libricino del musicista e critico <strong>musicale</strong><br />

viennese Eduard Hanslick 22 .<br />

A queste due rivoluzioni, seguì un altro punto di rottura cui abbiamo già accen-<br />

nato. L’artefice questa volta fu Susanne Katherina Langer, la quale riuscì ad interrom-<br />

pere con la pubblicazione nel 1942 di Philosophy in a New Key, il silenzio che si de-<br />

terminò dopo l’uscita del trattato di Hanslick, favorendo così una vera e propria rinasci-<br />

ta degli studi filosofici sulla musica. Una rinascita che continua ancora oggi. Interpel-<br />

liamo ancora una volta Kivy, il quale così dispiega questi passaggi nell’itinerario di “u-<br />

na breve storia”, a partire dalla quale ripercorre, talvolta praticando voli pindarici, i ri-<br />

sultati più significativi conseguiti dalla storia dell’estetica <strong>musicale</strong> sul tema musica<strong>emozione</strong><br />

23 . Queste le sue parole a riguardo:<br />

Più o meno sessanta sterili anni nella filosofia della musica, almeno<br />

nel mondo anglofono, separano la maggiore opera di Gurney da quello<br />

che è considerato l’evento inaugurale, anche se un po’ prematuro,<br />

della vera e propria rinascita delle discussioni filosofiche su queste<br />

questioni negli Stati Uniti e in Inghilterra, rinascita che continua mentre<br />

sto scrivendo. Fu nel 1942 che Susanne K. Langer (1895-1985)<br />

pubblicò la Philosophy in a New Key, un’opera che doveva avere una<br />

21<br />

Cfr. P. Kivy, New Essays on Musical Understanding, cit., pp. 92-97; Filosofia della musica.<br />

Un’introduzione, cit., pp. 19-38.<br />

22<br />

P. Kivy, Filosofia della musica. Un’introduzione, cit., pag. 28.<br />

23<br />

Il riferimento è al secondo capitolo dell’opera Filosofia della musica. Un’introduzione, cit., pp. 19-38.<br />

Avvertiamo che la scelta di ricorrere, per la spiegazione di alcuni passaggi (soprattutto in questa fase,<br />

che è una fase, teniamo a precisare, preliminare del lavoro), alle tesi di un autore particolare, è dettata<br />

semplicemente dalla semplificazione che l’attuazione di questo proc<strong>ed</strong>imento può favorire. Attuabile,<br />

nella misura in cui, come avevamo prec<strong>ed</strong>entemente annunciato, uno dei presupposti accomunanti la discussione<br />

degli estetologi analitici è quello di ricorrere frequentemente agli stessi autori e alle stesse tesi.<br />

25


profonda ripercussione sul pensiero <strong>musicale</strong> e che ricordò ai filosofi<br />

dell’arte che la musica aveva fortemente bisogno della loro attenzione.<br />

In particolare la Langer ridi<strong>ed</strong>e slancio al dibattito sulla relazione<br />

tra la musica e le emozioni.<br />

Nonostante il suo titolo «<strong>musicale</strong>», Philosophy in a New Key non è<br />

un libro di filosofia della musica; infatti, soltanto uno dei suoi capitoli,<br />

On significance in Music, è un diretto contributo a questo tema.<br />

Tuttavia, ciò che la Langer sostiene qui a proposito del problema del<br />

significato della musica, che ella cr<strong>ed</strong>e sia in potenza un simbolo emotivo,<br />

toccò una corda ricettiva, dopo quasi cent’anni di scetticismo,<br />

particolarmente fra quei teorici e filosofi della musica che stavano<br />

forse cominciando a diventare anch’essi un po’ scettici riguardo<br />

allo scetticismo emotivo di Hanslick, e stavano cercando una via<br />

d’uscita 24 .<br />

Prima di passare dunque al dibattito vivo degli estetici analitici, mi soffermerei<br />

sulle premesse storiche che hanno sorretto e animato la discussione, isolando per ora<br />

solo i nodi teorici che mi paiono più presenti in quel dibattito.<br />

2. 1 ARTHUR SCHOPENHAUER<br />

«L’arte, nodo cruciale in cui per Arthur Schopenhauer (1788-1860) si annodano<br />

fino a confondersi il momento estetico, l’istanza etica e l’afflato mistico, è la prima via<br />

della liberazione dall’illusione e dal dolore. Come desiderio sempre insoddisfatto la vita<br />

è pena e lo stesso piacere non vi costituisce che un momento negativo, una pausa nel<br />

soffrire ininterrotto. Superato in maniera definitiva solo con l’ascetica estinzione della<br />

volontà, il dolore cosmico (Weltschmerz) può essere almeno momentaneamente mitigato<br />

dall’azione, insieme rivelatrice e catartica, delle arti» 25 .<br />

Per iniziare, ci siamo serviti di questa citazione – tratta dall’Estetica <strong>musicale</strong> di<br />

Giovanni Guanti – poiché riteniamo che in essa si trovino, rapidamente condensate, le<br />

premesse fondanti la teoria dell’arte di Schopenhauer, al cuore della quale troviamo gerarchicamente<br />

collocata, in primo piano, la musica:<br />

Dopo avere fin qui considerato, in quella forma generale che è adeguata<br />

al nostro punto di vista, tutte le arti belle, a cominciare<br />

dall’architettura, il cui fine in quanto tale è di rendere chiara<br />

24 Ivi, pp. 34, 35.<br />

25 G. Guanti, Estetica <strong>musicale</strong>, La Nuova Italia, Firenze, 1999, pag. 324.<br />

26


l’oggettivazione della volontà nel grado più basso delle sua visibilità,<br />

dove essa appare come cupo premere della massa, automatico e privo<br />

di conoscenza e tuttavia rivela già un’interna divisione e lotta, ossia<br />

tra la gravità e la solidità; - per chiudere poi la nostra trattazione con<br />

la trag<strong>ed</strong>ia, che, nel più alto grado di oggettivazione della volontà, ci<br />

mette davanti agli occhi, con terribile grandezza e chiarezza, appunto<br />

quel suo dissidio con se stessa; - troviamo che un’arte bella è rimasta<br />

tuttavia, e doveva rimanere, esclusa dalla nostra trattazione, in quanto<br />

nell’ordine sistematico della nostra esposizione nessun luogo era ad<br />

esso adatto: è la musica. Essa se ne sta affatto isolata da tutte le altre.<br />

In essa noi non riconosciamo l’imitazione, la riproduzione di una<br />

qualche idea degli esseri del mondo; tuttavia essa è un’arte così grande<br />

e straordinaria e magnifica, agisce così potentemente sull’intimo<br />

dell’uomo, viene qui così completamente e così profondamente da lui<br />

compresa, come una lingua universalissima la cui chiarezza sorpassa<br />

finanche quella dello stesso mondo intuitivo […] 26 .<br />

Tra le arti, nella considerazione di Schopenhauer, la musica è certamente la<br />

forma più alta: la ragione di questo privilegio accordato alla musica è la relazione di<br />

essa con il principio metafisico, con la “cosa in sé” creatrice dell’universo, la Volontà<br />

noumenica. Dal suo punto di vista, infatti, la musica è immagine della Volontà, anzi,<br />

oggettivazione diretta della Volontà noumenica. Il mondo che ad essa appartiene è<br />

quello delle Idee e non quello fenomenico della realtà sensibile cui sono vincolate in-<br />

vece le altre arti. Essa è libera dal mondo greve della materia sensibile, non è riflesso di<br />

esso, né imitazione. Le altre arti oggettivano la volontà quindi solo m<strong>ed</strong>iatamente, per<br />

mezzo delle idee, mentre la musica gode di un rapporto imm<strong>ed</strong>iato con l’essenza, la<br />

Volontà pura, vive al di là del mondo fenomenico, anzi<br />

lo ignora e potrebbe in certo modo sussistere anche se il mondo non<br />

fosse affatto: ciò che non si può dire delle altre arti; La musica è cioè<br />

una oggettivazione e immagine di tutta la volontà, tanto imm<strong>ed</strong>iata<br />

quanto lo è il mondo stesso, anzi quanto lo sono le idee, la cui manifestazione<br />

moltiplicata costituisce il mondo delle cose particolari. La<br />

musica non è dunque affatto, come le altre arti, immagine delle idee,<br />

bensì immagine della volontà stessa, di cui anche le idee sono<br />

l’oggettità. Perciò appunto l’azione della musica è tanto più potente e<br />

penetrante di quella delle altre arti: queste, infatti, parlano solo<br />

dell’ombra, quella invece dell’essenza 27 .<br />

Ecco perché Schopenhauer pensa all’arte dei suoni come ad un’arte che agisce<br />

potentemente sull’intimo dell’uomo e che intrattiene quindi un rapporto più intenso con<br />

26<br />

A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Bompiani, Milano, 2006, pp. 509, 511.<br />

27<br />

Ivi, pag. 513.<br />

27


la profonda interiorità del nostro essere. Raggiunge rapidamente la nostra anima con il<br />

linguaggio universale del sentimento, esprimendo non «questa o quella gioia particolare<br />

e determinata, questo o quell’affanno o dolore o terrore o giubilo o allegria o tranquillità<br />

d’animo; bensì la gioia, l’affanno, il dolore, il terrore, il giubilo, l’allegria, la<br />

tranquillità di spirito stessi, per così dire in abstracto, ciò che in essi è essenziale,<br />

senz’alcun accessorio, e dunque anche senza i relativi motivi» 28 . Essa evoca quindi il<br />

dolore senza il dolore, la gioia senza la gioia, la malinconia senza la malinconia, vale a<br />

dire: può universalmente inglobare il mondo della vita senza dover però essere sintomo<br />

di affezioni particolari. Questo è il carattere tanto eccezionale che alla musica Schopenhauer<br />

riconosce, quello di vincere la determinatezza dei sentimenti umani esprimendo<br />

solo la quintessenza della vita e dei suoi eventi. Viene così a determinarsi in<br />

questa prospettiva una diversa concezione del sentimento della musica. Tale sentimento<br />

non è più quello dell’ascoltatore competente, ma è quello universale e indeterminato<br />

della musica: il sentimento come tonalità emotiva (Fühlen) piuttosto che un sentimento<br />

determinato (Gefühl). Da questo punto di vista si capisce quindi come la teoria schopenhaueriana<br />

rappresenti un momento significativo di svolta rispetto alla tradizionale<br />

concezione dell’espressività <strong>musicale</strong>, la stessa che inaugurata da Platone è sopravvissuta<br />

pressoché invariata fino alla fine del XVIII secolo. Una concezione cosiddetta sintomatica<br />

delle emozioni musicali, vale a dire: la musica è triste, felice, malinconica<br />

perché capace di suscitare tali sentimenti nell’ascoltatore. Questo non è più vero nella<br />

prospettiva schopenhaueriana, è vero invece che l’espressività della musica appartiene<br />

ad essa stessa, in essa soltanto si localizza e non nelle singole affezioni suscitate<br />

dall’ascolto di una melodia, qualunque essa sia. È giusto anche sottolineare che localizzando<br />

così l’espressività della musica nella musica stessa, Schopenhauer non sta negando<br />

l’impatto emotivo della musica sull’ascoltatore, semplicemente vuole precisare<br />

che non è in quell’impatto che possiamo rinvenire l’autentica essenza del sentimento<br />

della musica quale dinamica tensiva di un sentimento in abstracto. Di fatto, come recentemente<br />

ha saputo bene evidenziare Silvia Vizzardelli nella sua Filosofia della musica:<br />

28 Ivi, pag. 521.<br />

La musica [nella considerazione di Schopenhauer] non ci racconta<br />

una storia, non è espressione della vita e dei suoi eventi, non svela<br />

motivi, ma fa risuonare un mondo di spiriti invisibile e dinamicamente<br />

mosso; non rivela la motivazione determinata del sentimento, la<br />

28


sua storia, la sua particolare occasione, piuttosto riveste di carne <strong>ed</strong><br />

ossa un’invisibile dinamica 29 .<br />

Fissiamo per ora l’attenzione su questi due aspetti della riflessione schopen-<br />

haueriana sulla musica, perché è proprio intorno a questi nodi tematici che si svilupperà<br />

il dibattito analitico:<br />

- L’espressività della musica non è una qualità che emerge nell’ascolto, ma è una proprietà<br />

della musica stessa;<br />

- l’<strong>emozione</strong> <strong>musicale</strong> non gode di alcuna determinatezza o contestualità, non si ancora<br />

ad alcuna esperienza determinata, perché è piuttosto un’archetipica dimensione tensiva,<br />

l’anima del desiderio, un sentimento in abstracto appunto.<br />

Su questi punti torneremo più di una volta quando si tratterà di rintracciare la<br />

loro presenza nel dibattito vivo dell’estetica analitica.<br />

2.2 EDUARD HANSLICK<br />

Fino a oggi il modo in cui è stata considerata l’estetica <strong>musicale</strong> si è<br />

basato su un grosso equivoco; cioè essa non cerca di conoscere cosa<br />

sia il bello nella musica [Musik], ma fa una descrizione dei sentimenti<br />

che questa suscita in noi. Queste ricerche corrispondono in tutto al<br />

punto di vista di quegli antichi sistemi estetici che consideravano il<br />

bello solo in relazione alle sensazioni [Empfindungen] che esso risveglia<br />

e che, come è noto, tenevano a battesimo anche la filosofia del<br />

bello figli della sensazione (αίσθησις).<br />

L’applicazione di queste estetiche, in sé e per sé non filosofiche,<br />

alla più eterea delle arti le attribuisce senza dubbio un qualcosa<br />

di sentimentale che, se rallegra le anime belle, offre pochi chiarimenti<br />

a colui che desidera apprendere. Chi cerca di sapere qualcosa<br />

sull’essenza della musica desidera uscire dall’oscuro dominio del<br />

sentimento e non esservi continuamente rimandato, come accade con<br />

la maggior parte dei manuali.<br />

L’impulso verso una conoscenza il più possibile oggettiva delle<br />

cose, che nella nostra epoca muove tutti i campi del sapere, deve toccare<br />

necessariamente anche l’indagine sul bello. Questa potrà seguirlo<br />

soltanto se abbandona un metodo che parte dal sentimento soggettivo<br />

per ritornare di nuovo al sentimento, dopo una poetica passeggiata<br />

lungo tutta la periferia dell’oggetto. Se non vuol divenire affatto illusoria,<br />

l’indagine sul bello dovrà avvicinarsi al metodo delle scienze<br />

naturali quel tanto da provare a sciogliere le cose stesse in carne e os-<br />

29 S. Vizzardelli, Filosofia della musica, cit., pag. 31.<br />

29


sa e di ricercare che cosa vi sia in esse di permanente e oggettivo,<br />

prescindendo dalle mille diverse e mutevoli impressioni 30 .<br />

Sostenuto da una formazione nella quale confluiscono istanze filosofiche di diversa<br />

provenienza, Hanslick realizza, con la pubblicazione nel 1854 de Il bello <strong>musicale</strong>,<br />

la necessità di opporsi alla diffusa concezione romantica della musica come “linguaggio<br />

dei sentimenti”. Idea antica, ma caricata di accenti particolari in quel periodo<br />

storico e imperante nella concezione wagneriana della musica. A questa necessità egli<br />

lega contemporaneamente quella di riportare in vita un metodo d’indagine attraverso il<br />

quale far valere un’analisi il più possibile oggettiva dell’arte dei suoni. Un’indagine è<br />

tale, nella considerazione di Hanslick, se riesce a distanziarsi dalle contaminazioni a<br />

cui essa è esposta se assoggettata alle mutevoli impressioni dello spirito umano. Pur<br />

consapevole, Hanslick, che certamente quello è il punto di partenza di ogni attività umana,<br />

la quale da quello spirito si diparte, si svolge, e vi ritorna.<br />

Assunzione, quest’ultima, nella quale rinveniamo il crocevia di certe complessità<br />

che ancora si registrano rispetto ad alcuni ambiti teorici della riflessione hanslickiana<br />

sulla musica, evidentemente pregnanti, ma ancora insoluti, vale a dire: come meglio<br />

potremo evidenziare più avanti, diverse sono le occasioni in cui gli studiosi angloamericani<br />

interrogano la cosiddetta tesi formalista di Hanslick, secondo la quale la musica,<br />

nuda e cruda, esibisce – se un contenuto la musica deve esibire – solo «forme sonore in<br />

movimento». Tesi, questa, che pur non lasciando spazio, almeno apparentemente, a<br />

fraintendimenti di alcun genere, si rivela spesso contraddittoria e pressoché paradossale<br />

quando – come alcuni di questi autori fanno notare (tra questi Kivy, Budd, etc.) – accade<br />

che Hanslick per “descrivere” la musica, per “indicarci” la musica, per “spiegarcela”,<br />

così come per “informarci” del fatto che ad essa non appartengono i nostri stati<br />

d’animo, qualunque essi siano, si trova a doverlo fare in termini emotivi. Ecco la ragione<br />

per cui Kivy, ad esempio, lo definisce ‘emotivista’ malgrè lui. Se questo accade,<br />

osserva infatti Kivy, è perché evidentemente c’è qualcosa nella musica che solo questi<br />

termini possono letteralmente descrivere, e perché le proprietà emotive della musica<br />

non possono essere negate: «non possono non essere sentite, e Hanslick ha l’orecchio<br />

per sentirle» 31 .<br />

Prima di Kivy, anche Budd, si è soffermato – nel secondo capitolo di Music and<br />

the Emotions d<strong>ed</strong>icato interamente al problema del radicale ripudio delle emozioni da<br />

30 E. Hanslick, Il bello <strong>musicale</strong>, Aesthetica Edizioni, Palermo, 2001, pag. 37.<br />

31 P. Kivy, New Essays on Musical Understanding, cit., pag. 43.<br />

30


parte di Hanslick – ad evidenziare con un’analisi piuttosto dettagliata e minuziosa i li-<br />

miti riscontrati in seno a questa concezione.<br />

Non vi è dubbio alcuno infatti, possiamo qui anticipare, che per questi <strong>ed</strong> altri<br />

autori che potremmo definire, diciamo pure, post-formalisti, la concezione hanslickiana<br />

può preservarsi integralmente per quanto concerne, diciamo così, la salvaguardia<br />

dell’autonomia formale della musica, deve invece emanciparsi dalla negazione che<br />

questa impostazione formale porta con sé, vale a dire dall’esclusione delle potenzialità<br />

espressive della musica. Al centro dell’attenzione e della discussione degli studiosi angloamericani<br />

troviamo quindi le due tesi da cui prende le mosse la ricerca di Hanslick,<br />

vale a dire:<br />

a) tesi negativa, nella quale si afferma che la musica non deve “esibire sentimenti”;<br />

b) tesi positiva, m<strong>ed</strong>iante la quale invece si stabilisce che «la bellezza di un brano<br />

è specificamente <strong>musicale</strong>, essa cioè è insita nei suoni senza relazione con una<br />

cerchia di pensieri esterni alla musica» 32 .<br />

La teoria hanslickiana è certamente una di quelle teorie che ha tentato di liberare<br />

la musica da ogni implicazione possibile con i sentimenti. Di fatto, Hanslick partendo<br />

dal presupposto che l’ascolto <strong>musicale</strong> non deve essere necessariamente influente<br />

sui sentimenti, poiché «l’effetto della musica sul sentimento non possi<strong>ed</strong>e né la necessità,<br />

né l’esclusività, né la costanza che un fenomeno dovrebbe presentare per poter costituire<br />

la base di un principio estetico» 33 , arriva anche a spiegare il fatto che nemmeno<br />

l’espressione dei sentimenti è in potere della musica. Alla base di questa ulteriore e<br />

quanto mai perentoria affermazione troviamo la concezione hanslickiana del sentimento.<br />

Una concezione, possiamo già anticipare, diametralmente opposta a quella di Schopenhauer,<br />

in quanto non può accogliere l’idea di una necessaria astrazione del sentire.<br />

Prospettiva che si ribalta nella considerazione di Hanslick, secondo il quale ciò che ‘intenziona’<br />

un sentimento è sempre un’esperienza particolare:<br />

I sentimenti non esistono isolati nell’anima, pronti per poter essere estratti<br />

attraverso un’arte alla quale sarebbe negata l’esibizione delle<br />

altre attività spirituali. Al contrario, essi dipendono da presupposti fisiologici<br />

e patologici, sono condizionati da rappresentazioni, giudizi,<br />

ossia da tutto l’insieme del pensiero intellettuale e razionale, a cui si<br />

contrappone volentieri il sentimento. Cos’è dunque che del sentimento<br />

in generale fa un sentimento determinato? Il desiderio, la speranza,<br />

32<br />

E. Hanslick, Il bello <strong>musicale</strong>, cit., pag. 34<br />

33<br />

Ivi, pag. 42.<br />

31


o l’amore? O forse la semplice intensità o debolezza, o l’ondeggiare<br />

di un movimento interiore? No di certo. L’intensità può essere uguale<br />

in sentimenti diversi, ma può anche essere diversa nello stesso sentimento<br />

in individui e in epoche diverse. Solo in base a una certa quantità<br />

di rappresentazioni e giudizi – che nel momento di una forte<br />

commozione forse sono inconsci – il nostro stato d’animo può concentrarsi<br />

in quel determinato sentimento. Il sentimento della speranza<br />

è inseparabile dalla rappresentazione di uno stato futuro più felice rispetto<br />

a quello presente. La malinconia confronta una felicità passata<br />

con il presente. Queste sono rappresentazioni determinate, concetti:<br />

senza di essi, senza questo apparato concettuale l’affettività presente<br />

non si può chiamare “speranza” o “malinconia”, è tale apparato concettuale<br />

che la determina. Se si astrae da esso rimane un vago moto<br />

dell’animo o tutt’al più la sensazione di un generico benessere o malessere<br />

[…] Un sentimento determinato (una passione, un’affezione)<br />

non esiste come tale senza un reale contenuto storico, il quale può essere<br />

esposto soltanto m<strong>ed</strong>iante concetti» 34 .<br />

È chiaro quindi che per Hanslick l’esibizione di un determinato sentimento o affezione<br />

non è assolutamente in potere della musica, poiché i sentimenti, egli sostiene,<br />

sono introdotti esclusivamente dal nostro cuore: «questa può sussurrare, infuriare,<br />

mormorare; ma l’amore o la collera sono introdotti solo dal nostro cuore» 35 . La musica<br />

non ha il potere di raccontare un’esperienza determinata, di esibire sentimenti ancorati<br />

ad un particolare contesto d’esperienza, e poiché il sentimento è sempre determinato<br />

per Hanslick, allora dovrà dirsi che la musica non ha il potere di esibire emozioni. Che<br />

cosa resta allora alla musica nella dimensione in cui Hanslick l’ha pensata, privandola<br />

completamente del sentimento? Restano la serie di suoni, di forme sonore che hanno<br />

contenuto solo in se stesse. Il contenuto di un brano <strong>musicale</strong>, spiega Hanslick, non è<br />

altro se non le forme sonore udite, perché i suoni non solo sono ciò con cui la musica si<br />

esprime, ma anche sono l’unica cosa espressa. La presenza di una certa affinità delle<br />

strutture musicali a certi moduli dell’esperienza non deve perciò indurci a pensare erroneamente<br />

ai m<strong>ed</strong>esimi moduli come possibile contenuto della musica 36 . Non solo.<br />

Hanslick ha anche chiarito che se si vuole decidere in merito al problema se la musica<br />

possi<strong>ed</strong>e un suo proprio carattere, quali siano la sua natura e le sue proprietà, e quali i<br />

suoi limiti e le sue tendenze, non si può prendere in considerazione altra musica che<br />

quella strumentale, perché solo la musica strumentale è simpliciter musica. Esibire brani<br />

vocali o pezzi d’opera a riprova che tale connessione esiste è perfettamente inutile,<br />

34<br />

E. Hanslick, Il bello <strong>musicale</strong>, cit., pag. 46<br />

35<br />

Ibidem.<br />

36<br />

Come v<strong>ed</strong>remo meglio in seguito questo è invece il nucleo teorico centrale su cui poggia la tesi della<br />

metafora estetica di Nick Zangwill.<br />

32


perché nella musica vocale o operistica è impossibile tracciare una distinzione così co-<br />

moda tra gli effetti della musica e quelli delle parole, e “una definizione esatta della<br />

parte che essi hanno nella produzione del tutto diventa impossibile”.<br />

Ciò che la musica strumentale non può fare, non deve essere considerato<br />

possibile per la musica in quanto tale; infatti essa soltanto è musica<br />

pura e assoluta. Se si intende pr<strong>ed</strong>iligere, per valore o effetto, la<br />

musica vocale o quella strumentale – proc<strong>ed</strong>imento in cui domina per<br />

lo più una dilettantesca ristrettezze di idee – si dovrà sempre ammettere<br />

che il concetto di “musica” non si adatta del tutto a un brano <strong>musicale</strong><br />

composto sulle parole di un testo. In una composizione <strong>musicale</strong><br />

l’efficacia dei suoni non è mai puntualmente separabile da quella<br />

delle parole, dell’azione e dello scenario, da poter valutare esattamente<br />

la portata delle singole arti. Dobbiamo rifiutare anche pezzi con determinati<br />

titoli o programmi quando si tratta del “contenuto” della<br />

musica. L’unione con la poesia allarga il potere della musica, ma non<br />

i suoi limiti» 37 .<br />

A partire da queste premesse Hanslick realizza l’obiettivo finale, quello esposto<br />

nella tesi positiva, nella quale si afferma che l’autentico valore estetico della musica è<br />

un “bello specificamente <strong>musicale</strong>”, vale a dire:<br />

un bello che senza dipendere e senza abbisognare di alcun contenuto<br />

esteriore, consiste unicamente nei suoni e nella loro artistica connessione.<br />

Le ingegnose combinazioni di suoni belli, il loro concordare e<br />

opporsi, il loro sfuggirsi e raggiungersi, il loro crescere e morire, questo<br />

è ciò che in libere forme si presenta all’intuizione del nostro spirito<br />

e che piace come bello 38 .<br />

Ecco dunque i perni della riflessione hanslickiana che dovremo portarci dietro per<br />

comprendere le principali articolazione del dibattito analitico:<br />

- Il sentimento è sempre ancorato a esperienze determinate, non esiste una gioia in astratto,<br />

esiste solo una gioia che intenziona una particolare situazione d’esperienza;<br />

- la musica, in quanto è essenzialmente musica pura, strumentale, o assoluta se vogliamo<br />

utilizzare un’espressione di Dahlhaus, non può vincolarsi a contenuti rappresentativi<br />

determinati;<br />

- da ciò discende che la musica non può esprimere o esibire sentimenti.<br />

37 Ivi, pag. 52.<br />

38 Ivi, pag. 63.<br />

33


2. 3 SUSANNE K. LANGER<br />

Sappiamo già quanta e quale importanza abbia avuto la concezione langeriana<br />

della musica. Facevamo notare infatti come sia stato proprio a partire dalla sua atten-<br />

zione alla tematica <strong>musicale</strong>, che si è venuta a determinare nel dibattito analitico una<br />

nuova tensione teorica intorno al tema del rapporto musica-emozioni. Langer è certamente<br />

artefice di questa apertura e di questo cambiamento di scena, grazie ai quali i riflettori<br />

si accendono nuovamente sulla musica. Tutti gli studiosi angloamericani, qualcuno<br />

direttamente qualcun altro implicitamente, sono concordi nel riconoscerle questo<br />

merito, anche quando, come dicevamo in apertura, le loro convinzioni non hanno saputo<br />

trovare convergenza nella teoria della musica di Langer quale simbolo presentazionale<br />

o inconsumato. Teoria questa che senz’altro fagocita al suo interno, per riflesso,<br />

l’intera teoria langeriana dell’arte. La significatività dell’arte, spiega infatti Langer, si<br />

può esemplificare al meglio nella significatività distintiva della musica, sebbene questo<br />

non equivalga a dire che la musica sia l’arte più alta, più espressiva o più universale, o<br />

a voler comunque aprirsi a frettolose generalizzazioni. In Feeling and Form così scrive<br />

a tale proposito 39 :<br />

Nel libro cui il presente volume fa seguito c’è un capitolo intitolato<br />

“On Significance in Music” [Sulla significanza nella musica]. La teoria<br />

della significanza ivi elaborata è una teoria particolare che non aspira<br />

ad altra applicazione oltre quella che ne è data nel suo ambito<br />

originario, cioè appunto la musica. Tuttavia, più si riflette sulla significanza<br />

dell’arte in generale, e più la musica sembra fornire indizi<br />

[…] Il giusto modo di costruire una teoria generale è, per generalizzazione,<br />

partire da una teoria particolare; e io ritengo che l’analisi<br />

della significanza data in Philosophy in a New Key sia passibile di<br />

una siffatta generalizzazione, e capace di fornire una teoria della significanza<br />

valida per l’intero Parnaso 40 .<br />

Al centro di questa teoria troviamo la nozione chiave di simbolo, sulla quale si<br />

struttura l’intero <strong>ed</strong>ificio della filosofia dell’arte di Langer. È questo infatti il piano su<br />

cui poggia la giustificazione teorica del riconoscimento di un simbolismo diverso da<br />

quello proprio della lingua, il cosiddetto simbolismo presentazionale: il simbolismo<br />

della fantasia, del mito, del rito, dei sogni, dell’arte e di tutte quelle sfere dell’umana<br />

39 A tale proposito, vogliamo evidenziare, che alcuni studiosi hanno manifestato un certo scetticismo rispetto<br />

alla possibilità intravista da Langer, di estendere la riflessione sulle altre arti, traendo così una teoria<br />

generale dalle osservazioni su un’arte particolare.<br />

40 S. K. Langer, Feeling and Form: A theory of Art, New York, Scribner’s Sons, 1953; Sentimento e<br />

forma, trad. it. a cura di Lia Fomigari, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 40-41.<br />

34


esperienza che non possono essere adeguatamente simboleggiate dalle regole sintatti-<br />

che e grammaticali proprie del simbolismo discorsivo. Il progetto langeriano è un pro-<br />

getto ampio e complesso 41 , nel quale confluiscono e convivono istanze filosofiche di<br />

diversa provenienza, tra queste: vi è innanzitutto il riferimento, se pur polemico, al ne-<br />

oempirismo, ma anche l’avvicinamento, già dalla metà degli anni Trenta, al trascenden-<br />

talismo neokantiano di Ernst Cassirer, alla psicologia della Gestalt <strong>ed</strong> all’impostazione<br />

pragmatista di William James, la cui rilevante influenza si manifesta soprattutto a pro-<br />

posito della nozione di “feeling”. La nozione di simbolo è quella nella quale si riflette<br />

maggiormente la coesistenza di questi diversi indirizzi teorici, ma anche la volontà di<br />

Langer di operarne una revisione. Tale revisione si esplica nell’ambito di quella ricerca<br />

intrapresa da Langer in Philosophy in a New Key 42 (1942) e proseguita in Feeling and<br />

Form (1953). Nello specifico, nella prima opera Langer riesce a reperire la nuova chia-<br />

ve della teoria simbolica di cui si avvarrà in un secondo momento per affrontare l’altra<br />

importante questione del rapporto dell’arte con il sentimento. V<strong>ed</strong>iamo ora quindi in<br />

che modo si struttura questo percorso di ricerca di Langer e quali sono gli esiti conse-<br />

guiti, soprattutto per quanto concerne da vicino la teoria della musica.<br />

Il primo passo in questa direzione è quello che si realizza sul fronte del confron-<br />

to e della polemica con i filosofi neopositivisti, i quali, secondo Langer, hanno limitato<br />

l’estensione del campo semantico a quello meramente linguistico, sostenendo che (1) il<br />

linguaggio è il solo mezzo di articolare il pensiero e che (2) ogni cosa che non sia pensiero<br />

dicibile è sentimento 43 .<br />

In realtà, dietro questa considerazione dei neopositivisti (il riferimento è, in particolare,<br />

alla teoria di Russell e Carnap, ma anche al Wittgenstein del Tractatus Logico-<br />

Philosophicus) si cela, o per meglio dire, Langer v<strong>ed</strong>e celarsi un’angusta considerazio-<br />

41 Come bene evidenzia Lucia Demartis, nel saggio L’estetica simbolica di Susanne Katherina Langer, si<br />

tratta di un progetto articolato nel quale si può cogliere come «l’attenzione per il simbolismo e la strutturazione<br />

formale dell’esperienza, iniziata secondo una prospettiva logico-simbolica (A Logical Analysis of<br />

Meaning, 1926; The Practise of Philosophy, 1930; An introduction to Symbolic Logic, 1937) e proseguita<br />

nell’esame di quegli aspetti dell’esperienza che da questa restano esclusi (Philosophy in a New Key: A<br />

study in the Symbolism of Reason, Rite, and Art, 1942; Feeling and Form, 1953; Problems of Art, 1957;<br />

Reflections on Art, 1958; Philosophical Sketches, 1962) giunge in Mind a interrogare la radice della simbolizzazione<br />

secondo un percorso antropologico e filogenetico che coglie nella funzione simbolizzatrice<br />

ciò che caratterizza la relazione propriamente umana con la realtà. In Mind l’analisi del simbolismo viene<br />

inverata e portata a compimento attraverso il superamento della distinzione tra simbolicità discorsiva<br />

e presentazionale, al fine di indagare l’ambito comune ad ogni produzione umana: l’articolazione formale<br />

dell’esperienza vissuta». L. Demartis, L’estetica simbolica di Susanne Katherina Langer, Aesthetica<br />

Preprint, Palermo, 2004, pag. 8.<br />

42 S. K. Langer, Philosophy in a New Key: A study in the Symbolism of Reason, Rite, and Art, Harward<br />

University Press, Cambridge, Mass. 1942; Filosofia in una nuova chiave, trad. it. di G. Pettenati, Armando,<br />

Roma, 1972.<br />

43 Ivi, pp. 122-123.<br />

35


ne della razionalità umana, che risulta così essere relegata nei ristretti meandri della<br />

simbolicità discorsiva. Intenzione di Langer è quella quindi di riscattarla, sottraendola<br />

ai confini attribuitigli e restituendola agli ambiti ineffabili che sfuggono a quel tipo di<br />

forma simbolica (quella della lingua, per l’appunto), ma non si negano alla forma sim-<br />

bolica presentazionale.<br />

Esistono differenti sistemi simbolici quindi, ai quali Langer riconosce la possi-<br />

bilità di articolare la ricchezza e la complessità dell’umano sentire 44 . Si tratta di<br />

un’ipotesi, questa, che Langer ha formulato combinando i risultati conseguiti da Cassi-<br />

rer e dagli psicologi della Gestalt. Le conclusioni cui è pervenuta a seguito di questa<br />

sintesi possono essere così semplificati:<br />

a) La significazione avviene m<strong>ed</strong>iante simboli;<br />

b) L’attribuzione di significati prec<strong>ed</strong>e la sfera della concettualizzazione<br />

logico-discorsiva.<br />

Sono questi gli assunti, peraltro, m<strong>ed</strong>iante i quali si è presentata a Langer l’opportunità<br />

di provv<strong>ed</strong>ere:<br />

c) All’estensione della nozione di “simbolo”;<br />

d) Alla revisione della nozione di “astrazione”.<br />

L’attività di trasformazione simbolica è per Langer un’attività naturale e carat-<br />

teristica dell’uomo, che prec<strong>ed</strong>e l’ambito della simbolizzazione discorsiva, in quanto il<br />

primo processo di organizzazione simbolica della realtà è quello che si realizza sul piano<br />

della nostra esperienza percettiva. In altri termini, ancor prima del pensiero esiste la<br />

nostra costituzione fisiologica pura e semplice, e la nostra esperienza più puramente<br />

sensoriale, dice Langer, è già un processo di formulazione, là dove i nostri occhi, le nostre<br />

orecchie, in una parola i nostri organi di senso, sono il primo accesso al mondo:<br />

Già la nostra esperienza più puramente sensoriale è un processo di<br />

formulazione: il mondo che in realtà colpisce i nostri sensi non è un<br />

mondo di “cose”, circa le quali siamo invitati a scoprire fatti non appena<br />

si sia codificato il necessario linguaggio logico che permetta di<br />

farlo; il mondo della pura sensazione è così complesso, così fluido e<br />

pieno, che la pura sensibilità agli stimoli andrebbe incontro solo a ciò<br />

che W. James ha chiamato con una frase caratteristica, “una florida e<br />

rumorosa confusione”. Da essa i nostri organi di senso debbono sele-<br />

44 Anche in questo caso, si rivela preziosa l’indicazione della Demartis, la quale ha evidenziato: «La distinzione<br />

tra i due sistemi simbolici esprime la contrapposizione tra due modi di intendere la razionalità:<br />

una razionalità che opera attraverso simboli dalla denotazione più univoca possibile, risultanti da convezioni<br />

codificate e collegati m<strong>ed</strong>iante successione e calcolo; e una razionalità concepita come insight, intuizione<br />

di una relazione tra più elementi, che si esprime nella forma pregnante di una significanza polisemica.<br />

L. Demartis, L’estetica simbolica …, cit. pag. 7.<br />

36


zionare certe forme pr<strong>ed</strong>ominanti, se debbono riuscire a registrare cose<br />

e non puri “sentiti” confusi […] Un oggetto non è un dato, ma una<br />

forma costruita dall’organo sensitivo e intelligente, e che è, al contempo,<br />

una cosa individuale esperita e un simbolo del suo concetto 45 .<br />

La razionalità umana, in quanto capacità di organizzazione formale della realtà,<br />

individuazione di schemi ordinativi, viene da Langer fatta confluire in ambiti che sino<br />

ad allora erano stati considerati prerazionali: il processo di astrazione simbolica, di fat-<br />

to, si realizza già a livello di insight sensoriale. È chiaro quindi che da questo punto di<br />

vista l’articolazione formale della realtà in cui viviamo è, a parere di Langer, prerogati-<br />

va della nostra percezione ancor prima che della razionalità discorsiva. Da questa ac-<br />

quisizione si apre la strada per un simbolismo diverso, presentazionale, adatto ad arti-<br />

colare e a costeggiare l’ineffabile: si tratta dell’articolazione dell’umano sentire, di<br />

quella sfera, teniamo a sottolineare, che la filosofia neopositivistica aveva confinato<br />

nell’ambito del sentimento incomposto. La mente secondo questa prospettiva langeriana<br />

ha un raggio d’azione più ampio perché ogni simbolo ha il suo significato, non esistono<br />

simboli che restano esclusi dall’ambito della significazione.<br />

La teoria langeriana dell’arte s’impianta su questo terreno, fondandosi sulla<br />

considerazione che la significatività dell’arte si dispiega nell’articolazione simbolica<br />

del sentimento. È il caso di aggiungere, prima di passare alla discussione di Langer<br />

sull’espressività, o come lei ha preferito definirla, sulla significatività della musica, che<br />

il sentimento nella sua concezione è di più di quello che comunemente associamo a<br />

questo termine. Tale nozione, oltre che essere scevra da qualsiasi tipo di connotazione<br />

romantica, rinvia infatti alla definizione di “feeling” che William James ha introdotto e<br />

sviluppato nei Principi di Psicologia 46 , dove il termine “feeling” viene utilizzato sia in<br />

riferimento alla coscienza (feeling of relations, feeling of tendency, the feeling of rational<br />

sequence), sia al sé (self feeling), allo spazio (the feeling of crude extensity), alle<br />

emozioni. In altri termini, “feeling” nel senso più ampio di qualsiasi cosa possa essere<br />

sentita 47 . Per Langer l’opera d’arte ha infatti una “portata” che è «la struttura della vita<br />

stessa com’è sentita e direttamente conosciuta» 48 .<br />

45 S. K. Langer, Filosofia in una nuova chiave, cit., pag. 126.<br />

46 W. James, The Principles of Psychology, London, Macmillan & Co, 1901; 1ª <strong>ed</strong>iz. H. Holt, v. I, 1980.<br />

47 Cfr. S. K. Langer, Problems of Art, New York, Charle’s Scribner’s Sons, 1957; tr. it. di M. Attardo<br />

Magrini, Problemi dell’arte, Milano, Il Saggiatore, 1962, pag. 28.<br />

48 S. K. Langer, Sentimento e forma, cit., pag. 48.<br />

37


Alla luce di quanto sinora esposto, veniamo ora ad occuparci della concezione<br />

langeriana della musica come simbolo incompiuto e degli esiti fondamentali di questa<br />

sua concezione.<br />

La musica sostiene Langer si avvale della possibilità di esser “vera” rispetto alla<br />

vita del sentimento, di rivelare là dove le parole oscurano, di veicolare simboli capaci<br />

di sempre nuove significanze, di essere quindi: simbolo inconsumato. Ma se la musica<br />

ha una qualche significatività, tiene a precisare Langer, questa è semantica non sintomatica:<br />

«si tratta di un “significato” non tale da funger da stimolo per evocare emozioni,<br />

né da segnale che le annunzi; se la musica ha un contenuto emotivo, lo “ha” nello<br />

stesso senso che il linguaggio “ha” il suo contenuto concettuale; cioè simbolicamente.<br />

La musica non è causa o terapia di sentimenti, ma la loro espressione logica» 49 .<br />

In tal senso, appare dunque evidente il fatto che Langer rifiuti una considerazione<br />

della musica basata sul doppio punto di vista: quello del compositore e<br />

dell’ascoltatore. La musica cioè, così come le altre arti, non è spiegabile né nella prospettiva<br />

dell’autoespressione né in quella dell’impressione: una teoria dell’arte che fornisca<br />

una tale interpretazione della musica non è infatti una teoria apprezzabile. Nulla<br />

ci dice del problema che per eccellenza alla musica pertiene, un problema di tipo logico.<br />

La soluzione a questo problema Langer l’ha individuata impostando la relazione<br />

della musica con le emozioni come una relazione di tipo isomorfico. La musica ha sì<br />

una relazione con la nostra vita emotiva – Langer non nega certo questa possibilità –<br />

ma si tratta di una relazione di tipo analogico che s’instaura, appunto, per via della similarità<br />

che esiste tra le proprietà strutturali formali proprie della musica e quelle del<br />

“feeling”. A conferma di quanto detto, Langer si è così espressa:<br />

le strutture tonali che noi chiamiamo “musica” hanno una stretta somiglianza<br />

logica con le forme del sentimento umano: forme di sviluppo<br />

e decrescenza, di flusso e di accumulo, di conflitto e di soluzione,<br />

di rapidità, arresto, somma eccitazione, calma, o attivazione<br />

sottile e cadute nella sfera del sogno; non gioia e dolore, forse, ma il<br />

mordente dell’una o dell’altra o di entrambi; la grandezza e la brevità<br />

e l’eterno trascorrere di tutto ciò che è vitalmente sentito. Questo lo<br />

schema, o la forma logica, del sentire; e lo schema della musica è<br />

quella forma stessa, elaborata nella purezza e nel metro del suono e<br />

del silenzio. La musica è un corrispondente tonale della vita emotiva<br />

50 . Una tale analogia formale, o congruenza di strutture logiche, è<br />

la condizione prima per una relazione fra un simbolo e tutto ciò che<br />

49<br />

S. K. Langer, Filosofia in una nuova chiave, cit., pag. 281.<br />

50<br />

Corsivo mio.<br />

38


questo deve significare. Il simbolo e l’oggetto simbolizzato devono<br />

avere una qualche forma logica in comune» 51 .<br />

La musica per Langer può riflettere quindi solo la morfologia dei sentimenti,<br />

avvalendosi di simboli impliciti anziché di simboli trasparenti quali sono quelli di cui<br />

invece si avvale il linguaggio: l’articolazione è la sua vita, non l’asserzione;<br />

l’espressività lo è, non l’espressione 52 .<br />

Isoliamo quindi anche in questo caso le nozioni-chiave che ci accompagneranno nel<br />

corso della nostra ricerca:<br />

- La musica intrattiene una relazione intima con la vita emotiva.<br />

- La musica non esprime sintomaticamente le emozioni, ma esprime simbolicamente le<br />

forme del sentire.<br />

- Esiste dunque un rapporto isomorfico tra musica <strong>ed</strong> emozioni.<br />

Concezione, in particolare, quest’ultima, come emergerà con chiarezza in un<br />

secondo tempo, che, a nostro avviso, opera sotterraneamente anche laddove viene dichiarata<br />

inutilizzabile. Si tratta di quella tesi che abbiamo qui voluto caratterizzare come<br />

una risposta “dal basso”, secondo la quale per l’appunto l’espressività della musica<br />

risi<strong>ed</strong>e in una somiglianza tra la musica e il comportamento espressivo umano. Una<br />

somiglianza che si dà nell’imm<strong>ed</strong>iatezza della nostra esperienza percettiva.<br />

3. Externality claim vs Arousal theory<br />

Buona parte della comunità degli estetologi analitici, partendo dal comune riconoscimento<br />

che esista una speciale connessione tra la musica e le emozioni, si trova oramai<br />

da tempo impegnata a spiegare in che termini tale relazione possa sussistere,<br />

quali ne siano le motivazioni profonde. Da una parte troviamo la musica dall’altra invece<br />

le emozioni. Si tratta, come bene evidenziato da Martha Nussbaum 53 nel libro<br />

L’intelligenza delle emozioni (2001), di due mondi apparentemente diversi:<br />

quello delle emozioni dell’ascoltatore, e quello delle qualità espressive<br />

della musica. Da un lato, ci chi<strong>ed</strong>iamo come dobbiamo intendere<br />

51 S. K. Langer, Sentimento e forma, cit., pag. 43.<br />

52 Ricordiamo che Langer rifiuta la possibilità di parlare della musica come linguaggio dei sentimenti.<br />

53 M. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, Il Mulino, Bologna 2004.<br />

39


le emozioni che proviamo quando ascoltiamo musica: sono emozioni<br />

«reali» o no? Che tipo di emozioni sono? A chi appartengono? Qual<br />

è il loro oggetto intenzionale e il loro contenuto? Dall’altra, ci interroghiamo<br />

sulle nostre attribuzioni di qualità emotive alla musica<br />

stessa: cosa stiamo effettivamente facendo quando diciamo che<br />

l’ultimo movimento del Concerto per violino di Beethoven è gioioso?<br />

Che nell’Ouverture delle Ebridi di Mendelssohn c’è un’espressione<br />

di speranza? Che lo scherzo della Seconda sinfonia di Mahler esprime<br />

un sardonico disgusto nei confronti della vita quotidiana? Formuliamo<br />

questi giudizi certi che tali attribuzioni ci dicano qualcosa a<br />

proposito della musica stessa. E facciamo anche delle distinzioni più<br />

sottili, attribuendo diverse sottospecie di una singola <strong>emozione</strong>. Per<br />

esempio, sento di essere arrivata a cogliere qualcosa a proposito della<br />

musica, e non solo delle mie reazioni private, allorché, paragonando i<br />

movimenti conclusivi dei concerti per violino di Dvořák e Beethoven,<br />

affermo che entrambi esprimono una forma di intensa <strong>ed</strong> esuberante<br />

gioia, ma che quella del primo è più riflessiva, più solida e in un certo<br />

senso più attiva, e quella del secondo è una vertiginosa euforia, fuggevole<br />

e capricciosa. E ancora, se paragoniamo il Liebestod del finale<br />

del Tristano di Wagner con il duetto complessivo «Pur ti miro pur ti<br />

godo» di L’incoronazione di Poppea di Monteverdi […], possiamo<br />

dire che entrambi esprimono la passione sessuale, e il trionfo della<br />

passione sulle norme morali – ma in modi molto diversi. Il Liebestod<br />

esprime un tragico struggersi infinito, irrisolto, in cui la felicità fisica<br />

è costantemente lontana; il duetto di Monteverdi esprime un completo<br />

immergersi nella gioia dei sensi, <strong>ed</strong> è in effetti una straordinaria rappresentazione<br />

<strong>musicale</strong> del rapporto sessuale. Il problema è, dunque:<br />

che cosa significa tutto questo? Stiamo realmente dicendo qualcosa<br />

di valido sulla musica, quando diciamo cose del genere? 54 ».<br />

Senza prendere in esame la teoria delle emozioni della Nussbaum, che non può<br />

a rigore essere inquadrata all’interno della cornice in senso stretto analitica 55 , diamo<br />

tuttavia uno sguardo rapido alle domande contenute nel passo che abbiamo appena citato.<br />

Affiora infatti in esso tutta la portata problematica di una questione sempre ricorrente<br />

nella storia del pensiero <strong>musicale</strong>. La sfida è quella di capire come le emozioni possano<br />

essere in qualche modo vincolate alla struttura <strong>musicale</strong>, poiché ogni qualvolta si<br />

tenta di spiegare il nesso della musica con le emozioni ci si trova poi nella difficoltà di<br />

stabilire quale <strong>emozione</strong> associare alla musica. In altri termini, quando diciamo che un<br />

passaggio <strong>musicale</strong> è doloroso, gioioso, malinconico, ecc., stiamo parlando della capa-<br />

54 Ivi, pp. 306-307. Corsivo mio.<br />

55 La teoria di Martha Nussbaum può essere considerata come una teoria cognitiva dell’<strong>emozione</strong>, che<br />

rivolge particolare attenzione alla condizione dell’ascoltatore, e della soggettività nell’atto creativo piuttosto<br />

che all’espressività come proprietà estetica della musica stessa. Il sentimento, in questo quadro, resta<br />

strettamente vincolato ad esperienze particolari di vita, che possiamo senz’altro considerare come il<br />

contenuto intenzionale che appartiene all’<strong>emozione</strong> stessa. Come si v<strong>ed</strong>e, si tratta di una tesi assimilabile<br />

perciò a quella hanslickiana, secondo la quale un sentimento determinato non esiste come tale senza un<br />

reale contenuto storico.<br />

40


cità della musica di suscitare un’<strong>emozione</strong> in noi oppure stiamo attribuendo una tale<br />

<strong>emozione</strong> alla musica stessa, come una proprietà che percepiamo in essa? Se scegliamo<br />

la seconda ipotesi, dobbiamo ancora domandarci come un’<strong>emozione</strong> possa appartenere<br />

alla musica?<br />

Anticipiamo sin da ora che questo è il problema certamente più dibattuto negli<br />

ultimi cinquant’anni dall’estetica analitica; occorre cioè stabilire in quali termini è pos-<br />

sibile giustificare una descrizione della musica in termini espressivi, posto che per i fi-<br />

losofi analitici una simile descrizione risulta essere perfettamente sensata.<br />

In realtà le cose non sono poi così semplici come appaiono a prima vista, poiché<br />

se è vero che quasi tutti gli studiosi si trovano in sintonia rispetto a questo riconoscimento,<br />

non sono poi altrettanto d’accordo sul tipo di soluzione proposta. Esistono delle<br />

divergenze marcate soprattutto tra quei filosofi della musica che sostengono la tesi secondo<br />

cui l’espressività della musica possa e debba essere ricercata nella musica, come<br />

ad essa appartenente, e coloro invece che cr<strong>ed</strong>ono di potere rendere conto di una spiegazione<br />

della musica in termini espressivi guardando piuttosto alle emozioni generate<br />

dall’ascolto <strong>musicale</strong>. La prima tesi è portata avanti dai teorici cosiddetti cognitivisti o<br />

sostenitori dell’externality claim, requisito dell’esternalità – definizione coniata da Jerrold<br />

Levinson nell’opera The Pleasures of Aesthetics 56 per identificare questa concezione<br />

particolare dell’espressività <strong>musicale</strong> –, mentre la seconda è sostenuta dai teorici<br />

della nota e controversa Arousal Theory, teoria disposizionale.<br />

In generale l’impegno del primo gruppo di filosofi è quello di stabilire come<br />

un’<strong>emozione</strong> possa essere nella musica. E, più precisamente, in conflitto con l’istanza<br />

formalistica hanslickiana, di difendere l’idea che l’espressività della musica sia inequivocabilmente<br />

vincolata alla struttura <strong>musicale</strong>, come una sua proprietà o un aspetto di<br />

essa, piuttosto che vincolata all’esperienza emotiva, percettiva, di chi ascolta, compone,<br />

esegue. Riecheggia, notavamo, ancora una volta, in questa ipotesi interpretativa il<br />

riferimento alla teoria paradigmatica per eccellenza nel contesto analitico, la teoria<br />

hanslickiana quale teoria a cui guardare ma da cui dover poi velocemente rifuggire.<br />

Con Hanslick, di fatto, i teorici analitici sostenitori del requisito dell’esternalità si trovano<br />

in perfetta sintonia quando egli spiega che non è nelle nostre attribuzioni di qualità<br />

emotive alla musica che possiamo rinvenire il reale valore estetico di essa (teoria<br />

metaforica delle emozioni in musica). Non hanno quindi nulla da obiettare quando egli<br />

s’impegna risolutamente a sgomberare il mondo della musica dalle affezioni particolari<br />

56<br />

J. Levinson, “Musical Expressiveness,” in The Pleasures of Aesthetics, Cornell University Press,<br />

Ithaca and London, 1996, pag. 91<br />

41


suscitate dall’ascolto, da quel dominio del patologico che imp<strong>ed</strong>iva la possibilità di<br />

guardare alla musica come mondo a se stante, libero dalle proiezioni della nostra vita<br />

emotiva. Torna certamente utile ricordare quanto Hanslick ha affermato a tale proposi-<br />

to:<br />

L’ascoltatore gode attraverso una pura contemplazione [Anschaung]<br />

il pezzo <strong>musicale</strong> eseguito e ogni interesse per il contenuto deve essergli<br />

lontano. Tuttavia un interesse per il contenuto è la tendenza a<br />

lasciar eccitare in se stessi le affezioni. Se il bello interessa esclusivamente<br />

l’intelletto, siamo nel campo della logica, non dell’estetica;<br />

se esercita un effetto dominante sul sentimento, si ha un fatto ancora<br />

più preoccupante, vale a dire un fatto patologico. Tutto ciò, sviluppato<br />

già da tempo dall’estetica generale, vale altrettanto riguardo al bello<br />

di ogni arte. Se dunque si considera la musica come arte bisogna<br />

riconoscere come sua istanza estetica la fantasia e non il sentimento.<br />

Questa breve premessa ci sembra opportuna, perché in maniera indefessa<br />

si ritiene che con la musica si ottenga un’influenza calmante<br />

sulle passioni umane, finendo spesso col non sapere più se si parli<br />

della musica come di una norma di polizia, di p<strong>ed</strong>agogia o di m<strong>ed</strong>icina<br />

57 .<br />

In realtà è ben noto il fatto che questo riconoscimento spinse Hanslick a negare<br />

qualsiasi possibilità di dare descrizioni della musica in termini espressivi, poiché<br />

l’unico significato estetico che egli riconosce alla musica è quello della sua bellezza<br />

formale, delle forme sonore in movimento, nient’altro. Le cose non stanno così invece<br />

per i sostenitori del requisito dell’esternalità i quali manifestano uno scetticismo pressoché<br />

radicale rispetto a questa istanza teorica. Urge infatti, dal loro punto di vista, il<br />

bisogno di ripensare il problema dell’espressività <strong>musicale</strong> all’interno di una prospettiva<br />

che accetta, è vero, i presupposti di un’impostazione formalistica, ma non ne condivide<br />

gli esiti. È possibile cioè salvare l’espressività <strong>musicale</strong> a partire da premesse formalistiche.<br />

Ma a questo punto, preannunciavamo, sorge il problema di stabilire come si<br />

possa vincolare un’<strong>emozione</strong> alla struttura <strong>musicale</strong>.<br />

Una prima conferma a quanto sinora esposto è quella che ci viene da Kivy, il<br />

quale così ci informa della mutata condizione:<br />

Fra i filosofi della musica è andato crescendo il consenso sul fatto<br />

che, contrariamente alla affermazioni scettiche di Hanslick, sia perfettamente<br />

sensato descrivere la musica in termini espressivi e che,<br />

ancora contrariamente alla affermazioni scettiche di Hanslick, fra gli<br />

57 E. Hanslick, Il bello <strong>musicale</strong>, cit., pag. 40.<br />

42


ascoltatori qualificati l’accordo relativo a ciò che la musica esprime<br />

in ogni singolo caso, qualora essa sia espressiva di qualcosa (cosa che<br />

non è necessariamente sempre vera), sia più o meno generale. Più<br />

precisamente è cresciuto il consenso relativamente al fatto che la musica<br />

possa essere, e spesso è, espressiva delle emozioni comuni, come<br />

il dolore, la gioia, la paura, la speranza e poche altre emozioni fondamentali<br />

come queste. C’è un consenso generale anche sul fatto che,<br />

quando diciamo che un passaggio <strong>musicale</strong> è doloroso, pauroso, o<br />

simili, non stiamo descrivendo una disposizione della musica di suscitare<br />

un’<strong>emozione</strong> in noi, ma stiamo attribuendo una tale <strong>emozione</strong><br />

alla musica stessa, come una proprietà che percepiamo in essa 58 .<br />

Fra quei filosofi della musica, siamo certi, Kivy riconoscerebbe anche se stesso.<br />

Anch’egli in disaccordo con l’idea di Hanslick che nega il valore espressivo della mu-<br />

sica si muove oramai da tempo nella direzione opposta. Kivy è infatti dell’opinione che<br />

dietro quella negazione si celi una vera e propria contraddizione, dal momento che è<br />

Hanslick stesso il primo a dare una descrizione della musica in termini emotivi quando<br />

si trova impegnato nella sua attività di critico. Questo dimostrerebbe il fatto che c’è<br />

qualcosa nella musica che solo in quei termini può essere descritto e per Kivy questo<br />

qualcosa sono le sue proprietà emotive. La musica, egli sostiene, pur essendo un mero<br />

gioco formale ha a che fare con le emozioni (formalismo enhanc<strong>ed</strong>, “arricchito”). E,<br />

più precisamente, le emozioni appartengono alla musica come sua qualità percettiva.<br />

Da questo punto di vista, capiamo bene, che una musica è triste, allegra, malinconica,<br />

ecc., non per la sua capacità di destare, stimolare in noi questi sentimenti o, in quanto<br />

proprietà rappresentazionale, cioè in quanto rappresentazione di un’<strong>emozione</strong> particolare,<br />

bensì perché essa stessa possi<strong>ed</strong>e questa <strong>emozione</strong> nelle sue proprietà acustiche. Esiste,<br />

per così dire, un sentimento del suono che può essere un sentimento altro da quello<br />

che proviamo direttamente nell’ascolto. Vale la pena riportare il passo in cui troviamo<br />

chiaramente esplicata questa concezione di Kivy:<br />

A non essere contemplata era la possibilità che la musica sia triste in<br />

virtù del fatto di poss<strong>ed</strong>ere la tristezza come una proprietà acustica,<br />

allo stesso modo in cui una palla da biliardo possi<strong>ed</strong>e la rotondità e<br />

l’essere-rossa come una sua proprietà visiva. Ma, una volta concepita<br />

la possibilità delle proprietà emotive come proprietà acustiche della<br />

musica, diviene allora imm<strong>ed</strong>iatamente evidente che le descrizioni<br />

emotive della musica sono compatibili con il «formalismo», inteso<br />

ampiamente come la dottrina, delineata nel capitolo prec<strong>ed</strong>ente, secondo<br />

cui la musica è una struttura di eventi sonori senza contenuto<br />

semantico o rappresentazionale. Infatti, se le proprietà emotive come<br />

58 P. Kivy, Filosofia della musica. Un’introduzione, cit., pag. 39.<br />

43


la tristezza sono proprietà acustiche della musica, sono semplicemente<br />

proprietà della struttura <strong>musicale</strong>; pertanto dire che un passaggio<br />

<strong>musicale</strong> è triste o allegro non significa descriverlo in termini semantici<br />

o rappresentazionali più che descriverlo come turbolento o tranquillo.<br />

Un passaggio <strong>musicale</strong> tranquillo non rappresenta la tranquillità<br />

né significa «tranquillo». Esso è semplicemente tranquillo. E lo<br />

stesso vale per un passaggio malinconico. Non significa la «malinconia»<br />

né rappresenta la malinconia. È semplicemente malinconico, è<br />

questo è tutto 59 .<br />

È in questi termini quindi che Kivy spiega l’espressività <strong>musicale</strong>, vale a dire:<br />

pensando all’<strong>emozione</strong> <strong>musicale</strong> come percepita in quanto presente nella musica. Que-<br />

sto modo di comprendere le emozioni musicali, come bene evidenziato da Kivy, fu ben<br />

compreso dallo scomparso filosofo americano Oets. K. Bouwsma 60 , il quale sosteneva<br />

che la relazione tra l’<strong>emozione</strong> e la musica assomiglia più alla relazione tra il rosso e la<br />

mela, che a quella tra il rutto e il sidro. Bouwsma intendeva qui vincolare l’espressività<br />

<strong>musicale</strong> alle qualità strutturali della musica per fuggire all’idea che essa potesse assu-<br />

mere un mero valore sintomatico. Si tratta di una spiegazione dell’espressività <strong>musicale</strong><br />

rispetto alla quale però Kivy si trova d’accordo sino a metà strada, e cioè fino a quando<br />

l’<strong>emozione</strong> viene collocata nella musica come sua qualità piuttosto che in noi in quanto<br />

da essa causata, ma che non è più valida nei modi in cui questa possibilità viene descritta.<br />

C’è poi chi, come Roger Scruton 61 , individua la possibilità di dare una descrizione<br />

dell’espressività <strong>musicale</strong> come qualità terziaria. L’<strong>emozione</strong>, infatti, sostiene<br />

Scruton, non può appartenere alla musica né come sua qualità primaria, cioè una proprietà<br />

fisica di un oggetto, né come sua qualità secondaria, poiché in tal caso qualunque<br />

creatura dotata di capacità percettiva potrebbe riconoscerla; capacità che sappiamo appartiene<br />

tanto agli animali umani quanto a quelli non-umani. Questi ultimi però possono<br />

avere la percezione dei colori, ma non quella di un’<strong>emozione</strong>, qualunque essa sia,<br />

dal momento che l’<strong>emozione</strong> non implica solo il coinvolgimento della nostra capacità<br />

sensoriale, ma anche il concorso di intelletto e immaginazione. In questo Scruton rivela<br />

la sua ascendenza kantiana poiché il sostegno scelto a convalida di questa sua teoria è<br />

quello che ricava direttamente dalla teoria kantiana del libero gioco delle facoltà. In<br />

59<br />

P. Kivy, Filosofia della musica. Un’introduzione, cit., pp. 108-109.<br />

60<br />

O. K. Bouwsma, “The Expression Theory of Art”, in Id., Philosophical Essays, Lincoln, University of<br />

Nebraska Press, 1969, p. 49.<br />

61<br />

R. Scruton, The Aesthetics of Music, Oxford University Press, New York, 1997.<br />

44


un’ottica cognitivista, si annoverano, come v<strong>ed</strong>remo, anche le tesi di Levinson, Davies,<br />

Budd.<br />

In netta rottura, avevamo anticipato, con la spiegazione che i teorici del requisito<br />

dell’esternalità danno dell’espressività <strong>musicale</strong> troviamo i teorici disposizionalisti,<br />

o sostenitori dell’Arousal Theory. È loro convinzione infatti che la musica possa esprimere<br />

le distinte emozioni per la sua pr<strong>ed</strong>isposizione a causarle nell’ascoltatore. Si<br />

tratta quindi di una tesi diametralmente opposta a quella di chi, abbiamo potuto constatare,<br />

vuole decisamente prendere le distanze da una descrizione del rapporto tra musica-emozioni<br />

tutta sbilanciata dalla parte della reazione emotiva dell’ascoltatore, ritenendo<br />

che questo modo di v<strong>ed</strong>ere finisca per caratterizzare l’esperienza <strong>musicale</strong> alla<br />

stregua di esperienze ordinarie della vita quotidiana. Questo invece non costituisce un<br />

problema per chi come Derek Matravers 62 riabilita versioni più o meno forti<br />

dell’Arousal Theory, poiché per poter dare un’adeguata descrizione della musica in<br />

termini espressivi – egli sostiene – è necessario ricondurre l’esperienza emotiva <strong>musicale</strong><br />

all’esperienza comune dell’<strong>emozione</strong>. La tristezza, la malinconia, o qualsiasi altra<br />

<strong>emozione</strong> quindi, non risi<strong>ed</strong>e nella musica, bensì nella sensazione che quella musica ha<br />

eccitato nell’ascoltatore. Dal suo punto di vista in effetti, ciò che la musica eccita in noi<br />

non è un’<strong>emozione</strong> vera e propria, bensì una sensazione. Ragione per cui possiamo descrivere<br />

un brano <strong>musicale</strong> come triste soltanto perché esso suscita in noi quelle sensazioni<br />

che nella vita reale sono parte dell’esperienza della tristezza. Secondo tale teoria<br />

la musica sarebbe quindi espressiva di tristezza in virtù del fatto che essa suscita tristezza<br />

negli ascoltatori, espressiva di gioia perché suscita gioia negli ascoltatori e così<br />

via. In altri termini, essa possi<strong>ed</strong>e le proprietà emotive come disposizioni a suscitare<br />

emozioni negli ascoltatori nello stesso modo in cui l’oppio ha la proprietà disposizionale<br />

di indurre il sonno. Sarebbe qui in gioco un rapporto che metterebbe tra parentesi,<br />

almeno provvisoriamente, qualsiasi riferimento alle m<strong>ed</strong>iazioni formali e stilistiche, alla<br />

dimensione estetica come regno della virtualità e della simulazione.<br />

Costeggiata così la conflittuale dinamica teorico-concettuale che attraversa il<br />

recente dibattito sul tema musica-emozioni in ambito analitico, il passo successivo sarà<br />

quello di iniziare ad occuparci approfonditamente delle teorie sopra esposte.<br />

62 D. Matravers, Art and Emotion, Clarendon Press, Oxford, 1998; Id., The Experience of Emotion in<br />

Music, in “The Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 61, pp. 353-63.<br />

45


CAPITOLO SECONDO<br />

Musica e forma


1. La musica assoluta: superficie o profondità? La proposta di Peter Kivy<br />

Abbiamo visto come uno dei tratti metodologici caratterizzanti la ricerca analitica<br />

sia quello di pr<strong>ed</strong>iligere una scansione dei contenuti filosofici per problemi specifici.<br />

Per questa ragione rispettando il taglio particolare di questa impostazione, la presente<br />

analisi e quella del capitolo successivo si svolgerà seguendo un ordine tematico.<br />

In questo capitolo, nello specifico, ci soffermeremo sulle questioni inerenti al<br />

tema musica-forma. Negli ultimi anni, di fatto, in ambito analitico, tale tematica è stata<br />

ampiamente ripresa e sviluppata partendo da una riformulazione della teoria formalista<br />

di Hanslick che non escluda completamente il riferimento all’espressività dai tentativi<br />

di descrivere la musica. Sappiamo infatti che il testo seminale che inaugura questo tipo<br />

di discussione e nel quale peraltro affonda le radici tutto il dibattito analitico sulla musica<br />

è Il bello <strong>musicale</strong>. E, in effetti, come è stato recentemente evidenziato da<br />

D’Angelo nell’Introduzione all’estetica analitica 63 «accade sempre nella filosofia di<br />

tradizione analitica [che], la persistenza di un problema e il suo sviluppo sono legati alla<br />

discussione di alcuni testi precisi, che ricorrono nelle trattazioni della questione e<br />

vengono a formare una sorta di catena» 64 .<br />

Il problema di fondo intorno al quale viene a costruirsi questa catena è quello<br />

relativo alla seguente domanda: la musica assoluta, la musica strumentale senza testo,<br />

titolo o programma, ha una sua profondità, può essere in qualche modo vincolata a<br />

contenuti rappresentativi determinati, oppure si tratta di un’arte esclusivamente formale,<br />

il cui apprezzamento si deve limitare a degli aspetti, per così dire, di superficie o<br />

morfologici?<br />

Uno dei principali protagonisti di questa discussione è lo studioso cui abbiamo<br />

già più volte fatto riferimento nel corso di questo scritto, Peter Kivy 65 . Al centro della<br />

rinascita che ha caratterizzato la filosofia della musica negli ultimi trent’anni troviamo,<br />

63<br />

P. D’Angelo, Introduzione all’estetica analitica, Laterza, Roma, 2008.<br />

64<br />

Ivi, pag. 5.<br />

65<br />

Peter Kivy è uno degli esponenti più autorevoli dell’estetica analitica, di quell’estetica analitica che ha<br />

tra i suoi più insigni rappresentanti Nelson Goodman, Monroe Beardsley, Richard Wollheim, George<br />

Dickie, Arthur Danto <strong>ed</strong> oggi anche Jerrold Levinson e Noel Carroll. Il suo campo di specializzazione è<br />

l’estetica e la filosofia dell’arte. Uno dei suoi primi lavori in quest’area si è incentrato sull’estetica britannica<br />

del diciottesimo secolo, e, in particolare su Francis Hutcheson. All’inizio degli anni Settanta dirige<br />

la sua attenzione all’estetica analitica angloamericana <strong>ed</strong> in particolare ai problemi inerenti<br />

all’ultimo saggio di Frank Sibley, “Aesthetic Concepts”. Ma è solo alla fine degli anni Settanta che inizia<br />

ad interessarsi al problema filosofico delle emozioni in musica, diventando così uno dei più apprezzati<br />

filosofi della musica in area anglosassone. La filosofia della musica, infatti, a partire da quel momento,<br />

diventa il suo interesse principale, occupandosi nello specifico di questioni quali: il carattere artistico<br />

specifico della musica, il linguaggio <strong>musicale</strong>, l’espressività della musica e il ruolo delle emozioni<br />

nell’esperienza <strong>musicale</strong>, l’ontologia dell’opera <strong>musicale</strong>, la fenomenologia della performance.<br />

47


di fatto, l’autorevole presenza di questo filosofo, protagonista instancabile del dibattito<br />

sul tema musica-emozioni, artefice, peraltro, di una proposta teorica di particolare rilievo.<br />

Si tratta di una teoria formalista alternativa che guadagna, senza contravvenire<br />

ai suoi presupposti, la possibilità di giustificare una relazione della musica con le emozioni.<br />

È in questo senso che Kivy preferisce presentare la sua proposta nella chiave<br />

di un formalismo arricchito, enhanc<strong>ed</strong> appunto.<br />

Kivy inizia ad interessarsi al problema dell’espressione <strong>musicale</strong> verso la fine<br />

degli anni Settanta, e nel 1980 pubblica The Cord<strong>ed</strong> Shell 66 . Il titolo dell’opera (letteralmente:<br />

La conchiglia accordata) è tratto da un verso del poema di John Dryden del<br />

1687 A Song for St. Cecilia’s Day, d<strong>ed</strong>icato appunto al personaggio biblico che si suppone<br />

sia il fondatore della musica. Nel 1989 l’opera è stata ristampata con alcuni ampliamenti<br />

con il titolo di Sound Sentiment. Come ha bene evidenziato Bertinetto,<br />

l’espressione contiene un gioco di parole difficilmente traducibile. Sound Sentiment significa<br />

«sentimento ragionevole (sicuro, brillante)», ma sound significa anche suono,<br />

rumore, rumoroso e quindi l’espressione può rimandare anche al «sentimento del suono».<br />

In questa seconda <strong>ed</strong>izione, Kivy torna a m<strong>ed</strong>itare sulle tesi esposte in quella prima<br />

versione, tenendo conto delle obiezioni che gli erano state mosse. Si tratta di un atteggiamento<br />

frequente e tutto interno al dibattito analitico, se è vero che la tendenza a<br />

ripensare e riformulare le proprie tesi è un tratto caratteristico di chi non resta impermeabile<br />

alle eventuali obiezioni <strong>ed</strong> anzi ne trae spunto per ulteriori approfondimenti.<br />

Siamo peraltro convinti che nel caso di Kivy questo work in progress non comporti<br />

l’abbandono delle posizioni prec<strong>ed</strong>entemente sostenute. La conferma ci viene dalle parole<br />

di Kivy stesso, il quale nella Prefazione a Sound Sentiment dice: «Niente di quanto<br />

ho scritto in The Cord<strong>ed</strong> Shell mi fa arrossire, ma dal 1980 ad oggi ho appreso un po’<br />

di cose. L’opportunità di condurre una seconda <strong>ed</strong>izione del libro mi rende acutamente<br />

consapevole di come molte questioni sono state lasciate irrisolte e di come molte delle<br />

cose dette oggi potrebbero dirsi differentemente … Nonostante ci siano stati dei ripensamenti<br />

riguardo ad alcuni temi trattati, la verità è che resto comunque ostinato su determinate<br />

affermazioni, e questo, non per il gusto di perseverare nell’errore, quanto<br />

perché son forte delle mie convinzioni e ansioso di persuadere con il potere di<br />

un’argomentazione razionale che bene può dimostrare le mie tesi» 67 . In effetti, come<br />

66<br />

P. Kivy, The Cord<strong>ed</strong> Shell. Reflections on Musical Expression, Princeton University Press, Princeton,<br />

1980.<br />

67<br />

P. Kivy, Sound Sentiment: An Essay on the musical Emotions. Including the complete text of The<br />

Cord<strong>ed</strong> Shell, Temple University Press, Philadelphia, 1989, pag. xv.<br />

48


evidenziato dall’<strong>ed</strong>itore di questa seconda <strong>ed</strong>izione, Joseph Margolis, il messaggio di<br />

Sound Sentiment resta molto vicino a quello di The Cord<strong>ed</strong> Shell: occorre spogliarsi di<br />

qualsiasi forma di scetticismo in merito al tema dell’espressività <strong>musicale</strong>, <strong>ed</strong> opporre<br />

all’“emotivismo <strong>musicale</strong>” il “cognitivismo <strong>musicale</strong>”, vale a dire, all’idea che le attri-<br />

buzioni espressive siano dovute all’eccitazione di emozioni nell’ascoltatore, la tesi, as-<br />

sai più feconda, che v<strong>ed</strong>e le qualità espressive o emotive strettamente ancorate alle<br />

strutture musicali.<br />

In The Cord<strong>ed</strong> Shell, Kivy cerca per la prima volta di chiarire come la musica<br />

possa essere espressiva delle emozioni comuni (garden-variety of emotions), quali ad<br />

esempio: amore, tristezza, gioia, ecc. Soprattutto, si pone il problema di come «alcuni<br />

pr<strong>ed</strong>icati emotivi possano essere comprensibilmente applicati alla musica, e perché<br />

possano essere applicati intersoggettivamente» 68 , operando così in una direzione oppo-<br />

sta a quella dei puristi musicali, i quali sostengono invece l’esatto contrario, vale a dire:<br />

1) le descrizioni emotive della musica sono incomprensibili, o meglio non condivisibi-<br />

li; 2) esse sono congenitamente “soggettive” 69 . I puristi musicali, in effetti, sono per<br />

Kivy i sostenitori di un formalismo tout court che si sottrae a qualsiasi possibilità di<br />

“arricchimento” emotivo. Alla base di questa concezione troviamo l’idea che le descrizioni<br />

emotive siano “descrizioni” solo nel nome. Ci si chi<strong>ed</strong>e, infatti, come qualcosa<br />

possa definirsi correttamente una “descrizione” se non abbiamo criteri condivisi attraverso<br />

i quali poter distinguere una descrizione pertinente da una non pertinente. Le descrizioni<br />

emotive della musica sono infatti, a giudizio dei puristi, descrizioni puramente<br />

soggettive, impantanate tra gli individualismi di una psicologia male intesa. Lapidario,<br />

fa notare Kivy, risulta quanto è stato detto a tale proposito da Gurney nell’opera The<br />

Power of Sound. Egli scrisse: «spesso troviamo che la musica che per una persona<br />

sembra poss<strong>ed</strong>ere una certa espressione emotiva, non la possi<strong>ed</strong>e, o ne possi<strong>ed</strong>e una diversa,<br />

per un’altra persona, sebbene potrebbe tranquillamente darsi che entrambe le<br />

persone apprezzano la stessa musica» 70 .<br />

Inoltre, da questo particolare punto di vista, dare letteralmente una descrizione<br />

della musica in termini emotivi pare del tutto infondato, perché solo esseri senzienti<br />

possono letteralmente essere tristi, allegri e così via. È un’obiezione che vien fatta<br />

spesso a coloro che tentano di salvare una qualche idea di espressività per la musica<br />

pura e che, dico subito, sorprende per la sua apparente banalità. Torneremo su questo<br />

68 Ivi, pag. 11.<br />

69 Ibidem.<br />

70 E. Gurney, The Power of Sound, Smith, Elder, London, 1880, p. 339.<br />

49


problema per evidenziare come una simile affermazione nasconda una sostanziale in-<br />

comprensione della tesi isomorfica.<br />

Secondo Kivy sono queste le obiezioni ricorrenti nelle teorie che negano la possibilità<br />

di dare una descrizione della musica in termini espressivi e il nodo gordiano da<br />

sciogliere, o per utilizzare la sua stessa terminologia, il “paradosso” della descrizione<br />

<strong>musicale</strong> da risolvere si annida in queste stesse obiezioni. È chiaro infatti che il sospetto<br />

nei confronti della descrivibilità della musica poggia su una cattiva interpretazione di<br />

quel che intendiamo quando parliamo di descrizione. Tali descrizioni possono infatti<br />

oscillare tra due estremi: possono essere comprensibili solo all’esperto <strong>musicale</strong>; oppure<br />

accessibili ai non addetti ai lavori, a chi in altre parole, esperto non è, a costo di essere<br />

però descrizioni prive di alcun senso, o semplicemente una mera fantasia soggettiva.<br />

In altre parole, le descrizioni possono essere troppo tecniche per le persone comuni<br />

(prive quindi di contenuto emotivo), oppure sovraccariche di termini che denotano emozioni<br />

(prive quindi di referenze tecniche) 71 . Interessante, a tale proposito, proporre i<br />

quattro esempi di descrizione <strong>musicale</strong> 72 che Kivy ha selezionato come rilevanti per illustrare<br />

questo peculiare stato delle cose, questo “paradosso” delle descrizioni musicali:<br />

1) descrizione biografica;<br />

2) descrizione autobiografica;<br />

3) descrizione emotiva;<br />

4) descrizione tecnica;<br />

Kivy definisce biografica quella descrizione nella quale l’autore mette in primo<br />

piano la personalità del compositore, anziché la musica. L’esempio cui attinge per illustrare<br />

questo tipo di descrizione è tratto dagli scritti di Robert Schumann, e più precisamente<br />

da quelli d<strong>ed</strong>icati agli studi di Berger 73 . Si tratta di un esempio quanto mai e-<br />

71 Cfr. Cap. I, pag. 3, di The Cord<strong>ed</strong> Shell, cit., interamente d<strong>ed</strong>icato al paradosso della descrizione <strong>musicale</strong>,<br />

e Cap. XII, How to Emote over Music (Without Losing Your Respectability), pag. 132.<br />

72 Kivy chiarisce che la sua analisi si limita a queste quattro tipologie di descrizione <strong>musicale</strong>, ma che<br />

questo naturalmente non deve indurci a cr<strong>ed</strong>ere che sia una tipologia esaustiva.<br />

73 Queste le parole di Schumann: «Tra gli artisti più vecchi, [Ludwig] Berger, come pure Moscheles, non<br />

si è rivolto in maniera oziosa ai nuovi impulsi che venivano dati alla musica per pianoforte. Se i vecchi<br />

ricordi talvolta lo sopraffanno, egli se li lascia alle spalle, <strong>ed</strong> è ancora attivo finché la luce del giorno<br />

splende. Dopo un lungo silenzio di questo artista ormai anziano, che gode di una fama assai ampia, considerato<br />

il numero esiguo delle sue composizioni, ci saremmo dovuti aspettare qualcosa di molto diverso<br />

da questi studi [Fifteen Etudes, Opus 22]. Ci saremmo piuttosto dovuti aspettare di trovarlo a fluttuare<br />

incessantemente sui torrenti armonici, e a crogiolarsi nel ricordo del suo lungo e fruttuoso lavoro. Invece,<br />

egli ha messo di fronte ai nostri occhi una vita profondamente agitata, che cerca, con energico impe-<br />

50


loquente di abuso di termini emotivi, romanticamente riferiti ai presunti stati mentali<br />

del compositore. Osserva infatti Kivy:<br />

Schumann ci vuole far cr<strong>ed</strong>ere che intende descrivere gli studi di<br />

Berger, e forse, indirettamente, posso supporre che lo faccia. Ma in<br />

realtà la maggior parte del suo discorso è su Berger, non sulla musica.<br />

Quando apprendiamo, a proposito degli studi di Berger, che “noi possiamo<br />

contemplare una vita profondamente agitata, che cerca, con<br />

energico impegno, di arrivare alla fine del giorno”, quando apprendiamo<br />

che questa musica scaturisce “da un cuore profondamente poetico,<br />

e da “un’artistica consapevolezza” che qualche volta “viene<br />

sommersa dalla sua stessa impetuosità”, a noi sembra di sentire molte<br />

cose su Ludwig Berger, ma poche sulla sua musica 74 .<br />

Una descrizione di questo tipo è del tutto inattendibile poiché in essa, spiega Kivy, non<br />

è certamente la musica ad essere tenuta in considerazione, ad essere protagonista <strong>ed</strong><br />

oggetto dell’analisi. La musica risulta fuori fuoco e la descrizione non pertinente.<br />

La situazione non cambia di molto nemmeno nel caso del secondo esempio,<br />

quello della descrizione autobiografica. Tale è una descrizione quando chi scrive rac-<br />

conta la propria esperienza dell’ascolto. Estratto come esplicativo a tale proposito un<br />

passo dei Memoirs 75 di Hector Berlioz. Si tratta, con precisione, del passo in cui Ber-<br />

lioz si sofferma a dare una descrizione delle emozioni destategli dall’ascolto<br />

dell’Armide di Gluck 76 . La musica anche in questo caso riveste un ruolo marginale, an-<br />

zi essa funziona semplicemente come stimolo per la fantasia di Berlioz. Ironicamente,<br />

Kivy commenta, «egli avrebbe potuto benissimo prendere tanto una dose di laudanum,<br />

quanto una dose di Gluck»; e poco più avanti aggiunge: «Il fatto che Berlioz fosse una<br />

mente supremamente interessante rende le sue peregrinazioni autobiografiche supremamente<br />

interessanti. Ma non le rende delle descrizioni della musica. Il loro soggetto è<br />

gno di arrivare alla fine del giorno. In vari punti di questi studi troviamo espressioni tetre, cenni misteriosi,<br />

e subito dopo un’improvvisa concentrazione di forze, un sentimento di trionfo che si avvicina − e<br />

tutto ciò è emanato, tuttavia, da un cuore profondamente poetico, <strong>ed</strong> è accompagnato dalla consapevolezza<br />

artistica fino al momento in cui esso non viene sopraffatto dalla sua stessa impetuosità»Robert<br />

Schumann, Music and Musicians: First Series, tr. by Fanny Raymond Ritter (8th <strong>ed</strong>.; London: William<br />

Reeves, n. d.), pp. 264-265.<br />

74 P. Kivy, The Cord<strong>ed</strong> Shell …, cit., pag. 4. Trad. mia.<br />

75 E. Berlioz, Memoirs, tr. by Ernest Newman, New York, Tudor, 1932.<br />

76 Berlioz riferisce: «Ho chiuso i miei occhi, e, mentre ascoltavo la divina gavotta [nell’Armide di<br />

Gluck], con la sua melodia carezzevole e con la sua monotona armonia che sussurra sofficemente, e<br />

(mentre ascoltavo) il coro, Jamais dans ces beaux lieux, così squisitamente grazioso nel suo esprimere<br />

gioia, mi sembrava di essere circondato da tutti i lati da braccia avvolgenti, da pi<strong>ed</strong>i adorabili che si intrecciavano,<br />

da capelli fluttuanti, da occhi risplendenti, e da sorrisi contagiosi. Il fiore del piacere, scosso<br />

con gentilezza dalla brezza melodica, si espandeva, e un concerto di suoni e colori si riversò dalla sua<br />

incantevole corolla». E. Berlioz, Memoirs, cit., p. 321.<br />

51


Berlioz» 77 . Alla base di queste giocose considerazioni, vi è l’idea che non si possa as-<br />

sociare la qualità espressiva della musica all’effetto emotivo che una certa melodia può<br />

stimolare in chi ascolta. Non è sul piano della dinamica stimolo-reazione che possiamo<br />

trovare un’adeguata descrizione della musica in termini espressivi.<br />

Se Schumann ha quindi commesso l’errore di parlare del compositore, Berlioz<br />

invece ha commesso l’errore di parlare dell’ascoltatore, di se stesso in questo caso. Così<br />

facendo, nessuno dei due ha tenuto adeguatamente in considerazione la musica, la<br />

quale resta come sfondo in entrambe le descrizioni.<br />

Lontana invece dalle effusioni romantiche di Schumann e Berlioz, e quindi in<br />

un certo senso più rispettabile, sarebbe invece per Kivy la cosiddetta descrizione emotiva.<br />

In questo terzo tipo di descrizione le emozioni sono ascritte direttamente alla musica<br />

come se essa realmente fosse attraversata da quelle stesse emozioni. Un esempio di<br />

tal genere è secondo Kivy quello che si trova in una delle più ammirate opere di esegesi<br />

<strong>musicale</strong>, Essays in Musical Analysis di Tovey 78 . In effetti, Tovey parla della musica<br />

(di Beethoven e Brahms) come se realmente fosse “distrutta dal dolore” oppure<br />

dall’ira. Mi preme sottolineare sin da ora che è esattamente questo il tipo di descrizione<br />

che più di ogni altra convince Kivy, una descrizione cioè dove le qualità emotive vengono<br />

ascritte alla musica stessa, poiché, e spiegheremo meglio in seguito per quali ragioni<br />

egli arriva a questo convincimento, la musica ha un proprio sentimento, che non è<br />

né quello del compositore, né quello dell’esecutore, né tantomeno quello<br />

dell’ascoltatore. Non è nelle indipendenti dinamiche emotive dell’umano sentire che<br />

dobbiamo ricercare il legame della musica con le emozioni, bensì nella musica stessa<br />

quale pura forma che possi<strong>ed</strong>e però l’<strong>emozione</strong> come parte percettiva della sua struttura.<br />

Una tesi tanto singolare quindi che certamente si presta a tutta una serie di obiezioni<br />

quanto più, e anche in questo caso diamo un’anticipazione di un tema che svilupperemo<br />

a parte, una tale concezione rifiuta l’idea che le nostre attribuzioni di qualità<br />

emotive alla musica siano da considerarsi metaforicamente. Kivy infatti contravvenen-<br />

77 P. Kivy, The Cord<strong>ed</strong> Shell …, cit., pag. 5.<br />

78 Tovey scrive: «Il primo episodio [del secondo movimento dell’Eroica] è un normale trio in tonalità<br />

maggiore, che inizia in un’atmosfera di consolazione e per due volte esplode nel trionfo. Dopo, la luce si<br />

spegne e il tema lugubre fa ritorno … Successivamente fa il suo ingresso, finalmente, l’inizio di un nuovo<br />

messaggio di consolazione, ma esso svanisce e il movimento si conclude con un’ultima enunciazione<br />

del tema principale, i cui ritmi e i cui accenti sono completamente distrutto dall’angoscia. Qui segue [nel<br />

primo movimento della Prima Sinfonia di Brahms] un bellissimo passaggio preparatorio al secondo soggetto;<br />

un commovente diminuendo, che inizia rabbiosamente … e si ammorbidisce (nel mentre passa rapidamente<br />

attraverso delle tonalità molto distanti) verso toni di profonda tenerezza e pietà ….». D. F.<br />

Tovey, Essays in Musical Analysis: Volume I, Symphonies, Oxford University Press, London, 1935, pp.<br />

32 e 86.<br />

52


do, almeno in questo caso, pienamente alla teoria metaforica delle emozioni sostenuta<br />

da Hanslick, ribadisce che una struttura <strong>musicale</strong> possi<strong>ed</strong>e realmente le emozioni come<br />

qualità percettive. È in questo senso che egli chiarisce: «Tovey, è chiaro, sa bene quale<br />

sia l’oggetto di cui egli presumibilmente sta parlando: non Beethoven, non Brahms, e<br />

nemmeno Tovey, ma la musica. Se si volesse contestargli qualcosa, di certo non sarebbe<br />

ciò di cui egli sta parlando, ma come egli ne sta parlando. Non è né Beethoven né<br />

Tovey ad essere consolato, trionfante, lugubre, completamente distrutto dall’angoscia.<br />

Solo la musica lo è. Non è né Brahms né Tovey ad essere commovente, arrabbiato, tenero,<br />

caritatevole. Solo la musica lo è» 79 .<br />

Una musica può essere dunque distrutta dal dolore? In che senso usiamo come<br />

ponte tra musica <strong>ed</strong> emotività l’aggettivo ‘distrutta’? C’è una motivazione sottile che<br />

spinge Kivy, e noi con lui, a ritenere che una simile descrizione accolga in sé le istanze<br />

di un formalismo illuminato e nello stesso tempo l’esigenza di salvaguardare la componente<br />

espressiva. ‘Distrutto’ è un aggettivo che può evocare molto bene sia il singhiozzo<br />

di un sentimento tormentato, sia la discontinuità, frammentazione della sintassi<br />

<strong>musicale</strong>. Vale a dire: ascoltiamo un brano <strong>musicale</strong> e lo descriviamo come “spezzato<br />

dal dolore”, perché la sua struttura ci suggerisce una sintesi percettiva che trova in<br />

quella particolare declinazione emotiva la sua identità.<br />

Chiariamo subito che per quanto Kivy riconosca la validità di una posizione<br />

come questa, senta cioè la fertilità di una concezione che presuppone sostanzialmente<br />

un rapporto isomorfico, avverte anche tuttavia il peso delle obiezioni mossegli dagli<br />

anti-emotivisti.<br />

Il musicologo oppure il filosofo scettico potrebbero sollevare obiezioni come<br />

queste, vale a dire: come possono questi pr<strong>ed</strong>icati emotivi essere realmente applicati<br />

alla musica? Se la musica fosse realmente distrutta dal dolore, qualcuno potrebbe anche<br />

suggerirci di provare a risollevare la povera musica oppure addolcirla? Risollevarla dal<br />

dolore e addolcirla dall’ira. Chi si oppone infatti a una descrizione emotiva della musica<br />

accoglie sarcasticamente la possibilità che si possa parlare di essa in termini emotivi,<br />

come se ci si riferisse a un essere senziente capace di provare emozioni. In realtà, anche<br />

in questo caso direbbero gli scettici, molto probabilmente, non è della musica che si sta<br />

parlando, ma ancora una volta, se pur indirettamente, degli stati d’animo del compositore<br />

e dell’ascoltatore. Se le cose stessero così, osserva Kivy, tanto varrebbe allora ritornare<br />

al punto di partenza, e cioè alla descrizione biografica e autobiografica. En-<br />

79 P. Kivy, The Cord<strong>ed</strong> Shell …, cit., pag. 6.<br />

53


trambe sono state considerate inaccettabili, perché sia nell’uno che nell’altro caso ab-<br />

biamo potuto constatare che parlare delle emozioni in musica sembra sempre coincide-<br />

re con il parlare delle emozioni del compositore oppure dell’ascoltatore.<br />

L’ovvia conclusione di chi mostra scetticismo nei confronti di qualsiasi forma<br />

di ammiccamento all’espressività, sembrerebbe quindi essere: una descrizione emotiva<br />

della musica è impossibile. Se non altro questa è la conclusione cui perviene il purista,<br />

il quale pur mettendo in gioco l’ipotesi che una simile descrizione possa avere qualche<br />

senso, giunge poi alla conclusione che mancano in essa criteri intersoggettivi, pubbli-<br />

camente condivisi, di applicazione. E il fatto che ci sia disaccordo su come le descri-<br />

zioni emotive possano correttamente caratterizzare alcuni temi o composizioni musicali<br />

è, dal punto di vista dei puristi, il segnale più tangibile del carattere puramente sogget-<br />

tivo di tali descrizioni. La musica, in altre parole, può sortire effetti emotivi diversi a<br />

seconda delle persone in ascolto, pur restando invariato il grado di apprezzamento estetico.<br />

Infine, troviamo la descrizione tecnica della musica 80 . Tale descrizione è accr<strong>ed</strong>itata<br />

dal purista, poiché essa è scientifica, oggettiva, distante dalle sciocchezze emotive<br />

(emotive flapdoodle) di molti discorsi sulla musica. Non a caso, Kivy scrive a tale<br />

proposito: «qui, finalmente, il purista raggiunge la sua meta: nella descrizione oggettiva,<br />

sensata, scientifica, scevra di qualsiasi contaminazione soggettivistica o di eccesso<br />

romantico. Un ritmo o è giambico o non lo è. Un accordo o è un accordo di quinta o<br />

non lo è. Tutti gli ascoltatori dotati di una certa conoscenza sono più o meno d’accordo<br />

su come queste questioni devono essere risolte» 81 . Le questioni che entrano in gioco<br />

quindi in una simile descrizione appaiono rigorosamente tecniche: la musica ha oppure<br />

non ha un ritmo giambico, un accordo è o non è un accordo di quinta, e via dicendo.<br />

Tali descrizioni, evidenzia Kivy, per molti aspetti convincono (anzi riconosce che per<br />

formazione e inclinazione personale egli non intende essere cieco ad esse), ma al tempo<br />

stesso egli non può non evidenziare però il problema che a queste stesse descrizioni inevitabilmente<br />

si lega, ovvero il fatto che restano inaccessibili, impenetrabili a tutte<br />

80 Due sono gli esempi di descrizione tecnica riportati da Kivy, il primo è tratto dall’opera di Cooper e<br />

Meyer, The Rhythmic Structure of Music, il secondo invece dal lavoro di Kerman, The Beethoven Quartets.<br />

Per esemplificare riporteremo solo il primo esempio: «Il ritmo del tema dell’ultimo movimento della<br />

“Surprise” Symphony di Haydn … mostra assai più palesemente un profilo giambico. In questo caso i<br />

gruppi iniziali, sebbene siano entrambi anfibrachi, sono assai diversi dal punto di vista melodico e temporale,<br />

sono assai vicini l’un l’altro, e sono tenuti insieme da una potente progressione armonica (I-V-I).<br />

Perciò queste due unità tendono a formare un gruppo trocaico su un secondo livello ritmico e costituiscono<br />

una singola e unificata anacrusi a un terzo livello ritmico». G. Cooper e L. B. Meyer, The Rhythmic<br />

Structure of Music, University of Chicago Press, 1960, pag. 65. J. Kerman, The Beethoven Quartets,<br />

Alfr<strong>ed</strong> Knopf, New York, pp. 175-176.<br />

81 P. Kivy, The Cord<strong>ed</strong> Shell …, cit., pag. 8.<br />

54


quelle persone che non hanno una conoscenza di tipo tecnico della musica. Queste le<br />

sue parole a riguardo: «questo tipo di descrizione, se da un lato è assai invitante per chi<br />

ha una competenza <strong>musicale</strong>, dall’altro lato taglia fuori un’ampia e importante comunità<br />

<strong>musicale</strong>. La musica, dopo tutto, non è solo per i musicisti o per gli studiosi, così<br />

come la pittura non è solo per gli storici dell’arte e la poesia non è solo per i poeti» 82 .<br />

Dunque, si appresta a concludere Kivy, la strada da imboccare per giungere a una possibile<br />

soluzione del “paradosso” dell’espressività <strong>musicale</strong> non può passare né da una<br />

totale negazione della descrizione tecnica né da una totale chiusura nei confronti della<br />

descrizione emotiva. Egli ha infatti a cuore l’obiettivo di dare un fondamento razionale<br />

alla critica emotiva della musica, vale a dire: fornire sostegno ad una descrizione emotiva<br />

della musica che sia rispettabile agli occhi dell’esperto e che possa stare a fianco<br />

delle descrizioni tecniche come un valido strumento analitico. Se questo è l’obiettivo, il<br />

problema sarà allora quello di stabilire in che modo è possibile conseguire un simile risultato.<br />

Una nota strategia filosofica adottata spesso nella storia del pensiero, ma non<br />

condivisa da Kivy, per uscire fuori da questa apparente situazione di inconciliabilità<br />

delle descrizioni tecniche con le descrizioni emotive, è quella che denuncia sia il nonsenso<br />

(meaninglessness) sia il soggettivismo psicologico implicito nella descrizione<br />

emotiva, ma al contempo riconosce che tale “descrizione” possa tuttavia risultare utile<br />

al lavoro del critico: ci permette di percepire qualcos’altro nell’opera che è lì realmente<br />

per essere da noi colto. Kivy sta pensando alle conclusioni di Isenberg, in un saggio<br />

molto influente sulla teoria della critica: «il critico sta pensando un’altra qualità, della<br />

quale non ci fornisce alcuna idea attraverso il linguaggio da lui utilizzato, una qualità<br />

che però egli v<strong>ed</strong>e e che riesce a farci v<strong>ed</strong>ere tramite l’uso che egli fa del linguaggio»<br />

83 . Da una simile posizione si potrebbe allora sostenere che le descrizioni emotive<br />

sono nello stesso tempo prive di senso e rispettabili. Esse colmerebbero un vuoto lasciato<br />

dal linguaggio, si sostituirebbero ad una mancanza linguistica allo scopo di evocare<br />

metaforicamente un senso altrimenti non afferrabile, non dicibile. Quel “qualcos’altro”<br />

di cui ci parla Isenberg.<br />

Anche questo modo di impostare il problema rimanda a quell’atteggiamento di<br />

fuga dallo specifico <strong>musicale</strong> che da sempre Kivy combatte. Il fatto che la descrizione<br />

emotiva della musica ci conduca a percepire una qualità attraverso il discorso su qual-<br />

82 Ibidem.<br />

83 A. Isenberg, “Critical Communication,” Aesthetic and Theory of Criticism: Select<strong>ed</strong> Essays of Arnold<br />

Isenberg, University of Chicago Press, Chicago and London, 1973, pag. 162.<br />

55


cos’altro è implicito anche nella descrizione biografica <strong>ed</strong> autobiografica. Di fatto, in<br />

entrambe le descrizioni, come abbiamo avuto modo di constatare, si realizza qualcosa<br />

di simile, vale a dire: nella descrizione biografica, il critico parla di qualcos’altro, del<br />

compositore, facendoci in tal modo sentire l’espressività della musica; così, anche nella<br />

descrizione autobiografica succ<strong>ed</strong>e che il critico parla di qualcos’altro, cioè di se stes-<br />

so, per raggiungere sempre e comunque lo stesso risultato. Ma è esattamente questo il<br />

modo di intendere la descrizione al quale Kivy vuole energicamente opporsi. Non è ac-<br />

cettabile infatti, dal suo punto di vista, che una descrizione della musica debba sempre<br />

svolgersi m<strong>ed</strong>iante un discorso per via indiretta (by “indirection”), né tantomeno si<br />

può accettare l’idea che noi siamo nelle mani del critico, in balia di una sua cospirazio-<br />

ne, e che egli quindi abbia il potere di decidere se introdurci o meno dentro l’ascolto di<br />

ciò che egli ha a sua volta sentito, e cosa ancora peggiore, m<strong>ed</strong>iante un discorso che è<br />

un nonsenso, come se noi non fossimo pronti per la terribile verità, o, non fossimo comunque<br />

capaci di seguire un’argomentazione critica autentica. In altri termini, la descrizione<br />

emotiva della musica per Kivy non è certamente interpretabile nell’ottica di<br />

una complessa mistificazione.<br />

Veniamo quindi al punto che qui più ci interessa evidenziare. Secondo Kivy il<br />

critico <strong>musicale</strong> può senz’altro condurci a farci sentire qualcos’altro nella musica, ma<br />

non si tratta di sentimenti soggettivi, bensì di quello che egli descrive come le proprietà<br />

espressive della musica. E, qui, ritorna la descrizione di Tovey quale modello esemplare<br />

di quello che Kivy riconosce essere una valida descrizione emotiva, una descrizione<br />

cioè nella quale l’<strong>emozione</strong> è vincolata, aderente alle caratteristiche strutturali<br />

dell’oggetto descritto. Infatti, dice chiaramente Kivy, l’efficacia di un’espressione come<br />

quella di Tovey, “la musica è distrutta dal dolore”, consiste nel fatto che quella descrizione<br />

non ci allontana dalla musica, ma ce la fa sentire come capace di evocare<br />

strutturalmente quella qualità. Le sue stesse qualità, poiché, come avevamo anticipato,<br />

la concezione espressiva di Kivy contempla la possibilità che la musica possi<strong>ed</strong>a le<br />

proprietà emotive come proprietà acustiche. È anche questa la ragione per cui – egli<br />

precisa – le descrizioni emotive della musica sono compatibili con il «formalismo», inteso<br />

come la dottrina secondo cui la musica è una struttura di eventi sonori senza contenuto<br />

semantico o rappresentazionale. Scrive infatti a riguardo che: «se le proprietà<br />

emotive come la tristezza sono proprietà acustiche della musica, sono semplicemente<br />

proprietà della struttura <strong>musicale</strong>, dire che un passaggio <strong>musicale</strong> è triste o allegro non<br />

significa descriverlo in termini semantici o rappresentazionali più che descriverlo come<br />

56


turbolento o tranquillo. Un passaggio <strong>musicale</strong> tranquillo non rappresenta la tranquillità<br />

né significa «tranquillo». Esso è semplicemente tranquillo. E lo stesso vale per un passaggio<br />

<strong>musicale</strong> malinconico. Non significa la «malinconia» né rappresenta la malinconia.<br />

È semplicemente melanconico, e questo è tutto» 84 . Questo spiega anche perché,<br />

precisa ancora Kivy, la musica assoluta, sebbene sia una forma artistica pura, astratta,<br />

formale, non ha niente a che v<strong>ed</strong>ere con uno “stato fr<strong>ed</strong>do”. Essa ha «calore» umano,<br />

così si esprime piuttosto semplicisticamente Kivy; perché le emozioni sono una parte<br />

percettiva della sua struttura.<br />

È proprio a questo punto che si definisce così l’obiettivo di salvare<br />

l’espressività della musica senza aver nessuna intenzione di rinunciare ad una prospettiva<br />

di matrice formalistica.<br />

Ma proc<strong>ed</strong>iamo per gradi e cerchiamo di capire con quali tesi e argomenti Kivy<br />

sostiene la sua teoria cosiddetta cognitiva delle emozioni in musica e giustifichi così<br />

l’approdo al formalismo arricchito.<br />

2. Per una teoria dell’espressione <strong>musicale</strong><br />

Risulta evidente quindi che la musica, nella prospettiva di Kivy, può essere de-<br />

scritta in termini espressivi. È possibile infatti spiegare come le emozioni siano vincolate<br />

alla struttura <strong>musicale</strong>, come la musica possegga le emozioni e sia espressiva di<br />

esse nella varietà delle loro sfumature. Poiché, <strong>ed</strong> ecco il punto, la musica possi<strong>ed</strong>e<br />

l’<strong>emozione</strong> come una sua qualità percettiva.<br />

Per quanto prematuro possa apparire affermarlo, la tesi centrale che Kivy mette<br />

avanti sin dalla primissima fase della sua ricerca sul problema delle emozioni musicali<br />

è proprio questa. A mio avviso, si tratta di una vera e propria tesi guida della sua riflessione,<br />

visto che dalla pubblicazione di The Cord<strong>ed</strong> Shell all’ultima opera scritta, Introduction<br />

to a Philosophy of Music, sono trascorsi ventidue anni, ma il suo punto di vista<br />

resta pressoché invariato. Certamente, alcuni tra i percorsi teorici seguiti nel tentativo<br />

di dimostrare questa tesi nodale sono stati messi in discussione, spesso anche a seguito<br />

di critiche ricevute. Per questa ragione ritengo opportuno seguire, almeno nelle sue linee<br />

generali, tale percorso evolutivo della ricerca di Kivy prima di approdare alla que-<br />

84 P. Kivy, Filosofia della musica. Un’introduzione, cit., pp. 108-109.<br />

57


stione che qui più ci interessa del formalismo <strong>musicale</strong> nella sua nuova veste emotiva.<br />

D’altronde, una tale questione, a mio avviso, non nasce isolata e completamente auto-<br />

noma rispetto alle altre, ma è problematicamente presupposta in esse. Tuttavia, sap-<br />

piamo, che è proprio questa una delle tendenze metodologiche privilegiate dagli anali-<br />

tici, i quali tengono per lo più separate le diverse problematiche. Kivy, in particolare,<br />

nell’opera Philosophies of Art. Essay in Differences, suffraga questo modo di orientarsi<br />

come uno dei punti di forza dell’estetica analitica. L’idea sarebbe la stessa che riecheg-<br />

gia nel motto di Bertrand Russell, secondo il quale il miglior modo di dominare una<br />

questione è proprio quella di dividerla, di guardarla isolandola dalle altre: divide et impera,<br />

sarebbe infatti secondo Kivy la regola da rispettare anche in estetica 85 .<br />

A fondamento, quindi, della teoria dell’espressione cui Kivy inizia a lavorare<br />

già in The Cord<strong>ed</strong> Shell troviamo questo acquisito modo di guardare al problema della<br />

relazione tra musica <strong>ed</strong> <strong>emozione</strong>. Dico acquisito, perché, come in parte avevamo già<br />

rilevato nel primo capitolo, l’idea che l’<strong>emozione</strong> appartenga alla musica come qualità<br />

percettiva era già sufficientemente diffusa in ambito analitico. Kivy stesso non fa mistero<br />

alcuno del fatto che l’orizzonte teorico da cui si diparte il proprio percorso di ricerca<br />

è proprio quello dell’analisi contemporanea sul tema musica-emozioni. Diversi,<br />

anzi, sono i contesti in cui non manca di evidenziarlo apertamente. In un articolo del<br />

1999, Feeling the musical emotions, scrive:<br />

Io avevo il vantaggio, rispetto ai miei pr<strong>ed</strong>ecessori, di poter contare<br />

sui passi in avanti compiuti dalla filosofia analitica, i quali mi hanno<br />

fornito più opzioni, oltre a quelle basate sulla semplice rappresentazione<br />

o sul contenuto simbolico, per creare un’alternativa alla concezione<br />

disposizionale dell’espressività <strong>musicale</strong>. Sempre di più, i filosofi<br />

dell’arte stavano per rendersi conto che ha più senso – da un punto<br />

di vista metafisico – concepire le proprietà emotive nella musica<br />

come proprietà percettive pure e semplici 86 .<br />

E, così, anche in Filosofia della musica. Un’introduzione:<br />

L’analisi contemporanea, comunque, considera ora una seconda possibilità,<br />

più vicina alla maniera in cui sembra che noi esperiamo le<br />

emozioni nella musica, cioè in quanto proprietà percettive come colori<br />

o gusti. La nostra attenzione deve dunque ora volgersi questo nuo-<br />

85 P. Kivy, Philosophies of Art. An Essay in Differences, Cambridge U. P., Cambridge, 1997. Si v<strong>ed</strong>a anche,<br />

Introduction: Aesthetics Today, in Id., The Blackwell Guide to Aesthetics, Blackwell, New York –<br />

Oxford, 2004, pp. 4-5.<br />

86 P. Kivy, Feeling the musical emotions, “The British Journal of Aesthetics”, 39, 1, 1999, pag. 1.<br />

58


vo approccio al problema delle emozioni musicali, che è a mio modo<br />

di v<strong>ed</strong>ere quello vincente 87 .<br />

Tra i sostenitori di questa “nuova” concezione dell’espressività <strong>musicale</strong>, due<br />

sono in realtà i filosofi cui Kivy è solito fare riferimento, Charles Hartshorne e Oets. K.<br />

Bouwsma. Hartshorne in particolare, secondo Kivy, fu uno dei primi a sostenere che le<br />

proprietà emotive, o qualità affettive, sono parte del nostro campo percettivo. Quando,<br />

infatti, il problema delle cosiddette proprietà emotive non era ancora emerso come decisivo<br />

per la contemporanea filosofia della musica, Hartshorne, nell’opera Philosophy<br />

and Psychology of Sensation (1934), scriveva che «l’ “allegria” del giallo (quella particolare<br />

e specifica allegria) è la giallezza del giallo» 88 . L’idea di Hartshorne è che<br />

l’allegria non appartiene al giallo perché esso ci rende allegri, bensì perché l’allegria è<br />

parte della sua qualità percettiva, è inseparabile dal suo «essere-giallo». Si tratta, in altre<br />

parole, semplicemente del modo in cui noi percepiamo questo colore. Stessa cosa,<br />

sosteneva Hartshorne, si può dire degli altri colori, della musica, e, in generale, anche<br />

di altri aspetti visuali del mondo. Il fenomeno sarebbe quindi legato all’esperienza percettiva<br />

umana in generale e, non riguarderebbe dunque in particolare la musica o i colori.<br />

Viste così le cose, spiega Kivy, diventa meno problematica e anche meno imbarazzante<br />

una spiegazione di come le emozioni «sarebbero inerenti» alla musica. Scoprire<br />

infatti nella nostra esperienza ordinaria casi in cui comunemente accettiamo come<br />

logica conseguenza che la nozione di proprietà emotiva appartenga anche ad altri oggetti<br />

non senzienti, secondo Kivy, dovrebbe farci sentire meno a disagio anche rispetto<br />

al fenomeno <strong>musicale</strong>. L’esempio del colore giallo di Hartshorne sotto questo punto di<br />

vista funziona benissimo, perché egli sposta la nostra attenzione da quello che Kivy, a<br />

quanto pare, considera un caso problematico da spiegare, e cioè il fenomeno <strong>musicale</strong>,<br />

ad un caso che problematico non è, (quantomeno, non per il comune modo di v<strong>ed</strong>ere),<br />

quello della tonalità emotiva del colore giallo 89 . Dal nostro punto di vista sostenere,<br />

come fa Kivy, che ci sono oggetti nella nostra esperienza ordinaria rispetto ai quali, più<br />

facilmente, riusciamo a metabolizzare l’idea che ad essi ineriscano emozioni, in realtà<br />

non ci aiuta affatto a comprendere meglio il fenomeno <strong>musicale</strong>. Perché dovrebbe aiu-<br />

87<br />

P. Kivy, Filosofia della musica. Un’introduzione, cit., pag. 38.<br />

88<br />

C. Hartshorne, The Philosophy and Psychology of Sensation, The University of Chicago Press, Chicago,<br />

1934, pag. 7.<br />

89<br />

Cfr. Filosofia della musica. Un’introduzione, cit. pp. 40-41. Kivy scrive: «Uno dei modi tradizionali<br />

utilizzati dai filosofi per occuparsi di tali casi consiste nel provare a costruire un’analogia tra il caso problematico<br />

e un caso non problematico ch vi assomiglia in modo rilevante».<br />

59


tarci, ci chi<strong>ed</strong>iamo? Non è assolutamente detto che il colore giallo sia in rapporto con<br />

l’allegria, almeno non più di quanto una certa musica lo sia in rapporto ad una certa<br />

<strong>emozione</strong>. Quello che genera una certa perplessità ai nostri occhi è soprattutto il fatto<br />

che egli in qualche modo, e per ragioni a noi poco chiare, tenda a dare per scontato che<br />

le cose per la logica comune debbano funzionare in questi termini. Possiamo comprendere<br />

che tra le diverse tonalità emotive che siamo soliti attribuire al giallo, l’allegria è<br />

forse quella pr<strong>ed</strong>ominante, anche se non l’unica, non possiamo invece altrettanto facilmente<br />

ammettere che un esempio come questo sia meno problematico di quello della<br />

musica. Quali sono i presupposti teorici che giustificherebbero questa cr<strong>ed</strong>enza? Chi<br />

assicura a Kivy che è più facile per noi accettare il fatto che un’<strong>emozione</strong> x appartenga<br />

al colore y e che invece sia più complesso accettare che un’<strong>emozione</strong> appartiene alla<br />

musica? Che l’allegria del giallo non sia un caso problematico, e che l’allegria della<br />

musica invece lo sia?<br />

Lo stesso Kivy, seppure tenendosi a margine, nota che una simile replica potrebbe<br />

venire dallo scettico, il quale comodamente potrebbe evidenziare che il problema<br />

non è stato assolutamente risolto, se mai esacerbato. Sembrerebbe inoltre che una<br />

simile ipotesi interprativa non goda di nessun cr<strong>ed</strong>ito nemmeno nel pensiero analitico<br />

contemporaneo. Opinione diffusa in questo contesto è infatti che la filosofia di Hartshorne<br />

sia una sorta di «panpsichismo»: una filosofia cioè che attribuisce alla realtà fisica<br />

caratteristiche e dinamismi propri della vita psichica. Se seguiamo questa particolare<br />

concezione filosofica, di fatto, anche gli oggetti non senzienti possi<strong>ed</strong>erebbero un<br />

certo grado di sensibilità, allo stesso modo degli esseri senzienti (persone o animali).<br />

Così facendo si corre il rischio di perdere di vista la distinzione tra, per l’appunto, “esseri<br />

senzienti” e “oggetti non senzienti”. Per Kivy invece, una tale distinzione ha la sua<br />

importanza, per quali ragioni lo capiremo meglio a breve, parlando della teoria del profilo<br />

(contour theory). Ne consegue una critica ad Hartshorne, il quale, sostiene Kivy,<br />

non è stato capace infine di spiegare quello che a suo avviso è invece il problema fondamentale<br />

da risolvere, vale a dire: come sostanze non senzienti possano pervenire a<br />

poss<strong>ed</strong>ere proprietà emotive. Perché, è il caso di evidenziarlo, per Kivy la musica certamente<br />

non è un essere senziente pur poss<strong>ed</strong>endo le emozioni come sue qualità percettive,<br />

mentre nel caso di Hartshorne, se ci fidiamo delle informazioni dateci da Kivy,<br />

anche gli oggetti non senzienti in qualche modo sarebbero senzienti.<br />

Anche nel caso di queste ultime riflessioni vorremmo aprire una breve parentesi<br />

critica. Kivy, abbiamo visto, sottolinea che il merito della spiegazione di Hartshorne è<br />

60


quello di aiutarci a comprendere come un’<strong>emozione</strong> può inerire ad un oggetto non sen-<br />

ziente estendendo il fenomeno al nostro campo percettivo, evidenziando cioè che le<br />

proprietà emotive fanno parte del nostro campo percettivo. Semplicemente si tratta del<br />

modo in cui percepiamo. Fino a questo punto niente da evidenziare. La nostra perples-<br />

sità nasce invece quando dopo aver detto questo, portandoci così a cr<strong>ed</strong>ere che nella<br />

spiegazione di Hartshorne potevamo trovare un plausibile modo di comprendere il fenomeno<br />

<strong>musicale</strong>, Kivy arriva a sostenere, facendo anche leva sulle critiche della contemporanea<br />

filosofia analitica, che Hartshorne non è stato in grado di penetrare la misteriosa<br />

questione di come l’<strong>emozione</strong> possa vincolarsi a strutture che non sono senzienti.<br />

Non riusciamo, nel caso specifico, a capire per quali ragioni Hartshorne avrebbe<br />

dovuto porsi questo problema, dal momento che egli ha sottolineato che in realtà è<br />

all’esperienza percettiva umana in generale che dobbiamo guardare e non solo agli oggetti,<br />

poiché un’<strong>emozione</strong> ad essi inerisce nel momento in cui la percepiamo.<br />

L’<strong>emozione</strong> <strong>musicale</strong> è legata al modo in cui noi la percepiamo.<br />

Abbiamo il sospetto che dietro questa faticosa argomentazione, oscillante cioè<br />

tra il polo noetico e quello noematico della nostra esperienza del mondo, vale a dire tra<br />

l’accento posto sull’elemento soggettivo dell’esperienza percettiva e quello oggettivo,<br />

si nasconda un mancato approfondimento della nozione di sintesi passiva maturata <strong>ed</strong><br />

elaborata in ambito fenomenologico 90 . Se cioè consideriamo il fatto che i materiali percettivi<br />

hanno facoltà di autoorganizzarsi e di suggerire percorsi sintetici e direzioni<br />

immaginative, allora non ci sembrerà più né un c<strong>ed</strong>imento al panpsichismo né<br />

un’indebita accentuazione delle componenti soggettive il fatto di concepire le qualità<br />

espressive come una proprietà strutturale della musica.<br />

Per il momento, dobbiamo accontentarci soltanto di queste brevi notazioni, anche<br />

perché mancano al nostro attivo altre tesi fondamentali che per esigenze di ordine<br />

espositivo non abbiamo ancora potuto esplorare, attraverso le quali guadagneremo certamente<br />

maggiore chiarezza.<br />

Ora, la tesi che le proprietà emotive appartengono alla musica come qualità percettive<br />

era stata sostenuta anche da un altro filosofo americano cui Kivy spesso fa riferimento<br />

nelle sue opere. Si tratta del wittgensteiniano Bouwsma, secondo il quale la tristezza<br />

è in relazione alla musica non perché la musica ha il potere di renderci tristi, di<br />

disporci a un’<strong>emozione</strong>, bensì perché l’<strong>emozione</strong> è una sua qualità percettiva. Bouwsma<br />

sosteneva in particolare che la tristezza sta alla musica più come “il rossore sta<br />

90<br />

Cfr. E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, trad. it. di V. Costa, a cura di P. Spinicci, Guerini e Associati,<br />

Milano 1993.<br />

61


alla mela, che come il rutto sta al sidro”. Tale analogia per Kivy rivela con chiarezza<br />

l’esigenza di ancorare le qualità emotive alle strutture musicali, ma non spiega, allo<br />

stesso modo dell’esempio di Hartshorne, come la musica possa poss<strong>ed</strong>ere l’<strong>emozione</strong><br />

come sua qualità percettiva: il problema – egli aggiunge – è relativo al fatto che pur a-<br />

vendo una buona idea di come il rossore «sia inerente» alla mela e ad altre cose rosse,<br />

non abbiamo un’idea altrettanto chiara di come le emozioni «siano inerenti» alla musi-<br />

ca 91 .<br />

Parte dell’attenzione di Kivy nella sua ricerca è diretta su quel come. Come<br />

l’<strong>emozione</strong> stia «dentro» la musica. Per Kivy è un fatto che la musica possi<strong>ed</strong>e le emo-<br />

zioni. È un fatto cioè che una musica in tonalità maggiore, con un tempo rapido e sin-<br />

copato e temi vivaci e galoppanti sia percepita come allegra, così come una musica in<br />

tonalità minore con un tempo lento e pesante, con una dinamica sommessa, i temi esi-<br />

tanti e calanti, sia percepita come melanconica, triste. Perché però, si chi<strong>ed</strong>e, ascoltiamo<br />

allegria e non soltanto la tonalità maggiore, il tempo rapido, etc., oppure, perché<br />

non ascoltiamo la tonalità minore di un brano, la sua dinamica sommessa, la melodia<br />

cadente <strong>ed</strong> esitante, e ascoltiamo invece la malinconia? Questo è il problema. Scrive<br />

Kivy:<br />

L’approccio più s<strong>ed</strong>ucente al problema concernente le emozioni<br />

«dentro» la musica mi è intimamente familiare, perché è un approccio<br />

che ha s<strong>ed</strong>otto anche me. Esso prende le mosse dall’idea che non possa<br />

essere una semplice coincidenza il fatto che la musica triste abbia<br />

un tempo lento e incerto, una dinamica sommessa e melodie esitanti e<br />

calanti, e che le persone tristi camminano con passo lento e incerto,<br />

con il corpo chino, e parlino sottovoce in modo esitante. Non può essere<br />

neppure una semplice coincidenza il fatto che le opere musicali<br />

allegre e le persone allegre si muovano rapidamente, parlino forte e<br />

persino saltellino, la musica melodicamente, le persone con il corpo<br />

92 .<br />

Ci deve essere, da questo punto di vista, una qualche analogia tra l’andatura, il<br />

contegno il portamento delle persone quando esprimono le emozioni comuni e il modo<br />

91 In generale, sottolinea Kivy, l’intera comunità dei filosofi britannici e americani interessata alla questione<br />

dell’espressività ha accettato al fatto che la musica sia espressiva delle emozioni comuni in virtù<br />

del suo poss<strong>ed</strong>erle come proprietà percettive. Ma, una volta assodato questo restano tre importanti questioni,<br />

sulle quali c’è un sostanziale disaccordo, da risolvere, vale a dire: 1) Come, attraverso quale processo,<br />

la musica è capace di esprimere le emozioni nella varietà delle loro sfumature? 2) Qual è il ruolo<br />

che le proprietà espressive giocano nella struttura <strong>musicale</strong> cui appartengono? Dato che le emozioni comuni<br />

sono, come proprietà espressive, nella musica e non nell’ascoltatore, che cosa significa essere profondamente<br />

commosso dalla musica?<br />

92 P. Kivy, Filosofia della musica. Un’introduzione, cit., pp. 45-46.<br />

62


in cui la musica suona o è descritta quando è percepita come espressiva di quelle stesse<br />

emozioni. Kivy è certo che una simile analogia esista, anzi, è proprio basandosi su di<br />

essa che ha tentato di spiegare il problema dell’espressività <strong>musicale</strong> già a partire da<br />

The Cord<strong>ed</strong> Shell. Com’è possibile però, ammesso che possibile sia, avvicinare<br />

l’espressione umana delle emozioni con l’espressione delle emozioni nella musica?<br />

L’<strong>emozione</strong> è uno stato di coscienza e sembrerebbe che soltanto esseri viventi dispongano<br />

di stati di coscienza 93 . Secondo Kivy, è necessario, a tale proposito fare una distinzione<br />

tra “esprimere qualcosa” e “essere espressivo di qualcosa”, poiché per potere<br />

esprimere qualcosa bisogna sentire l’<strong>emozione</strong> espressa, mentre per essere espressivi di<br />

un’<strong>emozione</strong> non è necessario che qualcuno o qualcosa provi realmente<br />

quell’<strong>emozione</strong>. L’esempio che egli propone è il seguente:<br />

Se, nelle circostanze appropriate, sono spinto dalla rabbia a urlare e a<br />

stringere i pugni, è corretto dire che io ho espresso la mia <strong>emozione</strong>;<br />

<strong>ed</strong> è corretto dire che l’urlare e lo stringere i pugni esprimono o sono<br />

l’espressione della mia <strong>emozione</strong>. È estremamente importante notare<br />

che una condizione necessaria affinché l’urlare e lo stringere i pugni<br />

siano l’espressione della mia rabbia è che io sia realmente arrabbiato;<br />

e fino a che io non sono veramente arrabbiato, non è corretto dire che<br />

io ho espresso la mia rabbia o che il mio urlare e il mio stringere i<br />

pugni sono espressioni di tale rabbia. Si consideri questo come il paradigma<br />

dell’espressione emotiva.<br />

Ma si confronti questo caso con quest’altro. Il San Bernardo ha<br />

una faccia triste. Con ciò non vogliamo dire che la faccia del San<br />

Bernardo esprime tristezza. Poiché di certo il San Bernardo non è<br />

sempre triste. E affinché la sua faccia possa essere possa essere sempre<br />

appropriatamente descritta come esprimente tristezza, dovrebbe<br />

verificarsi il seguente caso: la povera creatura dovrebbe trovarsi in un<br />

perenne stato di tristezza. Pertanto, quando descriviamo la faccia del<br />

San Bernardo come una faccia triste, non stiamo dicendo che esso esprime<br />

tristezza, ma, piuttosto, che esso è espressivo di tristezza. Si<br />

consideri questo come il paradigma dell’essere espressivo di φ, dove<br />

“φ” è il nome di un’<strong>emozione</strong> o di uno stato d’animo (come “rabbia”<br />

o “malinconia”) 94 .<br />

Dunque, perché un essere umano esprima un’<strong>emozione</strong>, condizione necessaria è<br />

che realmente senta quell’<strong>emozione</strong> (paradigma dell’espressione emotiva). Le cose non<br />

93<br />

Cfr. il recente contributo di A. Bertinetto, Bach e il San Bernardo. La filosofia della musica di Peter<br />

Kivy, «Estetica», I (2006), pag. 92.<br />

94<br />

P. Kivy, The Cord<strong>ed</strong> Shell …, cit., Cap. II, To Express and To Be Expressive, pag. 12. Questa distinzione<br />

ci informa Kivy la si ritrova nel libro di Alan Tormey, The Concept of Expression: A Study in Philosophical<br />

Psychology and Aesthetics (Princeton University Press, Princeton, 1971, Cap. II). Sembrerebbe<br />

che sia stato proprio il libro di Tormey a trasmettere a Kivy una visione chiara riguardo al concetto di<br />

espressione.<br />

63


stanno così invece nell’altro caso, la tristezza del muso del San Bernardo, ma anche in<br />

altri casi analoghi a questo, come, ad esempio, quello del salice piangente. Il muso del<br />

San Bernardo non esprime tristezza, ma è espressivo di essa. La tristezza del muso del<br />

San Bernardo esiste – evidenzia Kivy – in virtù del nostro v<strong>ed</strong>erla come una sorta di<br />

caricatura del volto umano quando esprime tristezza. Inoltre, possiamo affermare che<br />

se il San Bernardo ci appare triste è anche per via di altri suoi tratti fisici, gli occhi umidi,<br />

la fronte aggrottata, la bocca ricurva e le orecchie afflosciate; caratteristiche, queste,<br />

che rimandano tutte alle caratteristiche di un volto umano quando esprime tristezza.<br />

La tristezza sarebbe quindi una qualità del muso nella stessa maniera in cui l’allegria è<br />

una qualità del giallo. Stessa cosa dicesi del salice piangente, esso non è così definito<br />

perché realmente sta provando la tristezza, bensì perché è espressivo di tristezza (paradigma<br />

dell’essere espressivo di φ, dove “φ” è il nome di un’<strong>emozione</strong> oppure di un<br />

umore, come la rabbia, la malinconia, etc.). Il problema ora è questo: a quale dei due<br />

paradigmi dobbiamo ricondurre l’espressività della musica? Al paradigma<br />

dell’esprimere un’<strong>emozione</strong>? Oppure al paradigma dell’essere espressivo di?<br />

Noi tutti, evidenzia Kivy, abbiamo tentato, chi in un modo chi nell’altro, di descrivere<br />

una canzone, una melodia, un tema oppure una sinfonia in termini emotivi:<br />

abbiamo detto di una canzone che è triste, di una melodia che è allegra, di un tema che<br />

è minaccioso, di una sinfonia che è malinconica. Leggiamo questo tipo di descrizioni<br />

della musica dappertutto, nella più “alta” e consapevole così come nella più “bassa” e<br />

inconsapevole forma di critica <strong>musicale</strong>. Compositori grandi e meno grandi hanno descritto<br />

la loro musica in termini emotivi, e così anche i musicologi. Ma, quando noi,<br />

oppure i compositori, i critici, i musicologi, diciamo che una melodia è triste, stiamo<br />

dicendo che essa esprime tristezza o che è espressiva di questa <strong>emozione</strong>? Applicato<br />

agli esempi visti: stiamo parlando del pugno chiuso di un uomo arrabbiato o del muso<br />

del San Bernardo?<br />

Dal punto di vista di Kivy c’è una buona ragione per accantonare l’idea che<br />

quando diciamo di un brano <strong>musicale</strong> che è triste ciò equivalga a dire che “la musica<br />

esprime tristezza”. Perché se la musica esprimesse tristezza, questo vorrebbe dire che la<br />

sua tristezza starebbe in stretta relazione con la tristezza di qualcuno, così come l’aver<br />

alzato la voce e il pugno chiuso stanno alla rabbia quando correttamente dico di esprimere<br />

rabbia, nel paradigma dell’espressione emotiva. Solitamente, l’ovvio candidato è<br />

il compositore, la cui tristezza si suppone la musica debba esprimere. Una tesi simile,<br />

nota Kivy, è quella sostenuta dal biografo di Beethoven, J. W. N. Sullivan.<br />

64


Per Sullivan infatti la musica di Beethoven è lo specchio dell’uomo, l’espressione delle<br />

sue passioni. Egli scrive così:<br />

Il coraggio e la risolutezza che troviamo nel primo movimento [della<br />

Hammerclavier sonata] sono curiosamente austeri …. Quelle armonie<br />

fr<strong>ed</strong>de, così tipiche degli ultimi lavori di Beethoven, non trasmettono<br />

più quella fiducia calorosa e umana di un uomo che sa che la vittoria<br />

sta alla fine. Qui viene espressa una risolutezza arida e spoglia, non<br />

priva di coraggio, ma che non è toccata da nessuna delle gioie che si<br />

possono provare al termine di un conflitto … L’uomo che ha scritto<br />

questa musica è già di per se un gran solitario. Il suo coraggio non si<br />

è affatto affievolito, ma è diventato più torvo. Sembrerebbe che la<br />

sofferenza lo abbia indurito; verrebbe da pensare che quest’uomo non<br />

potrà mai più provare emozioni … Il movimento lento è l’espressione<br />

deliberata, da parte di un uomo che non ha alcun riserbo, di una sofferenza<br />

fr<strong>ed</strong>da e senza eguali, che sembrerebbe trascinarci in un baratro<br />

dove nulla di ciò che chiamiamo vita potrebbe durare più di un istante<br />

95 .<br />

Quello che emerge chiaramente dalla descrizione di Sullivan non è altro che la<br />

diffusa concezione che la musica non sia espressiva, ma che esprima le emozioni, allo<br />

stesso modo, abbiamo visto, di un essere senziente: che la musica stia insomma alle<br />

emozioni come il pugno chiuso sta alla rabbia, non come la tristezza sta al muso del<br />

San Bernardo. Sullivan, scrive Kivy, impassibilmente usa “espressione” piuttosto che<br />

“espressivo di”. Inoltre, da questo esempio si evidenzia anche che le qualità emotive<br />

della musica sono viste come inerenti allo stato mentale del compositore. La musica di<br />

Beethoven in Hammerclavier non esprime più entusiasmo e fiducia, perché è Beethoven<br />

che non ha più fiducia e entusiasmo, e che è diventato un “grande solitario”. Così<br />

descritta la funzione della musica sarebbe quindi quella di comunicare gli stati mentali<br />

del compositore, e, questi stati testimonierebbero la profondità della natura dell’artista<br />

e la qualità delle sue esperienze di vita.<br />

La teoria dell’espressione cui invece pensa Kivy, non c’è ombra di dubbio, rifiuta<br />

l’idea che la musica possa esprimere le emozioni piuttosto che essere espressiva<br />

di esse. Una teoria che sgombra il campo quindi dalle facili suggestioni di una critica<br />

intrisa di psicologismi o condotta sulla cattiva strada da una monotona teoria<br />

dell’espressività. Il pericolo è sempre lo stesso: quello di descrivere la musica emotivamente<br />

anche quando è perfettamente chiaro che essa non esprime le emozioni che le<br />

ascriviamo; la descriviamo così infatti anche quando non abbiamo modo di sapere se<br />

95<br />

J. W. N., Sullivan, Beethoven: His Spiritual Development, Vintage Books, New York, 1960, pp. 138-<br />

39.<br />

65


esprime quelle emozioni perché non abbiamo modo di conoscere quali erano gli stati<br />

emotivi del compositore quando l’ha scritta. Questo ci deve far molto pensare, osserva<br />

Kivy, perché accade di fatto che la maggior parte delle nostre descrizioni emotive della<br />

musica sono logicamente indipendenti dagli stati della mente del compositore, mentre<br />

se il mio pugno chiuso è o non è un’espressione della mia rabbia è logicamente dipendente<br />

dal fatto di essere o non essere arrabbiato. L’espressività della musica rientra<br />

quindi nel paradigma dell’essere espressivo di φ.<br />

A questo punto dobbiamo capire in che senso la musica espressiva ha la stessa<br />

relazione con le emozioni che il muso del San Bernardo ha con l’<strong>emozione</strong> della tristezza.<br />

Kivy distingue tre caratteristiche espressive 96 :<br />

1. In primo luogo ci sono le caratteristiche della musica di cui si può dire che<br />

«suonano come» i suoni emessi dagli esseri umani nell’esprimere le loro emozioni:<br />

pensiamo all’esempio più ovvio del linguaggio parlato. Una musica è<br />

percepita come allegra quando è brillante, forte e nel registro alto, perché le<br />

persone allegre si esprimono con toni brillanti, forti, a volte persino rumorosi.<br />

2. In secondo luogo ci sono quelle caratteristiche della musica di cui si può dire<br />

che rassomiglino, nel loro suono, ad aspetti visibili del comportamento espressivo<br />

umano: per esempio il ritmo della gestualità, il movimento del corpo. La<br />

musica in questo caso è comunemente descritta in termini molto simili a quelli<br />

che usiamo per descrivere il movimento del corpo umano sotto l’influsso di<br />

emozioni.<br />

3. In terzo luogo ci sono alcune caratteristiche musicali, in particolare gli accordi<br />

di maggiore, minore e diminuito, che, per la maggior parte delle persone, possi<strong>ed</strong>ono<br />

rispettivamente i toni emotivi dell’allegria, della malinconia e<br />

dell’angoscia, ma che non sembrano rassomigliare né al suono dell’espressione<br />

umana né al suo aspetto visibile, perché – come il giallo e la sua allegria – sono<br />

semplici qualità percettive.<br />

Nei primi due punti troviamo delineata quella che Kivy in The Cord<strong>ed</strong> Shell definì<br />

«teoria del profilo» (contour theory or model) 97 dell’espressività <strong>musicale</strong>. Tale<br />

teoria è stata così definita perché essa spiega l’espressività della musica m<strong>ed</strong>iante la<br />

congruenza, l’analogia, del “contorno” o “profilo” della struttura <strong>musicale</strong> con le manifestazioni<br />

acustiche e visive dell’espressione emotiva umana. Kivy tiene a precisare<br />

96<br />

P. Kivy, Filosofia della musica. Un’introduzione, cit., pag. 47.<br />

97<br />

Cfr. The Cord<strong>ed</strong> Shell …, cit., cap. VIII, pp. 71-83; Cfr. anche Filosofia della musica …, cit., pp. 48-<br />

53.<br />

66


che la teoria del profilo non è da considerarsi una teoria rappresentazionale, una teoria<br />

cioè secondo cui la musica rappresenta la voce e la gestualità dell’espressione umana.<br />

Da questo punto di vista infatti noi non udiamo le emozioni della musica, nella musica,<br />

come rappresentate, in maniera m<strong>ed</strong>iata, bensì in maniera imm<strong>ed</strong>iata. L’analogia tra la<br />

musica e il comportamento espressivo umano infatti, secondo Kivy, la si può cogliere a<br />

livello subliminale, vale a dire: dobbiamo trovarci in uno stato di inconsapevolezza ri-<br />

spetto all’esistenza dell’analogia stessa, non dobbiamo in alcun modo presupporla. Il<br />

problema è comprendere però perché dovremmo udire emozioni nella musica a causa<br />

di questa percezione subliminale, e non udire invece qualcos’altro. Questo dipendereb-<br />

be dall’evoluzione che ci struttura in un certo modo per selezione naturale. Kivy spiega<br />

infatti che la tendenza generale di noi esseri umani è quella di v<strong>ed</strong>ere le figure ambigue<br />

come forme animate anziché come forme inanimate: come esseri viventi, piuttosto che<br />

non-viventi. V<strong>ed</strong>iamo forme viventi nelle nuvole, nelle macchie sui muri, così come<br />

nelle cose che si celano ombrose nei boschi. Se v<strong>ed</strong>iamo un bastone, facilmente siamo<br />

portati a pensare che si tratti di un serpente <strong>ed</strong> è meglio che le cose stiano così, perché<br />

se fuggiamo da un bastone il massimo rischio che possiamo correre è quello di sprecare<br />

inutilmente un po’ delle nostre energie, farci venire il fiatone, mentre se fuggiamo da<br />

un serpente siamo al riparo da un potenziale pericolo. L’evoluzione insomma dice:<br />

«Meglio sicuri che sofferenti. Meglio errare che essere mangiati» 98 . La stessa cosa sostiene<br />

Kivy accade con i suoni, accade cioè che li percepiamo come animati, come espressivi<br />

di emozioni. Tuttavia, nel caso dei fenomeni visivi ambigui siamo coscienti di<br />

quello che stiamo v<strong>ed</strong>endo, mentre nel caso della musica le cose funzionano diversamente:<br />

per quanto possiamo essere consapevoli delle proprietà espressive, non siamo<br />

altrettanto consapevoli del fatto che prendiamo il profilo <strong>musicale</strong> per un enunciato espressivo.<br />

Se questo accade, spiega Kivy, è perché il senso dell’udito ha meno importanza<br />

nella lotta per la sopravvivenza, a differenza del senso della vista che è invece il<br />

senso primario degli esseri umani e anche di altri primati superiori. È probabile quindi<br />

che quella che originariamente era una tendenza consapevole, udire cioè i suoni ambigui<br />

come animati e come potenzialmente minacciosi, con il tempo, a causa di ragioni<br />

evolutive, sia divenuta inconsapevole.<br />

A nostro modo di v<strong>ed</strong>ere la teoria del profilo richiama alla mente la tesi isomorfica<br />

sostenuta da Langer, la quale forte delle acquisizioni degli psicologi gestaltisti 99<br />

98 P. Kivy, Filosofia della musica, cit., pag. 51.<br />

99 La teoria dell’isomorfismo viene presentata da Köhler in un saggio del 1920, Die Physischen Gestalten<br />

in Ruhe und im stationärem Zustand [Le forme fisiche in quiete e nello stato stazionario], come teo-<br />

67


spiegava che in realtà esisterebbe un’analogia formale tra le proprietà strutturali proprie<br />

della musica e le proprietà formali del feeling umano 100 . Kivy stesso non manca di evidenziare<br />

tale affinità, anche se tiene rilevare le differenze che intercorrono tra la sua<br />

concezione e quella della Langer. Mi sembra utile riportare quanto egli scrive a tale<br />

proposito:<br />

Cr<strong>ed</strong>o che sarebbe utile, a questo punto, contrapporre alla concezione<br />

qui sostenuta quella della Langer, con la quale ha qualche affinità;<br />

poiché si potrebbe pensare che ciò che qui si sta sostenendo è semplicemente<br />

un rimaneggiamento delle sue ben note obiezioni. Sia Langer<br />

che io affermiamo che la musica possi<strong>ed</strong>e qualche somiglianza<br />

con la “vita emotiva”, e che, in un modo o nell’altro, è proprio qui<br />

che possiamo trovare la spiegazione della sua espressività. Ma da qui<br />

iniziano le differenze. La Langer afferma, diversamente da me, che<br />

l’“isomorfismo” (un suo termine) della musica con la vita emotiva fa<br />

sì che la musica sia un simbolo di tale vita. Io affermo invece che la<br />

musica è espressiva di emozioni singole e specificabili, per lo meno<br />

entro certi limiti, laddove lei nega questo punto, sostenendo solo che<br />

la musica è un simbolo della vita emotiva considerata come un insieme<br />

unico, e che non può essere simbolica – e quindi non può essere<br />

ria generale delle strutture fisiche (per esempio un magnete avvicinato ad altri magneti ne altera la configurazione<br />

spaziale complessiva): il suo uso in psicologia non è che un’applicazione particolare. Tale teoria<br />

nasce da una riconsiderazione da parte di Köhler, ma anche degli altri gestaltisti berlinesi, del ruolo<br />

delle sensazioni. Nello specifico viene criticato – a seguito di una serie di esperimenti, condotti da Wertheimer<br />

nel 1910, sulla percezione del movimento apparente o movimento-phi – uno dei paradigmi della<br />

psicologia associazionista, l’ipotesi della costanza, secondo cui si deve assumere una corrispondenza<br />

puntuale tra lo stimolo e la percezione. Per Köhler invece una simile corrispondenza non esiste, esiste<br />

invece una più generale somiglianza strutturale tra complessi gestaltici di stimoli da un lato e fenomeni<br />

psichici globali dall’altro. Il processo percettivo non è pertanto una forma di interpretazione a partire da<br />

stimoli indipendenti collegati in seguito da processi inferenziali e associativi, ma è caratterizzato fin dal<br />

principio da una tendenza alla globalità. Le Gestalten psicologiche, come le Gestalten fisiche, obb<strong>ed</strong>iscono<br />

a leggi di organizzazione (di somiglianza, contiguità, proseguimento naturale, ecc.).<br />

Per quanto concerne da vicino il riferimento alla dinamica <strong>musicale</strong>, nell’altra importantissima opera del<br />

1929, Gestalt Psychology, Köhler così scriveva: «In modo affatto generale, i processi interiori, vuoi emotivi,<br />

vuoi intellettuali, mostrano tipi di sviluppo che si possono terminizzare con elementi comuni nella<br />

terminologia <strong>musicale</strong>, quali crescendo e diminuendo, accelerando e ritardando. Come queste qualità<br />

occorrono nel mondo delle esperienze acustiche, occorrono anche nel mondo di quelle visive, per cui<br />

possono esprimere caratteristiche dinamiche simili della vita interiore nell’attività direttamente osservabile<br />

… Al tempo interiore in accelerazione e al suo livello dinamico corrisponde un crescendo e un accelerando<br />

nel movimento visibile. Naturalmente, lo stesso sviluppo interiore può esprimersi in via acustica,<br />

come, per esempio, nell’accelerando e crescendo del parlato …». W. Köhler, Gestalt Psychology, Berlino,<br />

1929, pp. 248-249.<br />

100 Nell’opera Sentimento e forma a tale proposito Langer scriveva: «Le strutture tonali che noi chiamiamo<br />

“musica” hanno una stretta somiglianza logica con le forme del sentimento umano: forme di sviluppo<br />

e decrescenza, di flusso e di accumulo, di conflitto e di soluzione, di rapidità, arresto, somma eccitazione,<br />

calma o attivazione sottile e cadute nella sfera del sogno; non gioia e dolore, forse, ma il mordente<br />

dell’una o dell’altra o di entrambi; la grandezza e la brevità e l’eterno trascorrere di tutto ciò che è<br />

vitalmente sentito. Questo lo schema, o la forma logica, del sentire; e lo schema della musica è quella<br />

forma stessa, elaborata nella purezza e nel metro del suono e del silenzio. La music è un corrispondente<br />

tonale della vita emotiva. Una tale analogia formale, o congruenza di strutture logiche, è la condizione<br />

prima per una relazione fra un simbolo e tutto ciò che questo deve significare. Il simbolo e l’oggetto<br />

simbolizzato devono avere una qualche forma logica in comune». S. K. Langer, Sentimento e forma, cit.,<br />

pag. 43.<br />

68


espressiva – di emozioni singole, dal momento che ciò vorrebbe dire<br />

che essa sarebbe un “linguaggio” delle emozioni, il che ovviamente<br />

non corrisponde al vero. Come è stato evidenziato dalla letteratura<br />

prec<strong>ed</strong>ente, il passaggio dall’ “isomorfismo” al “simbolo” è fallace.<br />

Dal fatto che la musica è isomorfica con la vita emotiva, non segue<br />

che essa simbolizza la vita emotiva, sebbene l’essere isomorfica con<br />

la vita emotiva potrebbe essere una condizione necessaria (ma non<br />

sufficiente) affinché qualcosa sia un certo tipo di simbolo della vita<br />

emotiva. Questa particolare critica non può essere rivolta contro la<br />

posizione qui difesa; poiché io non sostengo che la somiglianza della<br />

musica col comportamento espressivo renda la musica simbolica di<br />

alcunché 101 .<br />

Con tutte le differenze del caso, a parte cioè la non condivisibilità da parte di<br />

Kivy della teoria langeriana del simbolo, ritenuta una indebita associazione alla nozio-<br />

ne di isomorfismo, ciò che si evidenzia in entrambe le teorie è l’esistenza di questa ana-<br />

logia tra le proprietà strutturali-formali della musica e la vita emotiva degli esseri umani,<br />

ma anche il fatto che è proprio sulla base di questa somiglianza che sussiste la possibilità<br />

di spiegare e quindi comprendere l’espressività <strong>musicale</strong>.<br />

Resta ora da chiarire il discorso sulla terza proprietà espressiva, quella relativa<br />

cioè agli accordi espressivi, maggiori, minori, diminuiti. In questo caso ci troviamo dinanzi<br />

alla cosiddetta teoria convenzionale (convention theory or model)<br />

dell’espressività <strong>musicale</strong>; essa spiega l’espressività della musica come una funzione,<br />

semplicemente, della consueta 102 associazione di alcune caratteristiche musicali a quelle<br />

delle nostre risposte emotive. Si tratta di caratteristiche però la cui associazione non<br />

chiama in causa nessun tipo di relazione analogica. È il caso degli accordi espressivi, i<br />

quali sono percepiti dalla maggior parte delle persone rispettivamente come allegri,<br />

malinconici e angosciosi, non perché presentino una qualche analogia con i tratti del<br />

comportamento umano, ma solo perché sarebbero qui in gioco qualità percettive semplici<br />

103 .<br />

Come a giusta ragione, cr<strong>ed</strong>iamo, ha sottolineato Bertinetto «non basta, come fa<br />

Kivy, affermare che recenti teorie di psicologi, biologi evoluzionisti, filosofi analitici<br />

(di cui Kivy non fornisce le generalità) sostengono che le emozioni fondamentali sono<br />

universali e che il sistema tonale è quello che meglio ha incorporato l’espressione di ta-<br />

101 P. Kivy, The Cord<strong>ed</strong> Shell …, cit., pp. 60-61.<br />

102 Questa tendenza di Kivy di appellarsi continuamente al senso comune, al consueto modo di v<strong>ed</strong>ere,<br />

percepire, ascoltare – come avevamo già evidenziato – desta in noi non poche perplessità. Cr<strong>ed</strong>iamo infatti<br />

che siano formule utilizzate con una certa superficialità e vaghezza.<br />

103 Per un approfondimento in merito alla distinzione di Kivy tra qualità semplici e complesse rinviamo<br />

al terzo capitolo di Filosofia della musica …, cit., pp. 42-45.<br />

69


li emozioni. Occorrerebbe fornire qualche argomentazione e documentare tale affermazione.<br />

Peraltro non sembra ovvio che le emozioni fondamentali (in che senso poi si può<br />

distinguere se un’<strong>emozione</strong> è fondamentale o meno?), e tanto meno le loro espressioni,<br />

siano le stesse in ogni tempo e cultura. Tanto meno è ovvio che la tonalità maggiore<br />

esprima sempre emozioni positive e viceversa la tonalità minore emozioni negative: isolare<br />

l’aspetto armonico dalla struttura ritmica e dalla melodia ostacola la comprensione<br />

del complesso rapporto tra la musica e le emozioni. Kivy non dice nulla (per<br />

quanto io ne sappia) sull’espressione di emozioni nel jazz, dove non è affatto raro che,<br />

in rapporto al ritmo e alla melodia, una tonalità minore possa essere espressiva di gioia.<br />

Peraltro i dubbi che affiorano nei più recenti scritti di Kivy intorno alla capacità espressiva<br />

della musica sono sintomo del fatto che la teoria naturalistica di The Cord<strong>ed</strong> Shell<br />

non è sorretta da convincenti argomentazioni» 104 .<br />

In effetti, oramai da un po’ di tempo a questa parte 105 , Kivy ha seriamente messo<br />

in discussione l’intero impianto della teoria del profilo. Non è più certo infatti, questo<br />

forse anche per via di alcune critiche ricevute 106 , che ci siano analogie riconoscibili<br />

tra il profilo <strong>musicale</strong> e l’espressione umana, non è nemmeno sicuro che il fenomeno<br />

delle figure visive ambigue possa essere applicato ai suoni e a ciò che ascoltiamo in essi,<br />

né tantomeno quindi che la spiegazione evoluzionistica possa a questo punto essere<br />

di qualche utilità. Tuttavia, Kivy è giunto alla conclusione che, per quanto buffo possa<br />

apparire, la teoria del profilo, non avendo ancora trovato, per così dire, una degna sostituta,<br />

resta attualmente la più attraente. Semplicemente – egli dice – si rifiuta di morire,<br />

104 A. Bertinetto, Bach e il San Bernard. La filosofia della musica di Peter Kivy, cit., 100-101.<br />

105 Cfr. New Essays on Musical Understanding, cit.; Filosofia della musica …, cit.<br />

106 Tra queste le più significative sono quelle che gli sono state mosse da Jerrold Levinson e Stephen Davies.<br />

Entrambi sono sostenitori di una teoria non eccitazionistica dell’espressività <strong>musicale</strong>. Tanto per<br />

Kivy quanto per Levinson e Davies è valido infatti il principio dell’externality claim, secondo cui<br />

l’espressività della musica è vincolata alla struttura <strong>musicale</strong> stessa. Questo è sicuramente il tratto comune<br />

delle loro teorie. Anche se poi ciascuno spiega diversamente questa appartenenza. Secondo Davies (il<br />

quale è molto vicino all’impostazione cognitivista di Kivy) l’esperienza che abbiamo della musica è<br />

quella di caratteristiche emotive il cui aspetto è associato con un’<strong>emozione</strong>. Ma la capacità di riconoscere<br />

un certo brano o passaggio <strong>musicale</strong> come espressivo di una certa <strong>emozione</strong> può dipendere non soltanto<br />

da fattori naturali, ma piuttosto dall’ambiente socio-culturale. A tale proposito cfr. S. Davies, Musical<br />

Meaning and Expression, cit.; S. Davies, Themes in Philosophy of Music, Oxford University Press, Oxford<br />

2003, pp. 119-91, in particolare pag. 185. Sulla convenzionalità dei sentimenti e della loro espressione<br />

<strong>musicale</strong> insiste anche David Carr, il quale, sostiene da un punto di vista wittgensteiniano che la<br />

musica ha il suo proprio carattere emotivo. Cfr. D. Carr, Music, Meaning, Emotion, in «The Journal of<br />

Aesthetics and Art Criticism», 63, 2004, pp. 225-34.<br />

Per Levinson invece un passaggio <strong>musicale</strong> è espressivo di una certa <strong>emozione</strong> soltanto se tale passaggio<br />

è ascoltato, da una persona esperta di quel genere <strong>musicale</strong>, come espressione di quella data <strong>emozione</strong>. E<br />

poiché l’espressione di un’<strong>emozione</strong> richi<strong>ed</strong>e l’esistenza di un soggetto che esprime l’<strong>emozione</strong>, ascoltare<br />

un’<strong>emozione</strong> in musica significa ascoltare – magari in modo subliminale – un agente nella musica,<br />

una «persona» <strong>musicale</strong>. Cfr. J. Levinson, Musical Expressiveness, in The Pleasures of Aesthetics, cit.,<br />

pp. 20-125; Id., Musical Expressiveness as Hearability as Expression, in M. Kieran (a cura di), Contemporary<br />

debates in Aesthetics and the Philosophy of Art, Blackwell, Oxford 2006, pp. 192-204.<br />

70


nonostante le sue numerose difficoltà. Quale soluzione adottare allora? Kivy non ce lo<br />

dice. Si ferma solo a constatare che attualmente c’è un accordo generale sul fatto che la<br />

musica esprima le qualità emotive come qualità percettive, e che quindi la cosa migliore<br />

da fare, stando così le cose, è di attendere fiduciosi che nel futuro si trovi un spiegazione<br />

più convincente. Ritiene, infatti, che sia un errore rimanere impantanati nel problema<br />

di come la musica riesca a contenere le emozioni comuni come qualità percettive;<br />

ne consegue la scelta di dirigere l’attenzione al ruolo che tali qualità giocano nella<br />

struttura e nell’esperienza <strong>musicale</strong>. Interessante a tale proposito riportare una immagine<br />

molto significativa che Kivy utilizza per spiegare il fenomeno dell’espressività <strong>musicale</strong>,<br />

quella della musica come una scatola nera:<br />

Consideriamo dunque la musica, sotto questo rispetto, come una<br />

«scatola nera», come dicono gli scienziati: vale a dire, come una<br />

macchina di cui ci è ignoto il funzionamento interno. Sappiamo che<br />

cosa vi entra e che cosa ne esce. Rispetto al modo in cui la musica<br />

riesce a esibire le emozioni comuni come qualità percettive, essa è<br />

per noi una scatola nera. Sappiamo che cosa vi entra: le qualità musicali<br />

che, per tre secoli, sono state associate con le emozioni particolari<br />

di cui la musica è espressiva. E sappiamo che cosa ne esce: le qualità<br />

espressive che sono udite come espresse dalla musica. E piuttosto<br />

che farci prendere dall’ossessione di penetrare dentro questa scatola<br />

nera, dovremmo, o per lo meno alcuni di noi dovrebbero, tenere presenti<br />

le implicazioni che questo nuovo modo di considerare le qualità<br />

espressive della musica (infatti è davvero un modo nuovo) ha per la<br />

nostra comprensione complessiva della musica 107 .<br />

3. L’espressività <strong>musicale</strong>: una breve storia<br />

Chiarito dunque che la musica assoluta 108 , secondo Kivy, non esprime letteralmente<br />

le emozioni, ma è espressiva di esse, sarà necessario entrare meglio nel merito<br />

107 P. Kivy, Filosofia della musica …, cit., pag. 59.<br />

108 Non dobbiamo dimenticare che al centro dell’indagine di Kivy troviamo la musica assoluta, la cui rapida<br />

affermazione verso la seconda metà del diciottesimo secolo segna un momento di svolta radicale di<br />

quella tradizione che fino ad allora pensando alla musica pensava principalmente alla musica vocale. Per<br />

quanto infatti evidenzia Kivy la musica strumentale non fosse sconosciuta in epoca pre-moderna <strong>ed</strong> esistevano<br />

comunque splendide composizioni, essa non godeva, diciamo così, della stessa considerazione<br />

della musica vocale. Questa situazione notavamo però che ad un certo punto muta radicalmente, visto<br />

che la produzione di musica strumentale aumenta notevolmente, e, ancor di più, essa diventa il centro<br />

dell’attenzione di intellettuali e filosofi. La musica non deve più necessariamente farsi imitazione o rappresentazione<br />

della voce umana parlante come aveva voluto la tradizione inaugurata da Platone e sopravvissuta<br />

anche nelle idee degli esponenti della Camerata Fiorentina, ma può essere concepita come un<br />

71


della questione di come tali emozioni possano essere vincolate alla struttura <strong>musicale</strong>,<br />

capire quindi in che termini egli intenda questo rapporto, in che senso cioè esso possa<br />

sussistere e debba essere interpretato. Interessante per noi, da questo punto di vista, da-<br />

re una rapida lettura del percorso storico-teorico tracciato e seguito da Kivy, in alcune<br />

sue opere in particolare 109 , entro il quale, avremo modo di verificare a breve, una tale<br />

concezione viene a chiarirsi. Kivy si confronta sempre con un oggetto ben selezionato;<br />

anche quando si propone di dare uno sguardo rapido alla storia del pensiero <strong>musicale</strong>,<br />

egli dirige l’attenzione in modo quasi esclusivo alla musica assoluta occidentale e ai<br />

modi in cui essa è stata interpretata. Una scelta questa che ha fatto molto discutere e<br />

che è stata oggetto di critiche aspre, soprattutto da parte di chi ha visto tale restrizione<br />

del campo d’indagine come un ostacolo per qualsiasi tentativo di guadagnare un respiro<br />

universale 110 . Vale a dire non si può parlare di Musica, quando tutto il discorso è rivol-<br />

to ad una tradizione <strong>musicale</strong> ben determinata storicamente e geograficamente. Il per-<br />

corso nella storia dell’estetica <strong>musicale</strong> compiuto da Kivy si snoda lungo due direttrici<br />

principali: da un lato troviamo il riferimento ai classici del pensiero filosofico che hanno<br />

d<strong>ed</strong>icato particolare attenzione all’arte dei suoni, dall’altro invece il confronto con le<br />

tesi di filosofia della musica attualmente più discusse in ambito analitico (Susanne<br />

Langer, Leonard Meyer).<br />

Apriamo una breve parentesi per evidenziare come anche in questo caso si possa<br />

rilevare la piena sintonia di Kivy con l’altra tendenza diffusa tra gli analitici che è<br />

qualcosa che è dotato d’un potere espressivo autonomo: essa è capace di veicolare emozioni e significati,<br />

grazie alle capacità semantiche che le sono state riconosciute anteriormente, all’epoca della sua stretta<br />

unione con il linguaggio verbale. Scrive Kivy a tal proposito, «Per la stragrande maggioranza della popolazione<br />

mondiale, «musica» significa musica cantata. Per la stragrande maggioranza delle persone della<br />

storia dell’umanità, «musica» ha significato musica cantata. Il moderno «problema della musica» è figlio<br />

della musica strumentale pura: musica assoluta, sola musica». Cfr. Filosofia della musica …, cit., pag.<br />

61.<br />

109 Cfr. P: Kivy, The Cord<strong>ed</strong> Shell …, cit.; Filosofia della musica …, cit.; Queste per lo meno sono le opere<br />

dove troviamo organicamente dispiegato tale percorso, ma potremmo in generale segnalare un po’<br />

tutte le sue opere, poiché Kivy costantemente non rinuncia a questo confronto, a volte anche muovendosi<br />

senza seguire un preciso ordine di comparizione delle diverse teorie. Ad ogni modo, il lettore, sicuramente,<br />

avrà già constatato che sono quelli i due testi di Kivy cui siamo soliti riferirci, e questo non a caso.<br />

Alla base di questa decisione c’è infatti una ragione precisa, poiché il The Cord<strong>ed</strong> Shell è la prima<br />

opera in cui Kivy getta le basi di tutta la successiva speculazione filosofica sulla musica <strong>ed</strong> è anche il<br />

luogo dove prende forma per la prima volta la teoria del formalismo emotivo, e Filosofia della musica,<br />

oltre che essere la più recente opera scritta, è invece il testo nel quale troviamo una summa delle principali<br />

tesi filosofiche sulla musica esposte da Kivy nelle sue prec<strong>ed</strong>enti pubblicazioni. Si tratta, inoltre di<br />

un’opera, nella quale, evidenziavamo, egli, alla luce dell’esperienza acquisita, valuta criticamente alcune<br />

delle proposte teoriche avanzate che filosofi a lui contemporanei hanno seriamente messo in discussione.<br />

110 Un altro importante aspetto da tenere in considerazione è proprio questo, e cioè, l’interesse di Kivy è<br />

tutto direzionato verso la musica classica occidentale. Nel The Cord<strong>ed</strong> Shell chiaramente si evidenzia<br />

questo dato quando Kivy scrive: « … E fintantoché la mia spiegazione sarà storica, basata su certi fatti<br />

relativi alla musica e alla sua evoluzione nell’Occidente, questa monografia sarà filosofica non in senso<br />

stretto». P. Kivy, The Cord<strong>ed</strong> Shell …, cit., pag. 16. Tutti gli esempi musicali di Kivy attingono dal repertorio<br />

della musica classica occidentale.<br />

72


quella, ricordiamo, di avanzare le personali proposte a seguito di un’esplorazione delle<br />

teorie che hanno inciso profondamente nella riflessione filosofica, se pure ritagliando<br />

in maniera estremamente selettiva i riferimenti ad essa.<br />

In che modo quindi è stata intesa l’espressività <strong>musicale</strong> nella storia del pensiero estetico?<br />

Viste in uno schema, le teorie più rappresentative sembrano riassumersi così:<br />

a) teoria dello eccitazionistica o modello disposizionale;<br />

b) teoria rappresentazionale;<br />

c) teoria metaforica;<br />

d) una teoria simbolica.<br />

Per quanto concerne specificatamente il primo punto, iniziamo subito ad evidenziare<br />

che l’idea fondamentale delle teorie disposizionali è che la musica ha il potere<br />

di suscitare emozioni nell’ascoltatore, <strong>ed</strong> è triste, gioiosa, malinconica, ecc. proprio in<br />

virtù del fatto che essa suscita tali emozioni in chi ascolta. E, di fatto, nell’ottica delle<br />

teorie disposizionali, dire che un passaggio <strong>musicale</strong> è malinconico altro significato<br />

non ha se non quello di riconoscergli la proprietà di rendere malinconico l’ascoltatore.<br />

La tradizione del modello disposizionale, avverte Kivy, è una delle tradizioni<br />

che maggiormente ha resistito nel tempo, basti pensare al fatto che essa ha avuto inizio<br />

con la teoria platonica della musica e delle emozioni, è stata ripresa a vario titolo dalle<br />

teorie del diciassettesimo e diciottesimo secolo 111 (tra queste vi è quella più rilevante<br />

della Camerata fiorentina, ma anche la teoria psicologica e fisiologica delle emozioni di<br />

Descartes – sotto influsso della quale si diffuse in Germania la cosiddetta «dottrina de-<br />

111 Le teorie del diciassettesimo e diciottesimo secolo, ci sembra opportuno evidenziare, rivestono un<br />

ruolo particolarmente significativo nella ricerca filosofica sulla musica di Kivy, in quanto egli sostiene<br />

che se appropriatamente investigate e rivisitate da tali teorie si possono ricavare degli utili spunti per <strong>ed</strong>ificare<br />

una migliore spiegazione dell’espressione <strong>musicale</strong>. A tale proposito nella Prefazione a The Cord<strong>ed</strong><br />

Shell scrive: «L’argomento di questo libro, così come le sue fonti, rivelano il lungo e imperituro interesse<br />

dell’autore per il diciassettesimo e il diciottesimo secolo, e la sua convinzione che sebbene coloro<br />

che in quei periodi hanno scritto sull’espressività <strong>musicale</strong> si sbagliavano su molte cose, essi avevano<br />

profondamente ragione su qualcosa di importante, e sulla cui base si potrebbe costruire una soddisfacente<br />

teoria dell’espressione <strong>musicale</strong>. È mia intenzione qui portare alla luce tale profondità, e costruire tale<br />

teoria. Spero comunque che il mio debito verso i filosofi del diciassettesimo e il diciottesimo secolo non<br />

comporterà che i capitolo iniziali vengano letti come una storia delle teorie dell’espressione <strong>musicale</strong><br />

dell’Illuminismo. Non è questo il mio scopo. La mia selezione delle teorie è alquanto parziale, e si basa<br />

non su un giudizio storico ma semplicemente su ciò che mi potrebbe essere utile per costruire la mia teoria»;<br />

The Cord<strong>ed</strong> Shell, cit., pag. xiii. Una precisazione simile si ritrova anche in Filosofia della musica,<br />

dove egli precisa: «Per raccontare la storia che sono tenuto a riferire devo ora saltare quasi duemila anni<br />

per giungere alla fine del s<strong>ed</strong>icesimo secolo. Non perché nel frattempo non sia stata compiuta nessuna<br />

riflessione sulla musica e le emozioni. Tuttavia c’è un continuità speciale tra la storia che comincia con<br />

Platone e Aristotele e il revival delle loro teorie delle emozioni in musica nel tardo Rinascimento. Tale<br />

storia ininterrotta è quella più pertinente al nostro progetto <strong>ed</strong> anche quella che risulta più proficua da<br />

percorrere»; Filosofia della musica …, cit., pp. 21-22.<br />

73


gli affetti» (Affektenlehre) – e la nuova teoria delle emozioni che nacque in Gran Bre-<br />

tagna, verso la fine del diciottesimo secolo, sulla base della psicologia associazionistica<br />

112 ), e si è protratta in maniera incisiva fino ai nostri giorni con la cosiddetta “arousal<br />

theory of emotions” (teoria eccitazionistica delle emozioni) 113 .<br />

Kivy si oppone decisamente al modello disposizionale delle teorie eccitazionistiche. Le<br />

principali obiezioni mosse sono le seguenti 114 :<br />

112 La teoria della Camerata fiorentina, così come la teoria cartesiana delle emozioni a cui molti teorici<br />

verso la metà del diciottesimo secolo aderirono, e la teoria di chi invece scelse di spiegare la relazione<br />

musica-emozioni seguendo il modello della psicologia associazionistica, secondo Kivy sono tutte teorie<br />

che hanno in comune il fatto di essere teorie disposizionali che accettano la spiegazione secondo la quale<br />

X (la musica) è triste se X eccita tristezza. Sotto questo aspetto, naturalmente, egli preferisce rifiutarle.<br />

Tuttavia, in comune hanno anche la concezione secondo cui il maggiore operatore nell’espressività <strong>musicale</strong><br />

– o comunque uno dei maggiori operatori – è una somiglianza della musica con alcuni aspetti<br />

dell’umana espressione. Da questo punto di vista, non è difficile a questo punto capire, tali teorie sono da<br />

recuperare. Kivy lo ha fatto. Se pensiamo, ad esempio, alla teoria sostenuta dai membri della camerata<br />

fiorentina - i quali pensavano che il modo di eccitare un’<strong>emozione</strong> nell’ascoltatore è quello di creare una<br />

somiglianza della linea <strong>musicale</strong> con la voce umana parlante appassionata (per questa ragione tale teoria<br />

è denominata da Kivy “speech theory”, teoria della parola) – subito potremmo accorgerci come essa riviva<br />

nella teoria del profilo. Certo Kivy estende l’analogia della musica in generale al comportamento<br />

espressivo umano, ma il tono della voce rientra pienamente nella sua descrizione. Ma anche la teoria<br />

dell’espressività spiegata secondo la teoria cartesiana rivela questa somiglianza; l’idea ricordiamo era<br />

che la musica può suscitare emozioni in virtù della somiglianza che essa presenta con gli spiriti vitali.<br />

Così se un compositore avesse desiderato scrivere per esempio musica triste, ciò che egli avrebbe dovuto<br />

fare sarebbe stato scrivere musica la cui configurazione generale somigliasse alla configurazione degli<br />

spiriti vitali appropriata per suscitare una tale <strong>emozione</strong>. Nella teoria dell’espressività ricondotta alla teoria<br />

psicologica associazionista troviamo invece la descrizione di quel fenomeno che Kivy chiama della<br />

“nostra canzone”. La teoria dell’espressione <strong>musicale</strong>, spiegata secondo l’associazione delle idee nello<br />

specifico, si fonda sulla considerazione che è m<strong>ed</strong>iante le associazioni per l’appunto che un individuo<br />

può fare (in relazione a quello che è lo stato emotivo di quel momento e in base alle particolari esperienze<br />

di vita vissute), durante l’ascolto che la musica può eccitare una particolare <strong>emozione</strong>. (Sul fenomeno<br />

della nostra canzone però ritorneremo più avanti). Sulle spiegazioni associazionistiche dell’espressività<br />

<strong>musicale</strong> sviluppate nel Diciottesimo secolo, si v<strong>ed</strong>a Maria Semi (a cura di), Il suono eloquente. Musica<br />

tra imitazione, espressione e simpatia, Aesthetica Preprint, Palermo 2008.<br />

113 Come avevamo già rilevato sono numerosi i teorici contemporanei che riabilitano nuove versioni, o<br />

varianti, dell’Arousal Theory. Ecco alcuni testi di riferimento a testimonianza della vivacità del dibattito:<br />

S. Speck, “Arousal Theory” reconsider<strong>ed</strong>, in “The British Journal of Aesthetics”, 28, 1991, pp. 40-47;<br />

M. Budd, Music and Communication of Emotions, in “The Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 53,<br />

1989, pp. 129-138; R. T. Allen, The Arousal and Expression of Emotion by Music, in “The British Journal<br />

of Aesthetics”, 30, 1990, pp. 57-61; J. Robinsoon, The Expression and Arousal of Emotion in Music,<br />

in “The Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 52, 1994, pp. 13-22; A. Ridley, Musical Sympathies:<br />

The Experience of Expressive Music, in “The Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 53, 1995, pp. 49-<br />

58; A. Goldman, Emotion in Music (A Postscript), in “The Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 53,<br />

1995, pp. 59-69; J. E. Mackinnon, Artistic Expression and the Claims of Arousal Theory, in “The British<br />

Journal of Aesthetics”, 36, 1996, pp. 278-289; D. Matravers, Art and Emotion, cit.; Id., The Experience<br />

of Emotion in Music, cit.; A. Beever, Arousal Theory Again?, in “The British Journal of Aesthetics”, 38,<br />

1998, pp. 82-90; J. Kingsbury, Matravers on Musical Expressiveness, in “The British Journal of Aesthetics”,<br />

42, 2002, pp. 13-19.<br />

114 Per un approfondimento rinviamo all’opera New Essays on Musical Understanding, nella quale troviamo<br />

un capitolo, precisamente il settimo, interamente d<strong>ed</strong>icato alla “Arousal Theory”, capitolo nel<br />

quale muovendosi dalle critiche che Derek Matravers (uno dei principali sostenitori della teoria eccitazionistica<br />

in ambito analitico) ha mosso in una recente opera, Art and Emotion, alla sua teoria cognitivista<br />

dell’espressività <strong>musicale</strong>, giunge a dare una spiegazione delle principali motivazioni per cui una teoria<br />

eccitazionistica non può essere accettata. Cfr. D. Matravers, Art and Emotion, cit.. pag. 114-144. Una<br />

puntuale disamina critica nei confronti dell’Arousal Theory è anche quella proposta da Kivy in The Cord<strong>ed</strong><br />

Shell, cit., nel capitolo and Nevertheless it’s sad, pag. 153-157.<br />

74


1. La prima è quella che si viene ad evidenziare nel cosiddetto “argomento del<br />

comportamento”, vale a dire: quando diciamo che un brano <strong>musicale</strong> espri-<br />

me rabbia, perché ci fa sentire rabbia, noi in realtà stiamo descrivendo in<br />

maniera errata le emozioni che proviamo ascoltando il brano, in quanto<br />

mancano tutte le componenti comportamentali presenti quando noi siamo<br />

realmente arrabbiati;<br />

2. la seconda obiezione è invece quella che troviamo esplicata nel cosiddetto<br />

“argomento delle emozioni negative” 115 : se una musica è triste perché causa<br />

tristezza nell’ascoltatore, soltanto un masochista continuerebbe ad ascoltare<br />

musica triste. Non si comprende perché ci si dovrebbe esporre alla tortura di<br />

ascoltare un brano <strong>musicale</strong> che, nonostante la sua bellezza, rende tristi, pur<br />

avendo a disposizione moltissima musica allegra e di ottima qualità 116 .<br />

3. Terza obiezione: il modello disposizionale riesce infine a spiegare solo casi<br />

di personali idiosincrasie o occasionali e soggettive reazioni; casi irrilevanti<br />

per la comprensione della musica in sé. È vero che una determinata opera<br />

<strong>musicale</strong>, per es. la Settima di Beethoven, può suscitare tristezza in qualcuno,<br />

per il fatto di essere associata a un periodo o a un episodio triste della vita<br />

di un particolare ascoltatore. È chiaro che in circostanze speciali – che<br />

coinvolgono le esperienze individuali dell’ascoltatore o il suo particolare<br />

stato emotivo – un brano <strong>musicale</strong> può provocare emozioni reali<br />

nell’ascoltatore. Si tratta del fenomeno da Kivy chiamato della “nostra canzone”<br />

117 . Tale fenomeno è però del tutto irrilevante per la comprensione estetica<br />

della musica, perché dipende unicamente dalla situazione psicologica<br />

individuale dell’ascoltatore, mentre il compito del filosofo della musica è la<br />

comprensione del carattere emotivo della musica a partire dall’analisi delle<br />

sue qualità estetico - strutturali.<br />

115 Per un approfondimento del discorso sulle emozioni negative interessante è il saggio di Jerrold Levinson<br />

d<strong>ed</strong>icato interamente alla questione del perché ci esponiamo consapevolmente anche all’ascolto di<br />

quella musica che incide sul nostro stato d’animo negativamente. J. Levinson, Music, Art, and Metaphysics:<br />

Essays in Philosophical Aesthetics, Cornell University Press, Ithaca, 1990, pp. 306-335.<br />

116 All’ovvia replica, secondo cui allora non si comprenderebbe perché, nel caso di opere letterarie o cinematografiche,<br />

il genere tragico sia così apprezzato, Kivy risponde che il piacere derivante da una trag<strong>ed</strong>ia<br />

può sorgere dall’esplorazione delle emozioni e dei sentimenti negativi, cosa questa che invece non<br />

accade nell’ascolto della musica, dato che questa non è un’arte rappresentativa, e, ancora più importante,<br />

evidenzia Kivy, non è un’arte linguistica.<br />

117 L’espressione è tratta dal film di M. Curtiz Casablanca (USA, 1942) dove, com’è noto, Rick proibisce<br />

a Sam, il pianista di suonare “As time goes by”, la canzone preferita di Rick e del suo perduto amore,<br />

Ilsa, perché questa canzone lo rende triste, in quanto gli ricorda la fine della storia d’amore.<br />

75


All’Arousal Theory si contrappone il secondo modello di spiegazione delle re-<br />

lazioni tra la musica e le emozioni, vale a dire, il modello rappresentazionale, la cui<br />

storia ha inizio con Aristotele. Secondo questa teoria, la musica non rappresenta<br />

un’espressione fisica delle emozioni umane, ma l’<strong>emozione</strong> umana stessa. Le emozioni<br />

non sono così più legate alle reazioni dell’ascoltatore, come accadeva nell’Arousal<br />

Theory, ma si trasferiscono, per così dire, dall’ascoltatore alla musica stessa. Un brano<br />

<strong>musicale</strong> è percepito e può essere descritto come triste, gioioso, malinconico, ecc., perché<br />

è la musica in se stessa a rappresentare la tristezza, la gioia, la malinconia, non<br />

perché suscita tali emozioni negli ascoltatori.<br />

Tale teoria è quella che viene a riaffiorare in maniera incisiva nella filosofia<br />

della musica di Schopenhauer, grazie al quale, evidenzia Kivy, si ruppe per la prima<br />

volta il monopolio asfissiante che la teoria eccitazionistica aveva avuto, per oltre due<br />

secoli, sul tentativo di spiegare il fenomeno dell’espressività <strong>musicale</strong>. Infatti, considerando<br />

la musica come una manifestazione della volontà, Schopenhauer suggerì allo<br />

stesso tempo che essa potesse essere anche una rappresentazione delle emozioni umane.<br />

Fu così che le emozioni della musica furono sottratte in un sol colpo all’esperienza<br />

esclusiva dell’ascoltatore, per essere collocate dentro la musica. Tuttavia Kivy non aderisce<br />

nemmeno alla teoria rappresentazionale di Schopenhauer, poiché egli sostiene<br />

che per quanto perfettamente condivisibile sia il punto di vista che le emozioni appartengono<br />

alla musica e non all’ascoltatore, non è altrettanto opportuno spiegare tale aderenza<br />

delle emozioni alle proprietà strutturali della musica m<strong>ed</strong>iante, per l’appunto, una<br />

relazione di tipo rappresentativo.<br />

Proseguendo nell’analisi, scopriamo che Kivy prende le distanze anche dalla<br />

teoria metaforica dell’<strong>emozione</strong>, secondo la quale descrivere emotivamente la musica è<br />

solo una possibilità tra le tante disponibili per avvicinarsi allo specifico <strong>musicale</strong>, se è<br />

vero che si possono scegliere caratterizzazioni che non chiamano in causa la vita emotiva,<br />

come quando diciamo, ad esempio, che una musica è bilanciata o delicata. Primo<br />

sostenitore di una teoria metaforica delle emozioni in musica è stato Hanslick, il quale<br />

però, secondo l’opinione di Kivy, ne ha fin da subito evidenziato le contraddizioni. Il<br />

problema di Hanslick è quello di essere un ‘emotivista’ malgrè lui, poiché pur sostenendo<br />

sul piano teorico il carattere puramente metaforico delle descrizioni sentimentali,<br />

nella sua concreta attività critica, quando cioè si trova a dover raccontare la musica,<br />

spiegarne forme e dinamiche, non può che descriverla in termini emotivi.<br />

76


L’ultimo modello che incontriamo in questo viaggio attraverso le diverse teorie<br />

dell’espressione <strong>musicale</strong> è quello del simbolismo langeriano, secondo il quale la mu-<br />

sica è iconicamente simbolica della vita emotiva in generale, e lo è sulla base di una re-<br />

lazione «isomorfica» con essa. Sappiamo però da quanto abbiamo illustrato nel prec<strong>ed</strong>ente<br />

paragrafo quali sono le ragioni per cui Kivy prende parzialmente le distanze anche<br />

da questo modello. Un approfondimento non è quindi necessario.<br />

4. Kivy dialoga con Levinson e Davies<br />

Alla luce di quanto detto finora, continuiamo adesso ad esaminare il percorso di<br />

Kivy riportandoci questa volta al dialogo che egli intrattiene con i contemporanei filosofi<br />

della musica. Diciamo subito che i suoi due referenti preferiti sono Stephen Davies<br />

e Jerrold Levinson, con i quali intrattiene un intenso e serrato dialogo soprattutto in relazione<br />

al problema di come la musica possa commuoverci emotivamente, sul come e il<br />

perché di questo effetto emotivo 118 . Problema questo che si pone principalmente a chi<br />

rifiuta una teoria eccitazionistica e preferisce invece aderire alla concezione che le proprietà<br />

emotive siano proprietà della stessa struttura <strong>musicale</strong>, a chi, in altre parole, riconosce<br />

valido il requisito dell’externality claim. Spiega infatti Kivy che nella semplice<br />

teoria eccitazionistica una tale questione non affiora, in quanto in essa il problema<br />

dell’espressività <strong>musicale</strong> viene a fondersi con la questione del potere emotivo che la<br />

musica ha su di noi. La situazione è diversa quando anziché riconoscere le emozioni in<br />

noi, le riconosciamo nella musica.<br />

Levinson e Davies sostengono che quantunque sia errato affermare che la musica<br />

è triste perché provoca la tristezza nell’ascoltatore, può darsi che la musica susciti<br />

comunque tale <strong>emozione</strong> nell’ascoltatore e da questo dipende anche il fatto che essa ci<br />

commuova. In Musical Meaning and Expression scrive Davies a tale proposito: «la<br />

musica triste potrebbe spingere alcuni ascoltatori a sentirsi tristi, anche se l’espressività<br />

della musica non va spiegata in funzione del suo potere di risvegliare tale risposta» 119 .<br />

118 Cfr. P. Kivy, ‘How Music Moves’, in Philip Alperson (<strong>ed</strong>.), What is music? An Introduction to the<br />

Philosophy of Music, Haven, New York, 1987; lo stesso articolo è stato successivamente ristampato a<br />

seguito di un lavoro di revisione in P. Kivy, Music Alone: Philosophical Reflections on the Purely Musicla<br />

Experience, Cornell University Press, Ithaca, 1990, (ottavo capitolo). Feeling the musical emotions,<br />

cit.. Cfr. Filosofia della musica …, cit., VII capitolo, Le emozioni in noi.<br />

119 S. Davies, Musical Meaning and Expression, cit., pag. 279<br />

77


Anche Levinson si pone sulla stessa linea argomentativa quando ribadisce che<br />

l’espressività della musica debba considerarsi inequivocabilmente appartenente alla<br />

musica, come una proprietà o una aspetto di essa, piuttosto che all’ascoltatore, ma nello<br />

stesso tempo insiste anche sull’idea che «l’espressività <strong>musicale</strong> dovrebbe essere tale<br />

che, quando viene percepita o rilevata da un ascoltatore, l’evocazione di un sentimento<br />

o di uno stato affettivo, oppure l’immaginazione di un sentimento, naturalmente, se non<br />

inevitabilmente, ne deriva (requisito dell’ “affettività”)» 120 .<br />

Per Kivy la posizione di Davies e Levinson può essere condivisa sul piano generale:<br />

hanno ragione quando rilevano che la musica è espressiva delle emozioni comuni<br />

in virtù delle qualità emotive che riconosciamo in essa, quando cioè vincolano<br />

l’espressività alle strutture musicali. Non appare tuttavia a Kivy condivisibile la spiegazione<br />

che entrambi forniscono del modo in cui la musica può commuoverci, può cioè<br />

sortire in noi un certo effetto emotivo, e allo stesso tempo non appare altrettanto condivisibile<br />

il tipo di caratterizzazione che danno dell’<strong>emozione</strong> <strong>musicale</strong>.<br />

Stephen Davies, in particolare, ritiene che le manifestazioni comportamentali<br />

delle emozioni comuni siano assenti nella musica: se sei felice perché la musica ti ha<br />

reso felice, apparentemente non fai le stesse cose che fanno le persone felici quando<br />

provano queste emozioni; stessa cosa se sei triste perché la musica ti ha suscitato questa<br />

<strong>emozione</strong>, certamente non ti comporterai come si comportano le persone quando<br />

sono tristi; semplicemente – egli spiega – resti s<strong>ed</strong>uto assorto nell’ascolto. Non bisogna<br />

quindi trascurare, secondo Davies, questa assenza della risposta comportamentale<br />

quando vogliamo parlare di come la musica può commuoverci. Nei casi non-musicali<br />

accade, scrive Davies, che «Se mi sento triste perché cr<strong>ed</strong>o che la situazione sia sfortunata<br />

e deplorevole, cercherò di modificare la situazione per far sì che essa non sia più<br />

sfortunata e deplorevole» 121 . Nei casi musicali invece «Non solo la risposta emotiva è<br />

priva di molte delle cr<strong>ed</strong>enze che, normalmente, condurrebbero all’azione, ma essa è<br />

anche priva delle cr<strong>ed</strong>enze che conferiscono intensità a quei sentimenti» 122 . Dopotutto,<br />

l’oggetto intenzionale della tristezza <strong>musicale</strong>, secondo Davies, non è una situazione<br />

sfortunata e spiacevole, ma è semplicemente la qualità espressiva della tristezza che la<br />

musica possi<strong>ed</strong>e. Da questo particolare punto di vista quindi, accade che durante<br />

l’ascolto di una musica triste si faccia esperienza di un modo di sentire analogo a quello<br />

reale ma drasticamente indebolito, al punto che a variare sono proprio le forme com-<br />

120<br />

J. Levinson, “Musical Expressiveness”, cit., pp. 91-92.<br />

121<br />

S. Davies, Musical Meaning and Expression, cit., pp. 305-306.<br />

122<br />

Ivi, pag. 307.<br />

78


portamentali associate all’ascolto. Insomma, nella situazione <strong>musicale</strong>, come Davies<br />

mette in evidenza, ai nostri sentimenti «mancano gli elementi intenzionali che donano<br />

loro forza e intensità» 123 .<br />

La teoria cui Davies aderisce per illustrare la sua concezione di come la musica<br />

ci commuova è la cosiddetta teoria della tendenza o del contagio, della quale egli è, insieme<br />

a Colin Radford 124 , certamente uno dei maggiori sostenitori. L’idea difesa è che<br />

una musica triste ha la tendenza a causare la tristezza nell’ascoltatore, così come la vivacità<br />

gioiosa del colore giallo avrebbe la tendenza a suscitare allegria e la cupezza del<br />

nero la tendenza a suscitare malinconia. Detto in altri termini, le proprietà espressive<br />

della musica hanno la tendenza a produrre in chi percepisce le emozioni di cui sono espressive.<br />

Davies illustra la teoria del contagio m<strong>ed</strong>iante l’esempio dell’operaio che lavora<br />

in una fabbrica di maschere tragiche. L’operaio inevitabilmente, egli spiega, dopo<br />

aver trascorso giorni e giorni a diretto contatto con quelle maschere, la cui espressione<br />

si sa è quella di un viso corrucciato, certamente avrà la tendenza a deprimersi. La malinconia<br />

delle maschere deve inevitabilmente influenzare il suo stato d’animo. La tendenza<br />

della maschera a produrre malinconia potrebbe alla fine avere la meglio su di lui.<br />

La stessa cosa può accadere con la musica malinconica.<br />

Una delle obiezioni di Kivy alla teoria di Davies è che una tendenza è appunto<br />

solo una tendenza; non è detto quindi che susciti effetti reali. Inoltre, affinché l’operaio<br />

si deprima per la sua situazione dovrà v<strong>ed</strong>ere le maschere tutti i giorni durante un tempo<br />

piuttosto lungo, e precisamente per otto ore al giorno, per cinque giorni alla settimana.<br />

Ma nessuno ascolta la musica in questo modo, non sono queste le circostanze normali<br />

cui è sottoposto il pubblico di un concerto che normalmente non dura più di tre<br />

ore: normalmente le condizioni di chi ascolta un brano <strong>musicale</strong> non sono tali da poter<br />

trasformare la tendenza in un fatto reale. Peraltro ciò che accade con una musica triste,<br />

ma bella, è esattamente il contrario: essa non suscita in noi tristezza, quantunque ci<br />

commuova profondamente. «Più spesso che mai, [precisa infatti Kivy], se si è amanti<br />

della musica e l’esecuzione è stata buona, si vive [invece] una sorta di esaltazione 125 . È<br />

chiaro che se una persona trascorresse molto tempo ascoltando musica triste, alla fine si<br />

intristirebbe. Questa però non è una condizione che possa interessare il filosofo, perché<br />

non è la situazione di cui egli deve tener conto nell’analisi dell’<strong>emozione</strong> <strong>musicale</strong>: egli<br />

123 Ibidem.<br />

124 Cfr. C. Radford, Emotions and Music: A reply to the Cognitivists, in “The Journal of Aesthetics and<br />

Art Criticism”, 47, 1989; Id., Muddy Waters, in “The Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 49, 1991.<br />

125 P. Kivy, Filosofia della musica …, cit., pp. 147-148.<br />

79


deve considerare il caso normale della musica ascoltata in una sala da concerto. Soprat-<br />

tutto Kivy non può esimersi dall’evidenziare l’aspetto della teoria che più confligge<br />

con la sua concezione <strong>musicale</strong> (capiremo a breve per quali ragioni), e cioè il fatto che<br />

le emozioni di cui parla Davies sono anemiche in quanto il contagio ci rende tristi o al-<br />

legri, ma in modo soft, pallido: l’<strong>emozione</strong> che la musica suscita è sì la tristezza, ma<br />

solo in una forma indebolita, incapace di attivare qualsivoglia delle risposte comporta-<br />

mentali ordinariamente associate a quella <strong>emozione</strong>. Qualsiasi cosa essa sia, non è esattamente<br />

la tristezza, in un senso ordinario.<br />

Analogamente a Davies, anche Jerrold Levinson 126 si sofferma ad evidenziare<br />

questo indebolimento della componente cognitiva e della nostra risposta comportamentale<br />

per quanto concerne specificamente le emozioni musicali. Ecco le sue parole a riguardo:<br />

È giunto il momento di dire chiaramente che la riposte emotive standard<br />

a un brano <strong>musicale</strong> – ad esempio, quella che io ho chiamato<br />

una reazione triste – non sono in verità delle emozioni piene. Ciò dipende<br />

principalmente dal fatto che la musica né fornisce un oggetto<br />

appropriato verso al quale l’<strong>emozione</strong> possa essere diretta, né produce<br />

i desideri, le cr<strong>ed</strong>enze, o le attitudini relative a un oggetto e che<br />

sono essenziali affinché un’<strong>emozione</strong> sia ciò che è. Quando un adagio<br />

di una sinfonia mi “intristisce”, non sono né triste in riferimento alla<br />

musica, né considero l’adagio come un qualcosa che vorrei che fosse<br />

diverso da quello che è. Inoltre, questo indebolimento della componente<br />

cognitiva nella risposta emozionale alla musica in genere sfocia<br />

nell’inibizione della maggior parte dei comportamenti caratteristici e<br />

in una significativa diminuzione delle tendenze comportamentali 127 .<br />

Diversamente dalle emozioni della vita reale, le emozioni musicali non sono emozioni<br />

piene. Secondo Levinson, infatti, l’<strong>emozione</strong> che si prova nell’ascolto di un brano <strong>musicale</strong><br />

manca dell’aspetto cognitivo (non ci interessa l’oggetto che produce o verso il<br />

quale è indirizzato il sentimento, ovvero la musica in quanto causa efficiente o finale) e<br />

126 Jerrold Levinson è senza dubbio uno dei massimi filosofi contemporanei di area analitica. Il suo ambito<br />

di studio principale è l’estetica (sebbene egli si sia occupato anche di filosofia morale e di filosofia<br />

della mente). Levinson ha fornito dei contributi fondamentali, in particolare, ai problemi (molto dibattuti<br />

all’interno dell’area anglo-americana) della definizione dell’arte (proponendo una definizione di tipo storico-intenzionale),<br />

delle proprietà estetiche (scrivendo tra gli altri un seminale saggio intitolato ‘Aesthetic<br />

Supervenience’) e della filosofia della musica (introducendo anche qui una propria proposta teorica<br />

originale e altamente qualificata, che va sotto il nome di ‘teoria della persona <strong>musicale</strong>’). I suoi principali<br />

scritti di estetica e di filosofia della musica sono contenuti in tre volumi, intitolati Music, Art and Metaphysics<br />

(1990), The Pleasures of Aesthetics (1996) e Contemplating Art (2006). Alcuni dei suoi saggi<br />

sono stati tradotti in italiano, <strong>ed</strong> altri suoi saggi saranno tradotti e pubblicati in un testo a lui interamente<br />

d<strong>ed</strong>icato per la casa <strong>ed</strong>itrice Aesthetica di Palermo. Attualmente Levinson è titolare di una catt<strong>ed</strong>ra di<br />

Estetica all’Università del Maryland (USA).<br />

127 J. Levinson, ‘Music and Negative Emotion’, in Music, Art, and Metaphysics, cit., pp. 313-314.<br />

80


comportamentale, ma presenta un accentuato e caratteristico (in quanto non accompa-<br />

gnato dalla componente cognitiva) aspetto affettivo e fisiologico (ovvero la componen-<br />

te fenomenologica dell’<strong>emozione</strong>, ciò che uno sente internamente, il feeling specifico).<br />

La descrizione del modo in cui la musica ci commuove passa, nel caso di Le-<br />

vinson, attraverso una teoria empatica, la cosiddetta teoria della persona, della quale<br />

egli non solo è uno dei maggiori sostenitori, ma anche uno dei principali artefici. Se-<br />

condo tale teoria ogni brano <strong>musicale</strong> viene ascoltato come un enunciato umano. Pos-<br />

siamo, per esempio, immaginare una sinfonia come incarnazione di un agente, una<br />

“persona <strong>musicale</strong>”, il quale va inteso come il soggetto delle emozioni che tale sinfonia<br />

esprime (ciò non vuol comunque dire – precisa Kivy – che tale “persona” sia la rappresentazione<br />

<strong>musicale</strong> dell’autore).<br />

Ascoltando la sinfonia, proveremmo cioè le emozioni che immaginiamo che<br />

stia provando la persona <strong>musicale</strong>, proprio così come empatizziamo con una persona<br />

reale quando esprime le sue emozioni. È proprio in questo senso che la relazione tra la<br />

musica e le emozioni viene vista come una relazione di tipo empatico: l’ascoltatore può<br />

condividere, tramite imm<strong>ed</strong>esimazione, le stesse emozioni che la musica “sta provando”,<br />

in quel particolare momento. Non è importante il fatto che la persona <strong>musicale</strong> sia<br />

un prodotto immaginario, dal momento che l’opportunità di imm<strong>ed</strong>esimarsi in taluni<br />

sentimenti non deve necessariamente essere subordinata all’esistenza materiale del<br />

soggetto con cui noi empatizziamo; d’altronde la stessa cosa accade con i personaggi di<br />

un racconto, di un film, ecc. (sebbene altra cosa sia comprendere perché ciò accada).<br />

Kivy muove anche in questo caso tutta una serie di obiezioni. Eccone alcune tra le più<br />

significative:<br />

1. La musica mi commuove profondamente anche senza che io percepisca affatto<br />

personae musicali esprimenti i loro stati emotivi;<br />

2. L’analogia tra la persona <strong>musicale</strong> e i personaggi di finzione della narrativa non<br />

regge. Kivy obietta che a tale ‘persona’ mancano proprio le caratteristiche che<br />

fanno apparire un personaggio immaginario come una persona reale.<br />

3. È complicato spiegare la relazione tra i personaggi immaginari e le emozioni<br />

che proviamo. Nella vita reale per determinare la reazione emotiva di una persona<br />

al cospetto dell’espressione emotiva di un’altra persona occorre conoscere<br />

le circostanze della relazione tra le due persone, chi sono, ecc. È semplicemente<br />

falso che la reazione emotiva delle persone di fronte all’espressione di tristezza<br />

di qualcuno sia sempre la tristezza: se la persona triste è una persona cara può<br />

81


succ<strong>ed</strong>ere che empatizziamo con il suo sentimento, mentre se a provare tristez-<br />

za è un nostro nemico verosimilmente e crudelmente ci sentiremo felici. Questo<br />

accade anche nel caso della letteratura, del cinema, del teatro, accade cioè che<br />

l’allegria di un personaggio malvagio possa provocare spesso rabbia, non certo<br />

gioia. Se una teoria come quella basata sull’identificazione con i personaggi e<br />

sul sentire le loro emozioni non funziona nel caso della narrativa di finzione –<br />

spiega Kivy – ciò vale a maggior ragione nel caso della musica assoluta.<br />

Dunque la teoria secondo cui proviamo un’<strong>emozione</strong> perché ci identifichiamo empaticamente<br />

con il personaggio immaginario è falsa. Il difensore della teoria delle persona<br />

a questo punto, sostiene Kivy, ha due opzioni:<br />

1. Può affermare che, diversamente dalla vita reale, nel caso della musica empatizziamo<br />

sempre con la “persona <strong>musicale</strong>”, e sempre proviamo l’<strong>emozione</strong><br />

che essa esprime – ma allora occorrerebbe spiegare perché questo accade soltanto<br />

nel caso della musica e non nella vita reale.<br />

2. O può affermare che, esattamente come nella vita reale e nella finzione narrativa,<br />

può accadere che la musica triste provochi allegria e viceversa; però il nostro<br />

problema era quello di spiegare precisamente com’è possibile che la musica<br />

triste commuova e sia riconosciuta come espressiva di tristezza.<br />

Dunque la teoria della persona <strong>musicale</strong> non funziona.<br />

In breve, le emozioni suscitate dall’espressività della musica – sottolinea Kivy –<br />

sono, nella tesi sostenuta da Davies, emozioni anemiche (anaemic emotions), e in quella<br />

sostenuta da Levinson, quasi-emozioni (quasi-emotions) o emozioni del ‘come se’<br />

(emotion-like). Si tratta semplicemente di surrogati emotivi che ci restituiscono una<br />

pallida immagine di quelle emozioni che nella vita si presentano in modo nitido.<br />

A questa sorta di riflesso della tensione sentimentale nelle forme <strong>musicale</strong>, a<br />

questa idea di un’emotività sdoppiata e pallida, Kivy invece contrappone la sua teoria<br />

delle emozioni musicali piene, tali perché intenzionano la bellezza della musica stessa.<br />

Riprendendo la teoria cognitiva di Brentano, Kivy evidenzia che l’<strong>emozione</strong> è un fatto<br />

complesso composto di tre elementi: un oggetto intenzionale, una cr<strong>ed</strong>enza e un feeling<br />

(sensazione/sentimento). Quando ho paura di qualcosa, per esempio di una tigre, ho<br />

una cr<strong>ed</strong>enza o una serie di cr<strong>ed</strong>enze relative a questo oggetto (cr<strong>ed</strong>o che la tigre sia un<br />

animale feroce e dunque cr<strong>ed</strong>o che sia troppo pericoloso starle vicino), e un feeling, associato<br />

a tale cr<strong>ed</strong>enza (per esempio un brivido). Tale teoria è la stessa che Kivy rico-<br />

82


nosce valida per le emozioni musicali, le quali anch’esse hanno evidentemente un og-<br />

getto, una cr<strong>ed</strong>enza e un sentimento:<br />

1) L’oggetto dell’<strong>emozione</strong> <strong>musicale</strong> è la musica, o, più esattamente, l’insieme<br />

delle caratteristiche della musica che l’ascoltatore cr<strong>ed</strong>e siano belle, magnifiche,<br />

portatrici di un valore estetico. In una parola, l’oggetto dell’<strong>emozione</strong> <strong>musicale</strong><br />

è la bellezza della musica.<br />

2) La cr<strong>ed</strong>enza dell’<strong>emozione</strong> <strong>musicale</strong> è la cr<strong>ed</strong>enza dell’ascoltatore che la musica<br />

che sta ascoltando, o un suo aspetto, sia bella, magnifica, o possegga comunque<br />

proprietà estetiche in modo molto accentuato.<br />

3) Il sentimento è il tipo di eccitazione o di euforia o di stupore o di meraviglia che<br />

una tale bellezza comunemente suscita.<br />

Assistiamo quindi ad una vera e propria virata dell’intenzionalità dal piano<br />

dell’esperienza umana al piano della bellezza della musica, delle sue strutture, che ci<br />

riporta ad un sentimento del suono la cui specificità, a questo punto, nulla ha più a che<br />

spartire con le emozioni della vita reale (pur trattandosi di un sentimento che ha la stessa<br />

pienezza delle emozioni ordinarie, diversamente da quanto sostenuto da Davies e<br />

Levinson). Per Kivy infatti se la musica ha il potere di commuoverci, dato che egli non<br />

mette in discussione, non siamo mossi a queste emozioni ma da queste emozioni. Siamo<br />

mossi dalla loro bellezza <strong>musicale</strong>. Se si tratta di malinconia, siamo mossi da quanto<br />

la musica è stupendamente malinconica. Detto in altri termini, se dunque la musica<br />

può commuoverci profondamente non è per la tristezza, la malinconia o l’allegria che<br />

può trasmettere, bensì per la sua bellezza. Ciò che apprezziamo della musica sono dunque<br />

le sue qualità estetiche. Mi riservo a tale proposito di evidenziare che, ancora una<br />

volta in accordo con l’osservazione di Bertinetto, Kivy si appropria della nozione di<br />

bellezza, centrale come sappiamo nel dibattito estetico per spiegare la virata<br />

dell’<strong>emozione</strong> verso i processi della sua messa in forma, senza però approfondire i motivi<br />

di questa scelta, né richiamare, anche solo per cenni, i luoghi della riflessione tradizionale<br />

sul tema. Kivy, forse, non ha dato la giusta importanza al fatto che l’estetica sin<br />

dalla sua nascita come disciplina autonoma non fa che interrogarsi sul problema del<br />

bello e del gusto, per cui il fatto di dare per scontato il significato del termine rende tutto<br />

il discorso, almeno per ciò che riguarda questo aspetto, poco persuasivo.<br />

83


5. Formalismo e formalismo arricchito<br />

Secondo il paradigma formalistico, la musica strumentale non possi<strong>ed</strong>e contenuto<br />

semantico o rappresentazionale, non si riferisce a nulla, non rappresenta oggetti,<br />

non racconta storie, non fornisce argomentazioni, non espone alcuna filosofia, ma è<br />

semplicemente una pura struttura sonora; contenuti e significati sono strettamente limitati<br />

ai casi in cui essa sia accompagnata da testi, titoli o rappresentazioni. In virtù del<br />

suo essere pura struttura di suoni essa possi<strong>ed</strong>e una sua trama, ma è una trama del tutto<br />

particolare che non ecc<strong>ed</strong>e mai gli stessi eventi sonori, i quali accadono, come sosteneva<br />

Hanslick, con una loro logica e con un loro senso. La musica assoluta è dunque la<br />

bella arte della ripetizione.<br />

Leonard Meyer, in Emotions and Meaning in Music 128 (1956), mutua dalla teoria<br />

dell’informazione l’idea secondo cui la pratica dell’ascolto <strong>musicale</strong> risponde a un<br />

preciso gioco di regole relazionali che si instaurano tra l’ascoltatore e certe caratteristiche<br />

della musica. Poiché Kivy ritiene tale teoria fondamentale per la comprensione del<br />

formalismo, ne analizziamo il senso alla ricerca di una prima risposta all’interrogativo:<br />

perché la musica pura suscita il nostro gradimento estetico, dal momento che pare distinguersi<br />

dalle altre forme d’arte in virtù delle sue ‘manchevolezze’?<br />

Nella narrativa, sostiene Leonard Meyer, gli eventi, nella trama del loro svolgimento<br />

costituiscono un continuum, tanto nel loro essere attesi quanto nel loro essere inattesi.<br />

Se si volesse applicare questa teoria alla musica, gli eventi sonori musicali sarebbero<br />

valutati in ragione del loro maggiore o minore grado di prev<strong>ed</strong>ibilità, laddove<br />

un determinato evento è massimamente informativo quanto più imprev<strong>ed</strong>ibilmente si<br />

manifesti, mentre un evento atteso è poco informativo, ma allo stesso modo del primo<br />

contribuisce alla particolare comprensione della trama <strong>musicale</strong>. La musica che piace,<br />

secondo Meyer, deve perciò collocarsi in un regime tensivo interm<strong>ed</strong>io: non deve conc<strong>ed</strong>ere<br />

troppo alla sorpresa e deludere le aspettative, né essere sempre e immancabilmente<br />

una conferma: se gli eventi fossero tutti disattesi, sarebbero certamente sorprendenti<br />

e dunque altamente informativi, ma la comprensione del decorso <strong>musicale</strong> sarebbe<br />

quasi nulla, al contrario se fossero tutti attesi, cioè prev<strong>ed</strong>ibili, essi soddisferebbero<br />

certamente le attese dell’ascoltatore, senza però essere mai significativi. Il grado di informatività<br />

di un determinato evento sonoro è cioè inversamente proporzionale alla<br />

prefigurazione di ciò che accadrà della trama di quell’avvenimento.<br />

128 L. Meyer, Emozione e significato nella musica, Il Mulino, Bologna, 1992.<br />

84


La teoria di Meyer quindi si presta perfettamente a spiegare il tipo di rapporto<br />

che un lettore intrattiene con una certa opera di narrativa finzionale, ma nel caso della<br />

musica il problema nasce quando bisogna capire di che tipo di eventi stiamo parlando,<br />

poiché un evento sonoro, non è certamente un evento in senso stretto. Kivy, nello specifico,<br />

distingue tra due generi di eventi musicali: gli eventi sintattici e gli eventi formali.<br />

I primi regolano la struttura <strong>musicale</strong>, avendo a che fare con le sequenze degli<br />

accordi, con le linee melodiche e con le combinazioni di melodie, rappresentano cioè la<br />

struttura minima di un avvenimento <strong>musicale</strong>, laddove gli eventi formali, concernono<br />

invece l’organizzazione temporale dell’opera nel suo sviluppo complessivo. Eventi sintattici,<br />

dunque, <strong>ed</strong> eventi formali, guidano l’ascoltatore attraverso lo svolgersi della<br />

trama <strong>musicale</strong>, originando una serie di aspettative che possono genericamente essere<br />

articolate in esterne e interne: le prime sono costituite dal patrimonio esperienziale<br />

dell’ascoltatore, e che dunque egli per così dire immette nella formulazione delle sue<br />

aspettative in ordine allo sviluppo armonico dell’ascolto in atto; le seconde sono invece<br />

generate direttamente <strong>ed</strong> esclusivamente dall’ascolto contingente di un particolare brano<br />

<strong>musicale</strong>, sono cioè immanenti a quel brano.<br />

Risulta evidente come nell’ascolto <strong>musicale</strong> le aspettative generate dalla propria<br />

esperienza entrino in relazione col modo in cui ci disponiamo all’ascolto di ogni nuova<br />

musica nel gioco delle conferme e delle sorprese.<br />

In tutti i casi, conferme e sorprese accresceranno la nostra esperienza d’ascolto<br />

che consisterà dunque nel piacere di lasciarci coinvolgere in questo gioco per trovare<br />

una strada che possa condurci, per un verso, abbastanza lontano dalle consuete abitudini<br />

(in tal modo amplieremo la nostra cultura <strong>musicale</strong>) ma che, al contempo, non ci allontani<br />

troppo da quello sfondo di abitudini e di attese che è il portato culturale di tutti<br />

gli ascolti pregressi e che determina la nostra peculiare forma di familiarità <strong>musicale</strong>.<br />

La teoria di Meyer, nella sua applicazione alle pratiche musicali, dà luogo a una<br />

serie di considerazioni che possono infine essere ricondotte a due grandi domande: la<br />

prima riguarda le modalità attraverso le quali si innesca nell’ascoltatore quel meccanismo<br />

in grado di favorire la serie di sorprese e conferme di cui parlavamo prima; si tratta<br />

di un’azione cosciente, oppure essa fa capo a un meccanismo che opera al di sotto<br />

della soglia cognitiva? La seconda domanda concerne il modo o i modi in cui tale processo<br />

possa perpetrarsi senza consumarsi, in presenza di una m<strong>ed</strong>esima opera <strong>musicale</strong>,<br />

anche a seguito di successivi ascolti.<br />

85


Kivy ritiene che il livello della coscienza cognitiva, così come quello che opera<br />

indipendentemente da esso, siano entrambi ugualmente responsabili di quelle aspettati-<br />

ve formulate dall’ascoltatore nei confronti dello svolgersi degli avvenimenti musicali,<br />

ma tuttavia abbandona l’aspetto inconscio della questione per sviluppare la sua analisi<br />

in ordine a ciò cha accade nella coscienza di colui che gioca consapevolmente con la<br />

musica, avanzando una serie di congetture cognitive per formulare previsioni relativamente<br />

a ciò che nell’ascolto sta per accadere.<br />

Si tratta quindi di un ascolto attento, il cui ambiente ideale è costituito dalla sala<br />

da concerto, nel cui spazio l’esecuzione risulta evidentemente decontestualizzata, condizione<br />

questa indispensabile per l’apprezzamento delle sue qualità formali. Questo,<br />

ovviamente, non significa che la musica non abbia un suo ruolo anche in ambiti sociali<br />

diversi, cerimonie religiose, feste da ballo e altri svariati contesti, è evidente che il suo<br />

ascolto non si riduca a quello che ha luogo nelle sale da concerto.<br />

Tuttavia, sostiene Kivy, il filosofo della musica deve occuparsi del caso paradigmatico<br />

della musica eseguita e ascoltata nelle sale da concerto. Il ruolo<br />

dell’attenzione così conseguita, risulta essenziale per la formulazione di quelle ipotesi<br />

che si rivelano più o meno in linea con le aspettative, a seconda del maggiore o minore<br />

grado di informatività della musica che si sta ascoltando e che derivano come già abbiamo<br />

visto dall’interazione delle prec<strong>ed</strong>enti esperienze d’ascolto con l’evento <strong>musicale</strong><br />

attuale. Ne consegue che un ascoltatore attento e competente sarà fornito di un apparato<br />

concettuale più vasto rispetto a un neofita, nella misura in cui riuscirà a contestualizzare<br />

e organizzare più coerentemente il suo personale gioco di ipotesi, aprendosi a<br />

sempre nuove opportunità di ascolto.<br />

Non sfugge a Kivy come tale circostanza possa prefigurare il rischio di una sorta<br />

di intellettualizzazione del processo che presi<strong>ed</strong>e alla comprensione della musica: il<br />

vero ascolto è quello competente, consapevole, capace di esplicitare in termini concettuali<br />

le dinamiche dell’esperienza che si sta compiendo a contatto con un brano <strong>musicale</strong>.<br />

D’altra parte, un certo grado di esclusività dell’ascolto ci sembra fortemente rivendicato<br />

da parte di Kivy.<br />

Il secondo problema che essa solleva è relativo invece a come sia possibile che<br />

il gioco dell’attesa si rinnovi ogni volta anche in presenza di ripetuti ascolti della m<strong>ed</strong>esima<br />

opera. In questo caso il gioco potrebbe perdere ogni sua ragion d’essere e con essa<br />

il piacere dell’ascoltatore di formulare ipotesi: che senso avrebbe tale gioco se il<br />

modo in cui la melodia si svilupperà ci è noto dall’inizio? In altri termini sembrerebbe<br />

86


ispondere al senso comune l’idea che non avrebbe più pregio verificare se quel certo<br />

sviluppo melodico conforterà o meno le nostre aspettative dal momento che una conoscenza<br />

prec<strong>ed</strong>entemente acquisita destituirebbe di fatto quell’attesa da ogni incertezza.<br />

La teoria della persistenza dell’illusione costituisce lo sfondo teorico attraverso<br />

cui Kivy espone la tesi secondo la quale un ascoltatore, per quanto attento e competente,<br />

pur conservando un ricordo abbastanza preciso di una certa musica, non potrà comunque<br />

avere mai una memoria fotografica della successione degli accordi e dello sviluppo<br />

temporale di quell’opera, in grado di invalidare quella disponibilità ogni volta<br />

rinnovata a lasciarsi nuovamente coinvolgere da essa. Inoltre ogni nuovo ascolto rivelerebbe<br />

particolari sfuggiti in prec<strong>ed</strong>enza, quei particolari che con molta probabilità non<br />

costituivano ancora oggetti intenzionali dell’ascoltatore.<br />

Parallelamente alla persistenza dell’illusione si colloca il fenomeno del nascondi<br />

e cerca: le forme della musica assoluta sono pure trame senza contenuto, ma in analogia<br />

isomorfica con quanto accade nelle opere di narrativa finzionale esse instaurano<br />

con l’ascoltatore una relazione (non semantica in questo caso) in cui egli è mosso alla<br />

ricerca di quei temi che, pur immanenti alla trama della struttura <strong>musicale</strong>, non risultano<br />

imm<strong>ed</strong>iatamente visibili perché opportunamente occultati dal compositore. La scoperta<br />

di tali temi, rappresentati dai motivi centrali della melodia che si susseguono nella<br />

struttura temporale complessiva dell’opera, risulta essere una parte importante del godimento<br />

<strong>musicale</strong> traducendosi in una sorta di autoconferma della personale abilità e<br />

dunque della propria competenza <strong>musicale</strong>. La musica diventa cioè l’oggetto intenzionale<br />

dell’attenzione dell’ascoltatore, in tal modo una consolidata conoscenza tecnica<br />

della sintassi e della struttura <strong>musicale</strong> tenderà ad aumentare la nostra consapevolezza e<br />

dunque il nostro gradimento <strong>musicale</strong> nella misura in cui contribuirà ad ampliare il nostro<br />

oggetto intenzionale, ovvero quella competenza formale che consente di relazionarsi<br />

sapientemente con il bel gioco della ripetizione della trama <strong>musicale</strong>, con<br />

quell’inseguimento di passaggi e frammenti melodici che costituiscono le figure del<br />

suono, quasi fossero forme grafico-decorative che si ripetono periodicamente per essere<br />

ricomprese in disegni più ampi e che costituiscono, secondo Kivy, il materiale da costruzione<br />

essenziale della maggior parte delle forme musicali prodotte durante gli ultimi<br />

trecento anni.<br />

Un primo problema si profila, già a partire da queste considerazioni. Il meccanismo<br />

sopra descritto, per intendersi la dialettica di attese e conferme che sostiene<br />

l’ascolto, si applica con una certa agilità a contesti musicali molto circoscritti, vale a<br />

87


dire alla musica classica occidentale e tonale. Tale circostanza introduce evidentemente<br />

una prima difficoltà nella struttura teorica del formalismo e si traduce di fatto in un ri-<br />

dimensionamento di quelle qualità strutturali: private di una autentica esistenza indi-<br />

pendente e di qualsiasi pretesa di universalità, esse andrebbero dunque ripensate e con-<br />

testualizzate.<br />

L’introduzione nel formalismo di una teoria che in qualche modo apre al mondo<br />

dell’esperienza anticipa quello che sarà il tentativo di Kivy di rompere<br />

quell’isolamento che aveva costituito la forza ma forse anche la debolezza del formalismo<br />

di Hanslick, ma introduce fatalmente il problema dei problemi: definire cioè in che<br />

modo le proprietà percettive della forma sonora interagiscono con la coscienza<br />

dell’ascoltatore, o ancora quanta parte di essa sia direttamente o indirettamente responsabile<br />

dell’effettiva fecondità di quelle proprietà. La riflessione che si aprirebbe sarebbe<br />

tanto ampia da non poter essere contemplata nel contesto del presente scritto, ci<br />

chi<strong>ed</strong>iamo semplicemente, prima di proseguire, se le strutture di cui si occupa il formalismo<br />

avrebbero ancora senso al di fuori del flusso che le collega al vissuto della coscienza.<br />

Kivy sente questo problema, e da qui nasce il suo progetto di revisione del<br />

formalismo.<br />

Il formalismo di Hanslick e sostanzialmente anche quello di Gurney avevano<br />

rigorosamente tenuto il contesto <strong>musicale</strong> separato da quello emozionale, pur ammettendo<br />

(Gurney) un certo grado di coinvolgimento emotivo nell’esperienza <strong>musicale</strong> che<br />

comunque non valicava mai la semplice accidentalità. Tale atteggiamento era funzionale,<br />

spiega Kivy, alla necessità da parte dei formalisti della prima ora di contrapporsi decisamente<br />

alla tradizione romantica dominante, radicalizzando lo scontro fino a negare<br />

alla musica qualsiasi tipo di rapporto significativo con l’universo delle emozioni. Inoltre,<br />

sostiene ancora Kivy, Hanslick non disponeva di una teoria in grado di aprire il<br />

formalismo al mondo extra<strong>musicale</strong>, senza snaturarne l’essenza.<br />

È proprio a questa apertura che Kivy mira, proponendo la teoria del ‘formalismo<br />

arricchito’, espressione che egli mutua dal filosofo Philip Alperson, e che rappresenta<br />

il tentativo di liberare il formalismo dal suo stato di isolamento, per riformarlo alla<br />

luce di ciò che evidentemente appariva come un fatto incontestabile, e cioè che la<br />

musica e le emozioni di cui essa è espressiva intrattengono necessariamente un qualche<br />

tipo di rapporto. Un’analisi formalista quindi, dal suo particolare punto di vista, non<br />

doveva e non poteva in alcun modo trascurare gli aspetti emotivi dell’esperienza <strong>musicale</strong>;<br />

l’impegno maggiore sarà dunque quello di arricchire il formalismo con una teoria<br />

88


delle emozioni, senza però snaturarne il senso, per non ricadere su posizioni contenuti-<br />

stiche; impresa che sin da ora non ci appare priva di enormi difficoltà.<br />

Nell’opera The Cord<strong>ed</strong> Shell, Kivy aveva impostato la proposta teorica del suo<br />

formalismo arricchito. Essa si risolveva infine nella scelta di innestare direttamente le<br />

emozioni comuni nelle proprietà acustiche della musica, una mossa che risulta pertanto<br />

apparentemente coerente con l’anima formalista, nella misura in cui salvaguarda la pura<br />

struttura degli eventi sonori senza contenuto semantico né rappresentazionale, e considerando<br />

le proprietà emotive come una componente percettiva della musica stessa, le<br />

vincola di fatto a quelle strutture. L’alterità dell’esperienza estetica <strong>musicale</strong> rispetto<br />

alle altre forme artistiche rimarrebbe così preservata, come auspicava, per altro, anche<br />

Hanslick: mentre tutte le arti contenutistiche si confrontano con i vari aspetti del mondo,<br />

la musica assoluta è al contrario l’arte pura della liberazione.<br />

Kivy recupera i due elementi che in apertura avevamo considerato come gli oggetti<br />

pr<strong>ed</strong>iletti da un’indagine ispirata al formalismo: la sintassi e la forma complessiva<br />

della struttura <strong>musicale</strong>. Eventi sintattici <strong>ed</strong> eventi formali costituiscono dunque le proprietà<br />

percettive, e nello stesso tempo rappresentano il vincolo, lo schema ordinativo,<br />

della nostra risposta emotiva <strong>ed</strong> immaginativa.<br />

Le emozioni comuni sarebbero in altri termini parte costitutiva dei motivi melodici<br />

che si alternano ritmicamente nella struttura formale; non avendo significato e<br />

non sottintendendo rappresentazioni, esse vanno comprese e apprezzate esteticamente<br />

come una sorta di disegno di suoni. Ma in che senso possiamo dire che le strutture formali<br />

e le qualità emotive sono delle proprietà percettive?<br />

Nell’ascolto riusciamo a cogliere le successive alternanze di tensioni e risoluzioni,<br />

ma non nella misura in cui, avverte Kivy, un determinato passaggio ci fa sentire<br />

prima in tensione, mentre poi ci conc<strong>ed</strong>e, nella fase di risoluzione, uno stato di quiete e<br />

di abbandono. Si tratta invece semplicemente di cose che stanno accadendo nella musica<br />

e di cui, per così dire prendiamo cognitivamente atto assegnando a esse il giusto posto<br />

nella struttura della musica “e non in qualche parte della nostra biografia psicologica”<br />

129 , come egli sottolinea in evidente polemica con i sostenitori dell’Arousal Theory.<br />

La musica per Kivy non esprime alcuna <strong>emozione</strong>, ciò non di meno essa è espressiva<br />

di emozioni: per esprimere un’<strong>emozione</strong>, occorre sentirla, la qual cosa è evidentemente<br />

competenza esclusiva degli esseri senzienti, mentre l’‘essere espressivo di<br />

129 P. Kivy, Filosofia della musica …, cit., pag. 116<br />

89


emozioni’ potrebbe essere inquadrato all’interno di un contesto di somiglianze e analo-<br />

gie, in cui non apparirà necessario provare realmente l’<strong>emozione</strong>. In tal modo una mu-<br />

sica è percepita come allegra in virtù dell’esistenza di un’analogia subliminare, proba-<br />

bilmente sinestetica, tra, ad esempio, l’aspetto delle persone che esprimono allegria e i<br />

modi incalzanti, rapidi e sincopati della tonalità maggiore. Il muso del San Bernardo,<br />

secondo il celebre esempio più volte citato, è un caso paradigmatico: esso è espressivo<br />

di tristezza senza che il cane sia effettivamente triste. Riprendiamo così brevemente in<br />

esame i termini generali della teoria delle emozioni già ampiamente svolta nel paragrafo<br />

prec<strong>ed</strong>ente, solo per v<strong>ed</strong>ere nello specifico come il profilo della struttura <strong>musicale</strong>, il<br />

suo disegno sonoro possa essere dunque analogo a quello delle manifestazioni visive o<br />

sonore delle principali emozioni umane, non in senso rappresentativo, bensì in maniera<br />

imm<strong>ed</strong>iata, diretta.<br />

A sostegno di questo passaggio Kivy svolge tutta una serie di argomentazioni<br />

volte a marcare, in sintonia col formalismo tradizionale, la diversità dell’esperienza<br />

<strong>musicale</strong> rispetto ad ogni altro tipo di esperienza. Contrariamente a ciò che avviene nelle<br />

situazioni ordinarie dove un’aspettativa dà luogo ad uno stato di ansia e alle sue conseguenti<br />

manifestazioni fisiche, nell’ascolto <strong>musicale</strong> le alternanze di tensione e rilascio<br />

non provocano corrispettive alterazioni degli stati interni dell’ascoltatore, a dimostrazione<br />

del fatto che tali eventi sono ascoltati nella musica, sono, come dire, osservati<br />

a distanza.<br />

È in questo senso che Kivy pensa di conciliare il formalismo con il riconoscimento<br />

della componente emotiva della musica. Eppure, proprio a questo punto<br />

dell’argomentazione, si affacciano nuovi problemi. Una volta che il formalismo si è, in<br />

qualche modo, incrinato, almeno nella sua versione più rigorosa, e ha accettato di accogliere<br />

una sfera d’esperienza più ampia, non potrà fare a meno di confrontarsi con i<br />

movimenti della storia, le variazioni dei gusti, le diversità culturali e di interpretare anche<br />

su questa base le dinamiche delle risposte emotive. È ad esempio opinione condivisa<br />

da molti che il discorso di Kivy a proposito dei processi di attesa, delle tensioni e<br />

previsioni dell’ascolto <strong>musicale</strong>, non sia sufficientemente pronto ad accogliere le differenze<br />

tra le varie culture musicali, in alcune delle quali non si producono le stesse dinamiche.<br />

È indubbio che una delle funzioni più ricorrenti nell’ambito della musica classica<br />

occidentale sia rappresentata proprio dal gioco delle tensioni armoniche e melodiche<br />

che ne regolano la sintassi. Se quindi riconosciamo che termini come tensione, rilascio,<br />

90


e risoluzione si riferiscono solitamente a ciò che esperiamo direttamente sotto<br />

l’influsso di particolari situazioni emotive, dovremmo presumere che essi descrivono<br />

altrettanto bene opere musicali che proprio su quelle dinamiche si appoggiano.<br />

Avevamo in prec<strong>ed</strong>enza accennato, a proposito della teoria dell’informazione,<br />

al pericolo che si determina a carico dell’impianto teorico formalista, quando esso si<br />

apre ad accogliere situazioni esperienziali più ricche e complesse. La teoria formalista<br />

nella sua accezione arricchita, è insomma costantemente esposta al rischio di una sorta<br />

di invasività storica, che si presenta immancabilmente, ogni qualvolta si conferisce un<br />

respiro di universalità ad osservazioni che valgono invece solo in contesti particolari.<br />

Kivy sostanzialmente ci sembra prendere atto che le nozioni fin qui esaminate,<br />

quelle che conferiscono alla musica il suo carattere emotivo, sono comunque frutto di<br />

attribuzioni culturali e dunque relative ad una particolare condizione storica. Cr<strong>ed</strong>iamo<br />

di indovinare un certo imbarazzo nell’ammissione che certi archi melodici che oggi riconosciamo<br />

come tendenti alla distensione o alla chiusura sarebbero stati considerati<br />

inappropriati per tale funzione da un musicista del diciannovesimo secolo. Tuttavia<br />

Kivy pensa di sottrarsi a questo problema semplicemente ammettendo che «la chiusura<br />

<strong>musicale</strong> sarebbe un concetto sintattico e la sintassi in musica così come nei linguaggi<br />

naturali si trasforma con l’andare del tempo» 130 . In tal modo, chiude la questione, passando<br />

ad altro e sorvolando evidentemente sul fatto che l’affermazione sarebbe pienamente<br />

condivisibile solo se la sintassi <strong>musicale</strong> avesse una sua corrispettiva sfera semantica,<br />

poiché ci pare questo e non altro l’elemento che conferisce al linguaggio naturale<br />

la sua caratteristica di adeguarsi modificandosi, al cambiamento del mondo di cui è<br />

segno. Non è chiaro in altri termini come una struttura formale pura e quindi indipendente<br />

possa o debba modificarsi nel tempo adeguandosi ai modi e alle mode musicali di<br />

un determinato secolo. In ciò risi<strong>ed</strong>e una delle grandi difficoltà della sua teoria formalista.<br />

Abbiamo accennato, all’inizio, come Kivy giustificasse in chiave strategica la<br />

scelta di Hanslick di chiudere il formalismo a qualsiasi tipo di relazione esterna; le tesi<br />

del Bello <strong>musicale</strong> rispondevano all’esigenza di compensare i parossismi sentimentalistici<br />

romantici e idealistici che, come nota il critico Massimo Mila in L’esperienza <strong>musicale</strong><br />

131 , finivano, sulla base del principio hegeliano dell’unità dell’arte come momento<br />

dell’esplicarsi dello spirito assoluto, col favorire una pericolosa confusione tra le arti.<br />

Hanslick ribadiva il principio secondo cui ogni arte deve essere ricondotta alla pro-<br />

130 P. Kivy, Filosofia della musica …, cit., pag. 115.<br />

131 M. Mila, L’esperienza <strong>musicale</strong> e l’estetica, Einaudi, Torino, 1965.<br />

91


pria tecnica, poiché solo in essa manifesta la sua specificità, e in tal senso egli riteneva<br />

di dover rispettare il carattere fondamentale della musica, il cui elemento originario è<br />

l’eufonia <strong>ed</strong> il ritmo la sua essenza.<br />

Ma, per Kivy, il primo formalismo era fortemente condizionato dal fatto di non<br />

avere a disposizione una teoria che, pur non c<strong>ed</strong>endo ai contenutismi e ai sentimentali-<br />

smi, riconoscesse la validità delle descrizioni emotive della musica. Ci pare più plausi-<br />

bile che Hanslick avesse intuito perfettamente che l’essenza del formalismo poteva essere<br />

preservata come pura riflessione filosofica, solo attraverso una totale e incondizionata<br />

chiusura a qualunque tipo di esperienza extra<strong>musicale</strong>, poiché l’introduzione di<br />

qualsiasi rapporto con un più vasto contesto d’esperienza, lo avrebbe posto di fronte al<br />

problema di dover poi spiegare come i sentimenti, che in una certa misura risultano essere<br />

costruzioni culturali, e comunque mai completamente privi di contenuto rappresentativo,<br />

potessero coincidere con gli aspetti strutturali e formali, trasparenti invece ad<br />

un’indagine rigorosamente formalistica.<br />

Ci pare, dunque, di condividere l’opinione di Alessandro Bertinetto, quando afferma<br />

che il formalismo o è formalismo (come il formalismo di Hanslick) tout court o<br />

non è formalismo 132 . Da questo punto di vista, che poi è lo stesso di alcuni critici di<br />

Kivy, il formalismo nella sua forma arricchita (enhanc<strong>ed</strong>) viene considerato come un<br />

vero e proprio escamotage utile per integrare l’analisi tecnica della musica con la nostra<br />

esperienza <strong>musicale</strong> reale. Il problema che si evidenzia è che nell’impianto formalistico<br />

di Kivy vanno ad inserirsi elementi (le emozioni) che finiscono per scardinarlo.<br />

Ha ragione quindi chi v<strong>ed</strong>e nella divaricazione tra l’indagine tecnico-formalista della<br />

musica e l’indagine emotiva, una discutibile decisione proc<strong>ed</strong>urale 133 .<br />

Ad ogni modo, precisiamo che, sebbene difeso in un’accezione emotivamente<br />

arricchita, il formalismo di Kivy si riporta in ultimo ad una negazione di qualsiasi interpretazione<br />

contenutistica, di qualunque tipo essa sia, e il serrato dibattito che Kivy<br />

intrattiene con i cosiddetti nemici del formalismo ne è diretta testimonianza. Severo è<br />

infatti il suo rifiuto di tutte quelle tesi antiformalistiche che difendono un qualche elemento<br />

di narratività anche per quanto riguarda la musica.<br />

All’interno dell’articolata <strong>ed</strong> eterogenea lista di coloro che in vario modo protendono<br />

per un’interpretazione in chiave contenutistica, Kivy “sceglie” di d<strong>ed</strong>icare le<br />

sue particolari attenzioni alla musicologa americana Susan McClary e a David P.<br />

Schro<strong>ed</strong>er, anch’egli americano e musicologo. I due costituiscono i casi probabilmente<br />

132 A. Bertinetto, Bach e il San Bernardo. La filosofia della musica di Peter Kivy, cit., pag. 99.<br />

133 Cfr. E. Maus, Music as Drama, in J. Robinson (a cura di), Musical Meaning, cit., pp. 105-130.<br />

92


più estremi di quella concezione contenutistica che Kivy chiama “interpretazione narra-<br />

tiva forte” e che consiste sostanzialmente nell’attribuire alla musica la capacità di rin-<br />

viare ad una vera e propria ‘trama narrativa’, da intendersi come una sorta di messaggio<br />

<strong>musicale</strong>. La Quarta Sinfonia di Čajkovskij assume così, nell’interpretazione della<br />

McClary 134 , i contorni della biografia sessuale del suo autore con una dovizia di particolari<br />

che, come nota facilmente Kivy, potrebbero essere esposti solo da un’opera letteraria:<br />

la “lettura” della McClary si spinge fino a ipotizzare un conflitto interno del<br />

compositore, tra la sua natura omosessuale e le legittime aspettative del padre; tra i due,<br />

la figura di una donna, forse innamorata, articola ulteriormente la trama narrativa con<br />

altri risvolti psicologici.<br />

Analogamente, ma in chiave più prettamente filosofica, Schro<strong>ed</strong>er 135 , interpreta<br />

la Sinfonia n. 83 di Haydn come espressione dell’ideale illuministico settecentesco, che<br />

culmina con un messaggio sociale ricco di contenuti idealistici: i conflitti di opinione<br />

sono inevitabili, essi non vanno risolti con la repressione, bensì con la tolleranza, non<br />

sistemi dogmatici quindi ma aperture democratiche. Kivy, ovviamente, condanna senza<br />

appello l’infondatezza di entrambe le teorie: una storia, benché minima può essere raccontata<br />

solo per mezzo del linguaggio verbale, o entro certi limiti anche dalle rappresentazioni<br />

visive. La musica pura, assoluta non ha una simile capacità narrativa.<br />

Osserviamo, per inciso, che ritenere che le istanze antiformaliste si esauriscano<br />

sostanzialmente nelle teorie sopradescritte ci pare molto limitativo. Kivy in sostanza ha<br />

buon gioco nel confutare con cognizione le idee certamente singolari di McClary e di<br />

Schro<strong>ed</strong>er, ma non sappiamo dire francamente quanto esse siano rappresentative della<br />

teoria contenutistica in senso lato, certamente esse non hanno alla base nessun criterio<br />

di giustificazione scientifica.<br />

Esiste anche, osserva Kivy, un’interpretazione narrativa debole, secondo la<br />

quale la musica, non racconterebbe alcuna storia reale, ma esporrebbe generalizzate<br />

trame archetipiche: la Quinta sinfonia di Beethoven, per esempio, è un caso tipico della<br />

trama archetipica “lotta contro le avversità fino al trionfo finale”.<br />

Anche in questo caso il giudizio di Kivy è decisamente negativo: è assurdo ritenere<br />

che una sinfonia possa avere una trama archetipica senza una corrispettiva trama<br />

vera e propria, a meno che non si intenda riferirsi alla capacità dei suoni di evocare di-<br />

134<br />

Cfr. S. McClary, Feminine Endings: Music, Gender and Sexuality, University of Minnesota Press,<br />

Minneapolis, 1991.<br />

135<br />

Cfr. D. P. Schro<strong>ed</strong>er, Haydn and the Enlightenment: The Late Symphonies and their Audience, Clarendon<br />

Press, Oxford, 1990.<br />

93


namiche tensive originarie. In quest’ultimo caso tanto varrebbe non riconoscerle alcuna<br />

componente narrativa.<br />

6. La risposta disposizionale di Derek Matravers<br />

Un’antica querelle è quella che concerne la musica e la relazione di essa con la<br />

vita emotiva, che Kivy caratterizza come la querelle tra emotivisti e cognitivisti musicali.<br />

La stessa querelle che oggi, nel dibattito analitico, troppo spesso sfocia in una sorta<br />

di crociata morale: da una parte ci sono coloro (gli emotivisti, critici musicali, teorici o<br />

semplici ascoltatori) che sostengono che quando in circostanze normali descriviamo un<br />

brano <strong>musicale</strong> “triste” è perché esso ci rende tristi, intendendo dire che è triste quella<br />

musica che normalmente suscita tristezza nell’ascoltatore. Si tratta della crociata contro<br />

i senza-cuore, i senza-<strong>emozione</strong>, i quali ascoltano in maniera analitica e fr<strong>ed</strong>da un qualcosa<br />

(la musica) che dovrebbe invece costituire un potente stimolo emotivo. Dall’altra<br />

parte invece troviamo la crociata di coloro (i cognitivisti) i quali sostengono che sia appropriato<br />

descrivere la musica in termini espressivi (cosa ovviamente riconosciuta anche<br />

dagli emotivisti), ma diversamente dagli emotivisti, non pensano che la musica triste<br />

sia tale in virtù della capacità di suscitare quella stessa <strong>emozione</strong> negli ascoltatori,<br />

piuttosto sostengono che la tristezza sia una proprietà di qualche tipo che noi, ascoltatori,<br />

possiamo riconoscere, ascoltare, nella musica, senza che sia necessario provare personalmente<br />

una siffatta <strong>emozione</strong>; la loro è quindi la crociata contro chi si crogiola nel<br />

mare di melassa emotiva e rischia così di perdere di vista gli elementi musicali più significativi.<br />

In realtà, spiega Kivy, con una buona dose di rammarico e consapevole di essere<br />

certamente annoverato tra i più importanti e fervidi sostenitori del cognitivismo, una<br />

tale situazione di frattura sorge solo da un’errata interpretazione della teoria cognitivista<br />

cui fa riferimento. La teoria cognitiva da lui difesa non sostiene l’inconciliabilità<br />

dell’<strong>emozione</strong> e della cognizione <strong>musicale</strong>. Per questa ragione trova infondata, e respinge,<br />

l’accusa di chi sostiene che egli altro non è se non che un fr<strong>ed</strong>do cognitivista.<br />

Tale accusa, diciamo subito, sebbene lo avevamo in parte già evidenziato, è quella che<br />

si solleva dal coro di coloro che in questi ultimi anni hanno optato per una spiegazione<br />

del problema dell’espressività <strong>musicale</strong> attraverso una riabilitazione, in nuove e spesso<br />

94


singolari varianti, della teoria eccitazionistica o disposizionale (Arousal Theory). In<br />

particolare, è il caso di evidenziare – Kivy stesso ne è consapevole – che la voce che da<br />

quel coro si erge più altisonante e muscolosa è certamente quella di Derek Matravers<br />

136 . Tra i due, diciamo subito, vi è infatti oramai da tempo un dialogo pressoché<br />

costante, anzi dovremmo parlare di una vera e propria pressante marcatura che l’uno<br />

esercita nei confronti dell’altro, come si evidenzia dalle rispettive opere. Nello specifico,<br />

l’Arousal Theory è bersaglio polemico di Kivy sin dalla primissima fase della sua<br />

ricerca. Ricordiamo infatti che il riconoscimento della validità del cognitivismo <strong>musicale</strong><br />

si afferma parallelamente alla negazione della validità di una teoria disposizionale<br />

quale è stata fondamentalmente quella tradizionale e in aperta contrapposizione con<br />

quest’ultima. E, in effetti, le prime significative critiche mosse da Kivy all’Arousal<br />

Theory le si ritrovano nell’opera Sound Sentiment, e precisamente nel capitolo significativamente<br />

intitolato And Nevertheless It Moves, critiche alle quali Matravers controbatte<br />

nella sua prima opera d<strong>ed</strong>icata al problema della relazione delle emozioni con le<br />

arti (Art and Emotion), confrontandosi con la tesi cognitivista quale essa è stata interpretata<br />

e rivisitata da Kivy e analizzando ogni singola obiezione all’Arousal alla luce di<br />

quella che, come conosceremo a breve, è in realtà una più sofisticata versione della teoria<br />

eccitazionistica, la cui riabilitazione si manifesta in una formula certamente in<strong>ed</strong>ita.<br />

La risposta, naturalmente, anche in questo caso non tarda ad arrivare; nei New Essays<br />

on Musical Understanding, Kivy d<strong>ed</strong>ica infatti un nuovo capitolo, anche questo direi<br />

dal titolo particolarmente emblematico, The Arousal Theory of Musical Expression:<br />

Rethinking the Unthinkable, nel quale risponde alle critiche mosse da Matravers <strong>ed</strong> esamina<br />

la sua teoria. Ma interessanti a tale proposito, sono anche altri scritti di Matravers;<br />

tra questi, particolarmente significativo è ‘Unsound Sentiment: A Critique of<br />

Kivy’s “Emotive Formalism”, ma anche ‘The Experience of Emotion in Music’. Quello<br />

che viene ad emergere come sfondo costante è quindi, anche negli scritti di Matravers,<br />

questa conflittualità accesa, emblematica di due differenti spiegazioni dell’espressività<br />

136 Vale la pena fare una breve presentazione biografica di Derek Matravers, il quale si è cimentato in<br />

diverse aree: dall’etica alla politica, dalla filosofia della mente fino ovviamente all’estetica, dove ha mostrato<br />

un particolare interesse per i problemi legati alla natura delle descrizioni estetiche, all’esperienza<br />

estetica e al valore artistico. Tra le pubblicazioni di Matravers segnaliamo quelle che ci sembrano più<br />

significative per il nostro filone d’indagine: Art and the Emotions: A Defence of the Arousal Theory, Oxford<br />

University Press, 1998. Paperback <strong>ed</strong>ition, 2001; ‘Art and the Feeling Emotions’, The British<br />

Journal of Aesthetics, 31 (1991): 322-31; ‘Unsound Sentiment: A critique of Kivy’s “Emotive Formalism”’,<br />

Philosophical Papers 22 (1993): 135-47; ‘Once More with Feeling: A Reply to Ridley’, The British<br />

Journal of Aesthetics, 34, 1994; ‘The experience of Expression in Music’, cit.; ‘Art and Emotion’; Routl<strong>ed</strong>ge<br />

Companion to Aesthetics; <strong>ed</strong>. Berys Gaut and Dominic Lopez; Routl<strong>ed</strong>ge; 2001 (seconda <strong>ed</strong>izione<br />

2005); ‘Experience and Expression’ in Philosophers on Music: Experience, Meaning, and Work’, <strong>ed</strong>.<br />

Kathleen Stock (OUP, forthcoming, 2007).<br />

95


che non trovano, o sembrano non poter trovare, soluzione d’accordo. Conflittualità che<br />

egli però preferisce caratterizzare, diversamente da Kivy, come accentuato dissidio tra i<br />

teorici disposizionalisti (tra questi, Kendall Walton e Aaron Ridley) e i teorici sosteni-<br />

tori dell’externality requirement (il riferimento in questo caso non poteva che essere a<br />

Kivy, Levinson e Davies) 137 .<br />

In considerazione quindi di questa serrata corrispondenza e tenuto conto anche<br />

del fatto che la tesi disposizionale difesa da Matravers è una tesi particolarmente rappresentativa<br />

dell’altra principale tendenza riattivatasi nel dibattito analitico, un approfondimento<br />

ci sembra necessario. Diciamo subito infatti che Matravers è uno dei primi<br />

a riaffermare e rivendicare la necessità di ripensare al problema della relazione tra musica<br />

<strong>ed</strong> emozioni m<strong>ed</strong>iante la difesa della teoria eccitazionistica in un periodo e in un<br />

clima fortemente ostili. Nella Prefazione di Art and Emotion scrive a tale proposito:<br />

«La mia intenzione in questo libro è quella di riabilitare un approccio alla connessione<br />

tra l’arte e le emozioni che è stato a lungo tempo considerato come eretico» 138 . Si tratta,<br />

in effetti, come avevamo anche evidenziato, di una teoria particolarmente osteggiata<br />

dalla comunità analitica, presso la quale per un certo periodo sembra invece avere avuto<br />

maggiori consensi una concezione dell’espressività prossima a quella cosiddetta cognitivista.<br />

Ho sperimentato personalmente come le persone che lavorano in questo<br />

campo siano restie perfino a prendere in considerazione l’Arousal<br />

Theory. Un filosofo in particolare, Peter Kivy, ha attaccato l’Arousal<br />

Theory ovunque essa sia comparsa, e talvolta anche in contesti in cui<br />

non compariva nemmeno. Kivy, tuttavia, non è il solo ad aver antipatia<br />

per questa teoria. L’attuale linea dominante ritiene che l’‘Arousal<br />

Theory’ sia certamente falsa e che tutto ciò che viene inquadrato<br />

all’interno di una concezione ‘cognitivista’ è corretto 139 . Io sosterrò<br />

invece che il cognitivismo è muto proprio nel momento in cui dovrebbe<br />

dire qualcosa di importante. Inoltre, pochi degli argomenti che<br />

vengono rivolti contro l’Arousal Theory vanno presi sul serio, e nessuno<br />

di essi è decisivo. Non solo l’Arousal Theory fornisce una soluzione<br />

soddisfacente al problema dell’espressione, ma si inserisce<br />

all’interno di una spiegazione unitaria delle nostre reazioni emotive<br />

alle altre persone, al mondo e alle opere d’arte 140 .<br />

137<br />

V<strong>ed</strong>i in particolare ‘The Experience of Emotion’, cit., pag. 353.<br />

138<br />

D. Matravers, Art and Emotion, cit., pag. vii.<br />

139<br />

Corsivo mio.<br />

140<br />

D. Matravers, Art and Emotion, cit., pag. 4.<br />

96


La difesa della teoria eccitazionistica viene infatti a ribaltare il piano generale<br />

della teoria dei cosiddetti cognitivisti o teorici dell’externality, i quali non hanno cer-<br />

tamente negato la capacità della musica di commuoverci, ma hanno invece negato pe-<br />

rentoriamente che sia in questa dinamica, in quella cioè della risposta emotiva alla mu-<br />

sica, che possiamo ricercare una soluzione al problema dell’espressività <strong>musicale</strong>. Non<br />

bisogna, in altri termini, considerare le proprietà emotive della musica come proprietà<br />

disposizionali, bensì come proprietà percettive, fenomenologiche della struttura musi-<br />

cale stessa. Kivy così evidenzia questo aspetto quando scrive:<br />

A partire dalla pubblicazione di The Concept of Expression (1971) di<br />

Alan Tormey’s, e del mio The Cord<strong>ed</strong> Shell (1980), si è formato un<br />

consenso, tra i filosofi analitici, che l’Arousal Theory of musical expressiveness<br />

sia, invero, irrim<strong>ed</strong>iabilmente sbagliata, e che le proprietà<br />

espressive della musica non sono disposizioni che stimolano<br />

delle normali emozioni, ma sono proprietà percepite della musica. In<br />

altre parole, noi percepiamo la tristezza, la felicità, la rabbia o la depressione<br />

nella musica, così come in genere percepiamo proprietà<br />

‘fenomenologiche’ come il turbamento, la tranquillità, la ‘qualità del<br />

fluttuare’, e così via 141 .<br />

Qualche riga più avanti aggiunge:<br />

Fino a pochissimo tempo fa, potrei dire con una certa sicurezza che<br />

c’era in effetti un consenso generale riguardo alle proprietà espressive<br />

della musica: esse erano delle proprietà percepite, ovvero fenomenologiche,<br />

che si trovavano nella musica stessa, piuttosto che essere disposizioni<br />

volte a stimolare le emozioni ordinarie in un ascoltatore<br />

qualificato. Ma ora è apparso qualcuno che ha scombinato questa<br />

omogeneità di v<strong>ed</strong>ute. Si tratta, nello specifico, di Derek Matravers,<br />

il quale nella sua recente monografia, Art and Emotion, ha elaborato<br />

tanto una critica all’approccio cognitivo all’espressività <strong>musicale</strong><br />

(che è anche il nome che viene solitamente dato alla mia posizione),<br />

quanto una propria personale spiegazione, che egli ritiene essere una<br />

versione della ‘Arousal Theory’ 142 .<br />

Kivy e Matravers hanno dunque messo in atto una stessa operazione, sebbene di<br />

segno inverso: mentre Kivy ha accompagnato all’elaborazione della propria teoria<br />

sull’espressività <strong>musicale</strong> una critica delle teorie eccitazioniste, il punto di partenza di<br />

Matravers è invece una puntuale critica delle teorie cognitiviste, in particolare di quella<br />

di Kivy. La concezione di base di quest’ultimo è, come abbiamo già approfondito, che<br />

la musica, pur non essendo un essere senziente, che possa cioè provare emozioni, può<br />

141 P. Kivy, New Essays on Musical Understanding, cit., pag. 120.<br />

142 Ivi, pag. 121. Corsivo mio.<br />

97


nondimeno essere descritta come ‘triste’ (ad esempio) se assomiglia all’espressione (e-<br />

steriore) di un’<strong>emozione</strong> da parte di una persona (la quale espressione è possibile anche<br />

quando non è direttamente causata dall’<strong>emozione</strong> stessa, come l’esempio<br />

dell’espressione ‘naturalmente triste’ del cane San Bernardo dimostra). La somiglianza<br />

della musica con l’espressione umana delle emozioni è quindi, secondo Kivy, la causa<br />

del nostro descrivere la musica in termini emotivi; affinché però la spiegazione del si-<br />

gnificato dell’espressività sia completa, ovvero affinché si dia una spiegazione del si-<br />

gnificato dell’esperienza dell’espressività <strong>musicale</strong> e del giudizio espressivo sulla mu-<br />

sica, è necessario aggiungere qualcosa al fattore, pur rilevante, della somiglianza. Kivy<br />

stesso ne è consapevole, e nel corso degli anni ha fornito diverse interpretazioni del si-<br />

gnificato dell’esperienza dell’espressività <strong>musicale</strong>, interpretazioni che Matravers rias-<br />

sume nelle seguenti tre proposte.<br />

La prima sostiene che l’esperienza della musica che viene descritta come (ad<br />

esempio) triste equivale all’esperienza udibile della tristezza umana. Ora, sebbene sia<br />

vero, riconosce Matravers, che talvolta sentiamo nella musica alcune tipiche espressioni<br />

uditive umane della tristezza, come il singhiozzare, il piangere, il gridare, e così via,<br />

da ciò non deriva che qualsiasi musica descrivibile (in senso lato) come triste rappresenti<br />

o riproduca i suoni caratteristici delle persone tristi (tra i tanti esempi a disposizione,<br />

Matravers cita il secondo movimento della sinfonia Eroica di Beethoven, che sicuramente<br />

non contiene in sé alcuna traccia di suoni di questo tipo, pur venendo solitamente<br />

esperita come ‘triste’, ‘angosciante’, ecc.).<br />

La seconda proposta sostiene che l’esperienza della musica che viene descritta<br />

come (ad esempio) triste equivale all’ascoltare la musica come somigliante<br />

all’espressione umana comportamentale della tristezza. La somiglianza alla quale i cognitivisti<br />

fanno qui riferimento è principalmente quella tra la musica e il movimento<br />

umano (il quale è uno dei modi in cui l’uomo può manifestare esteriormente i propri<br />

sentimenti): le successioni di note di frequenza diversa vengono percepite come spostamenti<br />

da una posizione all’altra all’interno dello ‘spazio <strong>musicale</strong>’ (non a caso si<br />

parla di note più o meno ‘alte’ o più o meno ‘basse’). La percezione di tale aspetto, ovvero<br />

il riconoscimento dell’esistenza di una siffatta somiglianza, non rappresenta però,<br />

osserva Matravers, un’esperienza duratura e unitaria, laddove sono proprio queste le<br />

caratteristiche che, da un punto di vista fenomenologico, contraddistinguono<br />

l’esperienza dell’ascolto della musica espressiva, esperienza che non può ridursi, come<br />

vuole questa seconda proposta cognitivista, ad un accadimento momentaneo (vale a di-<br />

98


e, alla percezione, in un certo istante dell’esperienza dell’ascolto, di una somiglianza<br />

tra la musica e il movimento umano).<br />

Rimane ancora da prendere in considerazione la terza proposta cognitivista (di<br />

nuovo attribuibile a Kivy), secondo la quale l’esperienza dell’espressività <strong>musicale</strong> e-<br />

quivale all’ ‘animare’ i suoni in una certa maniera (in virtù di determinati motivi, tra i<br />

quali la somiglianza tra la musica e il comportamento umano è quello principale), ov-<br />

vero in maniera tale da percepire, nell’ascolto, l’espressione di un’<strong>emozione</strong> nella mu-<br />

sica, o come un aspetto della musica. Questa terza soluzione si riduce sostanzialmente,<br />

secondo Matravers, alla prima, e ricade quindi nelle stesse obiezioni.<br />

Nessuna delle tre proposte avanzate da Kivy sembra in grado di giustificare il<br />

nostro uso di termini emotivi per descrivere determinate musiche, in quanto non riesce<br />

a spiegare il senso intrinseco dell’esperienza che facciamo di tali musiche. L’unico ruo-<br />

lo che Kivy pare poter mantenere per la proprietà della somiglianza (tra la musica e il<br />

comportamento umano, ovvero tra la musica e l’espressione umana comportamentale<br />

delle emozioni) è di tipo causale: tale somiglianza sarebbe il motivo per cui noi ‘ani-<br />

miamo’ i suoni e facciamo quindi esperienza dell’espressività <strong>musicale</strong>. Tuttavia, lo<br />

stesso Kivy è scettico al riguardo, e riconosce che la somiglianza non è una condizione<br />

né sufficiente − a ben v<strong>ed</strong>ere, la struttura <strong>musicale</strong> può somigliare anche al ‘salire’ e al<br />

‘precipitare’ dell’indice del mercato internazionale, senza che con ciò ne sia<br />

l’espressione − né necessaria all’espressività − la quale può essere prodotta da altre<br />

cause (che Kivy individua principalmente in fattori di tipo convenzionale o associazionistico).<br />

Data la provata (a suo avviso) inadeguatezza della teoria cognitivista di Kivy a<br />

dar conto dell’espressività <strong>musicale</strong>, Matravers opera un netto cambio di direzione, e<br />

decide di riportare l’attenzione sul versante opposto, e cioè sul fatto che non si può<br />

mettere tra parentesi il legame che la musica espressiva ha con l’esperienza emotiva<br />

dell’ascoltatore, come i cognitivisti vorrebbero. Piuttosto, egli insiste sul fatto che è esattamente<br />

in quella direzione che è necessario investigare qualora si voglia perseguire<br />

un’adeguata comprensione del problema espressivo delle arti, bisogna cioè capire come<br />

le emozioni formino il ponte tra la nostra esperienza dell’arte e della vita, capire, più<br />

specificamente, cosa l’esperienza emotiva <strong>musicale</strong> ha in comune con l’esperienza ordinaria<br />

dell’ascoltatore. Questo non vuol dire, secondo Matravers, perdere di vista o<br />

comunque trascurare la specificità dell’una e dell’altra esperienza, chiaramente differenti,<br />

ma comprendere proprio a partire da questa singolarità, che l’esperienza artistica<br />

99


porta in primo piano più di altre esperienze della nostra vita, la forza e la pertinenza di<br />

quel legame. In questo modo, Matravers vuole farci capire come sia possibile una no-<br />

stra reazione emotiva nei confronti, ad esempio, di personaggi <strong>ed</strong> eventi finzionali, e in<br />

particolare, come sia possibile spiegare questa reazione verso quelle forme artistiche<br />

(come la musica strumentale) che, diversamente dalle arti visive e (soprattutto) da quel-<br />

le narrative, sono svincolate da qualsiasi contenuto rappresentativo che giustifichi in<br />

qualche maniera una nostra cr<strong>ed</strong>enza. Detto in altri termini, spesso troviamo che un<br />

particolare poema, un quadro, o un brano <strong>musicale</strong> comporti un cambiamento emotivo,<br />

possiamo cioè esperire emozioni verso o a favore, rispettivamente, di personaggi funzionali,<br />

dei soggetti ritratti in un dipinto o di una particolare sequenza melodica. Tali<br />

esperienze sono però filosoficamente complesse e il problema – evidenzia Matravers -<br />

è proprio quello di interpretarle, poiché le loro cause sembrano essere completamente<br />

differenti dalle cause delle nostre emozioni nel resto delle nostre vite. Ciò nondimeno<br />

non bisogna comunque rinunciare a comprendere, dicevamo, cosa tali esperienze hanno<br />

in comune con le altre, e cosa le lega all’espressione delle emozioni in casi nonartistici.<br />

Scrive Matravers a tale proposito:<br />

La grande arte ci procura alcune tra le esperienze più degne di merito<br />

che sia possibile per noi avere. Tali esperienze coinvolgono simultaneamente<br />

molti aspetti della nostra vita mentale: esse saturano i nostri<br />

sensi e allo stesso tempo stimolano la nostra intelligenza e chiamano<br />

in causa le nostre simpatie e le nostre emozioni. Queste connessioni<br />

conferiscono all’esperienza della grande arte un’importanza e una<br />

complessità che l’esperienza del buon cibo, ad esempio, per quanto<br />

sia apprezzabile, non possi<strong>ed</strong>e. In questo libro io esploro alcune di<br />

queste connessioni: la relazione – o, meglio, le relazioni − tra l’arte e<br />

le emozioni 143 .<br />

Come si evince da queste prime e sommarie informazioni, naturalmente, anche<br />

per Matravers, come per la maggior parte dei filosofi analitici, il problema della nostra<br />

risposta emotiva alle opere d’arte si configura diversamente in relazione ad opere che<br />

non hanno un qualche contenuto rappresentativo di riferimento. La risposta emotiva a<br />

queste forme artistiche è complessa, soprattutto perché le strategie che, nel caso delle<br />

forme d’arte rappresentazionale, forniscono delle spiegazioni sia del perché noi rispondiamo<br />

emotivamente ad esse, sia di che tipo siano queste risposte, non sembrano essere<br />

143 D. Matravers, Art and Emotion, cit., pag. 1.<br />

100


valide allorquando si passi alle forme d’arte non-rappresentazionale, come per<br />

l’appunto la musica strumentale (e anche l’astrattismo in pittura e in scultura). Si tratta<br />

di quello che Matravers definisce il problema della definizione (definitional problem),<br />

vale a dire: un romanzo, un film, un paesaggio impressionista danno l’immagine di un<br />

mondo umano, con gli elementi del quale possiamo empatizzare o identificarci, reagire<br />

o non reagire simpateticamente, o anche riflettere l’impensabile, quasi attraverso una<br />

sorta di contagio naturale. Ma con una sinfonia, una sonata, una scultura minimalista o<br />

con un quadro dell’espressionismo astratto tali spiegazioni non sembrano avere nessu-<br />

na validità. Gli esseri umani e le loro storie sono del tutto assenti. Quindi è inevitabile<br />

chi<strong>ed</strong>ersi perché e in che modo la percezione di tali opere dovrebbe sollecitare, destare<br />

emozioni in noi, e a cosa sono dirette tali emozioni.<br />

È qui che il problema della definizione differisce dal secondo dei due<br />

problemi che considererò in Art and Emotion: nel dover giustificare il<br />

fatto che descriviamo le opere d’arte con termini che usiamo per denominare<br />

le emozioni (e che chiamerò ‘termini emotivi’), quando tale<br />

descrizione non è spiegata, quantomeno non del tutto, dal contenuto<br />

rappresentazionale dell’opera. Il problema del descrivere la musica<br />

strumentale utilizzando termini emotivi è un caso particolare di questo<br />

tipo di problema 144 .<br />

Tale problema emerge prepotentemente <strong>ed</strong> è tanto più spigoloso ovviamente in<br />

relazione alla musica strumentale, la quale – evidenzia Matravers –, sebbene non sia<br />

inusuale per noi descriverla in termini emotivi, non solo si presenta discontinua con il<br />

resto delle nostre vite, ma non è nemmeno, per riprendere un’espressione di Danto, ‘a<br />

proposito di’ (about) qualcosa che potrebbe giustificare l’applicazione di un termine<br />

emotivo ad essa 145 . Tale è la ragione per cui diventa più difficile comprendere da dove<br />

traiamo l’idea che l’opera stia esprimendo le emozioni, e soprattutto, risulta difficile<br />

chiarire come e perché l’espressione delle emozioni entri a far parte dell’esperienza di<br />

tali opere.<br />

Matravers sostiene che un primo passo per arrivare ad una possibile soluzione<br />

tanto del primo quanto del secondo problema, per quanto differenti siano l’uno<br />

dall’altro, è quello di far emergere quali sostanziali differenze intercorrano tra il complesso<br />

stato mentale che è provocato da un’opera d’arte e il complesso stato mentale<br />

che è l’esperienza delle emozioni nei casi centrali, ovvero nei casi dell’esperienza ordi-<br />

144<br />

Ivi, pag. 3.<br />

145<br />

Cfr. A. Danto, The Transfiguration of the Coomonplace: A Philosophy of Art, Cambridge Mass, Harvard<br />

University Press, 1981.<br />

101


naria della vita. È necessario infatti, dal suo punto di vista, mettere in conto e compren-<br />

dere il fatto che non tutti gli stati mentali, o esperienze psicologiche, possono essere<br />

considerate e classificate allo stesso modo. Matravers nello specifico – muovendosi da<br />

una teoria cognitiva delle emozioni, secondo la quale un’<strong>emozione</strong> è composta da un<br />

numero di elementi includenti una o più attitudini proposizionali, e dal funzionalismo<br />

che definisce le attitudini proposizionali nei termini della loro collocazione all’interno<br />

di una rete causale di input, output e connessioni con altri stati mentali – sostiene che ci<br />

sono stati psicologici, le emozioni, che hanno una precisa componente cognitiva, e altri<br />

stati, le sensazioni (feelings) in cui tale componente viene meno, anzi è preferibile dire,<br />

è completamente assente. Ci sembra dunque qui riproporsi quella distinzione, cui accennavamo<br />

nel primo capitolo, tra Gefühl e Fühlen, tra sentimento determinato (Hanslick)<br />

e sentimento come tonalità del sentire (Schopenhauer, Langer).<br />

Specifica Matravers a tale proposito:<br />

Questo dimostra che non tutte quelle che potremmo chiamare esperienze<br />

psicologiche sono dirette-verso-un-oggetto. Questa caratteristica<br />

delle attitudini proposizionali, e quindi delle emozioni che le<br />

coinvolgono, serve a distinguere questi stati in particolare dalle esperienze<br />

che rientrano in un’altra categoria psicologica: ovvero da quelle<br />

che io chiamerò sensazioni (feelings). Nel distinguere queste due<br />

categorie dell’esperienza psicologica, non voglio sostenere che vi<br />

debba essere una netta distinzione nelle esperienze stesse, né voglio<br />

sostenere che un termine emotivo non possa essere correttamente usato<br />

anche per indicare una sensazione che differisce dall’<strong>emozione</strong> solo<br />

per l’assenza della componente cognitiva di quest’ultima. Perciò in<br />

alcuni casi potremmo voler chiamare ‘<strong>emozione</strong>’ una istanza di paura,<br />

in quanto essa ha un oggetto (essa è la paura per qualcosa), e in altri<br />

casi potremmo volerla chiamare ‘sensazione’ in quanto è priva di<br />

oggetti […] La distinzione tra stati mentali che sono a proposito di<br />

qualcosa e quelli che invece non lo sono, è, tuttavia, comprensibilmente<br />

evidente, e il sottolinearla rende un servizio alla chiarezza.<br />

[…] È la presenza o l’assenza delle attitudini proposizionali più rilevanti,<br />

in particolare le cr<strong>ed</strong>enze, che considererò come l’elemento<br />

che distingue le emozioni dalle sensazioni. Le altre due componenti<br />

di questi due stati psicologici, ovvero quella fenomenologica e quella<br />

fisiologica, saranno da me considerate caratteristiche di entrambi.<br />

Un’<strong>emozione</strong> si distingue da una sensazione, quindi, in virtù del possesso<br />

di un aspetto cognitivo 146 .<br />

Le emozioni, quindi, sono dotate di un aspetto cognitivo (esse sono dirette verso<br />

un qualche oggetto) che invece è assente nelle sensazioni. Queste ultime costituiscono<br />

146 Ivi, pp. 19-20.<br />

102


la componente fenomenologica e fisiologica delle emozioni. Ed ecco il punto che qui ci<br />

preme evidenziare. Secondo Matravers lo stato caratteristico suscitato da un’opera<br />

d’arte espressiva è una sensazione e non un’<strong>emozione</strong>, poiché la sensazione a differen-<br />

za dell’<strong>emozione</strong> non ha una componente cognitiva.<br />

Lo stato caratteristico suscitato da un’opera d’arte espressiva è […]<br />

una sensazione e non un’<strong>emozione</strong>: ovvero, esso è privo della componente<br />

cognitiva. Abbiamo visto nel capitolo 2 che l’ ‘essere-direttiall’oggetto’<br />

da parte delle emozioni è una conseguenza del loro aspetto<br />

cognitivo; l’oggetto intenzionale dello stato cognitivo è anche<br />

l’oggetto intenzionale delle emozioni. Lo stato che è suscitato da<br />

un’opera d’arte espressiva (per uno spettatore qualificato posto nelle<br />

appropriate condizioni) non ha oggetto. Esso non è né ‘tristezza riguardo<br />

a qualcosa’ né ‘tristezza per il pensiero di qualcosa’ 147 .<br />

Naturalmente, aggiunge Matravers, è possibile per le proprietà espressive di<br />

un’opera d’arte causare uno stato mentale coinvolgente un’attitudine proposizionale,<br />

ma se questo accade – se accade cioè che l’opera d’arte espressiva provochi<br />

un’<strong>emozione</strong> – quell’<strong>emozione</strong> non ha l’opera come suo oggetto intenzionale; essa avrà<br />

qualcosa di esterno all’opera; per esempio, il pensiero della morte della nonna o la perdita<br />

di un amore. Dico subito che questo tipo di considerazione costituisce un problema<br />

per l’Arousal Theory, poiché – come Matravers stesso non trascura di evidenziare –<br />

molti sono i filosofi d’accordo nel sostenere, e tra questi abbiamo già visto da vicino il<br />

pensiero di Kivy a tale riguardo, che tali reazioni non sono esteticamente rilevanti.<br />

L’idea comune è che se io sono sollecitato (trigger<strong>ed</strong>) da un’opera d’arte a provare<br />

un’<strong>emozione</strong> il cui oggetto è qualcosa di esterno all’opera, una tale reazione non può<br />

costituire la base per un giudizio estetico sull’opera. L’Arousal Theory dovrà in questo<br />

senso trovare un modo di distinguere il primo tipo di reazione dalla seconda.<br />

Sulla base di queste considerazioni possiamo così iniziare a comprendere in che<br />

termini Matravers viene a reimpostare una più sofisticata versione della teoria eccitazionistica<br />

rispetto a come essa si presentava nella sua formula standard, e cioè a partire<br />

da una precisa spiegazione di come dobbiamo intendere l’uso del termine <strong>emozione</strong> in<br />

contesti estetici. La spiegazione comunque di come intendere l’uso che facciamo del<br />

termine <strong>emozione</strong> in contesti estetici non è l’unico aspetto da mettere in conto nella ridefinizione<br />

da parte di Matravers della teoria eccitazionistica. È importante anche e soprattutto<br />

– come egli tiene a precisare – spiegare l’esperienza stessa dell’espressione in<br />

147 Ivi, pp. 147-148. Corsivo mio.<br />

103


arte, vale a dire: in cosa consiste tale esperienza, qual è il suo senso intrinseco, in che<br />

modo le emozioni (o, meglio, le sensazioni) entrano a far parte dell’esperienza<br />

dell’espressività <strong>musicale</strong>.<br />

Possiamo avere già una qualche comprensione dell’esperienza espressiva delle<br />

opere d’arte, avvalendoci semplicemente della riflessione su cosa tale esperienza ha in<br />

comune con l’esperienza delle persone che esprimono emozioni. Sostiene Matravers<br />

infatti che vi è un’analogia tra la nostra risposta all’arte che esprime emozioni e la no-<br />

stra risposta alle persone che esprimono emozioni. Nello specifico, l’aspetto interessan-<br />

te di questa analogia tra la musica espressiva e le persone espressive considera il modo<br />

in cui è appropriato reagire nell’una e nell’altra situazione. In questo senso – egli so-<br />

stiene – è inappropriato, quando ci troviamo dinanzi all’espressione umana<br />

dell’<strong>emozione</strong>, semplicemente formarsi una cr<strong>ed</strong>enza, ovvero una convinzione relativa<br />

alle cause dell’espressione (vale a dire, fare delle ipotesi su cosa possa aver causato la<br />

manifestazione esteriore dell’<strong>emozione</strong>). L’appropriata reazione è piuttosto sentire un<br />

qualche tipo di <strong>emozione</strong> in noi stessi 148 . Lo stesso è vero della nostra reazione all’arte<br />

espressiva. Poiché è inappropriato semplicemente riconoscere che un’opera d’arte e-<br />

sprime un’<strong>emozione</strong> e registrare il fatto nella forma di una cr<strong>ed</strong>enza. In circostanze ot-<br />

timali, si dovrebbe apprezzare l’opera reagendo ad essa con un’esperienza emotiva ap-<br />

propriata.<br />

Si evidenzia così il motivo di netto contrasto tra il punto di vista di Matravers e<br />

quello di Kivy: delle emozioni, per Kivy, si ha cognizione, è necessario cioè poterle ri-<br />

conoscere, mentre Matravers sottolinea come esse vadano piuttosto sentite.<br />

È muovendosi dalle due principali affermazioni a) che l’appropriata reazione<br />

all’espressione artistica è una sensazione e non un’<strong>emozione</strong> e b) che tale esperienza<br />

emotiva causata dall’opera d’arte espressiva è analoga a quella della nostra risposta<br />

emotiva dinanzi a persone che esprimono emozioni 149 , che Matravers arriva alla seguente<br />

formula:<br />

148 Analogamente a quanto sostiene Ridley, altro illustre sostenitore della teoria eccitazionistica, anche<br />

Matravers è dell’idea che per descrivere la musica come espressiva delle emozioni occorre in qualche<br />

modo rapportare l’esperienza emotiva della musica all’esperienza comune delle emozioni. Dobbiamo<br />

cioè entrare in “simpatia” con la musica che ascoltiamo, altrimenti risulterebbe impossibile una descrizione<br />

della musica in termini emotivi. In altre parole, l’esperienza della somiglianza tra un passaggio<br />

<strong>musicale</strong> e l’espressione reale delle emozioni dipende dal fatto che ascoltando il brano in questione “portiamo<br />

alla mente” ciò che succ<strong>ed</strong>e in noi quando proviamo una certa <strong>emozione</strong>; pertanto il riconoscimento<br />

dell’espressione di un’<strong>emozione</strong> in musica e la descrizione emotiva di un brano <strong>musicale</strong> implicano il<br />

sentimento di quell’<strong>emozione</strong>. (Cfr. A. Ridley, Musical Symphaties: The Experience of Expressive Music,<br />

cit.; Id., Music, Value and Passions, Cornell University Press, Ithaca, Capitolo VI).<br />

149 La differenza tra le due esperienze sta nel fatto che, come detto, reagiamo all’espressione di emozioni<br />

da parte di persone provando emozioni, mentre reagiamo all’espressione di emozioni da parte di opere<br />

104


Un’opera d’arte x esprime l’<strong>emozione</strong> e se, per uno spettatore qualificato<br />

p che esperisce x in condizioni normali, x suscita in p una sensazione<br />

che costituirebbe un aspetto della reazione appropriata<br />

all’espressione di e da parte di una persona, o a una rappresentazione<br />

il cui contenuto sia costituito dall’espressione di e da parte di una<br />

persona 150 .<br />

Spostandosi dalle arti in generale e passando al caso particolare della musica strumen-<br />

tale, lo schema resta pressoché invariato:<br />

Un brano <strong>musicale</strong> esprime un’<strong>emozione</strong> e se spinge l’ascoltatore a<br />

esperire una sensazione α, dove α è la componente sensibile (the feeling<br />

component) dell’<strong>emozione</strong> che sarebbe appropriato provare (nei<br />

casi centrali) quando ci troviamo di fronte a persone che esprimono<br />

e 151 .<br />

Si tratta, diciamo subito, di quella più sofisticata formula m<strong>ed</strong>iante la quale Ma-<br />

travers viene a riqualificare una spiegazione dell’espressività <strong>musicale</strong> in chiave eccita-<br />

zionistica o disposizionale. Secondo tale spiegazione, sembra dunque evidente, una de-<br />

scrizione della musica in termini emotivi è possibile soltanto perché essa suscita in noi<br />

quelle sensazioni che nella vita reale sono parte di quella stessa <strong>emozione</strong>. Detto in altri<br />

termini, possiamo descrivere un brano <strong>musicale</strong> come allegro perché esso suscita in noi<br />

quelle sensazioni che nella vita reale fanno parte dell’allegria, o meglio, che sono forme<br />

appropriate di reazione all’espressione di allegria da parte di una persona, e che<br />

quindi ci spingono a descrivere la musica come allegra. In questo senso, possiamo adesso<br />

comprendere meglio, le proprietà espressive della musica non sono più da intendersi<br />

come proprietà percettive della musica stessa, bensì come disposizioni a suscitare<br />

sensazioni in chi ascolta. Non si deve infatti, secondo Matravers, cadere nell’errore dei<br />

cognitivisti in generale, e di Kivy, in particolare, di pensare che l’espressione della musica<br />

possa essere svincolata dal polo dell’esperienza soggettiva, che si possa quindi<br />

spiegare l’espressività <strong>musicale</strong> come un fatto inerente la musica, le sue stesse proprietà.<br />

Ma, <strong>ed</strong> ecco il punto di maggiore incrinatura tra le opposte concezioni, ciò che è di-<br />

d’arte provando sensazioni. Matravers chiarisce anche che questo aspetto dell’Arousal Theory, e cioè che<br />

l’appropriata reazione all’espressione artistica è una sensazione e non un’<strong>emozione</strong>, si potrebbe pensare<br />

sia in conflitto con la fondamentale analogia tra la nostra risposta all’arte che esprime emozioni e la nostra<br />

risposta alle persone che esprimono emozioni, poiché in quest’ultimo caso è certamente appropriato<br />

rispondere con un’<strong>emozione</strong> – cioè uno stato con una componente cognitiva. Quando ci troviamo dinanzi<br />

ad una persona triste, rispondiamo con la tristezza, o forse con la pietà. In realtà – egli spiega – le<br />

strutture basilari (ovvero fisiologiche e fenomenologiche) delle risposte sono analoghe, anche se rimuoviamo<br />

le considerazioni riguardanti il contenuto cognitivo.<br />

150<br />

Ivi, pag. 146.<br />

151<br />

Ibidem, pag. 149.<br />

105


stintivo riguardo al cognitivismo è proprio l’affermazione che l’espressione è una proprietà<br />

di un’opera che è descrivibile in quanto tale indipendentemente da<br />

un’individuale reazione ad essa.<br />

Come già anticipato, la teoria eccitazionista di Matravers è stata a sua volta il<br />

bersaglio di numerose critiche mosse dal fronte dei cognitivisti, in particolare dal suo<br />

esponente di punta, vale a dire Peter Kivy. In Art and Emotion, Matravers prende in esame<br />

quelle che sono le quattro principali critiche mosse da Kivy all’Arousal Theory,<br />

rispondendo alle quali egli non solo difende la validità della propria proposta, ma ne<br />

chiarisce alcuni aspetti importanti che possono essere rimasti ancora in ombra 152 .<br />

La prima critica sostiene che ogni <strong>emozione</strong> da noi provata nella vita reale ha<br />

delle implicazioni di tipo comportamentale − quando ad esempio proviamo malinconia,<br />

di solito perdiamo l’appetito, e stiamo a testa bassa; quando siamo arrabbiati, tendiamo<br />

ad attaccare briga; e così via − che sono assenti quando ascoltiamo la musica − di solito<br />

infatti non osserviamo comportamenti simili nelle persone s<strong>ed</strong>ute in teatro che assistono<br />

a un concerto di musica classica, e nemmeno ci lasciamo andare a particolari reazioni<br />

esteriori quando ascoltiamo la musica tramite le cuffie del nostro stereo. Ciò minerebbe<br />

la presunta analogia tra le emozioni ordinarie e quelle suscitate dalla musica.<br />

Matravers ha gioco facile nel ribattere in prima battuta a tale critica, in quanto gli è sufficiente<br />

ricordare che la sua teoria afferma che la musica espressiva suscita<br />

nell’ascoltatore una (particolare) sensazione (la quale è priva della componente cognitiva,<br />

non è rivolta ad alcun oggetto, e che quindi non implica necessariamente delle esternazioni<br />

comportamentali specifiche) e non un’<strong>emozione</strong>. I cognitivisti replicano però<br />

a loro volta sostenendo che identificare la sensazione caratteristica di un’<strong>emozione</strong>,<br />

in quanto scissa dalla componente cognitiva di quest’ultima, risulta essere<br />

un’operazione pressoché impossibile; il che renderebbe la definizione dell’espressività<br />

<strong>musicale</strong> data da Matravers del tutto inoperativa, dato che tale definizione lega<br />

l’attribuzione di un termine emotivo a un dato brano <strong>musicale</strong> al riconoscimento<br />

dell’analogia tra la sensazione suscitata dal brano e la componente sensitiva<br />

dell’<strong>emozione</strong> (feeling component of emotion) corrispondente al termine, la quale componente<br />

sensitiva è quella che proveremmo se ci trovassimo di fronte a una persona che<br />

esprime l’<strong>emozione</strong> in questione. A tale ulteriore osservazione, Matravers risponde<br />

chiarendo innanzitutto, una volta di più, che non si tratta secondo lui di riconoscere,<br />

ovvero di percepire, una proprietà nella musica, ma di provare internamente una certa<br />

152 Ci riferiamo qui sempre al testo di Matravers, Art and Emotion, cit., con particolare riferimento alle<br />

pp. 147-187. Le stesse analisi sono riassunte in Id., The Experience of Emotion in Music, cit.<br />

106


sensazione <strong>ed</strong> esperire la somiglianza di questa con un certo tipo di reazione emotiva<br />

che caratterizza la nostra vita comune, i nostri rapporti con le altre persone e in genera-<br />

le con la vita. Ad ogni modo, egli ritiene, riprendendo anche Levinson, che sia possibi-<br />

le identificare, attraverso un’attività di introspezione, il ‘feeling component’ delle emo-<br />

zioni designate dai termini emotivi attribuiti alla musica, specificandoli in termini espe-<br />

rienziali-fenomenologici (ovvero in termini di determinati impulsi, sensazioni interne,<br />

sentimenti di piacere o dispiacere, stati di tensione o di rilassamento, ecc.). Tale attività<br />

di introspezione è agevolata dal fatto (riconosciuto anche da Budd) che le emozioni e-<br />

spresse dalla musica − come il linguaggio della critica <strong>musicale</strong>, che attribuendo certi<br />

termini emotivi alla musica intende portarne alla luce l’espressività, conferma − sono<br />

designabili attraverso un numero limitato e circoscritto di termini piuttosto generali, i<br />

quali si riferiscono ad emozioni (malinconia, gioia, tristezza, ecc.) per le quali è lecito<br />

attendersi che sia possibile identificare, per via introspettiva, uno specifico ‘feeling<br />

component’, almeno in riferimento ai casi centrali (ovvero alle situazioni della vita rea-<br />

le in cui proviamo determinate sensazioni in reazione all’espressione di tali emozioni<br />

da parte di certe persone), ai quali l’espressività <strong>musicale</strong> è collegata da una relazione<br />

di somiglianza (tra le sensazioni suscitate dall’ascolto di una musica che descriviamo<br />

ad esempio come triste e le sensazioni che proviamo quando ci troviamo di fronte a una<br />

persona che esprime tristezza; sensazioni che, come v<strong>ed</strong>remo meglio più avanti, possono<br />

essere di tristezza o di pietà). Non mancano quindi a Matravers gli argomenti per respingere<br />

la prima critica mossagli da Kivy; critica che, a ben v<strong>ed</strong>ere, si basa su premesse<br />

tutt’altro che certe. È infatti vero, Matravers riconosce, che i sentimenti suscitati dalla<br />

musica sono solitamente moderati, e quindi privi di manifestazioni comportamentali<br />

(essi sono simili ai sentimenti suscitati dalla lettura del giornale, le cui notizie possono<br />

colpirci emotivamente, ma non fino al punto tale da farci mettere da parte il thè che<br />

stavamo sorseggiando durante la lettura). Tuttavia, ciò non toglie che talvolta la musica<br />

possa emozionarci al punto tale da farci ridere di gioia, o da farci piangere per la commozione,<br />

sebbene solitamente evitiamo di abbandonarci a tali esternazioni, soprattutto<br />

se ci troviamo in uno spazio pubblico (come quello di un teatro o di un’arena).<br />

La seconda critica che Kivy indirizza alla teoria di Matravers consiste nel famoso<br />

argomento delle ‘emozioni negative’, il quale, sinteticamente, pone la seguente domanda,<br />

alla quale l’Arousal Theory non sembra essere in grado di rispondere: se la musica<br />

che esprime tristezza suscita in noi emozioni (o, più precisamente, sensazioni) di<br />

107


tristezza (e quindi spiacevoli), perché mai dovremmo desiderare di ascoltarla? Tale ar-<br />

gomento, da molti ritenuto decisivo, è in realtà facilmente respingibile.<br />

Restando sul piano del piacere estetico suscitato dall’ascolto della musica, Ma-<br />

travers osserva infatti che il fatto che l’esperienza dell’ascolto di una musica triste contenga<br />

dei sentimenti di tristezza (e quindi di per sé spiacevoli), non implica affatto che<br />

tale esperienza non possa essere, nel suo complesso, un’esperienza piacevole (essendo<br />

questa un’esperienza che coinvolge anche altri elementi, quali ad esempio<br />

l’apprensione della forma <strong>musicale</strong>). Spostandosi poi sul piano più generale di una teoria<br />

del valore, Matravers sostiene (con una riflessione dal sapore nietzschiano) che non<br />

c’è alcuna ragione di pensare che tutte le nostre attività volontarie siano finalizzate al<br />

raggiungimento di uno stato di piacere; il fine delle nostre attività è, più in generale,<br />

quello di “rendere la vita meritevole di essere vissuta”, e ciò può includere anche esperienze<br />

e sentimenti ‘spiacevoli’ (felicità e infelicità, diceva Nietzsche, sono sorelle gemelle;<br />

le esperienze dolorose possono contribuire, se bilanciate da esperienze di segno<br />

opposto, alla pienezza della vita di una persona) 153 . La terza critica da parte dei cognitivisti<br />

(che stavolta comprendono, oltre a Kivy, anche Stephen Davies), sostiene che,<br />

poiché non sappiamo né perché, né come, la musica espressiva possa provocare dei<br />

sentimenti, di conseguenza non possiamo postulare l’esistenza di tali sentimenti (o sensazioni)<br />

e tantomeno basare su di essi una teoria dell’espressività <strong>musicale</strong>. Riguardo<br />

alla questione del perché, l’Arousal Theory non sarebbe in grado di giustificare il sentimento<br />

provocato dalla musica, in quanto il provare un sentimento non sarebbe una reazione<br />

appropriata alla musica, nella stessa maniera in cui (ad esempio) la tristezza è<br />

una reazione appropriata alla morte di una persona cara; ma, chiarisce Matravers,<br />

l’Arousal Theory afferma che la musica espressiva è proprio quella musica che suscita<br />

in noi dei sentimenti, i quali, pur non essendo giustificati, giustificano la cr<strong>ed</strong>enza che<br />

la musica sia espressiva dei sentimenti stessi. (In sostanza, quello che per Kivy e Davies<br />

dovrebbe essere il punto di arrivo, per Matravers è invece il punto di partenza).<br />

Riguardo alla questione di come la musica possa suscitare dei sentimenti, la risposta<br />

può essere fornita, secondo Matravers, solo attraverso una ricerca extra-filosofica. At-<br />

153 Entrambe le repliche di Matravers a Kivy relativamente all’argomento delle emozioni negative si avvicinano<br />

ad alcune delle soluzioni che Jerrold Levinson ha a sua volta avanzato in relazione al m<strong>ed</strong>esimo<br />

problema. Secondo Levinson, infatti, i principali elementi che rendono desiderabile l’ascolto di una musica<br />

che trasmette emozioni negative sono l’ “emotional resolution” − vale a dire l’apprezzamento della<br />

finalità interna alla composizione <strong>musicale</strong>, in base alla quale anche le suddette emozioni acquistano un<br />

significato, un senso − e l’ “expressive potency” − ovvero il senso di pienezza e di ricchezza emotiva che<br />

acquisiamo attraverso l’ascolto empatico di una musica che esprime una vasta gamma di emozioni, comprese<br />

quelle spiacevoli. (V<strong>ed</strong>i J. Levinson, Music and Negative Emotion, cit., pp. 326 – 329).<br />

108


tingendo ai contributi della storia, della psicologia e dell’antropologia, è plausibile ipo-<br />

tizzare che l’uomo abbia da sempre avuto l’esigenza di esprimere i propri sentimenti<br />

attraverso l’arte, e abbia sfruttato tanto l’esistenza di corrispondenze naturali, quanto<br />

l’introduzione di determinate convenzioni a livello dei vari linguaggi artistici, al fine di<br />

produrre determinate sensazioni nelle persone che all’arte, nelle varie epoche, si sono<br />

rivolte, e continuano a rivolgersi.<br />

La teoria di Matravers, si è detto, afferma che una musica esprime (ad esempio)<br />

tristezza se è tale che noi reagiamo ad essa provando le sensazioni che, nella vita reale,<br />

proveremmo di fronte a una persona che esprime tristezza. Tali sensazioni possono es-<br />

sere di tristezza o di pietà. Riprendendo la terminologia introdotta da Elliott, Matravers<br />

specifica che nel primo caso esperiamo la musica “dal di dentro”, ovvero come se la<br />

musica fosse l’espressione di un nostro sentimento, mentre nel secondo caso la espe-<br />

riamo “dal di fuori” 154 , ovvero come se la musica fosse l’espressione del sentimento<br />

provato da un’altra persona, di fronte alla quale reagiamo provando una reazione ap-<br />

propriata (che nel caso specifico è identificata dalla pietà). Questa duplicità della nostra<br />

reazione emotiva alla musica espressiva è parallela a quella che solitamente abbiamo<br />

nella vita reale: osservando una persona (descrivibile come) triste, possiamo identifi-<br />

carci con essa (e allora proveremo anche noi tristezza), oppure possiamo assumere un<br />

atteggiamento simpatetico (e allora reagiremo provando pietà per tale persona). Questa<br />

aggiunta serve a Matravers per chiarire meglio in cosa consiste l’esperienza della musica<br />

espressiva; tuttavia, ciò non sembra sufficiente per soddisfare tale scopo. L’ultima<br />

critica che è stata mossa all’Arousal Theory sostiene infatti che la caratterizzazione<br />

causale dell’esperienza dell’espressività <strong>musicale</strong>, se anche fosse necessaria, non sarebbe<br />

comunque sufficiente a caratterizzare adeguatamente quest’ultima, in maniera tale<br />

cioè da distinguerla da altre esperienze che chiaramente non possi<strong>ed</strong>ono il requisito<br />

dell’espressività. Il contro-esempio più forte che si può fare a Matravers è che, teoricamente,<br />

lo stato emotivo suscitato da una musica espressiva può essere provocato anche<br />

tramite l’assunzione di una certa droga; di certo, non per questo diremo che la droga<br />

è espressiva dell’<strong>emozione</strong> in questione, ma l’Arousal Theory non sembra in grado<br />

di darne conto. A tale critica se ne accompagna un’altra, portata avanti soprattutto (inutile<br />

sorprendersi) da Kivy, il quale v<strong>ed</strong>e proprio in tale mancanza l’incapacità<br />

dell’Arousal Theory di dar conto della complessità e dell’importanza, anche ai fini<br />

dell’esperienza dell’ascolto, della comprensione di un brano <strong>musicale</strong>, il cui ruolo è ri-<br />

154 Cfr. R. Elliott, ‘Aesthetic Theory and the Experience of Art’ (1967), repr. in H. Osborne, <strong>ed</strong>., Aesthetics,<br />

1972, pp. 145-57. Oxford, Oxford University Press.<br />

109


conosciuto dalla maggioranza dei critici e degli appassionati di musica, e senza il cui<br />

contributo l’esperienza dell’ascolto di una musica espressiva si ridurrebbe al semplice e<br />

passivo essere affetti da una qualche sensazione o stato emotivo.<br />

Matravers prospetta tre possibili risposte al contro-esempio appena introdotto,<br />

ovvero tre diversi fattori che distinguono l’assunzione di una droga dall’esperienza<br />

dell’ascolto <strong>musicale</strong>: i sentimenti suscitati; il tipo di proprietà che stimolano i senti-<br />

menti; il modo in cui le proprietà (rispettivamente, la droga e le caratteristiche intrinse-<br />

che di un brano <strong>musicale</strong>) stimolano i sentimenti. Matravers ritiene che sia il terzo fat-<br />

tore quello decisivo 155 . Affinché una droga ci renda tristi, è sufficiente assumerla, sen-<br />

za che poi si tenga sempre presente, a livello di coscienza, la rappresentazione di ciò<br />

che ha causato il nostro sentimento. Viceversa, l’esperienza espressiva della musica<br />

non si riduce all’esperienza del sentimento che essa suscita in noi, ma comprende anche<br />

la rappresentazione consapevole delle proprietà percettive della musica in quanto<br />

cause del sentimento che proviamo, e dei modi in cui tali proprietà producono in noi il<br />

sentimento in questione. Tali modalità prev<strong>ed</strong>ono, da parte dell’ascoltatore,<br />

l’attenzione continua e costante alle proprietà dinamiche della musica, alla sua configurazione<br />

formale (la struttura in senso lato) e a certe caratteristiche del suono (al fatto<br />

cioè che una musica sia scritta in tonalità maggiore piuttosto che minore). Nello specifico,<br />

è particolarmente importante prestare attenzione alle proprietà dinamiche, ovvero<br />

alle relazioni tra i toni, in virtù dell’esistenza di un isomorfismo di base tra la musica e<br />

le emozioni, per cui la percezione del movimento che una musica compie (ad esempio)<br />

dalla dissonanza alla risoluzione produce nell’ascoltatore il passaggio da uno stato<br />

d’animo di tensione o di ansia a uno di rilassamento e di soddisfazione. Fatte tali aggiunte,<br />

l’Arousal Theory è in grado di fornire una descrizione sufficientemente informativa<br />

dell’esperienza dell’espressività <strong>musicale</strong>, pur rimanendo all’interno di una cornice<br />

causale; descrizione che, al contrario di quanto sostenuto dai suoi detrattori, dà<br />

pienamente conto dell’importanza e della complessità dell’ ‘understanding music’, fornisce<br />

una caratterizzazione fenomenologica di tale esperienza in termini di simultaneità<br />

(nella coscienza) della causa (la musica) e dell’effetto (il sentimento) in quanto intimamente<br />

connessi tra loro, e fuga ogni dubbio circa la sua presunta affinità con esperienze<br />

extra-musicali (come quella dell’assunzione di droghe).<br />

155 Matravers accenna al primo dei tre fattori nel citato The Experience of Emotion in Music, dove egli<br />

sottolinea la maggiore complessità degli stati emotivi suscitati dalla musica, rispetto a quelli suscitati<br />

dalla droga. Il terzo e decisivo fattore è invece preso in esame ancora in Art and Emotion (in particolare,<br />

nelle pp. 164 – 184).<br />

110


L’Arousal Theory cattura quindi, secondo Matravers, il senso primario<br />

dell’espressività <strong>musicale</strong>; e anche quando quest’ultima deriva non tanto dai sentimenti<br />

che una musica provoca, quanto dalle relazioni che intercorrono tra tali sentimenti<br />

(possiamo ad esempio dire che la speranza e l’ottimismo che la Quinta Sinfonia di Bee-<br />

thoven nel complesso esprime siano dovuti al graduale passaggio dalle sensazioni di<br />

angoscia alle sensazioni di gioia che sperimentiamo durante l’ascolto), è pur sempre<br />

vero che senza le esperienze primarie dell’espressività <strong>musicale</strong> (ovvero dei vari sentimenti<br />

suscitati, durante l’ascolto, dalle proprietà, soprattutto dinamiche, della musica)<br />

questo secondo livello di espressività non sarebbe possibile.<br />

111


CAPITOLO TERZO<br />

Musica, metafora e isomorfismo


1. Introduzione al dibattito sulla metafora<br />

Fino a questo momento è emerso che due sono le principali posizioni<br />

nell’attuale dibattito sul problema espressivo della musica. Abbiamo infatti, parafrasando<br />

Kivy, appurato che c’è in atto quasi una sorta di crociata morale tra teorici cognitivisti<br />

o sostenitori del requisito dell’esternalità e teorici disposizionalisti. Nonostante<br />

infatti la specificità che caratterizza le singole tesi, ciascuna di esse può essere ricondotta<br />

al polo interpretativo di chi ritiene, detto in estrema sintesi, che il problema espressivo<br />

della musica si può comprendere focalizzando l’attenzione sulle proprietà espressive<br />

e percettive della musica stessa, oppure al polo interpretativo opposto che invece<br />

si fa sostenitore dell’idea più antica <strong>ed</strong> egemone nel pensiero <strong>musicale</strong> che è quella<br />

platonica, secondo cui la musica è triste, allegra e quant’altro, perché causa tali sentimenti<br />

nell’ascoltatore. Da questo punto di vista, come abbiamo visto, le proprietà emotive<br />

della musica sono considerate piuttosto che come proprietà percettive come<br />

proprietà disposizionali. Non si tratta, cioè, di riconoscere una proprietà della musica<br />

(come insistono per lo più i teorici cognitivisti), ma di provare internamente una certa<br />

sensazione, sentirla, <strong>ed</strong> esperire la somiglianza di questa con un certo tipo di reazione<br />

emotiva che caratterizza la nostra vita comune, i nostri rapporti con le altre persone e in<br />

generale con la vita.<br />

Due poi abbiamo visto sono anche le principali risposte al problema di come intendere<br />

e spiegare l’<strong>emozione</strong> <strong>musicale</strong>, la nostra risposta emotiva alla musica. C’è chi<br />

insiste sulla pienezza di tali emozioni, sul fatto cioè che al pari di tutte le altre emozioni<br />

esse abbiano una precisa componente intenzionale, e chi invece ritiene che le emozioni<br />

musicali non siano emozioni vere e proprie, poiché in esse vi è un indebolimento della<br />

componente cognitiva e della nostra risposta comportamentale.<br />

La stessa dinamica conflittuale, v<strong>ed</strong>remo adesso, riverbera anche a proposito<br />

dell’altra questione al centro dell’attuale discussione sul rapporto musica-emozioni, vale<br />

a dire: come intendere le descrizioni della musica in termini emotivi. Anche in questo<br />

caso, possiamo anticipare, emergono due prospettive in conflitto tra loro: c’è chi<br />

propende per un’ipotesi letterale delle descrizioni emotive e chi, invece, ritiene che<br />

queste siano necessariamente metaforiche.<br />

Una concezione di tipo letterale è quella che abbiamo già incontrato quando ci<br />

siamo occupati della teoria espressiva di Kivy, il quale, nella sua prima opera, The<br />

Cord<strong>ed</strong> Shell, iniziava l’indagine proprio a partire dall’analisi di quello che egli defini-<br />

113


sce il paradosso della descrizione <strong>musicale</strong>. Ciò che è emerso è che per Kivy non c’è<br />

bisogno infine di convocare le risorse della metafora, perché si riconosce all’oggetto,<br />

cioè alla musica stessa, il possesso di quelle proprietà che giustificano una sua descri-<br />

zione in termini emotivi.<br />

Così, anche Matravers, sebbene a partire da altri presupposti, è disposto ad ar-<br />

chiviare come inutile e improduttivo qualsiasi ricorso alla metafora quando si parla dei<br />

giudizi di espressione. «La dichiarazione ‘quel brano di musica è triste’ è più vicino a<br />

dichiarazioni inequivocabilmente letterali come ‘quel brano era lungo’, ‘quello era un<br />

valzer’, che non alla dichiarazione inequivocabilmente metaforica ‘quella musica ha<br />

dato fuoco alla sala’. La metafora mette a confronto la musica e il fuoco, mentre il giu-<br />

dizio d’espressione non fa confronti di questo tipo. Se la comunicazione è valida, chi-<br />

unque ascolti il giudizio d’espressione non perverrà ad alcuna cr<strong>ed</strong>enza relativa a una<br />

qualche proprietà, specificabile separatamente, comune alla musica e alle persone tristi,<br />

ma arriverà semplicemente a cr<strong>ed</strong>ere che la musica è, in effetti, triste» 156 .<br />

Vi è qui dunque in gioco l’ipotesi che le descrizioni della musica in termini e-<br />

motivi siano da intendersi come descrizioni letterali. Ipotesi questa cui d<strong>ed</strong>icheremo<br />

adesso maggiore attenzione, m<strong>ed</strong>iante l’approfondimento particolare delle tesi di due<br />

esponenti aderenti, come Kivy, alla corrente cognitivista (Malcolm Budd e Stephen<br />

Davies). Anche per loro ha valore un’idea di espressività che rivendica il carattere di<br />

realtà delle proprietà emotive della musica e allo stesso tempo riabilita un’ipotesi isomorfica<br />

quale contraltare di una spiegazione dell’espressività capace di catturare i rapporti<br />

analogici tra la nostra esperienza e le caratteristiche proprie dell’oggetto estetico.<br />

Su tutto un altro fronte, versus dunque un’ottica “letteralista”, troviamo i sostenitori<br />

di una tesi metaforica. Da questo punto di vista vi è l’idea che quando descriviamo<br />

un brano <strong>musicale</strong> in termini emotivi stiamo in realtà attribuendo alla musica non<br />

proprietà reali, ma proprietà metaforiche, e che pertanto ascoltare la tristezza della musica<br />

sia una questione non di «ascoltare che», ma di «ascoltare come», e cioè in maniera<br />

immaginativa. In una prospettiva di questo tipo certamente si annoverano rispettivamente<br />

le tesi di Goodman e Scruton.<br />

Sostenitore di una tesi metaforica è anche Nick Zangwill, per il quale le descrizioni<br />

emotive della musica sono da intendersi come descrizioni metaforiche delle proprietà<br />

estetiche della musica. In questo caso, come spiegheremo meglio in seguito, il<br />

riconoscimento del valore metaforico delle descrizioni emotive della musica può fun-<br />

156 D. Matravers, Art and Emotion, cit., pag. 110.<br />

114


zionare come indebolimento drastico del rapporto musica-emotività, se è vero che de-<br />

scrivere emotivamente la musica è solo una possibilità tra le tante disponibili per avvi-<br />

cinarci allo specifico <strong>musicale</strong>, poiché si possono scegliere caratterizzazioni che non<br />

chiamano in causa la vita emotiva, come quando diciamo, ad esempio, che una musica<br />

è bilanciata o delicata.<br />

Sullo sfondo di queste diverse posizioni strettamente connesse al discorso sulla<br />

musica, troviamo dunque il dibattito più generale sul problema della parafrasabilità o<br />

traducibilità della metafora. Il punto centrale della questione riguarda quindi il criterio<br />

prettamente linguistico della parafrasabilità, e ruota intorno all’interrogativo se una certa<br />

metafora possa conservare il suo contenuto semantico pur in presenza di formulazioni<br />

linguistiche alternative, il che equivale a chi<strong>ed</strong>ersi sostanzialmente se una metafora<br />

possa essere letteralmente traducibile oppure no.<br />

La domanda è allora questa: una metafora reca in sé qualcosa che non è riconducibile<br />

(o lo è solo in parte) alla sua manifestazione letterale, è capace di apportare<br />

una conoscenza che in qualche modo è implicita pur senza essere letteralmente presente<br />

nella formulazione linguistica che la esprime?<br />

Ancora una volta sarà interessante a tale proposito, prima di entrare nel merito<br />

dell’attuale discussione e di v<strong>ed</strong>ere anche in questo caso quali sono le posizioni teoriche<br />

di maggiore rilievo, guardare alla questione a partire da un’indagine delle tesi e dei<br />

testi seminali che sono alla base del dibattito.<br />

2. I testi seminali<br />

2. 1 Il bello <strong>musicale</strong> di Hanslick<br />

Torniamo ancora su questo testo, perché in esso è presente la tematica dell’uso<br />

metaforico delle attribuzioni emotive alla musica, anche se, come è ovvio, non vi troviamo<br />

una vera e propria teoria della metafora. Per Hanslick, non vi è ombra di dubbio,<br />

che le nostre descrizioni della musica in termini emotivi siano da intendersi non come<br />

descrizioni di un’<strong>emozione</strong> reale, bensì come descrizioni metaforiche. A suffragare<br />

questa tesi vi è, ancora prima, la confutazione dell’erroneo presupposto che il bello della<br />

musica possa consistere nell’esibizione di sentimenti, poiché il sentimento per Han-<br />

115


slick è sempre determinato, vincolato cioè ad un’esperienza particolare. Il bello della<br />

musica è invece – egli sostiene – un bello specificamente <strong>musicale</strong>, che non dipende e<br />

non ha bisogno di alcun contenuto esteriore, ma che consiste unicamente nei suoni e<br />

nella loro artistica connessione. Le ingegnose combinazioni di suoni belli, il loro con-<br />

cordare e opporsi, il loro sfuggire e raggiungersi, il loro crescere e morire, questo è ciò<br />

che in libere forme si presenta all’intuizione del nostro spirito e che piace come bello.<br />

L’unico contenuto che alla musica si può ascrivere è quello delle forme sonore in mo-<br />

vimento. Tutto quello che è vincolato al nostro mondo non ha nessuna relazione, né diretta,<br />

né indiretta con la musica, in quanto il suo regno, asserisce esplicitamente Hanslick,<br />

non è di questo mondo. La musica ha un suo mondo, è un’immagine il cui oggetto<br />

non può essere racchiuso in parole <strong>ed</strong> essere esaurito in concetti. Per tale ragione, le<br />

descrizioni che diamo di essa non possono essere che metaforiche. Interessante, a tal<br />

proposito, riportare il passo in cui esplicitamente Hanslick dice:<br />

È straordinariamente difficile descrivere in musica questo bello indipendente,<br />

ossia l’elemento tipicamente <strong>musicale</strong>. Poiché la musica<br />

non ha modelli in natura e non esprime alcun contenuto concettuale si<br />

può parlare di essa solo in aridi termini tecnici, oppure con immagine<br />

tecniche. Effettivamente il suo regno “non è di questo mondo”. Tutte<br />

le fantastiche descrizioni e illustrazioni di un brano <strong>musicale</strong> sono<br />

metaforiche o erronee. Ciò che per ogni altra arte non è che descrizione,<br />

per la musica è metafora. La musica, insomma, vuol essere intesa<br />

in quanto musica e può essere compresa e gustata solo in se stessa<br />

157 .<br />

A conferma del fatto che le nostre descrizioni della musica in termini emotivi<br />

sono da intendersi solo in senso figurato e che non possano avere nessun valore, dicia-<br />

mo così, letterale di applicazione, vi è anche il fatto, spiega Hanslick, che spesso attin-<br />

giamo a descrizioni che designano il carattere espressivo della musica senza ricorrere a<br />

concetti che richiamano la nostra vita emotiva, assumendo definizioni che appartengo-<br />

no a tutta un’altra cerchia di fenomeni. Possiamo cioè descrivere un brano <strong>musicale</strong><br />

come malinconico, ma anche con altri termini quali, ad esempio, bilanciato, delicato,<br />

etc. In questo senso i sentimenti che utilizziamo per la designazione del carattere di una<br />

musica sono solo fenomeni come altri che offrono somiglianze. Si può dire che la musica<br />

è triste, ma ci si guardi bene dal dire questa musica descrive tristezza. Descrivere,<br />

spiega Hanslick, significa mostrare con chiarezza <strong>ed</strong> evidenza qualcosa, “esibirla” di<br />

157 E. Hanslick, Il bello <strong>musicale</strong>, cit., pag. 65<br />

116


fronte ai nostri occhi, ma la musica assoluta, lo abbiamo visto, a differenza delle altre<br />

arti, non ha nulla da esibire.<br />

Per caratterizzare l’espressione <strong>musicale</strong> di un motivo scegliamo<br />

spesso concetti propri della nostra vita affettiva come “fiero, triste,<br />

tenero, ardito, nostalgico”. Possiamo però prendere le definizioni anche<br />

da un’altra cerchia di fenomeni e chiamare una musica “vaporosa,<br />

primaverilmente fresca, nebulosa, gelida”. Per la designazione del<br />

carattere di una musica i sentimenti sono dunque fenomeni come altri,<br />

che offrono somiglianze. Tali epiteti possono essere usati avendo<br />

coscienza del carattere figurato, di cui non si può fare a meno, ma ci<br />

si guardi dal dire: questa musica descrive la fierezza, ecc. 158<br />

Anticipiamo che sono esattamente queste le stesse riflessioni che troviamo da<br />

sfondo e che supportano la teoria metaforica sostenuta recentemente da Zangwill<br />

nell’articolo Music, Metaphor, and Emotion 159 . In questo articolo viene in chiaro come<br />

non sia necessario ricorrere ad una teoria della metafora vera e propria per stabilire se<br />

la parola <strong>emozione</strong> è usata oppure non è usata metaforicamente. È sufficiente infatti dal<br />

suo punto di vista fornire, più semplicemente, dei criteri specifici per stabilire quali sono<br />

gli usi metaforici e quelli non metaforici del termine <strong>emozione</strong>, sebbene in una nota<br />

Zangwill ci informi che è incline ad abbracciare la teoria esposta da Donald Davidson<br />

nell’articolo “Cosa significano le metafore” 160 . Si tratta dello stesso articolo di cui ci<br />

occuperemo a breve e che espone una cosiddetta teoria letterale o non-cognitiva della<br />

metafora.<br />

È il caso infatti di specificare che oltre alla tesi hanslickiana che offre una spiegazione<br />

di come intendere le descrizioni della musica senza ricorrere a nessun tipo di<br />

teoria metaforica vera e propria, ma basandosi più semplicemente su un’osservazione<br />

di quella che è la natura della musica e di un’<strong>emozione</strong>, negli articoli di cui ci occuperemo<br />

a breve, avremo modo di verificare che puntualmente vi è il riferimento ad una<br />

teoria metaforica entro cui si inquadra il tentativo di dar conto delle descrizioni emotive<br />

della musica.<br />

158<br />

Ivi, pag. 67.<br />

159<br />

N. Zangwill, Music, Metaphor and Emotion, “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 65, 2007, pp.<br />

391- 400.<br />

160<br />

D. Davidson, Che cosa significano le metafore, in Id., Verità e interpretazione, trad. it. Di R. Brigati,<br />

a cura di E. Picardi, Il Mulino, Bologna, 1994, pp. 337-360 e in Simona Chiodo (a cura di) Che cosa è<br />

arte, la filosofia analitica e l’estetica, UTET, Torino 2007, pp. 1 35-146 (What Metaphor Mean, «Critical<br />

Inquiry» n. 5, 1978, pp. 31-47, anche in Id., Inquiries into Truth and Interpretation, Clarendon Press,<br />

Oxford 2001).<br />

117


L’orizzonte storico-teorico di riferimento è quello che v<strong>ed</strong>e rinnovarsi una con-<br />

cezione cognitiva della metafora in ambito analitico. A venire meno è la vecchia e ri-<br />

duttiva opinione che v<strong>ed</strong>e la metafora come mero abbellimento o come sostituto della<br />

similitudine, un ornamento letterario, un congegno raro o esotico, esclusivamente decorativo.<br />

Si viene così a riaffermare l’idea che la metafora ha una capacità cognitiva importante<br />

e solidale al progresso della conoscenza e che è diversa per articolazione ma<br />

non per funzione dagli altri strumenti discorsivi a cui va riconosciuto un vero e proprio<br />

esercizio gnoseologico. Si riconosce così il valore cognitivo del discorso metaforico. In<br />

passato, chi negava che la metafora avesse un contenuto cognitivo nuovo rispetto a<br />

quello letterale voleva sovente mostrare che la metafora è fonte di confusione, ha carattere<br />

puramente emotivo, è inadatta al discorso scientifico o filosofico serio. Il primo a<br />

rinnegare questa idea, v<strong>ed</strong>remo nell’approfondimento che segue, riportando in auge<br />

una concezione cognitiva della metafora è stato Max Black. Una conferma a tale proposito<br />

è quella che rinveniamo nelle parole di T<strong>ed</strong> Cohen nel saggio Metaphor 161 :<br />

Dopo essere stato trattato in maniera alquanto saltuaria nella storia<br />

della filosofia per più di 2000 anni, il tema della metafora ha cominciato<br />

a ricevere un’intensa attenzione nell’ultima parte del ventesimo<br />

secolo. Possiamo trovare dei rilievi occasionali sulla metafora in Aristotele,<br />

Hobbes, Locke, e Nietzsche, tra gli altri, ma questo tema ha<br />

cominciato a ricevere un’attenzione continua, in special modo da parte<br />

dei filosofi analitici, a partire dal 1950. La rilevanza della metafora<br />

nella filosofia del linguaggio e nella filosofia dell’arte è stata ora riconosciuta,<br />

e alcuni hanno ritenuto che tale tematica sia importante<br />

per la filosofia in generale. Jacques Derrida (Derrida 1974) ha detto<br />

che virtualmente tutte le dichiarazioni sono, in un certo senso, metaforiche;<br />

e George Lakoff e Mark Johnson (Lakoff and Johnson 1980)<br />

hanno sostenuto che la stessa struttura del pensiero è profondamente<br />

metaforica. Queste tesi ardite non hanno esercitato molta influenza<br />

sui filosofi analitici, ma sono state fatte proprie da un consistente<br />

numero di persone che operano in altri campi. Uno dei primi testi<br />

fondamentali, per i filosofi analitici e non solo, è stato “Metaphor” di<br />

Max Black, sebbene tale saggio abbia goduto di un’ampia considerazione<br />

solo una dozzina di anni dopo la sua pubblicazione, quando fu<br />

positivamente menzionato da Nelson Goodman (Goodman 1968. La<br />

tesi di Goodman è elaborata e difesa in Scheffler 1979) 162 .<br />

161<br />

T. Cohen, Metaphor, in “The Oxford Handbook of Aesthetics” (a cura di) Jerrold Levinson, Oxford<br />

University Press, Oxford, 2002, pp. 366-376.<br />

162<br />

Ivi, pag. 366.<br />

118


2. 2 Metaphor di Max Black<br />

Significativo certamente è stato il lavoro di Max Black 163 , Metaphor 164 , a cui<br />

non mancano di far riferimento quasi tutti i saggi pubblicati sull’argomento. Black è in-<br />

fatti il principale sostenitore di una teoria che ha riscosso molto successo e insieme ha<br />

rinnovato l’interesse nei confronti degli studi relativi a questa figura. Si tratta, diciamo<br />

subito, di una teoria cognitiva della metafora secondo la quale la metafora ha un conte-<br />

nuto cognitivo speciale, additivo, che non può essere riducibile ad una equivalente e-<br />

spressione letterale. Il modello di spiegazione metaforica da cui Black attinge nel tenta-<br />

tivo principale di difendere strenuamente il valore cognitivo del discorso metaforico è<br />

quello della cosiddetta concezione interattiva della metafora (interaction view), propo-<br />

sta ancora prima da Richards (The Philosophy of Rhetoric, Oxford 1936) 165 , ma emen-<br />

data della primitiva e schematica distinzione tra significato «scientifico» e significato<br />

«emotivo». Tale concezione v<strong>ed</strong>e la metafora come l’interazione tra due insiemi di<br />

luoghi comuni associati ai due termini in essa presenti che Black identifica come soggetto<br />

«principale» e soggetto «sussidiario». Nell’esempio, oramai molto banale, ‘Giulietta<br />

è il sole’, ‘Giulietta’ sarebbe il soggetto principale e il ‘sole’ il soggetto sussidiario.<br />

Tali soggetti, precisa Black, non sono da intendersi come oggetti semplici, bensì<br />

come complessi sistemi di implicazioni.<br />

Il successo di una metafora, secondo la spiegazione interattiva nella formula rivisitata<br />

da Black, è il risultato di una selezione che opera all’interno del sistema<br />

d’implicazione del soggetto sussidiario sopprimendo alcuni casi <strong>ed</strong> enfatizzandone altri,<br />

per trasferirli all’interno del sistema del soggetto principale; il criterio che rende<br />

pertinente l’operazione di scelta e successivamente quella di trasferimento poggia su un<br />

sistema di relazioni isomorfiche, i cui centri sono costituiti da quell’insieme di luoghi<br />

comuni e opinioni notevoli che costituiscono il contenuto di tali sistemi.<br />

163 Max Black (1909 – 1988) è stato uno dei più importanti esponenti della filosofia analitica nella prima<br />

metà del XX secolo. I suoi contributi hanno interessato gli ambiti della filosofia del linguaggio, della filosofia<br />

matematica, della filosofia della scienza, e della filosofia delle arti. Ha pubblicato anche saggi sui<br />

lavori di Frege. Studiò matematica al Queens’ College di Cambridge, dove sviluppò l’interesse per la<br />

filosofia matematica. In quel periodo Russell, Wittgenstein, George Edward Moore, e Frank Plumpton<br />

Ramsey erano presenti contemporaneamente a Cambridge, e la loro influenza su Black fu considerevole.<br />

Si laureò nel 1930, e vinse una borsa di studio di un anno a Göttingen. Tra i suoi lavori più rappresentativi<br />

ricordiamo: “Vagueness; An exercise in logical analysis” (1937), “Metaphor” (1954), “Models and<br />

metaphors” (1962), “More about Metaphor” (1979).<br />

164 M. Black, Metaphor, “Proce<strong>ed</strong>ings of the Aristotelian Society”, 55, 1954, pp. 273-294; trad. it. Modelli<br />

Archetipi Metafore, Pratica Editrice, Parma, 1983.<br />

165 I. A. Richards, The Philosophy of Rhetoric, Oxford University Press, New York, 1936.<br />

119


Come Black specifica nell’altro saggio d<strong>ed</strong>icato alla metafora, More about Me-<br />

taphor 166 (Ancora sulla metafora), nel quale riprende la concezione interattiva già e-<br />

sposta in Metaphor, apportando solo lievi modifiche, la relazione reciproca tra soggetto<br />

principale e sussidiario è espressa dal contrasto tra il focus dell’asserzione metaforica,<br />

il centro di essa, vale a dire, quel termine (o quei termini) direttamente responsabili del<br />

senso metaforico della frase, e dal frame, dalla cornice letterale da cui il focus è circon-<br />

dato. Focus e frame sono entrambi egualmente responsabili della riuscita di una meta-<br />

fora per via di quel rapporto di interazione che si stabilisce tra loro, e senza il quale<br />

qualsiasi attribuzione pr<strong>ed</strong>icativa del soggetto sussidiario a quello primario sarebbe ar-<br />

bitraria e perciò priva di qualsiasi senso.<br />

Risulta dunque chiaro, nella struttura sintattica di una metafora, come il frame<br />

sia invariabilmente sovrapposto al soggetto sussidiario, mentre il focus è costituito dal<br />

soggetto principale (questo almeno nelle metafore brevi), quale ad esempio: «L’uomo è<br />

un lupo».<br />

La concezione interattiva nella forma esposta da Black rimanda ai seguenti sette re-<br />

quisiti 167 :<br />

1. Un’asserzione metaforica ha due soggetti distinti, un soggetto «principale» e<br />

uno «sussidiario».<br />

2. Questi soggetti sono spesso valutati meglio come «sistemi di cose» piuttosto<br />

che come «cose».<br />

3. La metafora funziona applicando al soggetto principale un sistema di «implica-<br />

zioni associate» proprie del sistema sussidiario.<br />

4. Queste implicazioni consistono solitamente di «luoghi comuni» riguardanti il<br />

soggetto sussidiario, ma possono, in casi specifici, consistere di implicazioni<br />

devianti, stabilite ad hoc dallo scrittore.<br />

5. La metafora seleziona, enfatizza, sopprime <strong>ed</strong> organizza i tratti del soggetto<br />

principale, implicando asserzioni di esso che normalmente vengono attribuite al<br />

soggetto sussidiario.<br />

6. Questo comporta spostamenti nel significato delle parole che appartengono alla<br />

stessa famiglia o sistema dell’espressione metaforica; alcuni di questi sposta-<br />

menti, anche se non tutti, possono essere traslati metaforici (le metafore subor-<br />

dinate devono comunque essere lette meno «enfaticamente»).<br />

166 M. Black, More about Metaphor, in “Dialectica”, vol. 31, n. 3-4, 1977; trad. it. Modelli Archetipi Me-<br />

tafore, Pratiche Editrice, Parma, 1983.<br />

167 Ivi, pag. 63.<br />

120


7. Non c’è, in generale, nessuna «base» semplice per i necessari spostamenti di si-<br />

gnificato – nessuna ragione recondita perché una metafora funzioni e un’altra<br />

fallisca.<br />

Black descrive il modello dell’interazione della metafora come non riducibile<br />

ad una parafrasi letterale. A differenza delle primitive e classiche concezioni della metafora,<br />

quella della sostituzione o della comparazione (come nella concezione aristotelica)<br />

168 , la teoria dell’interazione identifica il contenuto cognitivo di una metafora con<br />

la sua richiesta di percezione simultanea di due soggetti, il soggetto «principale» e il<br />

soggetto «secondario», con i loro rispettivi sistemi di implicazione. Black ritiene infatti<br />

che l’effettivo funzionamento della metafora si ha quando essa “seleziona, enfatizza,<br />

sopprime, <strong>ed</strong> organizza caratteristiche del soggetto principale implicando asserzioni di<br />

esso che normalmente attribuiamo al soggetto sussidiario”. Questo vuol dire che, il<br />

successo di una metafora dipende da fecondi e specifici allineamenti o dis-allineamenti<br />

tra gli insiemi di associazioni dei suoi due soggetti. Ragione per cui, semplicemente,<br />

168 Scrive infatti Black che i meriti della concezione interattiva, che sviluppa e modifica le valide intuizioni<br />

di I. A. Richards, dovrebbero essere valutati per contrasto con quelli delle uniche alternative esistenti<br />

– le tradizionali «concezione sostitutiva» e «concezione comparativa». La concezione sostitutiva<br />

v<strong>ed</strong>e «l’intera frase, che è il luogo della metafora, come sostitutiva di alcuni insiemi di frasi letterali»; la<br />

concezione comparativa invece considera la presente parafrasi letterale come affermazione di una somiglianza<br />

o analogia, e considera di conseguenza qualunque metafora come una similitudine condensata o<br />

ellittica. Conformemente alla concezione sostitutiva, il focus della metafora, la parola o l’espressione che<br />

ha un chiaro uso metaforico all’interno di un contesto letterale, viene usato per comunicare un significato<br />

che avrebbe potuto essere espresso letteralmente; così in un esempio un po’ sfortunato, «Richard è un<br />

leone» che gli scrittori moderni hanno discusso con noiosa insistenza, il significato letterale è considerato<br />

lo stesso della frase «Richard è coraggioso». Scrive <strong>ed</strong> evidenzia Black «Quali che siano i meriti di<br />

tali speculazioni che riguardano l’atteggiamento del lettore, esse concordano nel fare della metafora un<br />

ornamento. Eccetto che nei casi dove una metafora è una catacresi che rim<strong>ed</strong>ia ad alcune temporanee<br />

imperfezioni della lingua letterale, il proposito della metafora è di divertire e di distrarre. Da questo punto<br />

di vista, il suo uso costituisce sempre una deviazione dallo «stile piano e strettamente appropriato».<br />

Così, se i filosofi hanno qualcosa di più importante da fare che fare piacere ai loro lettori, la metafora<br />

non può avere un posto serio nella discussione filosofica. L’altro caso invece di spiegazione metaforica,<br />

quella comparativa, considera il significato dell’espressione metaforica simile o analogo a quello del suo<br />

equivalente letterale. Una volta che il lettore ha scoperto ciò che è alla base dell’analogia rappresentata o<br />

della similitudine può risalire il sentiero percorso dall’autore e in tal modo giungere al significato originale.<br />

Scrive Black a tale proposito: «Quando Schopenhauer chiamò una dimostrazione geometrica una<br />

trappola per topi voleva dire, in accordo con tale concezione (sebbene non esplicitamente): «Una dimostrazione<br />

geometrica è come una trappola per topi, poiché amb<strong>ed</strong>ue offrono una ricompensa ingannevole,<br />

adescano a poco a poco le proprie vittime e le conducono ad una spiacevole sorpresa». Precisa inoltre:<br />

«Si noterà che la «concezione comparativa» è un caso particolare della «concezione sostitutiva». Perché<br />

ciò che conta è che un’asserzione metaforica possa essere sostituita da un’equivalente comparazione letterale».<br />

La differenza principale fra una concezione sostitutiva e la forma particolare di questa, che ho<br />

chiamato concezione comparativa, può essere illustrata attraverso l’esempio standard «Richard è un leone».<br />

Nel primo caso la frase significa approssimativamente lo stesso di «Richard è coraggioso»; nel secondo<br />

è approssimativamente lo stesso di «Richard è come un leone (in quanto coraggioso)», dove le<br />

parole aggiunte fra parentesi sono implicite, ma non affermate esplicitamente. Nella seconda traduzione,<br />

come nella prima, si ritiene che l’asserzione metaforica occupi il posto di qualche equivalente letterale.<br />

Ma la concezione comparativa fornisce una parafrasi più elaborata, visto che l’asserzione originale è interpretata<br />

come se parlasse tanto di leoni quanto di Richard. Cfr. M. Black, Modelli Archetipi Metafora,<br />

cit., pp. 49-54.<br />

121


parafrasare una metafora (nel senso della concezione comparativa) affermando ‘Giu-<br />

lietta è come il sole’ oppure ‘Giulietta è come… (un esaustivo elenco di proprietà del<br />

sole) non ottiene lo stesso effetto che una semplice metafora può sortire.<br />

I significati estesi che risultano da una metafora non possono così essere né an-<br />

tec<strong>ed</strong>entemente pr<strong>ed</strong>icati né successivamente parafrasati. Scrive Black a tale proposito:<br />

«La parafrasi letterale dice inevitabilmente troppo e con l’enfasi sbagliata. Uno dei<br />

punti su cui vorrei insistere è che la perdita, in casi simili, è una perdita di contenuto<br />

cognitivo; la più grossa carenza della parafrasi letterale non è costituita dal fatto che<br />

questa possa essere fastidiosamente prolissa o noiosamente esplicita o priva di qualità<br />

stilistiche; essa non riesce come traduzione perché non riesce a dare quel tipo di intuizione<br />

che la metafora dava» 169 .<br />

La metafora, <strong>ed</strong> ecco il punto centrale che ci preme maggiormente evidenziare,<br />

sostiene Black, piuttosto che formulare una somiglianza la crea («la tesi della creatività<br />

forte») 170 ; e ciò che essa è in grado di creare è una nuova visione e una nuova intuizione<br />

della realtà. È precisamente in questo che Black riconosce il potere creativo della<br />

metafora <strong>ed</strong> è questa la ragione per cui egli considera le metafore non come un semplice<br />

ornamento ma come strumenti cognitivi veri e propri, indispensabili per instaurare<br />

connessioni che sono veramente presenti, solo quando vengono percepite. Alla domanda<br />

“le metafore funzionano sempre da strumenti cognitivi?”, Black risponde, “Io cr<strong>ed</strong>o<br />

di sì”. Le metafore ci mettono in grado cioè di v<strong>ed</strong>ere aspetti della realtà che la creazione<br />

della metafora aiuta a costituire e dal momento in cui tali aspetti si sono dati a<br />

v<strong>ed</strong>ere divengono parte integrante della realtà, come sua verità e non come semplice<br />

allusione ad essa. E ciò ritiene Black non è poi tanto sorprendente se si cr<strong>ed</strong>e che il<br />

«mondo» è necessariamente un mondo che cade sotto una certa descrizione – o un<br />

mondo visto da una certa prospettiva. Alcune metafore possono creare tale prospettiva.<br />

L’idea di Black che le metafore abbiano un contenuto cognitivo, additivo, si<br />

traduce quindi nella possibilità di mettere in conto il fatto che le asserzioni metaforiche<br />

possano, cambiando i rapporti tra le cose designate (il soggetto principale e quello sussidiario),<br />

generare a volte nuove conoscenze e scoperte, suscitare nuove visioni. Una<br />

visione però, non trascura di evidenziare Black, per quanto m<strong>ed</strong>iata, deve essere sempre<br />

visione di qualcosa. Il problema è quello di suggerire cosa è quel “qualcosa”, e<br />

quanto il suo possesso possa contribuire all’intuizione di «come sono le cose». Questo<br />

non equivale a chi<strong>ed</strong>ersi, come alcuni filosofi sono soliti fare, se le asserzioni metafori-<br />

169<br />

M. Black, Modelli Archetipi Metafore, cit., pag. 65.<br />

170<br />

Ivi, pag. 128.<br />

122


che siano asserzioni vere, poiché una tale domanda se applicata al discorso metaforico<br />

risulta essere solo una forzatura. La strategia di questi filosofi, scrive Black, «è fuorviante,<br />

e tale da indurre distorsioni in quanto richiama l’attenzione su quella speciale<br />

connessione tra asserzione e realtà che noi segnaliamo m<strong>ed</strong>iante l’attribuzione del valore<br />

di verità» 171 . Ma l’aggettivo “vero” – egli precisa – è più appropriato in quelle situazioni<br />

in cui lo scopo principale è quello di esprimere un fatto, cioè in cui l’asserzione in<br />

questione che «esprime il fatto» è associata ad una proc<strong>ed</strong>ura accettata di verifica o di<br />

conferma. In tal senso, ciò che, secondo Black, si nasconde dietro il desiderio di forzare<br />

«il vero» perché si adatti a certi casi, è il riconoscimento che una metafora non superflua<br />

non appartiene al regno della finzione e non viene usata, come pretendono certi<br />

autori, per certi misteriosi «effetti estetici», ma realmente «dice qualcosa».<br />

In realtà, Black sostiene che «il riconoscimento invece di ciò che può essere<br />

chiamato l’aspetto rappresentazionale di una metafora forte può essere meglio compreso<br />

ricordando altri comuni esp<strong>ed</strong>ienti per rappresentare «come sono le cose» che non<br />

possono essere assimilati alle «asserzioni sui fatti». Cartine e mappe, grafici e diagrammi<br />

pittorici, fotografie e dipinti «realistici», e soprattutto i modelli sono comuni<br />

esp<strong>ed</strong>ienti di carattere cognitivo per mostrare «come sono le cose», esp<strong>ed</strong>ienti che non<br />

è necessario percepire come semplici sostituti di un insieme di asserzioni sui fatti. In<br />

questi casi parliamo di correttezza e non correttezza, senza dover ricorrere agli epiteti<br />

troppo sfruttati di «vero» e «falso» 172 . Secondo Black è questa l’indicazione di cui abbiamo<br />

bisogno per rendere giustizia degli aspetti cognitivi della metafora, informativi,<br />

e ontologicamente illuminanti delle metafore forti. Tale è l’indicazione che si ricava<br />

dalla concezione interattiva della metafora che postula delle interazioni tra due «sistemi»,<br />

basate su analogie di struttura (in parte create, in parte scoperte). Gli isomorfismi<br />

che le sono stati attribuiti possono, come abbiamo visto, essere resi espliciti e diventano<br />

così i soggetti idonei alla specificazione di appropriatezza, f<strong>ed</strong>eltà, parzialità, superficialità<br />

e simili. Si può giustamente ritenere che le metafore che sopravvivono ad un<br />

tale esame critico forniscono, in forma essenziale, profonde intuizioni circa i sistemi a<br />

cui si riferiscono. In tal modo esse possono, e talvolta lo fanno, generare intuizioni su<br />

«come sono le cose» in realtà.<br />

Infine, le metafore, nella visione di Black sono, possiamo dire appropriandoci<br />

dell’espressione usata da Goodman, il quale difende anch’egli una teoria cognitiva del<br />

discorso metaforico, luce della luna; come la luna illuminano e rischiarano la nostra vi-<br />

171 Ivi, pag. 133.<br />

172 Ivi, pag. 135.<br />

123


sione della realtà e non alludono come invece vuole Davidson, secondo il quale la me-<br />

tafora è il «lavoro del sogno» del linguaggio, la cui funzione non è quella di significare<br />

un «senso» speciale importante da tradurre, ma è quella di sollecitare una «visione»,<br />

cioè di alludere senza significare.<br />

In effetti, c’è ancora da dire che, tra le varie e numerose recensioni critiche che<br />

sono state fatte al lavoro di Black, la più significativa è proprio quella di Donald Davi-<br />

dson il quale, possiamo già evidenziare, oppone a una teoria cognitiva della metafora la<br />

teoria dichiaratamente antitetica cosiddetta letterale o non-cognitiva, della quale un ap-<br />

profondimento sarà ora necessario.<br />

2. 3 Che cosa significano le metafore di Donald Davidson<br />

La tesi centrale sostenuta da Davidson 173 in Che cosa significano le metafore, è<br />

che, strettamente parlando, le metafore non significano niente di più di ciò che significano<br />

le parole nella loro interpretazione letterale. In questo senso, se la parafrasi letterale<br />

di una metafora non è possibile, spiega Davidson, non è perché le metafore hanno<br />

un contenuto cognitivo determinato, un ‘significato’ metaforico speciale, che non può<br />

essere ricondotto ad una equivalente traduzione letterale, bensì perché nella metafora<br />

non c’è nulla da parafrasare. Scrive a tale proposito: «La concezione che v<strong>ed</strong>e la metafora<br />

principalmente come un veicolo per trasmettere idee, quantunque inusuali, mi<br />

sembra altrettanto errata quanto l’idea affine secondo la quale le metafore avrebbero un<br />

significato speciale. Concordo con l’opinione che le metafore non possano essere parafrasate,<br />

ma penso che ciò sia vero non perché le metafore dicano qualcosa di troppo inconsueto<br />

per essere espresso letteralmente, bensì piuttosto perché non c’è in esse niente<br />

da parafrasare. Possibile o no, la parafrasi attiene a quanto vien detto: nella parafrasi, si<br />

tenta di dire lo stesso in un altro modo. Ma, se v<strong>ed</strong>o giusto, una metafora non dice nulla<br />

aldilà del suo significato letterale (né colui che la crea dice, usando la metafora, nulla<br />

che trascenda il letterale). Con ciò, naturalmente, non si nega che una metafora abbia<br />

uno scopo, né che tale scopo possa essere ottenuto usando altre parole» 174 . Non si nega<br />

173 Donald Davidson (1917-2003), allievo di Whitehead e di Quine, ha insegnato in diverse Università<br />

statunitensi, in particolare a New York, a Chicago e a Berkeley. Tra i lavori essenziali: Azioni <strong>ed</strong> eventi e<br />

Verità e interpretazione.<br />

174 D. Davidson, Che cosa significano le metafore, cit., pag. 137.<br />

124


cioè, come accadeva in passato, che la metafora possa portarci a nuove e importanti<br />

conclusioni cognitive, si nega invece che tali conclusioni appartengano ad essa come<br />

suo contenuto cognitivo additivo, come significato speciale, in aggiunta a quello letterale.<br />

Ciò vuol dire che le metafore, a differenza del linguaggio letterale, non sono fenomeni<br />

semantici: esse piuttosto sono usate, come indicazioni o fotografie, per attirare<br />

la nostra attenzione a certe caratteristiche del mondo di cui possiamo o non possiamo<br />

essere prec<strong>ed</strong>entemente consapevoli. L’obiettivo polemico di questo suo saggio – precisa<br />

Davidson – non è infatti quello di mettere in discussione l’effetto che la metafora<br />

può sortire su di noi, per come tale effetto è stato caratterizzato da Max Black, Paul<br />

Henle, Nelson Goodman, Monroe Beardsley, bensì la sua critica s’innesta sul modo in<br />

cui la metafora dovrebbe produrre tali effetti. Tale critica mette avanti invece, come<br />

punto di maggiore incrinatura con le tesi di quei filosofi, la distinzione fra ciò che le<br />

parole significano e ciò per cui vengono usate, poiché, sostiene Davidson, la metafora<br />

appartiene esclusivamente all’ambito dell’uso e non ha nulla a che v<strong>ed</strong>ere con il significato.<br />

Se un significato alle metafore si vuole attribuire questo può essere solo quello<br />

vincolato al significato originario, letterale delle parole, poiché sia che la metafora dipenda<br />

o no da significati nuovi o traslati, certamente essa dipende in qualche modo dai<br />

significati originari; una spiegazione adeguata della metafora deve ammettere che i significati<br />

primari e ordinari delle parole rimangono attivi nella loro ambientazione metaforica.<br />

Una metafora infatti, sottolinea Davidson, dice solo ciò che esibisce apertamente:<br />

di solito una falsità palese o una verità assurda. E questa verità o falsità ovvia<br />

non ha bisogno di parafrasi alcuna: il suo significato è dato dal significato letterale delle<br />

parole.<br />

Abbiamo visto che Black sostiene, tra gli altri, che una metafora può comunicare<br />

un contenuto cognitivo non-letterale (un significato metaforico speciale) in addizione<br />

ad un significato letterale. Egli cr<strong>ed</strong>e che la chiave per comprendere le metafore stia<br />

nella spiegazione di come questo significato extra sia arrivato al significato letterale di<br />

un’espressione e come si è relazionato ad essa. Davidson ritiene invece che questo progetto<br />

si basi su una fondamentale incomprensione circa la natura della metafora e della<br />

sua funzione. Non è utile – egli sostiene – per spiegare come funzionano le parole nella<br />

metafora postulare significati metaforici o figurativi, oppure alcun tipo speciale di verità<br />

poetica o metaforica. Idee come queste non spiegano la metafora, ma ne vengono<br />

spiegate. Una volta compresa una metafora, possiamo chiamare «verità metaforica» ciò<br />

che abbiamo afferrato e possiamo dire (entro un certo limite) quale sia il «significato<br />

125


metaforico». Ma collocare semplicemente questo significato nella metafora equivale a<br />

spiegare perché una pillola fa dormire dicendo che ha una vis dormitiva. Detto in altri<br />

termini, analogamente a Black, Davidson è d’accordo nel sostenere che le metafore ci<br />

permettono di arrivare a nuove e importanti conclusioni cognitive, è invece fortemente<br />

in disaccordo con l’idea che queste conclusioni cognitive siano in qualche modo parte<br />

della metafora stessa come qualche significato metaforico. Questo si spiega attraverso<br />

l’archiviazione da parte di Davidson dell’intera categoria del significato metaforico:<br />

non esistono una verità e una falsità metaforiche, poiché il significato cioè il dominio<br />

del vero e del falso sono prerogativa esclusiva del discorso letterale e non di quello figurale.<br />

Da questo particolare punto di vista le metafore non “significano” ciò che esse<br />

ci mostrano oppure ci forzano a notare. Esse sono piuttosto strategie della conversazione<br />

attraverso le quali queste relazioni tra cose, o aspetti del mondo, vengono messi in<br />

evidenza. Le metafore, in questo senso, più che essere proposizioni che possi<strong>ed</strong>ono valore<br />

di verità, sono come indicazioni o il disegno di un diagramma. Quando chi<strong>ed</strong>iamo<br />

la direzione, non rimaniamo perplessi se qualcuno ci indica la propria destra. Ma, allo<br />

stesso tempo, non confondiamo questo ‘indicare’ con una proposizione portatrice di verità.<br />

Non penseremmo che il loro gesto sia vero o falso; piuttosto, sostiene Davidson,<br />

penseremmo che quel gesto diriga la nostra attenzione verso qualcosa che ha un qualche<br />

significato. Siamo spinti a cr<strong>ed</strong>ere che dovremmo andare a destra. Questa cr<strong>ed</strong>enza<br />

può essere vera o falsa, ma il valore di verità non ha alcun legame con il gesto<br />

dell’indicare.<br />

Riprendendo l’esempio già fatto da Black, quando Shakespeare scrive “Giulietta<br />

è il sole”, non dovremmo, secondo la concezione di Davidson, pensare che<br />

quest’asserzione contenga un significato extra, non-letterale, seguendo la linea di “Giulietta<br />

è come il sole” oppure “Giulietta, come il sole, è centrale, gassosa, brillante, etc.”.<br />

Piuttosto dobbiamo assumere che le metafore ci consentono di notare aspetti di Giulietta<br />

e del sole che non avevamo notato prima. L’arrivo cognitivo a questa potenziale novità<br />

e agli aspetti sorprendenti del soggetto di Shakespeare non è una proprietà semantica<br />

della metafora stessa, ma solo un effetto pragmatico che la metafora produce in<br />

noi. Risulta quindi che per Davidson l’aspetto interessante e importante da evidenziare<br />

sta quindi non nella questione di cosa propriamente significa la metafora, ma nella<br />

“questione di come la metafora è relazionata a ciò che essa ci rende capace di v<strong>ed</strong>ere”.<br />

Si tratta, come a questo punto facilmente si può comprendere, di un «v<strong>ed</strong>ere come»,<br />

che le metafore condividono con le immagini, e non del «v<strong>ed</strong>ere che» che ha invece a<br />

126


che fare con le dichiarazioni del linguaggio letterale. La metafora ci fa dunque v<strong>ed</strong>ere<br />

una cosa «come» un’altra m<strong>ed</strong>iante una certa asserzione letterale che ispira o stimola<br />

l’intuizione. Allude cioè, ma senza significare, suggerisce una somiglianza che già c’è<br />

e che non è creata con un’allusione metaforica, perché la metafora non ha alcun eserci-<br />

zio veritativo.<br />

Tale concezione viene messa in discussione da Nelson Goodman nel saggio<br />

prec<strong>ed</strong>entemente citato Metafora come luce della luna. Egli infatti, diversamente da<br />

Davidson, e in piena sintonia con la tesi di Black, si fa sostenitore dell’idea che la me-<br />

tafora è cognitiva, perché essa dice qualcosa. Sarà interessante quindi v<strong>ed</strong>ere con quali<br />

argomenti Goodman confuta la teoria di Davidson in questo breve saggio, e successivamente,<br />

sulla base di questo approfondimento, v<strong>ed</strong>ere come tale concezione trovi un<br />

campo d’applicazione privilegiato nel mondo delle arti, ovvero di quelle formazioni<br />

simboliche capaci di creare nuovi orizzonti di senso, e di suscitare una nuova visione<br />

del mondo.<br />

2. 4 Metafora come luce della luna di Nelson Goodman<br />

Il breve saggio Metafora come luce della luna 175 è stato scritto da Goodman 176<br />

con l’intento apertamente dichiarato di mettere in discussione la posizione difesa da<br />

Davidson in Che cosa significano le metafore. Nello specifico, Goodman riafferma,<br />

versus Davidson, il valore cognitivo delle espressioni metaforiche. Esse non funzionano<br />

come semplici indicatori, ma sono direttamente implicate nella creazione di nuovi<br />

domini di conoscenza. La particolarità e l’importanza che Goodman infatti ascrive alla<br />

metafora è quella di svolgere un esercizio gnoseologico, al pari di tutti gli altri strumenti<br />

discorsivi, rispetto ai quali – egli precisa – la metafora è diversa solo per articolazione<br />

ma non per funzione. Le metafore possono fornirci una nuova visione della realtà,<br />

che, per intenderci, non è la visione allusiva cui fa riferimento Davidson, il «v<strong>ed</strong>e-<br />

175 N. Goodman, Metaphor as Moonlighting, «Critical Inquiry» n. 6, 1979, pp. 125-130 (trad. it di Simona<br />

Chiodo (a cura di) in Che cosa è arte, la filosofia analitica e l’estetica, UTET, Torino 2007, pp. 135-<br />

146), poi in ELGIN C. Z. (a cura di), The Philosophy of Nelson Goodman, vol. IV: Nelson Goodman’s<br />

Theory of Symbols and It’s Applications, Garland, New York 1997, pp. 53-58.<br />

176 Nelson Goodman (1906-1998), interlocutore di Carnap, collega di Quine e allievo di Lewis, ha insegnato<br />

presso la Harvard University (Cambridge (Mass.), USA). Tra i suoi studi che sono essenziali per la<br />

filosofia analitica contemporanea, quelli di interesse estetico sono, in particolare, I linguaggi dell’arte,<br />

V<strong>ed</strong>ere e costruire il mondo e Of mind and other matters.<br />

127


e come», ma è un autentico «v<strong>ed</strong>ere che», che le asserzioni metaforiche condividono<br />

con il linguaggio letterale. Analogamente ad esso, le metafore possi<strong>ed</strong>ono la capacità di<br />

dire la verità.<br />

Questa discussione testimonia la sensazione crescente che la metafora<br />

sia importante e particolare – la sua importanza è particolare e la sua<br />

particolarità è importante – e che la sua collocazione in una teoria generale<br />

del linguaggio e della conoscenza abbia bisogno di studio.<br />

L’uso metaforico del linguaggio varia sensibilmente dall’uso letterale,<br />

ma rispetto all’uso letterale, non è meno comprensibile, più oscuro,<br />

meno pratico e meno vincolato alla verità e alla falsità. Lontano<br />

dall’essere un semplice strumento ornamentale, l’uso metaforico del<br />

linguaggio partecipa pienamente al progresso della conoscenza: nel<br />

sostituire alcune vecchie specie «naturali» con categorie nuove e illuminanti,<br />

nel costruire fatti, nell’aggiustare una teoria e nel darci<br />

mondi nuovi 177 .<br />

Davidson, come abbiamo spiegato, nega il carattere veritativo della metafora<br />

perché egli ritiene che le metafore in realtà non abbiano nessun significato additivo,<br />

siano prive di un contenuto speciale. Non esistono, dal suo punto di vista, la verità e la<br />

falsità metaforiche, esistono solo la verità e la falsità letterali. Goodman invece ritiene<br />

che la verità e la falsità siano vincolate sia al «senso» letterale sia al «senso» metafori-<br />

co. Anzi, precisa Goodman, la particolarità della metafora è che «la verità metaforica è<br />

compatibile con la falsità letterale: una sentenza falsa, se intesa letteralmente, può esse-<br />

re vera se intesa metaforicamente, come nel caso di «il locale è in fermento» o di «il<br />

lago è uno zaffiro». La particolarità viene compresa riconoscendo che l’applicazione<br />

metaforica di un termine è di solito piuttosto diversa dall’applicazione letterale. Appli-<br />

cato letteralmente, il sostantivo «zaffiro» indica vari oggetti, compresa una particolare<br />

pietra, ma non un lago. Applicato metaforicamente indica vari oggetti, compreso un<br />

particolare lago, ma non una pietra. «Il lago è uno zaffiro» è quindi letteralmente falso,<br />

ma metaforicamente vero, mentre «lo stagno fangoso è uno zaffiro» è sia letteralmente<br />

sia metaforicamente falso. La verità e la falsità metaforiche sono distinte l’una<br />

dall’altra – e opposte l’una all’altra – analogamente alla verità e alla falsità letterali. E<br />

«il lago è uno zaffiro» è metaforicamente vero se e solo se «il lago è metaforicamente<br />

uno zaffiro» è letteralmente vero» 178 .<br />

La metafora, secondo Goodman, implica che un termine, o una struttura di termini,<br />

venga estratto da un’iniziale applicazione letterale per essere poi applicato in mo-<br />

177<br />

N. Goodman, Metafora come luce della luna, cit., pp. 154 e 155.<br />

178<br />

Ivi, pag. 155.<br />

128


do nuovo, in maniera tale da produrre un effetto nuovo all’interno dello stesso o di un<br />

diverso regno. Da questo punto di vista la negazione da parte di Davidson del fatto che<br />

le applicazioni metaforiche possano distinguersi dalle applicazioni letterali e che una<br />

proposizione falsa se intesa letteralmente può essere vera se intesa metaforicamente<br />

non fa altro, sostiene Goodman, che generare una grande confusione sull’argomento.<br />

Alla base di questa discussione critica di Goodman vi è l’intento di confutare,<br />

insieme a Black e a chi in generale riafferma il valore cognitivo del discorso metaforico,<br />

la concezione che v<strong>ed</strong>e la metafora come un mero artificio letterario, un congegno<br />

raro o esotico, esclusivamente decorativo. Non è in quest’ottica che si valorizza la metafora,<br />

ma nell’ottica di chi riesce invece a scorgere che la metafora rappresenta una via<br />

particolarmente economica, pratica e creativa di uso dei simboli, poiché introducendo<br />

vecchie parole in nuovi contesti possiamo risparmiare un gran numero di parole e abbiamo<br />

il vantaggio di dare il via ad abitudini linguistiche che avviano il processo di trascendimento<br />

delle parole. In questo senso egli afferma e conclude che «Nella metafora<br />

i simboli illuminano come la luce della luna» 179 .<br />

Interessante per noi adesso è rilevare che tale concezione della metafora (o del<br />

simbolo) è quella che si riflette nella concezione goodmaniana delle arti, le quali funzionano<br />

come simboli veri e propri che hanno un valore gnoseologico analogo a quello<br />

delle scienze. Dicendo qualcosa di vero, un simbolo è una «versione» vera del mondo.<br />

Come bene evidenziato da Simona Chiodo, un simbolo dunque nella concezione di Goodman<br />

«è una versione vera di un mondo, perché, in uno scenario gnoseologico costruzionalistico,<br />

ciascuna versione vera costruisce il mondo del quale essere vera e, un oggetto<br />

d’arte, agendo da simbolo, funziona analogamente a una versione del mondo, costruendo<br />

un mondo proprio. Le arti da questo punto di vista non alludono all’esistenza,<br />

ma dicono con saturazione la verità dell’esistenza che costruiscono» 180 .<br />

Questo è quanto, peraltro, chiaramente emerge nell’opera più importante a tal<br />

proposito, vale a dire in I linguaggi dell’arte. Per Goodman, il cui intento principale in<br />

quest’opera è stato quello di impostare – come egli stesso dichiara nell’introduzione –<br />

una teoria generale dei simboli, un quadro, una scultura, una sequenza di suoni musicali<br />

sono simboli. Ora, una caratteristica distintiva dei simboli artistici è che essi sono tipicamente<br />

considerati come espressivi: un quadro dai toni grigi con un tema cupo è così<br />

descritto come “triste”, così come triste dovrebbe descriversi una melodia lugubre in<br />

179<br />

Ivi, pag. 159.<br />

180<br />

S. Chiodo, Visione o costruzione. Nelson Goodman e la filosofia analitica contemporanea, LED, Milano,<br />

2006, pag. 60.<br />

129


una tonalità minore. Per Goodman, tale tristezza non è un attributo proprio del simbolo<br />

è invece figurativa o metaforica: nel descrivere il quadro o la melodia come “triste”, noi<br />

trasferiamo un sistema di concetti dal suo regno tipico (gli stati emotivi associati agli<br />

esseri senzienti) dentro un nuovo regno. L’espressività di un’opera d’arte, di conse-<br />

guenza, non è un attributo dell’opera in quanto tale, ma è semplicemente attribuita<br />

all’opera.<br />

Il tentativo goodmaniano di fornire una spiegazione plausibile dell’espressività<br />

dell’opera d’arte – <strong>ed</strong> in particolare, della musica – si è incontrato con due tipi di obiezioni.<br />

La prima, e più semplice, proviene dai filosofi che hanno sostenuto che il carattere<br />

espressivo è parte fondamentale dell’opera stessa: intendendo dire che l’espressività è<br />

una proprietà ineliminabile dell’opera <strong>musicale</strong>, ad esempio. Quando Goodman ha relegato<br />

la tristezza di una melodia al dominio del metaforico, non ha capito la cosa più importante,<br />

visto che il proposito della melodia è quello di essere espressiva di qualche<br />

<strong>emozione</strong>. Diciamo subito che è questa l’obiezione mossa da chi (Budd, Davies, lo stesso<br />

Kivy di cui ci siamo già occupati, e per certi versi anche Levinson) riconduce la<br />

spiegazione del problema espressivo a quella che abbiamo definito una risposta “dal<br />

basso”, riporta cioè l’isomorfismo al suo massimo di necessità. Da questo punto di vista<br />

infatti non c’è bisogno di convocare la metafora perché ciò che si dà nell’esperienza<br />

<strong>musicale</strong> di una determinata persona, e che quindi viene colto in essa, è, in quanto irriducibilmente<br />

percettivo (anziché metaforico), impossibile da specificare senza fare riferimento<br />

all’oggetto di quell’esperienza, vale a dire, senza fare riferimento alla musica<br />

stessa. Si tratta della percezione di, per avvalerci delle parole di Budd, somiglianze<br />

trans-categoriali tra, da un lato, gli oggetti di una modalità sensoria, e dall’altro lato, gli<br />

stati psicologici “interni” o i tratti esteriori delle manifestazioni comportamentali.<br />

La seconda obiezione a Goodman viene dal filosofo Roger Scruton, il quale ha<br />

notato che l’approccio di Goodman non ha dato spazio all’ambito cognitivo, perché in<br />

realtà i simboli artistici e il valore espressivo loro attribuito sono completamente indipendenti<br />

dall’umana cognizione 181 . La teoria estetica di Scruton, nella sua interezza,<br />

richi<strong>ed</strong>e invece che l’opera d’arte trovi posto nel regno complesso e m<strong>ed</strong>iato dei processi<br />

intenzionali. Ci si confronta cioè, in questo caso, con l’obiezione di chi riconduce<br />

il problema espressivo alle dinamiche di una cosiddetta risposta “dall’alto”, e cioè a<br />

complessi processi intenzionali e immaginativi che trascendono la possibilità di una risposta<br />

imm<strong>ed</strong>iata qual è quella che si dà in una dinamica percettiva. Si comprende così<br />

181<br />

Cfr. R. Scruton, Art and imagination: A study in the philosophy of mind, London, Methuen & Co,<br />

pag. 222.<br />

130


il netto rifiuto da parte di Scruton di qualsiasi idea di somiglianza, analogia, isomorfi-<br />

smo tra stati interni e oggetto artistico.<br />

Anticipiamo che si tratta di obiezioni significative a partire dalle quali v<strong>ed</strong>remo<br />

anche, in quest’ultimo capitolo, in che modo una particolare concezione espressiva<br />

venga a influenzare e favorire anche la concezione di come intendere e spiegare le at-<br />

tribuzioni di qualità emotive alla musica. Sono tali descrizioni metaforiche o letterali?<br />

A tal proposito, daremo in primis, prima cioè di prendere in esame le obiezioni sopra<br />

indicate, un approfondimento della concezione metaforica di Nick Zangwill, il quale a<br />

partire dalla riabilitazione pressoché integrale della concezione hanslickiana della mu-<br />

sica, della quale è certamente un convinto sostenitore, viene a ribadire l’idea che le no-<br />

stre descrizioni della musica in termini emotivi non possono essere altro che descrizio-<br />

ni metaforiche, anziché letterali.<br />

131


3. Nick Zangwill: musica, metafora <strong>ed</strong> <strong>emozione</strong><br />

Nell’articolo “Against Emotion: Hanslick was right about music” così esordisce<br />

Zangwill:<br />

Dovremmo comprendere la musica in termini emotivi? Sono<br />

d’accordo con Eduard Hanslick: la risposta è ‘No’. Lasciatemi elencare<br />

i modi in cui non si dà alcuna connessione: non è essenziale, per<br />

la musica, il poss<strong>ed</strong>ere emozioni, lo stimolare emozioni, l’esprimere<br />

emozioni, o il rappresentare emozioni. La musica, in se stessa, non ha<br />

nulla a che fare con le emozioni. Questa tesi negativa è ristretta alla<br />

musica strumentale o assoluta. […] Dimostrerò che Hanslick aveva<br />

ragione nel condurre la sua critica negativa alle teorie emotive letteraliste<br />

della musica 182 .<br />

Come emerge chiaramente in questa citazione, per Zangwill 183 non è vi è dub-<br />

bio che la musica assoluta non ha alcun tipo di relazione con l’<strong>emozione</strong>. Questa è<br />

l’idea che egli viene a riaffermare, a partire, non possiamo più far finta di non notare,<br />

da una lettura della tesi di Hanslick come una tesi che inclina e recide qualsiasi legame<br />

della musica con le emozioni. Lettura il più delle volte accr<strong>ed</strong>itata nell’attuale dibattito<br />

(eclatante è il caso di Kivy), ma che non restituisce e non tiene adeguatamente in considerazione,<br />

dal nostro punto di vista, la complessità che agisce invece al fondo della<br />

riflessione hanslickiana sulla musica. È vero che Hanslick ha dichiarato che le nostre<br />

descrizioni della musica in termini emotivi debbono essere intese metaforicamente, ma<br />

tale dichiarazione dovrebbe essere inquadrata più nell’ottica di una volontà di liberare<br />

la musica dall’ingombrante fardello delle impressioni soggettive dell’ascoltatore, che<br />

non invece nel tentativo dissacratorio di negare tout court una dimensione espressiva<br />

alla musica. In tal senso, ci chi<strong>ed</strong>iamo infatti come ci si confronta con le seguenti affermazioni<br />

di Hanslick: «la musica è spirito che si plasma interiormente» 184 , «il comporre<br />

è un lavoro dello spirito su un materiale spiritualizzabile» 185 , o ancora «la musica<br />

ha un contenuto, sebbene sia <strong>musicale</strong>, in quanto scintilla del fuoco divino non inferio-<br />

182<br />

N. Zangwill, Against Emotion: Hanslick was right about music, “The British Journal of Aesthetics”,<br />

Vol. 44, No. 1, 2004, pp. 29-43.<br />

183<br />

Nick Zangwill è un filosofo britannico contemporaneo molto attivo nel campo della filosofia analitica.<br />

Egli insegna alla University of Durham (UK), dove tiene corsi in estetica, teoria della conoscenza e<br />

etica. In ambito estetico, egli si è occupato prevalentemente di proprietà estetiche, espressività <strong>musicale</strong><br />

e creatività artistica. La sua posizione su tali questioni è etichettabile, per sua stessa ammissione, come<br />

‘formalismo moderato’. I suoi principali riferimenti ‘continentali’ sono Kant e Hanslick. Il suo pensiero<br />

estetico è ampiamente approfondito in sue due opere principali: The Metaphysics of Beauty (Cornell<br />

University Press, 2001) e Aesthetic Creation (Oxford UP, 2007).<br />

184<br />

E. Hanslick, Il bello <strong>musicale</strong>, cit., pag. 65.<br />

185<br />

Ivi, pag. 66.<br />

132


e alla bellezza di ogni altra arte. Ma solo negando inesorabilmente alla musica ogni altro<br />

“contenuto”, se ne salva il contenuto spirituale. Infatti non con il ricorrere a un sentimento<br />

indefinito – in cui, nel migliore dei casi, consiste il contenuto – si può attribuirle<br />

un significato spirituale, ma riconoscendo la bella e ben definita forma sonora come<br />

creazione dello spirito, compiuta su un materiale atto a essere spiritualizzato» 186 .<br />

Ad ogni buon conto, muovendosi da siffatta interpretazione, Zangwill viene a<br />

porsi in netta rottura con la posizione dei cosiddetti teorici “letteralisti”, i quali ipotizzano,<br />

al contrario, che tra la musica e le emozioni vi sia una relazione di qualche tipo.<br />

Non esageriamo se diciamo che tutta la disamina offerta da Zangwill in questo articolo<br />

è improntata proprio sul voler dimostrare come per l’appunto nessuna delle relazioni<br />

ipotizzate dai “letteralisti” possa sussistere tra la musica e le emozioni. Questo è quanto<br />

peraltro, viene fuori con maggior vigore e chiarezza in un articolo successivo, Music,<br />

Metaphor and Emotion, che è quello cui, volgeremo l’attenzione, essendo questo il<br />

luogo teorico in cui Zangwill affronta diffusamente la tematica di come spiegare le nostre<br />

descrizioni della musica in termini emotivi.<br />

Punto di avvio dell’indagine in questo articolo è l’ovvia constatazione di quello<br />

che egli definisce il “fatto inconfutabile – indiscutibile” (The Indisputable Fact), sul<br />

quale siamo pressoché tutti d’accordo, e cioè che spesso diamo descrizioni della musica<br />

in termini emotivi. Il problema è però come comprendere questo, e cioè in che senso<br />

diciamo, ad esempio, che un brano di musica è triste, malinconico, allegro, ecc. Sono<br />

queste descrizioni letterali o metaforiche? Due sono qui, precisa Zangwill, le questioni<br />

in gioco, reciprocamente connesse: da una parte quella della descrizione linguistica<br />

della musica e dall’altra la questione che riguarda da vicino la natura della musica.<br />

Sullo sfondo il problema centrale, stabilire cioè se tra la musica e un’<strong>emozione</strong> possa<br />

esservi una qualche essenziale relazione.<br />

Se si adotta un’ottica di tipo letterale tali descrizioni sono da intendersi letteralmente.<br />

Da questo punto di vista, infatti, certamente deve esservi una qualche relazione<br />

tra la musica e un’<strong>emozione</strong> reale: esempi importanti di tali teorie, riconosciute<br />

anche come teorie dell’<strong>emozione</strong>, sono secondo Zangwill, quelli di chi ritiene che la<br />

più importante funzione della musica deve essere quella di esprimere emozioni, eccitare<br />

emozioni, oppure rappresentare emozioni 187 . All’opposto, se si adotta una prospet-<br />

186 Ivi, pag. 118.<br />

187 Per quanto concerne da vicino la prima tesi, e cioè che la musica debba esprimere emozioni, il riferimento<br />

è in particolare a quanto sostenuto da Aaron Ridley, nell’opera Music, Value, and the Passions e a<br />

Dereck Cooke, in The Language of Music; mentre per un esempio di Arousal Theory, come possiamo<br />

facilmente comprendere oramai da quanto abbiamo appreso nel prec<strong>ed</strong>ente capitolo, Zangwill, non può<br />

133


tiva non-letterale, tali descrizioni sono invece considerate tipicamente metaforiche,<br />

poiché la musica in se stessa non ha nulla a che v<strong>ed</strong>ere con un’<strong>emozione</strong> reale.<br />

Per chi, come Zangwill, è dell’idea che le emozioni siano dimensione distintiva<br />

dell’umano, chiaramente una prospettiva di tipo letterale non può che rivelarsi fallace,<br />

nonché facile pr<strong>ed</strong>a di obiezioni. Ancora prima infatti di ipotizzare la possibilità che tra<br />

la musica e le emozioni vi sia una qualche relazione, è necessario un esame preliminare<br />

della natura di un’<strong>emozione</strong>. Il più delle volte, sospetta Zangwill, le difficoltà e i problemi<br />

derivano tutti dal fatto che non si ha un’univoca e chiara definizione del concetto<br />

di <strong>emozione</strong>. Un’<strong>emozione</strong>, riportandosi anche in questo caso all’ipotesi intenzionale di<br />

Hanslick, è uno stato mentale della persona, che ha sia carattere che contenuto qualitativo,<br />

vale a dire: un’<strong>emozione</strong> è essenzialmente poss<strong>ed</strong>uta da una persona, è circa qualcosa,<br />

<strong>ed</strong> è sentita. Emozioni quali paura, collera e orgoglio sono poss<strong>ed</strong>ute dalle persone,<br />

esse sono a proposito di qualcosa, sono sentite in un certo modo, e sono collegate<br />

necessariamente ad alcune cr<strong>ed</strong>enze. Se qualcuno quindi applica la parola <strong>emozione</strong> a<br />

qualcosa che è privo di queste caratteristiche, allora quell’uso è probabilmente metaforico<br />

o perlomeno è un uso esteso del termine. Solo un pazzo o un illuso può pensare<br />

che le cose stiano diversamente.<br />

In altri termini, si può secondo Zangwill pervenire a delle soluzioni plausibili,<br />

fermandosi a riflettere attentamente sulla natura della musica, che come molti altri hanno<br />

evidenziato, non è un essere senziente, e sulla natura delle emozioni. Questo è quanto<br />

certamente non è stato fatto dai “letteralisti”, i quali, evidenzia Zangwill, ingenuamente<br />

hanno invece trascurato il fatto che:<br />

a) descriviamo anche la natura in termini di emozioni. Per esempio, parliamo di<br />

rocce orgogliose, fiori timidi, nuvole minacciose, etc. Dovremmo ipotizzare allora anche<br />

in questi casi che vi sia una qualche significativa relazione tra un’<strong>emozione</strong> reale,<br />

quale ad esempio, la malinconia, e le nuvole? Viste così le cose, spiega Zangwill, è<br />

chiaro che non può esserci nessun legame generale tra le prevalenti descrizioni in termini<br />

emotivi e il possesso, l’espressione, oppure la rappresentazione dell’<strong>emozione</strong>,<br />

perché le cose naturali inanimate chiaramente non possono poss<strong>ed</strong>ere, esprimere o rappresentare<br />

emozioni. Tuttavia non si esclude la possibilità che anche la natura comunque<br />

possa suscitare emozioni. In ogni caso, egli avverte, dovremmo essere cauti nel postulare<br />

emozioni corrispondenti alle descrizioni in termini di emozioni.<br />

che rinviare all’opera di Derek Matravers, Art and Emotion; come esempio invece di una teoria rappresentazionale<br />

cita la tesi sostenuta da Langer in Philosophy in a New Key.<br />

134


) Descriviamo anche altri tipi di opere d’arte, oltre che la musica, in termini di<br />

emozioni. Siamo infatti soliti fornire descrizioni in termini emotivi anche di sculture e<br />

di quadri astratti, possiamo cioè parlare di colori gioiosi di un quadro oppure di forme<br />

minacciose di una scultura. A tal proposito Zangwill, come già in prec<strong>ed</strong>enza hanno<br />

fatto anche Kivy e Matravers, riconosce che una cosa è parlare delle arti che non hanno<br />

nessun contenuto rappresentativo, altra è in qualche modo parlare delle arti che hanno<br />

qualche contenuto rappresentativo, in quanto – precisa Zangwill – nel caso delle arti<br />

rappresentazionali, il motivo per cui le descriviamo in termini emotivi è ben diverso,<br />

visto che in tali arti abbiamo a che fare con delle persone che sono rappresentate come<br />

aventi un’<strong>emozione</strong> oppure con situazioni che sono rappresentate in un modo da invitare<br />

ad una risposta emotiva. Ma, <strong>ed</strong> ecco l’altro motivo per cui non c’è nessuna ovvia<br />

ragione per sostenere le tesi letterali, ci dice Zangwill, diamo anche descrizioni in termini<br />

emotivi di quadri astratti e sculture che non dipendono dalla rappresentazione.<br />

Dunque non è evidente che la musica si differenzi dalle altre arti sotto questo aspetto.<br />

c) Molti presumono che sia condivisibile affermare che la musica ha proprietà<br />

“espressive”. In linea di principio, spiega Zangwill, questo pensiero è condivisibile se<br />

alla base vi è l’idea che la musica è appropriatamente descritta in termini di emozioni,<br />

poiché questo non coincide già con l’asserzione perentoria che vi sia un legame tra la<br />

musica e un’<strong>emozione</strong> reale. Il problema, ravvisa Zangwill, sta invece nel fatto che asserendo<br />

che la musica ha proprietà espressive, in realtà spesso si aspira a dire molto di<br />

più. E, precisamente, si dice qualcosa di controverso e discutibile se la parola “espressivo”<br />

viene usata per indicare che le descrizioni in termini di emozioni si riferiscono a<br />

stati mentali emotivi 188 . Il letteralismo è dunque un modo inadeguato di guardare al<br />

problema. Anzi, Zangwill sostiene, è un modo ingenuo, che possiamo tollerare se viene<br />

adottato dalle persone comuni, ma non se a pensarla così è un teorico della musica. È<br />

assolutamente inverosimile che un esperto di musica possa spingersi a cr<strong>ed</strong>ere che<br />

quelle descrizioni siano indicative del fatto che la musica è in relazione con<br />

un’<strong>emozione</strong> reale.<br />

Sarà necessario dunque portarsi oltre questa visione dimostrando che in realtà le<br />

descrizioni della musica non sono da intendersi quali descrizioni letterali, bensì come<br />

descrizioni metaforiche delle proprietà estetiche della musica. Anticipiamo, che è questa<br />

la cosiddetta tesi della metafora estetica difesa da Zangwill. In tal senso, Zangwill<br />

introduce tutta una serie di argomenti con l’intento di dimostrare il valore positivo di<br />

188 N. Zangwill, Music, Metaphor, and Emotion, cit., pag. 392.<br />

135


un’ottica non-letterale. Uno di questi argomenti è quello che egli definisce della parità<br />

(the parity argument) e si basa sulla considerazione che:<br />

Diamo molte descrizioni della musica (e del modo in cui la musica<br />

suona) che non sono descrizioni in termini di emozioni, ma che sono<br />

anch’esse ovviamente metaforiche 189 .<br />

Poniamo, per esempio, il caso di quando descriviamo la musica come “delicata”<br />

o “bilanciata”. Qui, evidenzia Zangwill, nessuno si spinge a dire che le parole servono<br />

a riferirsi a qualche <strong>emozione</strong> con la quale la musica è connessa. (Sentimenti delicati?<br />

Sentimenti sbilanciati/non-bilanciati? Certamente no). Quasi con una punta di ironia,<br />

egli si diverte a sottolineare che qualcosa di esteticamente delicato non deve di necessi-<br />

tà essere a rischio di rottura, e, che qualcosa che è esteticamente bilanciato non deve di<br />

necessità avere una eguale distribuzione di peso tra le sue parti. Perciò questi utilizzi di<br />

“delicato” e “bilanciato” non possono, chiaramente, essere altro che metaforici. A so-<br />

stegno di questa tesi, Zangwill chiama in causa Scruton 190 , il quale anch’egli, seguendo<br />

Victor Zuckerkandl 191 , ha sottolineato il fatto che le descrizioni della musica in termini<br />

di altezza e movimento sono metaforiche. Si tratta, anche in questo caso, si può riscon-<br />

tare, di descrizioni che designano comunque il carattere espressivo della musica senza<br />

però ricorrere a concetti che chiamano in causa la nostra vita emotiva, concetti la cui<br />

applicazione resta sempre e comunque, secondo la spiegazione di Zangwill, metaforica.<br />

Tali descrizioni della musica in termini non-emotivi dovrebbero essere tenute in consi-<br />

derazione dai filosofi della musica tanto quanto le descrizioni emotive. Se pensiamo<br />

che le descrizioni della musica in termini di “delicatezza”, “bilanciamento”, “altezza” e<br />

di “movimento da una nota all’altra” sono chiaramente metaforiche, dobbiamo allo<br />

stesso modo presumere che anche le principali descrizioni della musica in termini emotivi<br />

siano altrettanto metaforiche. Non si capisce invece perché tendiamo a fornire spiegazioni<br />

diverse nell’uno e nell’altro caso, quando sarebbe invece auspicabile che si<br />

desse una spiegazione unica che valga per tutte le suddette descrizioni. Chiaramente<br />

riusciamo a scorgere quanto, in queste affermazioni, incida con forza il pensiero di<br />

Hanslick, il quale per dimostrare la tesi che le descrizioni emotive della musica sono<br />

metaforiche si è appellato, diciamo così, al criterio della sostituibilità di siffatte descri-<br />

189 Ibidem.<br />

190 R. Scruton, “Understanding Music”, in The Aesthetic Understanding, Manchester: Carcanet, 1983;<br />

The Aesthetic of Music, Oxford University Press, 1997, cap. 1, 2.<br />

191 V. Zuckerkandl, Sound and Symbol, Prometheus, New York, 1956.<br />

136


zioni: per descrivere la musica attingiamo spesso anche a concetti tratti da altre sfere<br />

che non sono quelle del mondo emotivo dell’uomo, concetti che con facilità siamo por-<br />

tati a qualificare come metaforici, piuttosto che come letterali. Un’idea, quella della so-<br />

stituibilità, che Zangwill condivide in pieno, dal momento che, e questo è un punto cer-<br />

tamente importante da evidenziare, il riconoscimento del valore metaforico delle de-<br />

scrizioni emotive della musica funziona qui come indebolimento drastico del rapporto<br />

musica-emotività, se è vero che descrivere emotivamente la musica è solo una possibilità<br />

tra le tante disponibili per avvicinarsi allo specifico <strong>musicale</strong>. Un indebolimento<br />

che si può evidenziare anche se prestiamo attenzione alla cosiddetta tesi dell’intreccio o<br />

interconnessione (the interweaving thesis), vale a dire:<br />

Le descrizioni della musica in termini emotivi sono intimamente connesse<br />

con altre descrizioni che sono chiaramente metaforiche – in<br />

particolare, spesso le descrizioni in termini di emozioni sono fornite<br />

sulla base di descrizione in termini non emotivi che sono chiaramente<br />

metaforiche, e viceversa 192 .<br />

Per esempio, possiamo dire di un brano di musica che è sereno perché esso è<br />

delicato. Tuttavia se queste descrizioni in termini non-emotivi non possono evidente-<br />

mente che essere considerate se non come metafore, sarebbe strano considerare diver-<br />

samente le descrizioni in termini emotivi. Ciò che si vuole evidenziare è che l’uso delle<br />

metafore dell’<strong>emozione</strong> in musica è spesso strettamente connesso con l’uso di altre me-<br />

tafore e non può essere compreso senza di esse. L’esempio può essere: La musica ar-<br />

rabbiata (angry) è solitamente violenta (violent) o scabrosa (jagg<strong>ed</strong>).<br />

Nell’arco di queste argomentazioni possiamo constatare come Zangwill parli di<br />

descrizioni metaforiche rinunciando a precisare quali siano i criteri per stabilire cosa è<br />

che consente di qualificare una descrizione come metaforica piuttosto che letterale. In<br />

realtà, dal suo punto di vista, una spiegazione di questo tipo non è necessaria; si può in-<br />

fatti comodamente evitare di dare un ragguaglio generale di cosa sia una metafora,<br />

mentre, come avevamo anticipato, è necessario fornire criteri specifici per poter distinguere<br />

gli usi metaforici e non metaforici dei termini che denotano emozioni. E il criterio<br />

cui appellarsi per stabilire se la parola <strong>emozione</strong> è usata metaforicamente senza dover<br />

dipendere da una controversa teoria generale della metafora, sappiamo, è quello che<br />

si può reperire chiarendo cosa è un’<strong>emozione</strong>.<br />

192 N. Zangwill, Music, Metaphor, and Emotion, cit., pag. 392.<br />

137


Questo è quanto chiaramente potrebbe emergere confrontandosi, sostiene Zan-<br />

gwill, anche con una tesi dichiaratamente letterale delle descrizioni emotive della musica.<br />

Si tratta della tesi di Stephen Davies, per il quale, come meglio avremo modo di<br />

verificare in un approfondimento successivo, le descrizioni della musica, come “triste”,<br />

“delicato”, e “alto”, non sono metaforicamente, bensì letteralmente applicate alla musica<br />

193 . Ciò che hanno in comune tali metafore è il fatto di essere familiari, dei veri e<br />

propri cliché. Per tale ragione, c’è la comprensibile tentazione di pensare che esse siano<br />

metafore morte, ovvero che esse, essendo divenute familiari, cessano di essere metafore<br />

e diventano espressioni letterali (usando a sua volta una metafora, Zangwill dice che<br />

esse, morendo come metafore, approdano al paradiso dei termini letterali). Riprendendo<br />

i termini che abbiamo introdotto nella sezione d<strong>ed</strong>icata ai testi seminali, potremmo<br />

dire, che l’uso di tali termini ha esaurito l’originaria contraddizione fra significato letterale<br />

falso e significato metaforico vero. Nel tempo cioè quelle che originariamente riuscivamo<br />

a riconoscere distintamente come metafore sono diventate vere e proprie asserzioni<br />

letterali al pari di molte altre. Secondo Zangwill, in realtà, tale tesi non è plausibile<br />

se si tiene adeguatamente in considerazione il fatto che queste descrizioni sono<br />

dello stesso tipo di quelle nuove che possiamo coniare per descrivere la musica, le quali<br />

– aggiunge – sono chiaramente metaforiche. Così scrive:<br />

Ad esempio, non ricordo di aver sentito le seguenti descrizioni della<br />

musica, ma posso pensare a una musica che vorrei chiamare “sconvolta”,<br />

“crudele”, “titubante”, “nervosa”, “insistente”, “vibrante”, e<br />

così via 194 .<br />

Anche questi nuovi termini in realtà sono metaforici, così come lo sono quelli<br />

che costituiscono le cosiddette metafore morte: non vi è alcuna differenza tra le prime<br />

descrizioni e le seconde. Per tale ragione anche in questo caso è auspicabile, secondo<br />

Zangwill, dare una spiegazione unitaria dei due tipi di descrizione. Egli ritiene infatti<br />

che tali ‘nuove’ metafore (nuove in quanto in<strong>ed</strong>ite) siano dello stesso tipo delle descrizioni<br />

cliché della musica come “triste”, “delicata”, e “alta”.<br />

Ma soprattutto, Zangwill sottolinea una volta di più il fatto che, al di là della<br />

questione se i termini che denotano emozioni usati per descrivere la musica siano metafore<br />

o metafore morte, tali termini comunque non descrivono stati che hanno le caratte-<br />

193 S. Davies, Musical Meaning and Expression, cit, pp. 162-165; v<strong>ed</strong>i anche Leo Treitler, “Language<br />

and the Interpretation of Music”, in Music and Meaning, <strong>ed</strong>. Jenefer Robinson, Cornell University Press,<br />

1993.<br />

194 N. Zangwill, Music, Metaphor, and Emotion, cit., pag. 393.<br />

138


istiche essenziali delle emozioni. Ecco perché anche se Davies avesse ragione, e se<br />

quindi alcune descrizioni della musica in termini di <strong>emozione</strong> fossero metafore morte,<br />

ovvero descrizioni dotate di un senso letterale secondario, ciò non cambierebbe co-<br />

munque le cose, visto che anche in questo caso le descrizioni della musica in termini di<br />

emozioni non si riferirebbero a stati mentali realmente emotivi – ovvero, a stati che una<br />

persona ha, che hanno un contenuto intenzionale, che hanno un carattere qualitativo, e<br />

che sono organizzati in dei precisi modi – che le parole, considerate nel loro senso let-<br />

terale primario, suggerirebbero. Da questo punto di vista Zangwill ritiene che una teo-<br />

ria delle descrizioni in termini di emozioni in quanto metafore morte è classificabile in<br />

realtà più come una teoria non-letterale, visto che chiama in causa dei significati se-<br />

condari non riferibili alle emozioni reali. Per tale ragione Zangwill arriva a concludere<br />

che tutto sommato una teoria della metafora morta può bene accordarsi con la sua teoria<br />

metaforica. Egli dice:<br />

Personalmente ammetto che un utilizzo letterale dei termini che denotano<br />

emozioni implica che essi vengano riferiti a degli stati mentali<br />

emotivi o a qualcosa che stia in una qualche relazione con stati mentali<br />

emotivi. Il punto della questione è se le descrizioni della musica<br />

in termini emotivi facciano effettivamente riferimento a tali stati. Fin<br />

qui abbiamo visto che ci sono alcune ragioni per pensare che tale riferimento<br />

non sussista 195 .<br />

Il più delle volte, spiega Zangwill, facilmente ci si può rendere conto del modo<br />

in cui il problema delle descrizioni linguistiche della musica sia in relazione con la<br />

questione riguardante la natura della musica. Nello specifico, il letteralismo, se è vero,<br />

ha come implicazione, per ciò che riguarda la natura della musica, che essa sia in qualche<br />

modo collegata alle emozioni. E, in tal senso, dunque il letteralismo si connette alle<br />

teorie dell’<strong>emozione</strong>. Al contrario, il non-letteralismo, per come è stato caratterizzato,<br />

incoraggia fortemente una concezione non-emotiva. Se cioè le descrizioni in termini<br />

emotivi non si riferiscono realmente alle emozioni, allora è chiaro che la natura della<br />

musica non ha nulla a che v<strong>ed</strong>ere con le emozioni. Non sempre però, tiene a precisare<br />

Zangwill, i confini sono così nitidamente delineati. Questo è infatti il dato che emerge,<br />

diciamo così, in teorie più complesse, tali in quanto in esse sembrerebbe profilarsi la<br />

possibilità di combinare una tesi non-letterale con una teoria delle emozioni. Si tratta di<br />

quelle che Zangwill definisce teorie intenzionali delle emozioni, nelle quali vi è in gio-<br />

195 Ivi, pag. 394.<br />

139


co l’ipotesi che la musica non sia in realtà relazionata ad un’<strong>emozione</strong> quanto piuttosto<br />

a pensieri sulle emozioni (thoughts about emotions). In una prospettiva di questo tipo<br />

egli annovera rispettivamente le tesi di Scruton e Levinson, i quali entrambi fanno appello<br />

alle emozioni immaginate durante l’ascolto di musica. Da questo punto di vista –<br />

egli spiega – un’<strong>emozione</strong> immaginata è un pensiero sull’<strong>emozione</strong> che non è una cr<strong>ed</strong>enza.<br />

Sembrerebbe dunque che, sebbene non in un’accezione piena, anche in questi<br />

casi vi sia il riferimento ad un’<strong>emozione</strong>. Eppure – evidenzia Zangwill – per Scruton le<br />

descrizioni della musica in termini emotivi non debbono essere considerate letteralmente,<br />

piuttosto metaforicamente. Il problema destabilizzante sembra qui essere per<br />

Zangwill quello di chiarire e stabilire se un’<strong>emozione</strong> immaginata è oppure non è<br />

un’<strong>emozione</strong> vera e propria, poiché sono questi, e non altri, come abbiamo finora puntualmente<br />

verificato, i criteri di cui egli si avvale per stabilire quali sono i precisi confini<br />

tra teorie letterali e teorie metaforiche. Scrive infatti a tale proposito: «Non è chiaro<br />

se queste teorie dovrebbero essere classificate come teorie emotive, dato che esse non<br />

chiamano in causa emozioni reali, ma solo dei pensieri ad esse relativi. Non è così importante<br />

fare questa classificazione. Tuttavia, la combinazione del letteralismo con una<br />

teoria intenzionale dell’<strong>emozione</strong> può creare confusione: se nell’esperienza della musica<br />

sono coinvolti dei pensieri relativi alle emozioni, di sicuro potremmo attenderci che<br />

le descrizioni linguistiche della musica significhino letteralmente le emozioni a cui i<br />

pensieri si riferiscono in tali esperienze» 196 .<br />

Per chi come Zangwill si trova in sintonia con una concezione dichiaratamente<br />

formalista, le descrizioni della musica in termini emotivi possono intendersi solo come<br />

descrizioni metaforiche delle proprietà estetiche della musica 197 . Tali proprietà esteti-<br />

196 Ibidem.<br />

197 È il caso di specificare, seppure senza poter dare un certo approfondimento della questione, che la tesi<br />

della metafora estetica può essere meglio compresa laddove si tiene in considerazione la concezione che<br />

Zangwill ha delle proprietà estetiche, che è, dico subito, una concezione realista. Si tratta però di una<br />

forma di realismo temperato. Come infatti spiega a tale proposito Matteucci, in un saggio d<strong>ed</strong>icato specificamente<br />

alle proprietà estetiche, «Zangwill amplia la base di subvenienza anche alle proprietà non sensoriali<br />

senza con ciò rinunciare al rapporto di dipendenza tra estetico e percettivo, riconoscendo al tempo<br />

stesso che il peso delle proprietà sensoriali varia nelle diverse arti. La ‘dipendenza debole’ che ne deriva<br />

viene così formulata da Zangwill: «le proprietà sensoriali sono necessarie per le proprietà estetiche, non<br />

sufficienti. Accettare una tesi di dipendenza debole è compatibile con l’ammettere che anche altri fattori<br />

sono necessari. Ma la tesi debole implica comunque che senza proprietà sensoriali non ci sarebbero proprietà<br />

estetiche». Cfr. Aesthetic/Sensory Dependence, “The British Journal of Aesthetics”, 38, 1, 1998,<br />

pp. 66-81. È quindi una tesi che vincola le proprietà estetiche alla dimensione percettiva, senza tuttavia<br />

risolverle completamente in essa. Cfr. G. Matteucci, Le proprietà estetiche, in Introduzione all’estetica<br />

analitica, cit. pag. 103. Detto in altri termini, la forma di realismo difesa da Zangwill v<strong>ed</strong>e sul tappeto<br />

l’ipotesi che le caratteristiche (che vengono) attribuite attraverso i pr<strong>ed</strong>icati dei giudizi estetici sono proprietà<br />

estetiche, proprietà ‘emergenti’ rintracciabili negli oggetti, proprietà che dipendono dalle proprietà<br />

di primo-livello degli oggetti, e (sostiene) che l’apprezzamento estetico di un oggetto consiste<br />

nell’acquisizione della conoscenza delle sue proprietà estetiche attraverso una normale attività percettiva<br />

140


che comprendono la bellezza, l’eleganza, la delicatezza, e possono essere descritte solo<br />

metaforicamente. La descrizione in termini emotivi non è dunque una descrizione che<br />

rinvia a qualche <strong>emozione</strong> esperita o trasferita, bensì alle proprietà estetiche che appar-<br />

tengono alla musica stessa. A tale proposito, precisa infatti Zangwill, se la tesi della<br />

metafora estetica è corretta, «essa suggerisce con forza che non si verifica nulla di genuinamente<br />

emozionale che sia in qualche modo rilevante, né nella creazione imm<strong>ed</strong>iata,<br />

né nella ricezione imm<strong>ed</strong>iata della musica. Ovviamente, le emozioni possono talvolta<br />

svolgere un ruolo se le consideriamo come le cause più remote dell’attività creative,<br />

e le emozioni possono talvolta figurare tra i più lontani effetti dell’esperienza della musica.<br />

Ma ciò è filosoficamente poco interessante. L’esperienza <strong>musicale</strong> e la creazione<br />

<strong>musicale</strong> primarie non comportano affatto il coinvolgimento delle emozioni. Per ‘esperienza<br />

<strong>musicale</strong> primaria’ della musica io intendo l’esperienza di una certa musica, e<br />

per ‘creazione <strong>musicale</strong> primaria’ io intendo il pensiero creativo relativo alla musica e<br />

che fa nascere la musica stessa 198 .<br />

Per rafforzare l’indipendenza della musica dalle emozioni, Zangwill respinge<br />

anche la concezione ‘moderata’ di chi, come Jenefer Robinson, sostiene che la musica<br />

sia in grado di suscitare nell’ascoltatore solo un certo tipo di emozioni: vale a dire, le<br />

emozioni che sono prive di un contenuto intenzionale, e che Robinson chiama “viscerali”.<br />

Una di queste emozioni è quella dell’eccitamento. Secondo Zangwill, è plausibile<br />

usare questo termine per descrivere alcuni passaggi della Quinta Sinfonia di Shostakovich;<br />

così come è possibile che, nell’ascoltare tali passaggi, noi ci sentiamo realmente<br />

eccitati, nel senso inteso da Robinson. Tuttavia, precisa Zangwill, la prima asserzione<br />

non deriva dalla seconda. Noi non descriviamo la musica come ‘eccitante’ per il fatto<br />

che il suo ascolto ci provoca la sensazione di eccitamento, ma per il fatto che “udiamo”<br />

affiancata dall’esercizio della ‘percezione estetica’, ovvero del ‘gusto’. Ora, interessante per noi è evidenziare<br />

che in antitesi con la concezione realista delle proprietà estetiche difesa da Zangwill troviamo la<br />

concezione antirealista di Scruton. Scruton in realtà non insiste più di tanto sulla forza persuasiva<br />

dell’argomento antirealista che rivolge direttamente contro questa teoria, si accontenta piuttosto di sottolineare<br />

la particolare natura delle qualità emozionali (e affettive) delle opere d’arte, che egli, seguendo<br />

una consuetudine consolidata, è lieto di descrivere come qualità ‘terziarie’. Posto che non vi siano caratteristiche<br />

di livello-inferiore e normalmente percepibili di fronte alle quali una persona che non percepisce<br />

una proprietà estetica di un certo oggetto è per tal motivo cieco, si può comprendere come Scruton<br />

colleghi la ‘percezione’ di una proprietà estetica alla percezione delle apparenze (o aspetti), ovvero al<br />

‘v<strong>ed</strong>ere-come’ (essendo le apparenze i paradigmi delle qualità terziarie). La sua posizione può essere<br />

dunque così riassunta: sentire la tristezza della musica non è una questione che riguarda un sentire che,<br />

ma (riguarda) un sentire come − sentire la musica come triste. Si tratta di una forma di sentire/udire immaginativo.<br />

Quello delle proprietà estetiche è un problema centrale nell’attuale discussione, e per certi<br />

versi legato alla questione dell’espressività, cui non abbiamo d<strong>ed</strong>icato una specifica attenzione per limiti<br />

di spazio e per salvaguardare l’unità della trattazione. Per un approfondimento rinviamo in questo caso<br />

alla lettura dell’articolo di Malcolm Budd, Aesthetic Realism and Emotional Qualities of Music, “The<br />

British Journal of Aesthetics”, 45, 2005, pp. 111-122.<br />

198 N. Zangwill, Music, Metaphor, and Emotion, cit., pp. 394-395.<br />

141


l’eccitamento nella musica, ovvero percepiamo in essa la proprietà estetica<br />

dell’eccitamento, da sola o, più probabilmente (come implicato dalla tesi<br />

dell’intreccio), in congiunzione con altre proprietà estetiche (come l’essere ‘tumultuosa’,<br />

‘stridente’, aggressiva’, e via dicendo). L’eccitazione di cui parla Robinson segue<br />

tale percezione, e non la prec<strong>ed</strong>e; inoltre essa può darsi come può non darsi (non è una<br />

conseguenza necessaria del nostro udire la proprietà dell’eccitamento nella musica).<br />

Con ciò Zangwill ribadisce una volta di più che le nostre descrizioni della musica in<br />

termini emotivi dipendono dalla rilevazione di proprietà estetiche presenti nella musica,<br />

piuttosto che dal nostro provare determinati stati d’animo.<br />

Questo tuttavia non vuol dire che Zangwill intenda l’esperienza della musica<br />

come un’esperienza asettica, fr<strong>ed</strong>da e distaccata. È infatti incontestabile il fatto che la<br />

musica, in particolare la grande musica, ci procuri un’esperienza speciale, intensa, gratificante:<br />

in una parola, piacevole. Di che tipo di piacere si tratta? Muovendosi su una<br />

linea già tracciata da Hume e Kant, Zangwill precisa che si tratta di un tipo di piacere<br />

particolare, sia per quanto riguarda la sua natura − il piacere che l’ascolto della grande<br />

musica ci procura è tale da portarci in uno stato di totale assorbimento, rapito <strong>ed</strong> estatico<br />

−, sia per ciò che concerne le cause che ne sono alla base. Il piacere estetico è infatti<br />

legato alla percezione della bellezza della musica, la quale è una proprietà superiore a<br />

tutte le altre proprietà estetiche ‘sostanziali’ (come l’essere una musica ‘eccitante’,<br />

‘bramosa’, ‘appassionata’, ‘arrabbiata’, e via dicendo), dalla cui combinazione (“intreccio”)<br />

deriva per l’appunto la qualità della bellezza − secondo una visione piramidale<br />

delle proprietà estetiche messa a punto dallo stesso Zangwill in The Beautiful, The<br />

Dainty and the Dumpy 199 . Pertanto, come, dal punto di vista metafisico, la bellezza deriva<br />

dalle proprietà estetiche sostanziali, così, dal punto di vista esperienziale, il piacere<br />

associato alla percezione della bellezza deriva dalle diverse reazioni estetiche associate<br />

alle percezione delle suddette proprietà estetiche. Tali reazioni non sono, vale la pena<br />

ricordarlo, necessariamente delle emozioni: quando ascoltiamo una musica descrivibile<br />

come ‘arrabbiata’, noi non diveniamo per forza arrabbiati (mancando l’oggetto intenzionale<br />

di una siffatta <strong>emozione</strong>, come potrebbe essere qualcuno che ci sta offendendo),<br />

ma reagiamo esperienzialmente alla percezione, nella musica, di una siffatta proprietà,<br />

che descriviamo metaforicamente come ‘arrabbiata’. Se poi siamo fortunati, la<br />

musica è meravigliosamente arrabbiata e l’ascoltarla ci procura un grande piacere. Non<br />

si può non rilevare come qui la teoria di Zangwill ricalchi quella di Kivy, il quale in<br />

199 Zangwill, The Beautiful, the Dainty and the Dumpy, “The British Journal of Aesthetics”, 35, 1995,<br />

pp. 317-329. V<strong>ed</strong>i anche Id., The Metaphysics of Beauty, Cornell University Press, Ithaca, 2001.<br />

142


maniera del tutto simile, come abbiamo già avuto modo di v<strong>ed</strong>ere, sostiene che la mu-<br />

sica ci procura un particolare sentimento di eccitazione (estasi, direbbe Zangwill)<br />

quando è, ad esempio, splendidamente malinconica, il che vuol dire che non solo possi<strong>ed</strong>e<br />

la proprietà della malinconia, ma la incarna in una maniera che è musicalmente<br />

bella 200 .<br />

200 V<strong>ed</strong>i Kivy, Feeling the musical emotions, cit. L’eccitazione di cui parla qui Kivy non è l’eccitazione<br />

‘viscerale’ della Robinson (la quale usa tale termine per descrivere un sentimento simile a quello che<br />

proviamo al termine di una corsa), ma è vicino all’estasi di cui parla Zangwill (Kivy afferma infatti che il<br />

termine ‘eccitazione’ non è nemmeno adeguato a descrivere il sentimento che proviamo di fronte alla<br />

bellezza della musica, che a ben v<strong>ed</strong>ere è un sentimento privo di un nome specifico).<br />

143


4. Roger Scruton: immaginazione e metafora<br />

Nella riflessione <strong>musicale</strong> di Roger Scruton 201 , due sono i termini fondanti e<br />

imprescindibili: l’immaginazione che è la facoltà che rende possibile il costituirsi<br />

dell’esperienza dell’ascolto <strong>musicale</strong>, e il regime metaforico come modalità descrittiva<br />

della musica. Partiamo dal primo dei due termini, e v<strong>ed</strong>iamo in che modo esso viene<br />

introdotto dal filosofo inglese nei suoi scritti riguardanti la filosofia della musica.<br />

Scruton distingue nettamente il regno dei suoni fisici dal regno della musica.<br />

Non si tratta di una differenza meramente quantitativa o di grado, bensì è in gioco un<br />

vero e proprio salto qualitativo. I suoni sono parte del mondo naturale, sono fenomeni<br />

‘trovati’, per così dire, mentre la musica coinvolge la sfera dell’intenzionalità e<br />

dell’immaginazione umana.<br />

Il dualismo prospettato da Scruton ci riporta direttamente, attraverso un approccio<br />

antropologico di stampo kantiano, alle due modalità attraverso cui si può parlare di<br />

uomo: a) la modalità “fisiologica”, nella quale egli come essere di natura è capace di<br />

percepire suoni grazie alla conformazione fisica del suo apparato percettivo, e (b) la<br />

modalità “pragmatica” che, nella terminologia di Scruton, assume l’accezione di intenzionalità<br />

immaginativa, come condizione razionale che (ci) permette di proiettare il<br />

(nostro) pensiero in un orizzonte speculativo lontano dal presente e dal luogo attuale,<br />

attraverso i mondi del possibile e dell’impossibile.<br />

201 Roger Scruton è un personaggio poli<strong>ed</strong>rico, polemico e oggetto di polemiche. La sua formazione<br />

culmina nel conseguimento del titolo di Philosophiæ Doctor a Cambridge, con una tesi in estetica poi<br />

confluita nella sua prima pubblicazione, Art and Imagination. Successivamente anche la sua carriera accademica<br />

si svolge interamente nel mondo anglofono; attualmente insegna filosofia presso l’università<br />

cattolica Institute for the Psychological Science in qualità di Research Professor, dividendosi tra Washington<br />

e Oxford. I suoi interessi filosofici sono quindi orientati verso l’estetica, la musica in particolare,<br />

ma spaziano anche nella morale e soprattutto nella politica. Oltre a essere portavoce di istanze conservatrici,<br />

è stato anche protagonista attivo, ad esempio in Repubblica Ceca come supporto ai dissidenti<br />

del regime comunista. Naturalmente la sua posizione politica e il suo attivismo, unitamente ad altre particolarità<br />

come la sua difesa della caccia alla volpe, lo rendono un personaggio spesso al centro di dibattiti.<br />

Anche la risonanza di Scruton in Italia è incentrata soprattutto su questioni di ordine politico. «Quelli<br />

che lo odiano, tutti politicamente corretti, lo definiscono uno dei maggiori reazionari e clerico-fascisti<br />

europei. Quelli che lo amano lo considerano uno dei pochi maestri coraggiosi del pensiero occidentale».<br />

Come giornalista scrive sugli argomenti più disparati, dalla religione al vino. È anche autore di romanzi<br />

e compositore: The Minister e Violet sono le sue due opere in musica. Tra i suoi lavori più significativi<br />

ricordiamo: Art and Imagination, cit; The Aesthetics of Music, cit; Representation in Music, “Philosophy”,<br />

51, 1976, 273-287; Absolute Music, in “Sadie”, <strong>ed</strong>., Vol. I, 1980a, 26-27; The Natural of Musical<br />

Expression, in “Sadie”, <strong>ed</strong>., Vol. 6, 1980b, 327-332; Programme Music, in “Sadie”, <strong>ed</strong>., Vol. 15, 1980c,<br />

283-287; The Semiology of Music, in “The Politics of Culture and Other Essays”, Carcanet Press, Manchester,<br />

1981, 75-79; Analytical Philosophy and the Meaning of Music, “Journal of Aesthetics and Art<br />

Criticism”, 46, Analytic Aesthetics, 1987, 169-176.<br />

144


L’esperienza <strong>musicale</strong>, come peraltro altre modalità di intervento e di azione<br />

dell’uomo nel mondo, è una sorta di innalzamento, di presa di distanza dalla finitezza<br />

naturale per dislocarsi su un piano di intenzionalità immaginativa. L’essere di ragione è<br />

aperto al mondo come un immenso e imprev<strong>ed</strong>ibile teatro di eventi da interpretare e<br />

modificare per compiere se stesso attraverso il compimento del mondo.<br />

L’attività cognitiva quotidiana coinvolge la percezione, la cr<strong>ed</strong>enza, e<br />

la raccolta di informazioni. Si tratta di un’attività comune a molte<br />

specie animali, e non è certo distintiva dell’uomo. Tuttavia gli esseri<br />

razionali – di cui l’uomo e la divinità sono i soli esempi conosciuti –<br />

hanno delle capacità che non possono trovarsi altrove.<br />

L’immaginazione è una di queste 202 .<br />

L’immaginazione estetica è un fatto della musica nella misura in cui questa sia<br />

capace di emanciparsi dal mondo fisico dei suoni per configurarsi come tramite tra<br />

l’essere razionale e l’universale delle realtà immateriali; rappresentando quel ponte i-<br />

deale capace di instaurare una relazione cognitiva tra i due piani.<br />

Se dunque l’immaginazione è un fatto della musica, la musica è un fatto<br />

dell’essere razionale, e la sua caratteristica è quella di uno sdoppiamento ontologico at-<br />

traverso due distinte forme di realtà: quella oggettiva esperienziale della percezione e<br />

quella immateriale del pensiero immaginativo. Qui, e solo qui, agisce la razionalità<br />

come caratteristica esclusivamente umana che consente di esperire l’universale attra-<br />

verso la pratica conoscitiva delle arti, della cultura e del linguaggio.<br />

Nell’esperienza estetica, l’immaginazione si avvale di un ulteriore elemento che<br />

Scruton definisce nei termini di “competenza”. L’immaginazione razionale, informata<br />

dalla “competenza”, consente quindi di manipolare la realtà attraverso un complesso<br />

apparato simbolico, per dislocare in due diversi ambiti cognitivi le cose reali e le appa-<br />

renze, ovvero la concettualizzazione delle apparenze che, emendate dalla necessità del-<br />

la cr<strong>ed</strong>enza, restano sospese nello spazio virtuale dell’esperienza estetica accanto agli<br />

oggetti materiali, senza alcuna aspettativa derivante dalla necessaria concatenazione<br />

v<strong>ed</strong>ere = cr<strong>ed</strong>ere.<br />

Poniamo che io v<strong>ed</strong>a un uomo che sta in pi<strong>ed</strong>i di fronte a me con atteggiamento<br />

minaccioso. Il mio istinto è di stare in guardia. Mi aspetto<br />

qualcosa e la temo; e rispondo in accordo con tale paura. Il mio<br />

comportamento è adeguatamente spiegato dal fatto che ciò che io ve-<br />

202 Roger Scruton, The Aesthetics of Music, cit., pag. 88.<br />

145


do è anche ciò che cr<strong>ed</strong>o che sia lì. In effetti, v<strong>ed</strong>ere, in questo caso, è<br />

anche cr<strong>ed</strong>ere 203 […].<br />

Supponiamo ora che io v<strong>ed</strong>a un uomo che sta in pi<strong>ed</strong>i con lo stesso<br />

atteggiamento minaccioso, ma che fa parte di un dipinto. Il mio istinto<br />

è di v<strong>ed</strong>ere, di studiare, di apprezzare con piacere questa m<strong>ed</strong>itazione<br />

sul fenomeno della collera. Non mi aspetto nulla, non temo nulla,<br />

e sono interamente assorbito dal modo in cui le cose appaiono.<br />

Qui il mio comportamento è spiegato dal fatto che ciò che io v<strong>ed</strong>o è<br />

anche ciò che io cr<strong>ed</strong>o che non sia lì. Io sto ‘guardando senza cr<strong>ed</strong>enza’<br />

204 .<br />

Tale condizione consente uno stato di pura contemplazione, dove l’esperienza è<br />

coscienza del sé che si proietta attraverso visioni in cui il suo oggetto è l’oggetto di un<br />

mondo parallelo che nulla condivide con quello delle cose materiali: due mondi co-<br />

presenti, ma non relazionati. L’esperienza <strong>musicale</strong> è quindi una speciale realtà duali-<br />

stica in cui operano tanto un sistema progettuale organizzato di note, accordi e melodie,<br />

quanto un parallelo ma distante sistema immaginativo capace di coglierne il senso co-<br />

me oggetto intenzionale, senza desumerlo dalla “forma” che la manifesta come tale nel-<br />

la realtà fattuale. Senza questo senso speciale, note, accordi e melodie ricadrebbero sot-<br />

to il dominio indeterminato dei suoni non significativi.<br />

Non si tratta di ascoltare, spiega Scruton, la musica come in una sorta di presen-<br />

te allargato in cui la ritenzione memorativa del gioco degli accordi prec<strong>ed</strong>enti dispone<br />

allo sviluppo dell’ascolto in atto nei termini di uno schema combinatorio consequenzia-<br />

le, poiché nell’esperienza in divenire dell’ascolto, un nuovo accordo, non si aggiunge<br />

come effetto di una gerarchia generativa, bensì nel modo in cui tutta la melodia, gestal-<br />

ticamente ne risulta ridefinita nell’immanenza di un’apprensione immaginifica <strong>ed</strong> este-<br />

tica, che prescinde dalla somma computazionale dei suoni in essa contenuti.<br />

In quanto razionale, l’immaginazione non è arbitraria ma anzi può rivendicare a<br />

sé contenuti cognitivi nella misura in cui è pur sempre l’oggetto sensibile a innescare<br />

quella relazione attraverso cui la facoltà immaginativa può concettualizzare la visione<br />

estetica.<br />

Ma in che misura tali visioni sono veramente nell’oggetto nel quale esse sono<br />

udite? La loro oggettività dice Scruton è perlomeno messa in discussione dal fatto che<br />

solo gli esseri dotati di immaginazione sono in grado di percepirle:<br />

203 Corsivo mio.<br />

204 Roger Scruton, The Aesthetics of Music, cit., pag. 89.<br />

146


Come ogni oggetto della percezione immaginativa, esse sono soggette<br />

alla volontà, e sono l’oggetto di scelte consapevoli o inconsapevoli.<br />

Questo è ciò che rende possibile la critica, qui come nel caso della<br />

pittura. Si possono fornire delle ragioni per sentire i colpi di percussione<br />

che aprono il Concerto di Violino Op. 61 di Beethoven come<br />

una prolungata battuta in levare, o parte della melodia; la scelta risi<strong>ed</strong>e<br />

nell’ascoltatore. Se guardiamo attentamente al parallelo con i dipinti,<br />

v<strong>ed</strong>remo che la percezione <strong>musicale</strong> coinvolge tutte quelle caratteristiche<br />

che ho attribuito all’immaginazione, e non potrebbe esistere<br />

nella mente di una creatura incapace di avere un pensiero immaginativo<br />

205 .<br />

Il rischio di un radicamento dell’immaginazione all’interno di contesti indivi-<br />

duali, sembra comunque scongiurato: Scruton è un antirelativista per eccellenza, e<br />

l’eliminazione del rapporto causalistico strumento-suono o in altri contesti suono-<br />

musica non va inteso come precondizione liberatoria in grado di favorire il libero eser-<br />

cizio di suggestioni immaginative o fantasiose slegate da ogni necessità e prive di con-<br />

tenuto cognitivo.<br />

La musica rimane quell’elemento unificante che si costituisce nell’esperienza<br />

d’ascolto come condizione capace di vincolare a sé l’immaginazione di un’idea condi-<br />

visa o almeno condivisibile; in quanto facoltà razionale degli esseri umani essa aggrega<br />

il singolo in un’esperienza allargata, laddove il rapporto interno/esterno si risolve<br />

nell’idea di ispirazione kantiana di un terreno comune costituito dalle tradizioni sociali,<br />

religiose e culturali, intese come patrimonio storico irrinunciabile delle civiltà e dal<br />

quale il dato sensibile riceve la sua verificazione etica nella connessione con le catego-<br />

rie concettuali umane.<br />

4. 1 Suoni e note<br />

Per meglio chiarire quanto detto fin qui a proposito del ruolo ricoperto<br />

dall’immaginazione nel costituirsi dell’esperienza <strong>musicale</strong>, sarà opportuno fare un<br />

passo indietro, e analizzare con attenzione quello che è il punto di partenza del pensiero<br />

di Scruton, vale a dire la distinzione tra suoni e note 206 .<br />

205 Ivi, pag. 94.<br />

206 Usiamo qui il termine ‘nota’, anziché ‘tono’, per tradurre l’originale ‘tone’ usato da Scruton. La nostra<br />

scelta deriva dal fatto che nel linguaggio comune è decisamente più usato il primo termine, dato che<br />

il secondo non può essere compreso senza far riferimento all’organizzazione tonale che è sottesa a gran<br />

147


I “suoni” sono sensazioni causate dalla vibrazione di un corpo in movimento<br />

che propagandosi nell’aria con diverse frequenze e intensità giungono alla percezione<br />

sensoriale attraverso un apparato fisiologico che le trasforma in sensazioni uditive cor-<br />

relate alla natura della vibrazione originaria.<br />

Per “nota”, comunemente si intendono due cose: il segno in cui si rappresenta-<br />

no i suoni usati nella musica e le singole occorrenze sonore a essi conformi, generate<br />

da strumenti o dalla voce umana.<br />

La classe dei suoni naturali risulta sovradimensionata rispetto a quella delle no-<br />

te che in quanto occorrenze fanno quindi riferimento a due diverse classi di entità:<br />

quella imm<strong>ed</strong>iata dei suoni naturali, e quella dinamica organizzata all’interno di una<br />

certa teoria <strong>musicale</strong>. I suoni naturali non vanno intesi nell’accezione di suoni della na-<br />

tura, (anche un suono emesso da uno strumento rimane in primis un suono naturale),<br />

bensì in quella più ampia di vibrazioni che producono una perturbazione di carattere<br />

oscillatorio che si propaga attraverso un mezzo elastico.<br />

Una “nota” produce lo stesso tipo di perturbazione fisica di un suono ordinario,<br />

potendosi entrambi definire nei termini di numero di oscillazioni (variazioni di pressio-<br />

ne) misurabili in cicli al secondo (hertz).<br />

Ne consegue che nessun tipo di analisi empirica potrebbe distinguere una nota<br />

da un suono ordinario, o per citare direttamente Scruton: “l’estensione nel mondo ma-<br />

teriale di ciascun concetto (ciascuno dei due) è la stessa” 207 . Ciò che segna il passag-<br />

gio dal mondo dei suoni al mondo delle note va quindi cercato non in determinate pro-<br />

prietà degli oggetti, ma nelle facoltà dei soggetti, ovvero degli ascoltatori. Ma proce-<br />

diamo per gradi, e cerchiamo di ripercorrere il percorso compiuto da Scruton.<br />

Il filosofo inglese inizia constatando una vicinanza dei suoni ai colori, in quanto<br />

entrambi dipendono dall’esercizio di un’unica modalità sensoria (rispettivamente,<br />

l’udito e la vista): essi (i suoni) “sono oggetti dell’ascolto più o meno nella stessa ma-<br />

niera in cui i colori sono oggetti della vista, e sono assenti nel mondo delle persone<br />

sorde, proprio come i colori sono assenti nel mondo delle persone cieche” 208 . I filosofi<br />

hanno tradizionalmente classificato come secondarie le qualità che sono oggetto di<br />

un’unica modalità sensoria, in quanto contrapposte a quelle qualità, etichettate come<br />

primarie, le quali possono essere rilevate anche attraverso altre modalità (si pensi alla<br />

parte della tradizione <strong>musicale</strong> classica occidentale − tradizione che rimane comunque, vale la pena ricordarlo,<br />

l’orizzonte entro cui la riflessione scrutoniana si dipana.<br />

207<br />

R. Scruton, The Aesthetics of Music, cit., pag. 93.<br />

208<br />

Ivi, pag. 1.<br />

148


forma di una moneta, che può essere percepita anche col tatto, oltre che con la vista).<br />

Di certo i colori sono qualità secondarie, in quanto la loro rilevazione dipende da come<br />

gli oggetti appaiono a degli osservatori qualificati posti in condizione standard di os-<br />

servazione: essi, in questo senso, costituiscono il “rivestimento fenomenico” delle cose.<br />

Tuttavia, osserva Scruton, i suoni, a differenza dei colori, non possono essere conside-<br />

rati qualità secondarie, poiché non sono affatto delle qualità. I colori, infatti, vengono<br />

percepiti in quanto appartenenti a certi oggetti: noi acquisiamo familiarità col colore<br />

blu osservando oggetti blu, e così via. Viceversa, i suoni non appartengono agli oggetti<br />

che li determinano causalmente, ma sono emessi da questi. Ciò significa che “sebbene<br />

ogni suono debba avere una causa, da ciò non segue che esso debba anche essere emesso<br />

dalla sua causa, o che debba essere inteso come il suono che ha quella causa” 209 .<br />

La separabilità del suono dalla sua causa ha secondo Scruton delle importanti<br />

conseguenze. La principale riguarda il fatto che i suoni possono essere esperiti come<br />

“eventi puri”, come “suoni a sé stanti”, distinti dalle cause fisiche dalle quali pure essi<br />

dipendono − il che non accade con la nostra esperienza ordinaria, in cui normalmente<br />

quando assistiamo a un dato evento, noi percepiamo degli oggetti che agiscono e si<br />

modificano. Teoricamente è possibile immaginare una “stanza della musica” entrando<br />

nella quale noi sentiamo dei suoni, ma in cui non sono rinvenibili le fonti del suono<br />

stesso, che viene quindi esperito “acusmaticamente” 210 . Ciò significa che noi possiamo<br />

sentire i suoni come abitanti un mondo tutto loro, e come organizzati primariamente<br />

entro la dimensione temporale, mentre la dimensione spaziale non può che essere solo<br />

immaginata metaforicamente.<br />

La separazione tra i suoni e le loro sorgenti è il primo passo per comprendere la<br />

natura della musica, che, secondo Scruton, va innanzitutto definita come “arte del suono”<br />

211 . Tuttavia, non ogni suono è musica (si pensi al suono di una fontana, la quale sia<br />

stata creata sotto la guida di un’intenzione estetica). Si potrebbe allora aggiungere la<br />

seguente caratterizzazione: la musica è l’arte del “suono organizzato”. Ma anche questa<br />

aggiunta non è sufficiente a delimitare il nostro ambito di ricerca, in quanto anche la<br />

poesia è un’arte del suono organizzato − dalle regole della sintassi e della semantica,<br />

come dall’intenzione del poeta e dalle aspettative del lettore. È necessario specificare<br />

allora di che tipo di organizzazione si serve la musica. A tal fine può essere d’aiuto, di-<br />

209 Ivi, pag. 2.<br />

210 Ivi, pp. 2-3. Il termine ‘acusmatico’ è desunto dai Pitagorici, i quali ascoltavano parlare il loro maestro<br />

al di là di un telo che lo nascondeva alla vista, <strong>ed</strong> erano chiamati akousmatikoi.<br />

211 Ivi, pag. 16.<br />

149


ce Scruton, fare un parallelo con quanto accade alle parole che utilizziamo per dialoga-<br />

re con altre persone. Ogni suono emesso intenzionalmente dalle persone viene istinti-<br />

vamente interpretato come un tentativo di comunicazione. Esso rimane però un puro<br />

suono privo di significato, fino a che non viene percepito all’interno di un campo di<br />

forze organizzato, che nel caso del linguaggio è rappresentato dalla grammatica, la quale<br />

fa sì che il suono venga percepito come una parola con un proprio significato. Qual è<br />

il campo di forze che trasforma un suono in una nota, e un insieme di suoni in musica?<br />

Per stabilire ciò, è sufficiente secondo Scruton prendere in considerazione quelle<br />

che sono le opere d’arte (musicali) paradigmatiche della nostra tradizione, ovvero i<br />

capolavori indiscussi della musica classica occidentale, tralasciando invece i casi-limiti<br />

che si possono rinvenire nel modernismo e nel post-modernismo. Lo studio di tali opere<br />

ci dice che l’organizzazione alla quale sottostà l’arte <strong>musicale</strong> dei suoni è<br />

l’organizzazione della musica tonale. I suoni diventano musica quando noi, in quanto<br />

esseri razionali dotati di immaginazione, percepiamo, nell’ascolto, qualcosa in essi;<br />

questo ‘qualcosa’ è il tono, o nota, <strong>ed</strong> è dotato di una propria forza, in virtù della quale<br />

lo udiamo come “derivante” da altri suoni/note e “conducente” verso altri suoni/note.<br />

Quando ascoltiamo la musica, noi udiamo le note come sottostanti a una “causalità virtuale”,<br />

ulteriore a quella fisica che regola le relazioni tra i suoni corrispondenti; in virtù<br />

di tale causalità virtuale noi percepiamo un movimento − immaginato, metaforico − tra<br />

le note che si succ<strong>ed</strong>ono temporalmente 212 .<br />

Questo modo di intendere la musica si applica a tutte e quattro le principali<br />

forme di organizzazione <strong>musicale</strong>, vale a dire l’altezza, il ritmo, la melodia e l’armonia.<br />

Concentriamoci sulla seconda e sulla terza delle forme appena menzionate. Per quanto<br />

riguarda il fenomeno del ritmo, Scruton respinge le teorie che fanno capo a spiegazioni<br />

di tipo generativo 213 in quanto rendono conto di un solo aspetto del ritmo: quello del<br />

metro, esplicato in termini di divisione della battuta in valori a loro volta divisibili. Similmente<br />

Cooper e Meyer 214 commettono lo stesso errore, confondendo il ritmo, con<br />

uno solo dei suoi aspetti, teorizzato attraverso il raggruppamento di una o più pulsazioni<br />

non accentate in relazione a una pulsazione accentata.<br />

Teorie di questo tipo tendono a ricondurre il problema in termini di rapporti materiali<br />

ai quali secondo Scruton il ritmo non è mai riconducibile; affiorando da uno<br />

212 Ivi, pp. 16-20.<br />

213 Spiegazioni di questo tipo sono quelle che provengono, spiega Scruton, dalla psicologia cognitiva.<br />

Cfr. H. C. Longuet-Higgins, Mental Processes: Studies on Cognitive Science, MIT Press, Cambridge,<br />

1987.<br />

214 Cfr. G. Cooper, L. B. Meyer, The Rhythmic Structure of Music, cit.<br />

150


sfondo virtuale generato dall’immaginazione, esso non dipende dalla regolarità del bat-<br />

tito, ma dalla fluidità della pulsazione vitale. Nel ritmo non cogliamo un calcolo, ma<br />

[…] una sorta di animazione. Il ritmo coinvolge la stessa causalità<br />

virtuale che troviamo nella melodia. I battiti non si susseguono uno<br />

dopo l’altro; si pongono in essere l’un l’altro, si rispondono vicendevolmente<br />

e respirano animati da una stessa vita. L’organizzazione che<br />

ho appena descritto non è una possibile organizzazione di suoni, costruiti<br />

come oggetti materiali. Ma è un’organizzazione di oggetti<br />

mentali, che conosciamo intimamente dalla nostra esperienza interiore:<br />

l’esperienza della vita consapevole di sé in quanto vita 215 .<br />

Non si può quindi comprendere il ritmo se non si considerano tanto la varietà di<br />

aspetti che lo determinano − la regolarità, la pulsazione, la distinzione tra battere e le-<br />

vare, i raggruppamenti, gli accenti, l’enfatizzare una nota o l’altra, la stretta connessio-<br />

ne con la melodia (ogni pulsazione è infatti associata ad un frammento melodico) −<br />

quanto la sua natura intrinsecamente metaforica. Non si può infatti descrivere il ritmo<br />

se non facendo ricorso a espressioni metaforiche come “pulsazione vitale”, “esperienza<br />

della vita”, o “organismo che respira” 216 . Le stesse caratteristiche di complessità e di<br />

metaforicità si applicano anche all’esperienza della melodia. La melodia è un tipo particolare<br />

di Gestalt <strong>musicale</strong>: essa è l’unità che si instaura tra le note che si succ<strong>ed</strong>ono,<br />

ma anche tra micro-unità come frasi e motivi. Da questo punto di vista, la melodia si<br />

distingue tanto dall’armonia − la quale è una Gestalt in cui però vari elementi vengono<br />

percepiti simultaneamente come unitari, mentre la Gestalt melodica è un’unità di elementi<br />

che si succ<strong>ed</strong>ono nel tempo − quanto dal ritmo − in quanto la melodia, a differenza<br />

del ritmo, è percepita come un “individuo <strong>musicale</strong>”, reidentificabile e riconoscibile<br />

(da ciò deriva il frequente utilizzo, da parte dei compositori, della tecnica della variazione<br />

melodica, che senza la possibilità di riconoscere delle unità individuali melodiche<br />

che sono sottoposte a trasformazione non avrebbe alcun significato). Il riconoscere<br />

una melodia come unità organica e non come mera somma di elementi richi<strong>ed</strong>e<br />

l’esercizio dell’immaginazione, attraverso la quale riconosciamo un inizio e una fine<br />

della melodia (una stessa nota può essere sentita come la fine di una melodia o come<br />

l’inizio di un’altra), in virtù del riconoscimento di una dinamica interna alla musica in<br />

corrispondenza della quale ‘segmentiamo’ la melodia in parti che si ‘muovono’ ineso-<br />

215 R. Scruton, The Aesthetics of Music, cit., pag. 35.<br />

216 Espressioni, queste, che secondo Scruton non possono essere applicate alla musica pop, in cui il semplice<br />

battito sostituisce quell’intima connessione tra ritmo e melodia che ci fa percepire la musica stessa<br />

non come una macchina ma come un organismo che vive e respira.<br />

151


abilmente (ovvero guidate da un’intima necessità) l’una verso l’altra all’interno di uno<br />

spazio che non può che essere metaforico (dato che non c’è nulla, qui, che occupa lette-<br />

ralmente una posizione). Percepire il movimento <strong>musicale</strong> è quindi di fondamentale<br />

importanza, poiché esso è “la realtà di sfondo su cui le melodie prendono forma” 217 .<br />

Riassumendo, Scruton ritiene che per comprendere la musica sia necessario distinguere<br />

non solo il suono dalla sua sorgente materiale, ma anche il suono dalla nota:<br />

solo quest’ultima è l’oggetto intenzionale dell’esperienza <strong>musicale</strong>. Non bisogna però<br />

incorrere nell’errore di considerare suoni e note come entità individuali distinte: esse<br />

sono piuttosto due modi diversi di concepire una m<strong>ed</strong>esima realtà, allo stesso modo in<br />

cui lo sono mente e corpo per Spinoza. L’esperienza <strong>musicale</strong> è e rimane indubbiamente<br />

un dato reale nella misura in cui si dispiega in uno spazio fisico attraversato da vibrazioni<br />

che colpiscono i nostri sensi per un tempo determinato definito da un inizio e<br />

da una fine; tuttavia è la sua comprensione nei termini di organizzazione tonale a renderla<br />

pienamente reale, vale a dire reale per noi (uomini). In noi la musica è conoscenza<br />

e insieme movimento: movimento immaginario di suoni all’interno di uno spazio virtuale<br />

in cui le note si muovono ora verso il basso ora verso l’alto, e che non va confuso<br />

con quello esemplificato dal diagramma <strong>musicale</strong>, dove il rapporto significatosignificante<br />

si risolve in un ordine necessitato da un sottostante codice analogico nel<br />

quale ogni segno è conforme al suo manifestarsi come nota all’interno dell’esecuzione.<br />

La realtà <strong>musicale</strong> acusmatica proposta da Scruton fa invece riferimento a un ben più<br />

complesso sistema di significati in cui agisce uno sfondo etico: quando egli dice che<br />

una nota è conseguenza di quella che la prec<strong>ed</strong>e, lo è nella misura in cui ne è ragione<br />

(ragione umana) e non conseguenza necessitata da rapporti causali descrivibili nei termini<br />

discorsivi delle asserzioni sui fatti. Sottratta ai parametri che guidano il criterio di<br />

oggettività scientifica, la musica in quanto oggetto immaginario non è e non può essere<br />

né vera né falsa, configurandosi piuttosto nei termini di una tensione morale in vista di<br />

un “dover essere” in cui “etica <strong>ed</strong> estetica sono una cosa sola” 218 .<br />

La nostra esperienza della musica sarà dunque esperienza di un mondo immateriale.<br />

Ha ancora senso parlare di esperienza? Che tipo di esperienza possiamo sperare<br />

di conseguire, ovvero: in che modo e in quali ambiti possiamo parlare di musica?<br />

Negli ultimi decenni il dibattito estetico si è spesso trovato diviso tra una serie<br />

di alternative, una di queste riguarda il problema delle qualità che attribuiamo alla mu-<br />

217 Ivi, p. 155.<br />

218 R. Scruton, Art and Imagination. A study in the Philosophy of Mind, cit., pag. 249.<br />

152


sica (comprese quelle espressive). Sono proprietà reali o vanno piuttosto intese in senso<br />

metaforico? E se sono metaforiche, in che senso lo sono?<br />

Potremmo togliere di mezzo la metafora e descrivere l’oggetto dell’esperienza<br />

<strong>musicale</strong> senza che si dipenda da essa?<br />

4. 2 Metafora<br />

Ci sono dei contesti, sostiene Scruton,<br />

nei quali le metafore sembrano essere indispensabili 219 : non solo in<br />

quanto fanno parte di un’esperienza letteraria unica, ma in quanto le<br />

stiamo utilizzando per descrivere qualcosa che è altro dal mondo materiale,<br />

in particolare in quanto stiamo cercando di descrivere come il<br />

mondo “appare” dal punto di vista dell’immaginazione attiva. E questo<br />

è il caso di quando ascoltiamo la musica 220 .<br />

Riprendiamo brevemente l’esempio del quadro raffigurante la figura di un uomo<br />

minaccioso, che, citando direttamente le parole del suo autore, avevamo già incontrato,<br />

per svilupparlo ora in una chiave di interpretazione più prettamente metaforica. In<br />

quel contesto avevamo lasciato l’esperienza estetica sospesa in una dimensione puramente<br />

contemplativa nella quale al v<strong>ed</strong>ere non conseguiva una richiesta di verificazione<br />

oggettiva: “Ciò che io v<strong>ed</strong>o, è anche ciò che io cr<strong>ed</strong>o che non sia lì ” 221 . Si tratta di<br />

un mondo che esiste senza esistere accanto a quello materiale nel quale invece il v<strong>ed</strong>ere<br />

coincide necessariamente con la cr<strong>ed</strong>enza di v<strong>ed</strong>ere per davvero.<br />

Abbiamo appreso come i due mondi, co-presenti nella realtà, sono tuttavia separati<br />

da un’abissale distanza, la m<strong>ed</strong>esima che separa l’essere di ragione dall’essere di<br />

natura o, per essere più precisi, l’essere umano nella sua dualistica e contemporanea<br />

appartenenza a due mondi diversi.<br />

Qui il tentativo di trovare una relazione tra il dato sensibile della necessità e<br />

quello intellegibile dell’immaginazione, ci riporta ancora una volta al progetto kantiano<br />

della terza critica, o meglio ad una delle sue possibili chiavi di lettura che possiamo<br />

scorgere nel paradigma della “doppia intenzionalità” proposto da Scruton:<br />

219<br />

Corsivo mio.<br />

220<br />

R. Scruton, The Aesthetics of Music, cit., pag. 91.<br />

221<br />

Ivi, pag. 89.<br />

153


Quando v<strong>ed</strong>o un dipinto, e l’uomo in esso ritratto, l’intenzionalità<br />

della percezione può sdoppiarsi, proprio in quanto non vi è conflitto<br />

tra le immagini. Non sono diviso tra cr<strong>ed</strong>enze rivali, come lo sarei invece<br />

di fronte a un affresco trompe l’oeil, e non devo chi<strong>ed</strong>ermi se ho<br />

di fronte un dipinto o un uomo. Posso accostarmi ad esso come a uomo<br />

o come dipinto, proprio in quanto l’uomo non appartiene al mondo<br />

nel quale il dipinto è collocato. Cr<strong>ed</strong>o che l’oggetto posto di fronte<br />

a me sia un dipinto, e semplicemente rifletto sull’uomo che sta<br />

all’interno di questo. Questa è la peculiare esperienza che<br />

l’immaginazione rende possibile: l’incontro del pensiero detto e nondetto<br />

222 .<br />

È questo il punto centrale in chiave gnoseologica della concezione metaforica di<br />

Scruton: la trasposizione di un’immagine in un’altra si connette con la teoria<br />

dell’immaginazione estetica, nella misura in cui è la distanza (logica) che pareva in-<br />

colmabile tra i due termini e non la loro vicinanza 223 (fisica) a consentire l’innesco<br />

delle due differenti concettualizzazioni del pensiero: quello detto (asserito) e quello<br />

non-detto (non-asserito), che in chiave puramente esemplificativa possiamo far corri-<br />

spondere in ultima analisi a ciò che accade nella metafora tra il soggetto e il pr<strong>ed</strong>icato.<br />

Il “focus” della metafora (terminologia che Scruton mutua da M. Black) cioè il<br />

pr<strong>ed</strong>icato oggetto della trasposizione è parimenti importante, quanto il contesto lettera-<br />

le che lo accoglie.<br />

Scruton tende costantemente a mantenere soggetto e pr<strong>ed</strong>icato all’interno di un<br />

rapporto di “appropriatezza” che li unisce e separa nello stesso tempo, nella misura in<br />

cui il significato denotativo del pr<strong>ed</strong>icato applicato, mantiene la sua integrità indenne<br />

rispetto all’operazione della trasposizione, laddove invece nella concezione interattiva<br />

di Black esso si disperdeva come abbiamo visto in un sistema connotativo molto più<br />

instabile di “implicazioni associate” capace (almeno potenzialmente) di determinare un<br />

effetto dòmino, a carico di tutto il linguaggio dove i nomi perderebbero progressivamente<br />

il loro significato denotativo a causa della reciproca interferenza (interattività)<br />

tra soggetti e pr<strong>ed</strong>icati.<br />

Non possiamo esimerci dal ritornare se pur brevemente alla teoria interattiva<br />

esposta in Metaphor da M. Black che rappresenta il momento stesso della trasformazione<br />

in chiave moderna della concezione della metafora, e segna l’evoluzione da concezioni<br />

definite sostitutive o comparative di derivazione storica (spesso fraintese) a<br />

222 Ivi, pp. 89-90.<br />

223 Oppure somiglianza, in tal caso dovremmo specificare cos’è una somiglianza e dovremmo farlo ricorrendo<br />

ancora una volta ad Aristotele … per il momento lasciamo quindi “vicinanza” (per non complicare<br />

le cose) vicinanza è un termine generico che non ci costringe ad entrare nel merito, come invece saremmo<br />

obbligati a fare parlando di “somiglianza”.<br />

154


concezioni cognitive che raccolgono molte delle adesioni nell’attuale dibattito filosofi-<br />

co intorno allo statuto del discorso metaforico. L’impressione però è che se da un lato<br />

sembra ormai riconosciuta la valenza conoscitiva assegnata da Aristotele alla metafora,<br />

dall’altro come sottolinea Guastini, non sempre la filosofia del Novecento si è interro-<br />

gata adeguatamente intorno a quale tipo di conoscenza mette in gioco la metafora ari-<br />

stotelica 224 .<br />

Senza alcune necessarie precisazioni non saremo in grado di tenere insieme, il<br />

dato conoscitivo (cognitivo) con la concezione metaforica comparativa adottata da<br />

Scruton (che sarebbe più utile inquadrare col termine di “appropriatezza”) 225 e che in-<br />

vece recupera in pieno all’intenzione aristotelica tutto il suo valore eminentemente co-<br />

noscitivo riscattandolo da una progressiva delegittimazione gnoseologica, subita attraverso<br />

i secoli, a partire come nota ancora Guastini<br />

da Cicerone prima e Quintiliano in modo ancora più sistematico poi,<br />

[i quali] pur riprendendo spesso parola per parola le argomentazioni<br />

esposte da Aristotele nella Poetica e nella Retorica, inseriranno ciò<br />

che l’uno chiama translatio e l’altro propriamente metaphora<br />

all’interno della dimensione dell’ornatus orationis, dell’ornamento<br />

stilistico, avranno di fatto modificato in modo profondo il contesto in<br />

cui Aristotele aveva trattato della metafora. Contesto che il filosofo<br />

nelle due opere richiama con il termine lexis e che, seguendo<br />

l’intendimento aristotelico, sarebbe forse più adeguato allargare<br />

all’intero ambito del linguaggio; questo per usare una terminologia<br />

moderna, sia al piano dell’espressione che a quello del contenuto<br />

piuttosto che, come farà invece la retorica classica, al solo ambito, assai<br />

più delimitato, dell’elocutio e dello stile […] Quindi, almeno<br />

all’apparenza, un contesto tassonomico, classificatorio quello recepito<br />

dalla tradizione della retorica classica, che dell’argomentazione<br />

svolta qui da Aristotele coglierà solo questo – che pure c’è, intendiamoci<br />

– di carattere stilistico, e che tuttavia non rappresenta affatto il<br />

centro dell’argomentazione, né nella retorica e nemmeno, malgrado<br />

certe indecisioni, nella Poetica 226 .<br />

Il carattere esoterico degli scritti aristotelici, unito ad alcune apparenti contrad-<br />

dizioni tra i due testi Poetica e Retorica, e infine la loro trasposizione in un contesto fi-<br />

losofico che non tiene più conto del dato referenzialistico né dell’orizzonte metafisico<br />

224 D. Guastini, Aristotele e la metafora: ovvero un elogio dell’approssimazione. Questo contributo è il<br />

testo di una relazione tenuta a Urbino il 7 Dicembre 2004 in occasione del seminario di studi: V<strong>ed</strong>ere il<br />

simile nel dissimile: la metafora in Aristotele e il simbolo in Kant, tenutosi presso l’istituto di filosofia<br />

Arturo Massolo dell’Università di Urbino, pag. 2.<br />

225 Sostitutiva è il termine adoperato in chiave riduttiva come sinonimo di superfluo, e per estensione superflua,<br />

decorativa ecc, v<strong>ed</strong>i M. Black, Modelli Archetipi metafore, cit. Appropriatezza è il termine che<br />

più si avvicina a “vicinanza prossemica” termine introdotto da Aristotele nella Poetica.<br />

226 D. Guastini, Aristotele e la metafora …., cit., pp. 1 e 4.<br />

155


del contesto originario, fanno sì che l’idea aristotelica si sia dispersa, dalla scolastica<br />

fino al secolo scorso, attraverso una serie di letture, che non si configurano come inter-<br />

pretazioni più o meno adeguate, ma finiscono adesso per dare origine a una vera e pro-<br />

pria dicotomia.<br />

Ripristinare come punto centrale il carattere di “appropriatezza” dell’uso figu-<br />

rato del linguaggio esemplificato dalla trasposizione metaforica aristotelica, (e ugualmente<br />

dalla similitudine) è per Scruton una condizione imprescindibile <strong>ed</strong> equivale a<br />

mostrarne tutto il suo contenuto cognitivo, contro certe interpretazioni, che (come si evince<br />

dalla breve ricostruzione che segue) celebrano invece l’arbitrarietà della trasposizione<br />

pr<strong>ed</strong>icativa e della sua stessa connotazione come quella condizione che renderebbe<br />

eminentemente alla metafora, (contro la similitudine) l’esclusivo possesso del dato<br />

conoscitivo gnoseologico e che l’avverbio di paragone “come” negherebbe ipso facto.<br />

Sostiene M. Black :<br />

Uno dei rischi di occuparsi soprattutto di ciò che ho chiamato «motivi<br />

metaforici» è quello di postulare una risposta standard 227 a una data<br />

asserzione metaforica, risposta determinata da convinzioni linguistiche,<br />

concettuali o d’altro genere. Un tale punto di vista è insostenibile<br />

perché l’asserzione metaforica implica una violazione delle regole.<br />

Non ci può essere nessuna regola per violare «creativamente» le regole<br />

228 .<br />

4.3 Metafora e similitudine<br />

Le teorie metaforiche comparative e sostitutive di derivazione storica sono solitamente<br />

considerate da una larga parte del dibattito contemporaneo, come semplici casi<br />

di similitudine implicita o, in altre versioni, come la sostituzione di un certo termine<br />

con una forma figurata di quel termine; in entrambi i casi è sempre possibile ritornare<br />

alla corrispondente formulazione letterale ripristinando il termine originario o facendo<br />

emergere in superficie l’avverbio di paragone “come” che distingue una similitudine da<br />

227 Si noti come Black adoperi il termine standard, forzando volutamente i termini della questione, poiché<br />

era perfettamente chiaro anche a lui che l’appropriatezza prospettata da Aristotele era in realtà, come<br />

si evince dalla retorica, una appropriatezza inappropriata, vale a dire la transazione inappropriata di un<br />

pr<strong>ed</strong>icato appropriato (in sé), quindi tutt’altra cosa rispetto a quel meccanismo automatico che Black vorrebbe<br />

suggerire col termine standard.<br />

228 M. Black, Modelli Archetipi Metafore, cit., pag. 107.<br />

156


una metafora. In tal modo la metafora si configura come similitudine ellittica, nella<br />

quale l’eliminazione (ma solo superficiale) dell’agente “come” contribuisce<br />

all’economicità dell’espressione e le conferisce una suggestione maggiore. La netta di-<br />

stinzione tra linguaggio letterale e linguaggio scientifico rimane preservata poiché una<br />

metafora così concepita non presenta nessun problema di interpretazione in quanto la<br />

sottostante similitudine necessita e convalida la conseguente espressione metaforica.<br />

Ne deriva un’unione che nei termini del paragone preserva l’alterità dei due<br />

soggetti, e sacrifica il “senso metaforico” poiché la molteplicità delle somiglianze che<br />

può essere colta tra cose dissimili è praticamente infinita così che si può affermare che<br />

ogni cosa, sotto certi aspetti, è letteralmente come un’altra cosa.<br />

Il secondo polo attraverso cui la retorica classica e m<strong>ed</strong>ievale ha considerato la<br />

metafora, è quello della concezione sostitutiva che per certi aspetti è strettamente con-<br />

nesso al sistema comparativo appena descritto, entrambi si definiscono infatti nei ter-<br />

mini di concezioni d<strong>ed</strong>uttive necessitate.<br />

In questo secondo caso, si assume la preesistenza di un corrispettivo termine<br />

letterale per ogni termine metaforico sulla base di un codice in cui ogni espressione<br />

metaforica è sostituibile con una equivalente espressione letterale; il lavoro di ricostru-<br />

zione (parafrasi) consisterà quindi nell’esplicazione della figura retorica e nel ripristino<br />

della corrispondente formulazione letterale.<br />

In entrambi i casi il prezzo da pagare è alto e si misura nei termini di svaluta-<br />

zione del dato gnoseologico.<br />

Ma siamo sicuri che le cose stiano davvero in questo modo, e che la questione<br />

sia riconducibile in ultima analisi a una sterile contrapposizione tra contenuto cognitivo<br />

da una parte e appropriatezza pr<strong>ed</strong>icativa (non cognitiva) dall’altra? La questione è tan-<br />

to controversa che persino I. A. Richards riconosciuto pressocché unanimemente come<br />

il precursore delle moderne concezioni metaforiche, e a cui lo stesso Black riconosce<br />

alcune intuizioni fondamentali, mostra ancora una malcelata nostalgia verso quelle che<br />

definisce “caratteristiche comuni” 229 quando dice che nella trasposizione metaforica<br />

una parola o un’espressione deve connotare solo una selezione delle caratteristiche<br />

connotate nei suoi usi letterali, e così riducendone di fatto la discrezionalità connotativa,<br />

induce Black ad accusarlo di essere ricaduto in una delle più vecchie e meno sofisticate<br />

analisi che si tenta di superare 230 .<br />

229 Ivi, pag. 56.<br />

230 Ibidem.<br />

157


Questo è il punto di snodo cruciale dell’intera questione, un nodo da sciogliere<br />

al più presto per una corretta comprensione di ciò di cui parliamo quando parliamo di<br />

metafora.<br />

Per precisare ulteriormente i termini della questione, marcandone le differenze,<br />

citiamo ancora una volta Scruton che in polemica col nominalista N. Goodman, ci fa<br />

sapere che<br />

Per metafora intenderò ciò che Aristotele intendeva: l’applicazione<br />

deliberata di un termine o di una frase a qualcosa che sappiamo non<br />

esemplificare tale termine o frase (se non vi piace questa definizione<br />

aperta, potete semplicemente sostituire un altro termine a ‘metafora’).<br />

Subito ci si presenta un problema. Se applicate deliberatamente un<br />

certo pr<strong>ed</strong>icato a un oggetto, non state forse dando per scontato che il<br />

pr<strong>ed</strong>icato si applica davvero all’oggetto? Qual è il significato<br />

dell’espressione “sappiamo non applicarsi a”? Se siete dei nominalisti,<br />

e cr<strong>ed</strong>ete che non vi sia bisogno di ulteriori spiegazioni per giustificare<br />

il modo in cui classifichiamo le cose, e che l’applicazione dei<br />

pr<strong>ed</strong>icati sia la fase finale di tale classificazione, allora è davvero difficile<br />

distinguere un uso metaforico da altri tipi di usi. L’unica distinzione<br />

che ci potrebbe venire in mente è quella tra usi più o meno<br />

nuovi. L’uso metaforico sarebbe allora quello al quale non ci siamo<br />

ancora abituati. Questa è la teoria della metafora esposta dall’ipernominalista<br />

Nelson Goodman ne I linguaggi dell’arte, <strong>ed</strong> è una teoria<br />

che convenientemente risolve la discussione. Troppo convenientemente,<br />

però. Se c’è qualcosa che può mettere a nudo l’incoerenza del<br />

nominalismo, questo qualcosa è la metafora. Più precisamente, è la<br />

nostra consapevolezza della metafora che ci permette di distinguere il<br />

caso in cui qualcosa è realmente blu dal caso in cui il nostro giudicare<br />

qualcosa come blu poggia essenzialmente sulla sua falsità. Ne siamo<br />

così consapevoli che la parola ‘letteralmente’ ha tutto fuorché rimpiazzato<br />

le parole ‘veramente’ o ‘realmente’ nel parlare quotidia-<br />

231<br />

no .<br />

Seguendo Scruton, proviamo a dare un giusto ordine alle cose, cercando di<br />

comprendere i limiti (ove ce ne fossero) e il valore (presunto) di ciò che correttamente<br />

si intende per attribuzione appropriata di un pr<strong>ed</strong>icato a un soggetto, all’interno di<br />

un’asserzione metaforica.<br />

231 R. Scruton, The Aesthetics of Music, cit., pp. 80-81.<br />

158


4.4 Un’appropriata trasgressione<br />

Nella referenzialità del contesto aristotelico originale, la trasgressione metafori-<br />

ca porta in luce qualcosa che ontologicamente preesiste, essa quindi non crea nuovi<br />

domini di riferimento, il suo scopo va invece compreso nei termini di scoperta più che<br />

in quelli di invenzione; la relazione semantica non può infatti in nessun caso prescindere<br />

dal rapporto ontologico originario e la metafora deve essere pertanto guidata da<br />

un’appropriatezza che la riporta sempre ai suoi attributi naturali.<br />

L’arbitrarietà della trasgressione si costituisce non di meno come elemento conoscitivo<br />

fondamentale, e attiene unicamente al dispositivo stesso della metafora, ovvero<br />

al trasferimento non ortodosso (trasgressivo) delle parole da un contesto a un altro,<br />

sebbene il significato delle parole consista poi sempre nella denominazione (e non connotazione)<br />

di oggetti. Spostando così il fulcro della significazione metaforica dal contesto<br />

dei significati a quello della pragmatica, cioè del loro uso.<br />

Lo scopo della similitudine, sostiene Scruton, è identico a quello della metafora:<br />

esso non consiste nel descrivere un oggetto (come invece vorrebbe la<br />

teoria interattiva) ma nel cambiarne l’aspetto in modo tale che noi rispondiamo<br />

ad esso in altro modo. Ciò è possibile perché i termini che<br />

vengono usati metaforicamente, come quelli che sono presenti in una<br />

similitudine, vengono usati nel senso ordinario 232 .<br />

Sono cioè soggetti a una regola, regola che mette fuori gioco molte teorie della<br />

descrizione estetica. Quando diciamo metaforicamente che una musica è triste, non<br />

siamo chiamati a decidere 233 (implicitamente) quali caratteristiche veicolate dalla tri-<br />

stezza possono sopravvivere e quali soccombere a seguito della trasposizione pr<strong>ed</strong>ica-<br />

toria, né in che modo la musica possa presentare certe caratteristiche in grado di acco-<br />

glierle.<br />

Il termine ‘triste’ che viene utilizzato nell’asserzione metaforica ‘questa musica<br />

è triste’ è esattamente lo stesso triste che adoperiamo nel linguaggio letterale, cioè nel-<br />

le situazioni in cui ordinariamente parliamo di tristezza. (Qui Scruton cita a conferma il<br />

noto esempio wittgensteiniano del mart<strong>ed</strong>ì/mercol<strong>ed</strong>ì grasso/magro):<br />

232 Ivi, pag. 84.<br />

233 Qui decidere è usato metaforicamente, poiché non esiste un termine adeguato per descrivere la situazione,<br />

si tratta infatti di una sorta di decisione implicita.<br />

159


Dati i due concetti “grasso” e “magro”, saresti disposto a dire che<br />

mercol<strong>ed</strong>ì è grasso e mart<strong>ed</strong>ì è magro, o saresti meglio disposto a dire<br />

il contrario? (Io sono propenso a scegliere la prima alternativa). Ebbene,<br />

qui «grasso e «magro» hanno un significato diverso dal loro significato<br />

ordinario? Hanno un impiego diverso. – Dunque, per parlare<br />

propriamente, avrei dovuto usare altre parole? Certamente no. – Qui<br />

voglio usare queste parole (con i significati che mi sono familiari).<br />

[…]<br />

Se qualcuno mi chi<strong>ed</strong>esse: «Che cosa intendi, propriamente, con<br />

“grasso” e “magro”?» potrei spiegargli i significati di queste parole<br />

soltanto nel modo assolutamente ordinario. Non potrei riferirli agli<br />

esempi di mart<strong>ed</strong>ì e mercol<strong>ed</strong>ì 234 .<br />

L’appropriatezza dell’idea scrutoniana coincide quindi con la deliberata (e non<br />

implicita) consapevolezza di utilizzare questa parola, qui dove essa non dovrebbe esse-<br />

re usata, <strong>ed</strong> è riconducibile alla nozione di “relazione prossemica” introdotta da Aristo-<br />

tele. Tale consapevolezza, che non deve necessariamente intendersi come implicita co-<br />

noscenza letterale del meccanismo che soggiace dell’asserzione metaforica nei termini<br />

della sottostante o esplicita similitudine, va invece compresa in Scruton come intenzione:<br />

l’intenzione di invitare qualcuno a condividere l’esperienza estetica della “trasformazione<br />

alchemica” 235 di una cosa suggerita nei termini di un’altra, e questo è anche lo<br />

scopo di una similitudine, portare alla luce una fusione di esperienze, nei termini della<br />

doppia intenzionalità informata dalla persistenza di due contemporanee concettualizzazioni:<br />

quella del pensiero detto (asserito) e quella del pensiero non detto, (non asserito)<br />

dei quali ci eravamo già occupati e che qui riprendiamo alla luce delle ultime acquisizioni,<br />

con un ulteriore approfondimento, citando ancora una volta direttamente<br />

l’autore.<br />

Quando v<strong>ed</strong>o un volto in un dipinto, in un normale contesto estetico,<br />

non sto v<strong>ed</strong>endo un dipinto e un volto; né sto v<strong>ed</strong>endo una somiglianza<br />

tra il dipinto e il volto. Il volto e il dipinto sono fusi insieme nella<br />

mia percezione. Il che non vuol dire che confondo l’uno con l’altro, o<br />

che ne scambio la realtà. Ho di fronte due oggetti simultanei di percezione:<br />

il dipinto reale, e il volto immaginario. E la mia risposta<br />

all’uno si fonde con la mia risposta all’altro. Ad esempio, rispondo<br />

alle linee fluenti e al color carne con delle emozioni e delle aspettative<br />

che derivano dall’esperienza che io ho dei volti, e (rispondo) al<br />

volto con le emozioni e le aspettative che derivano dal mio interesse<br />

per il colore, l’armonia e l’espressività delle linea. La fusione si com-<br />

234<br />

L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1999 (trad. it. Di R. Piovesan e M. Trinchero),<br />

pag. 283 (parte II, § XI).<br />

235<br />

R. Scruton, The Aesthetics of Music, cit., pag. 82.<br />

160


pie al più alto livello di interesse razionale, nello stesso tempo in cui<br />

si traduce nell’atto percettivo stesso 236 .<br />

Un’analoga esperienza si manifesta nella comprensione di una metafora: non<br />

stiamo semplicemente pensando il soggetto nei termini letterali del pr<strong>ed</strong>icato applicato,<br />

non stiamo stabilendo analogie e soprattutto non stiamo confondendo gli oggetti che<br />

sono simultaneamente immaginati.<br />

Al contrario! Come si evince nell’esempio del dipinto, l’effetto dipende proprio dal riconoscimento<br />

dell’ineliminabile differenza metafisica tra i due oggetti della nostra visione:<br />

quello materiale e quello immaginario.<br />

Scruton spiega la “doppia intenzionalità” come una visione simultanea che avviene<br />

nella mente quando l’attenzione si concentra sull’apparenza di una cosa (asserita)<br />

e contemporaneamente sull’apparenza di un’altra (non asserita). In tal modo le qualità<br />

della seconda vengono trasferite simpateticamente e appropriatamente alla prima, realizzando<br />

una connessione che è reale nell’immaginazione ma solo immaginata negli<br />

oggetti, perché il fascino estetico che attribuiamo ad essi, in realtà risi<strong>ed</strong>e dentro di noi<br />

nel modo in cui cerchiamo per tramite di essi di conoscere il mondo. Di questo mondo<br />

gli oggetti della percezione sono pertanto da intendersi più come mezzo che non come<br />

fine della conoscenza.<br />

Diverso il discorso quando una metafora è utilizzata per descrivere gli avvenimenti<br />

del mondo materiale; in questi casi sostiene Scruton, al di là del valore poetico,<br />

misurabile in termini di mera suggestione, non rimane altro e quindi possiamo anche<br />

farne a meno (la metafora è qui interpretabile come la “versione stenografata” di una<br />

realtà complessa, che possiamo portare alla luce estrapolando dalla metafora il suo significato<br />

237 ); ma, quando il mondo è il mondo della musica così come di ogni altra esperienza<br />

in cui opera l’immaginazione, allora la metafore (o la similitudine) si rivelano<br />

indispensabili.<br />

La metafora indispensabile sopraggiunge quando il modo in cui il<br />

mondo appare dipende dal nostro coinvolgimento immaginativo con<br />

esso, piuttosto che dai nostri normali fini conoscitivi. E questo è il caso<br />

di quando ascoltiamo la musica 238 .<br />

236 Ivi, pag. 87.<br />

237 Posso ad esempio estrapolare il significato dell’espressione metaforica homo homini lupus descrivendo<br />

i più conosciuti esempi <strong>ed</strong> episodi di aggressione dell’uomo nei confronti dei suoi simili.<br />

238 Ivi, pag. 92.<br />

161


4.5 Musica e metafora<br />

L’altezza di un suono è paragonabile al colore di una luce, sotto questo<br />

aspetto: è una qualità secondaria, prodotta da una vibrazione […]<br />

inoltre proprio come ogni cambiamento della frequenza delle onde<br />

luminose produce una modificazione del colore, così ogni cambiamento<br />

della frequenza di un suono ne modifica l’altezza. […] La nostra<br />

esperienza dell’altezza come quella del colore, ci presenta un<br />

continuo: tra due colori o due altezze qualsiasi, giace sempre un terzo,<br />

anche se le sue caratteristiche non sono per noi percettivamente<br />

differenti da quelle dei suoni vicini 239 .<br />

L’esperienza dell’ascolto <strong>musicale</strong> coinvolge molti sistemi metaforici, di questi<br />

quelli fondamentali sono tre: lo spazio, il movimento e l’azione. Essi non vanno intesi<br />

in ordine ad alcuni tipi di attribuzione che possiamo riferire alla musica attraverso<br />

l’istituzione di rapporti isomorfici quali soggetti di riferimento espliciti, idonei a rilevare<br />

criteri di somiglianza.<br />

Spazio movimento e azione sono in noi: la musica è movimento in quanto è vita,<br />

e in quanto è vita è azione, azione che fa vibrare il nostro spazio immaginativo la<br />

cui “forma” è la forma 240 dello spazio fenomenico attraverso cui organizziamo concettualmente<br />

la realtà ordinaria nei termini di sotto, sopra, salire e scendere, alto e basso.<br />

È una possibilità questa del pensiero immaginativo, di fondere 241 realtà separate<br />

da un abisso, conseguita al patto di rinunciare al dovere di cr<strong>ed</strong>ere alle cose.<br />

Così pure, se siamo posti di fronte a un dipinto, posso chi<strong>ed</strong>erti di<br />

guardare ad esso non come al ritratto di un bambino, ma come al ritratto<br />

di un nano con gli occhi da bambino, oppure non come al ritratto<br />

di una donna, ma come al ritratto di un uomo vestito da donna. Gli<br />

esempi familiari di figure ambigue, che possiamo v<strong>ed</strong>ere ora in un<br />

modo, ora in un altro, non sono delle eccezioni: esse sono semplicemente<br />

gli esempi più chiari della libertà universale che abbiamo,<br />

quando ciò che v<strong>ed</strong>iamo viene visto senza cr<strong>ed</strong>ervi. Il cambiamento<br />

di aspetto è il cambiamento da un’esperienza ad un’altra: ma esso non<br />

è causato da alcun cambiamento nell’informazione visiva; esso implica<br />

il passaggio da un pensiero non-detto ad un altro, ciascuno incorporato<br />

in un’immagine visuale i cui contorni sensori rimangono<br />

gli stessi 242 .<br />

239 Ivi, pag. 20.<br />

240 “Forma” è virgolettato nell’accezione riferita allo spazio immaginativo, non è virgolettato<br />

nell’occorrenza imm<strong>ed</strong>iatamente successiva, poiché lo spazio fisico ha realmente una (per quanto vaga)<br />

forma.<br />

241 Fondere qui è usato convenzionalmente, poiché esse non sono fuse nel senso ordinario del termine,<br />

bensì mantenute in una contemporanea sospensione estetica. Usiamo fusione solo per brevità.<br />

242 R. Scruton, The Aesthetics of Music, cit., pag. 90.<br />

162


Non possiamo fornire di questa impossibile unione ulteriori descrizioni rispetto<br />

a quanto possa fare la metafora stessa, poiché è la combinazione di parole<br />

dell’esperienza verbale (e non ciò che essa rappresenta o descrive) a collegare parlando<br />

cose impossibili da collegare, e coincide con “Il mettere davanti agli occhi le cose”<br />

dell’espressione aristotelica resa proverbiale dalla Retorica.<br />

Rimane da rilevare ancora come la coppia spazio-tempo dell’impianto metaforico<br />

<strong>musicale</strong> di Scruton, segni un deciso scarto rispetto all’orizzonte speculativo kantiano<br />

che costituiva fino a qui un sicuro orizzonte di riferimento per le argomentazioni<br />

del filosofo inglese. Per entrambi, ma per opposti motivi, infatti spazio e tempo costituiscono<br />

le due condizioni fondamentali della conoscenza: per Kant essi sono esibiti da<br />

un ordine pre-concettuale secondo le “forme dell’intuizione”, prima di qualsiasi rappresentazione<br />

dell’oggetto, per Scruton invece costituiscono irrinunciabilmente un dato<br />

pienamente concettuale, senza il quale non può darsi l’esperienza <strong>musicale</strong> (così come<br />

nessun’altra esperienza estetica).<br />

Scruton polemizza però non tanto con Kant, quanto con quei filosofi contemporanei<br />

(come Peacocke) che, sulla scia della dottrina kantiana, hanno avanzato l’ipotesi<br />

che un oggetto possa presentarsi alla percezione di una persona, anche se questa persona<br />

non è in grado di identificarlo m<strong>ed</strong>iante concetti. Scruton è ben consapevole che la<br />

possibilità di una percezione imm<strong>ed</strong>iata metterebbe fuori gioco tutta la sua teoria, poiché<br />

non ci sarebbe bisogno di alcuna metafora per mostrare ciò che spontaneamente si<br />

mostrerebbe da sé alla percezione dei sensi. Non potremmo infatti udire le melodie e le<br />

armonie come individui musicali, senza invece che si debba udirli in termini di spazio e<br />

movimento?<br />

La vera questione qui, secondo Scruton, non è tanto se ci possa essere<br />

un’organizzazione pre-concettuale esibita dalla Gestalt <strong>musicale</strong>, quanto piuttosto se<br />

sia sufficiente sentire questa organizzazione per poter sentire la musica come musica.<br />

Su questo punto egli ha molte riserve, espresse nel seguente esempio:<br />

Si consideri la prima frase di ‘Baa, Baa, Black Sheep’, che inizia nella<br />

tonalità C. La frase è composta nel modo che segue: due semiminime<br />

in C, due in G, e poi quattro crome in A, B, C, e A, che conducono<br />

di nuovo a G dove riposa. È del tutto possibile che un ascoltatore<br />

senta tutto ciò come un’unità, senza che senta il movimento che<br />

noi vi sentiamo. Per lui, come per noi, la melodia inizia in C e si ferma<br />

in G, con le note interm<strong>ed</strong>ie che conducono dalla prima nota<br />

all’ultima. Ma egli potrebbe ordinare le note in questa maniera, anche<br />

se esse non avessero, per lui, nessuna direzione: anche se egli non ri-<br />

163


conoscesse alcun movimento ascensionale da C a G; anche se egli<br />

non sentisse che le crome trascinano la melodia nella stessa direzione;<br />

anche se il ritorno a G non comportasse quindi la perdita della<br />

spinta ‘verso l’alto’. Un caso del genere sarebbe parallelo a quello in<br />

cui una persona riconoscesse una figura come posta in pi<strong>ed</strong>i contro<br />

uno sfondo, ma non avesse alcuna conoscenza della natura di tale figura.<br />

Di certo, tuttavia, saremmo portati a dire che il nostro ascoltatore,<br />

anche se ha percepito una unità <strong>musicale</strong>, non l’ha percepita come<br />

musica. Egli ha sentito il contorno, ma non la sostanza, e il fondamentale<br />

atto di riconoscimento, che è un riconoscimento del movimento,<br />

non è ancora avvenuto 243 .<br />

L’esempio mostra una volta di più come, secondo Scruton, la musica sia<br />

l’oggetto intenzionale di un’esperienza che solo gli esseri razionali possono avere, e solo<br />

attraverso l’esercizio dell’immaginazione; per descriverla dobbiamo far ricorso alle<br />

metafore, in particolare a quelle spaziali e di movimento, non in quanto esse registrano<br />

un’analogia della musica con altri tipi di oggetti, bensì in quanto le metafore descrivono<br />

esattamente cosa sentiamo, quando sentiamo i suoni come musica. Questo, ci rimanda<br />

al dualismo da cui eravamo partiti tra un implicito sentire del corpo e un razionale<br />

sentire della mente, a quell’insanabile distanza metafisica tra natura e razionalità<br />

che si dà nell’esperienza estetica e che solo la metafora può, per Scruton, contribuire a<br />

ridurre. Per quanto ci riguarda, concludiamo con un’ultima citazione, questa volta di<br />

W. Nowottny che sottoscriveremo per la sua splendida sintesi:<br />

La critica corrente prende spesso la metafora au grand sérieux, come<br />

uno spiraglio sulla natura della realtà trascendentale, un mezzo primario<br />

attraverso cui l’immaginazione può v<strong>ed</strong>ere nella vita delle cose.<br />

Questo atteggiamento rende difficile v<strong>ed</strong>ere il funzionamento di<br />

quelle metafore che deliberatamente pongono l’accento sulla loro<br />

forma, offrendosi come deliberate fabbricazioni, come mezzi primari<br />

per v<strong>ed</strong>ere non nella vita delle cose, ma in quella della coscienza umana<br />

creatrice, artefice del proprio mondo 244 .<br />

243 R. Scruton, The Aesthetics of Music, cit., pag. 95.<br />

244 W. Nowottny, The Language Poets Use, London, 1962, pag. 89.<br />

164


5. Malcolm Budd: metafora e isomorfismo<br />

Nell’attuale dibattito analitico, le ipotesi legate all’adozione di modelli isomor-<br />

fici sembrano fornire una buona soluzione per affrancarsi da insoddisfacenti teorie me-<br />

taforiche, e opporsi al problema rappresentato in ambito formalista dalle dicotomie lo-<br />

giche, contro la cui autorità abbiamo visto costantemente infrangersi molti dei tentativi<br />

di vincolare le categorie dell’espressività alla struttura della musica, da Hanslick in poi.<br />

Oggetti appartenenti ad ambiti disomogenei presentano, talvolta, alcune caratteristiche<br />

di somiglianza rintracciabili nel ruolo che ognuno di essi svolge all’interno del<br />

proprio sistema di riferimento o rispetto agli altri oggetti di quella m<strong>ed</strong>esima struttura;<br />

l’ordine presente nelle cose è di tipo dinamico e gli oggetti non si danno a priori ma si<br />

fondano e ridefiniscono continuamente a partire dai dati fenomenici. Da qui la conseguente<br />

caratteristica dinamica e multiforme delle somiglianze che possono essere colte<br />

nella realtà.<br />

In chiave strategica, l’adozione di tali modelli sembrerebbe rivelarsi particolarmente<br />

utile per uscire dall’impasse laddove la metafora rivela le sue intrinseche contraddizioni;<br />

quelle contraddizioni che Malcolm Budd 245 segnala come casi tautologici.<br />

La possibilità, nonché, la necessità di svincolare l’esperienza <strong>musicale</strong> dal piano<br />

d’immanenza, le conseguenti aperture che si offrono a una dinamica trans-categoriale,<br />

consentono al senso di evolversi dalla dimensione materiale dell’essere secondo le categorie<br />

logiche, per dispiegarsi in un campo di forze in cui i contorni dell’oggettività<br />

stemperandosi rivelano soggiacenti similarità trasversali rispetto alle quali sembrerebbe<br />

plausibile insinuare ipotesi alternative contro la logica del “o A o B”.<br />

Nell’accostarsi all’isomorfismo riteniamo sia imprescindibile la rinuncia a idee<br />

dualistiche che tendono ad opporre mente-corpo, senso-ragione, soggettivo-oggettivo,<br />

interno-esterno e che finiscono inevitabilmente per pretendere di indagare l’uno nei<br />

termini concettuali dell’altro, cercando poi l’impossibile sintesi in un linguaggio disincarnato<br />

e ulteriormente scisso tra letterale e non letterale, tra logica <strong>ed</strong> estetica. Se la<br />

natura umana è una natura linguistica, il linguaggio si costituisce in un’inscindibile unità<br />

tra corpo e anima, tra ragione e senso. Nell’esperienza <strong>musicale</strong>, forse più che in ogni<br />

altro tipo di esperienza estetica, non basta seguire una logica rettilinea e d<strong>ed</strong>uttiva,<br />

ma occorre invece anche un altro tipo di ragionevolezza capace di muoversi non sem-<br />

245 Malcolm Budd ha insegnato filosofia alla University College of London per più di trent’anni prima<br />

di ritirarsi dall’insegnamento e concentrarsi sui suoi scritti. Egli è stato eletto Socio della British Academy<br />

nel 1995 <strong>ed</strong> è diventato Presidente della British Society of Aesthetics nel 2004.<br />

165


plicemente lungo una linea pr<strong>ed</strong>efinita, ma per così dire più ampiamente e liberamente<br />

attraverso diversi livelli di realtà, non solo per cogliere ma anche per instaurare nessi<br />

tra le cose a partire dalla centralità del linguaggio e delle sue potenzialità estetiche.<br />

Se esaminiamo la nota proposizione di Wittgenstein “la vocale E è gialla” ci ac-<br />

corgiamo imm<strong>ed</strong>iatamente che non avrebbe senso chi<strong>ed</strong>ersi che tipo di cosa è rivelata<br />

nell’affermazione, o come e perché la “giallezza” del pr<strong>ed</strong>icato trasposto possa mantenere<br />

la sua natura 246 . Non avrebbe ugualmente senso domandarsi se ci troviamo al cospetto<br />

di una metafora, di una folgorazione sinestetica o di qualcos’altro, o peggio interrogarsi<br />

su cosa egli volesse dire dicendo … ciò che ha detto. Molto più semplicemente,<br />

Wittgenstein spiega il carattere non traslato di questa affermazione (che è del<br />

tutto simile alla proposizione ‘questa musica è malinconica’) chiamando in causa una<br />

sensazione primaria che conserva la sua integrità anche alla fine del processo logico<br />

che la porta all’evidenza e che anzi diviene in essa pienamente reale e condivisibile. Si<br />

potrebbe dire che ciò che sta alla base di affermazioni come quelle appena riportate sia,<br />

secondo Wittgenstein, una sorta di “sensazione del pensiero” 247 : un pensiero che sfiora<br />

la verità lasciandosi intercettare dalla realtà linguistica e che, pur sfuggendo a qualsiasi<br />

richiesta di spiegazione, realizza non di meno quell’identità tra senso e linguaggio che<br />

costituisce probabilmente un punto centrale dell’interpretazione per l’analisi della questione<br />

di cui qui ci occupiamo. La stessa questione che autori come Langer, Pratt e<br />

Budd hanno variamente reinterpretato, con esiti talvolta controversi.<br />

È importante a questo punto sottolineare quanta e quale importanza rivesta ancora<br />

oggi una tesi di tipo isomorfico, anche laddove una ripresa di essa si manifesti solo<br />

in forma talvolta trasversale, talvolta celata, e talaltra volutamente omessa, ma solo<br />

nell’ottica forse di prendere le distanze da certe “contaminazioni” che l’isomorfismo ha<br />

contratto. Budd in ogni caso non manifesta (almeno dal punto di vista delle intenzioni)<br />

nessuna reticenza nel riappropriarsi della tesi isomorfica in maniera assolutamente dichiarata.<br />

I testi cui facciamo riferimento consistono in una serie di articoli di Malcolm<br />

Budd scritti tra il 1983 e il 2005 248 in cui l’autore passa più volte in rassegna le princi-<br />

246 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., pag. 284.<br />

247 S. Vizzardelli, “Musica”, in Le Arti nell’estetica analitica, cit., p. 103.<br />

248 M. Budd, Motion and Emotion in Music: How Music Sounds, “The British Journal of Aesthetics”, 23,<br />

1983, 209-221; Music and the Emotions: The Philosophical Theories, Rutl<strong>ed</strong>ge & Kegan Paul, London,<br />

1985a; Understanding Music, “Proce<strong>ed</strong>ings of the Aristotelian Society”, Supp. Vol. 59, 1985b, 233-248;<br />

Music and the Communication of Emotion, “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 47, 1989a, 129-<br />

138; Music and the Expression of Emotions, “Journal of Aesthetic Education”, 23, no. 3, 1989b; “Review<br />

of Walton’s Mimesis as Make-Believe”, “Mind”, 101, 1992, 195-198; Values of Art, The Penguin<br />

166


pali questioni che animano il dibattito analitico contemporaneo attraverso la comparazione<br />

incrociata di alcuni tra gli autori contemporanei più influenti, ripartendo dalla<br />

storica contrapposizione tra formalisti <strong>ed</strong> espressionisti/disposizionalisti. I temi della<br />

comprensione <strong>musicale</strong>, dell’immaginazione, del realismo, del linguaggio, la questione<br />

della metafora e della parafrasi, l’oggettività delle emozioni s’intrecciano in un dibattito<br />

serrato ma privo di direzionalità, dal quale emerge lo sforzo dell’autore di cogliere il<br />

significato della musica come “forma d’arte” e di capire come le categorie emozionali<br />

giocano un ruolo nella comprensione e nell’apprezzamento di essa, sia in riferimento al<br />

suo valore intrinseco, sia in riferimento a valori esterni: la musica per Budd è un’arte<br />

astratta in quanto non è basata sulla capacità umana di rappresentare o riferire i propri<br />

elementi al mondo esterno, ciò nondimeno sarebbe sbagliato inferire che l’esperienza e<br />

il valore della musica non possano essere relazionati al mondo extra-<strong>musicale</strong>.<br />

La peculiarità della sua riflessione consiste essenzialmente proprio nella ricerca<br />

di una sintesi in grado di dare risposta alla domanda: in che modo è possibile ascoltare<br />

una particolare <strong>emozione</strong> nella musica? Budd si avvale dell’idea di Schopenhauer come<br />

chiave di lettura per spiegare la capacità della musica di contenere o incorporare<br />

un’<strong>emozione</strong>. Secondo il filosofo t<strong>ed</strong>esco la musica è rappresentazione diretta<br />

dell’intima essenza del mondo, ovvero di quella “Volontà” che nell’uomo si realizza<br />

con particolare vivacità nell’esperienza delle varie emozioni; egli riconduce a questa<br />

relazione diretta tra musica <strong>ed</strong> esperienza emotiva la spiegazione del fascino profondo<br />

prodotto dalla forma d’arte <strong>musicale</strong>:<br />

[La musica] non esprime questa o quella gioia particolare e determinata,<br />

questo o quell’affanno o dolore o terrore o giubilo o allegria o<br />

tranquillità d’animo; bensì la gioia, l’affanno, il dolore, il terrore, il<br />

giubilo, l’allegria, la tranquillità di spirito stessi, per così dire in abstracto,<br />

ciò che in essi è essenziale, senz’alcun accessorio, e dunque<br />

anche senza i relativi motivi 249 .<br />

Tale affermazione equivale a dire che ciò che la musica riflette è costituito dalle<br />

forme, infinitamente diverse, in cui il contenuto non-rappresentazionale e nonconcettuale<br />

delle emozioni − la ‘quintessenza astratta’ della soddisfazione e della insoddisfazione<br />

− può venire esperito nel tempo. Budd interpreta l’intuizione schopen-<br />

Press, London, 1995; Aesthetic Realism and Emotional Qualities of Music, “The British Journal of Aesthetics”,<br />

45, 2005, pp. 111-122; Musical movement and aesthetic metaphors, “The British Journal of<br />

Aesthetics”, 43 (3), 2003, 209-223.<br />

249 A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., pag. 521.<br />

167


haueriana conc<strong>ed</strong>endo un maggior grado di espressività alla musica e rimarcando<br />

l’importanza del concetto di somiglianza tra la musica e l’esperienza emozionale, di-<br />

ciamo così, diretta dell’ascoltatore: se nell’idea di Schopenhauer la musica è una rap-<br />

presentazione di ciò che non può essere rappresentato, nell’interpretazione di Budd, la<br />

vita interiore di un’<strong>emozione</strong> può manifestarsi nella musica, incarnandosi nei vari a-<br />

spetti dell’esperienza fenomenologica.<br />

Budd dichiara di non essere interessato a una ricognizione storica, bensì a una<br />

riflessione prettamente filosofica, che lo guida attraverso le diverse posizioni in campo<br />

alla ricerca di un metodo, o di quella che egli definisce “base canonica” 250 , a partire<br />

dal quale i giudizi sulle proprietà estetiche vengono elaborati sulla base di<br />

un’esperienza percettiva e immaginativa capace di connettere la musica nel suo essere<br />

pura struttura sonora, con l’innegabile fatto che essa in qualche modo è implicata nella<br />

fenomenologia di alcuni tipi di emozioni umane: alcuni fenomeni musicali infatti non<br />

esistono solo nella musica e la nostra familiarità con le loro istanze non-musicali può<br />

giocare un ruolo determinante nella nostra esperienza d’ascolto, come quando la nostra<br />

risposta riconosce una relazione isomorfica tra il ritmo e determinati movimenti corporei<br />

ad esso corrispondenti .<br />

Le teorie metaforiche risultano incapaci nell’insieme di fornire una risposta adeguata<br />

alla questione relativa all’espressività <strong>musicale</strong>, risposta che, secondo Budd, è<br />

invece più adeguatamente reperibile nell’adozione di un modello isomorfico o come<br />

egli la definisce in Values of Art, di una concezione minimale di base 251 da contrapporre<br />

alle teorie metaforiche “forti” di Scruton e Goodman, che sia pure in diversi contesti<br />

e non sempre per ragioni coincidenti o derivanti (come per altro abbiamo approfondito)<br />

da una m<strong>ed</strong>esima interpretazione della metafora applicata alla spiegazione della musica,<br />

avevano ugualmente teorizzato l’imprescindibile necessità del ricorso a una teoria<br />

metaforica per dar conto dell’attribuzione di proprietà emotive alla musica.<br />

Budd in realtà non nega le importanti funzioni della metafora, riconoscendole<br />

anzi, in ossequio al pensiero di Donald Davidson, il merito di segnalare un problema<br />

laddove le lacune del linguaggio non sarebbero in grado di dar conto della complessità<br />

del problema musica-emozioni. Ciò che Budd nega è la loro necessità, perché metafo-<br />

250 Il riferimento è all’articolo Aesthetic Realism and Emotional Qualities of Music, cit., pag. 111.<br />

251 L’aspetto centrale della “concezione minimale di base” consiste nell’idea secondo cui la percezione<br />

dell’espressività <strong>musicale</strong>, consiste nell’esperienza di una somiglianza tra, da un lato gli oggetti di una<br />

modalità sensoria, e dall’altro degli stati psicologici interni.<br />

168


icità <strong>ed</strong> ineliminabilità non sono per lui compatibili 252 , dal momento che una metafo-<br />

ra, stando a quanto dice Davidson, deve sempre poter essere parafrasata, ovvero tradot-<br />

ta in una corrispondente locuzione letterale. Così come non si può descrivere un dipinto<br />

senza l’uso (evidentemente letterale) del linguaggio dei colori, similmente non si può<br />

descrivere l’esperienza dell’ascolto prescindendo dall’uso del vocabolario inerente la<br />

teoria <strong>musicale</strong>. L’ambito della metafora è pertanto assegnato alla competenza dell’uso<br />

e non a quella del significato, poiché essa (metafora) non spiega perché descriviamo le<br />

opere d’arte utilizzando termini corrispondenti agli stati d’animo delle creature sen-<br />

zienti 253 . Il suo significato invece coincide senza residui col significato letterale, ovve-<br />

ro denotativo, di ciò che in essa vien detto, salvo poi decidere circa il vero o il falso<br />

dell’asserzione espressa. La convinzione di Budd è che quando la musica viene descrit-<br />

ta come triste, la parola «triste» è usata proprio nel senso in cui è normalmente riferita<br />

ai discorsi ordinari del sentimento, ovvero letteralmente.<br />

La riflessione filosofica di Budd appare a tratti un complesso sistema filosofico<br />

ritagliato trasversalmente all’interno di teorie spesso eterogenee: muovendosi per ag-<br />

giunte <strong>ed</strong> emendamenti, secondo il tipico stile degli articoli qui esaminati, a rimanere<br />

irrim<strong>ed</strong>iabilmente sacrificata è una visione complessiva e unificante, dove le diatribe<br />

polemiche tipiche della contrapposizione punto-per-punto delle sue argomentazioni<br />

spingono costantemente in secondo piano ciò che sembrerebbe un passaggio obbligato,<br />

ovvero il problema del riconoscimento di quel senso di profonda contiguità tra ciò che<br />

nominiamo metafora e ciò che nominiamo analogia. Risulterebbe infatti in linea con lo<br />

spirito del metodo isomorfico riconoscere nell’una e nell’altra una differenziazione<br />

convenzionale più che uno status naturale, e dunque una variazione del grado di senso<br />

all’interno di quel continuum costituito dal linguaggio, e non già l’individuazione di<br />

“oggetti” di genere differente: superando alcune differenze terminologiche non sembre-<br />

252 Cfr. Budd, Understanding Music, cit. Qui Budd attacca l’affermazione di Scruton che le metafore usate<br />

per descrivere la musica sono ineliminabili. Budd sostiene che ineliminabilità e metaforicità si escludono<br />

a vicenda. In alcuni casi (compresi quelli descritti da Scruton) i termini sono eliminabili e metaforici;<br />

in altri essi possono essere eliminabili e non metaforici; e in altri ancora essi sono ineliminabili e<br />

quindi non possono essere metaforici. Cfr. R. Scruton, The Nature of Musical Expression, cit.<br />

253 Questo è stato anche evidenziato da Stanley Cavell, il quale, in un articolo del 1977, affermava che<br />

“ciò di cui abbiamo bisogno è una spiegazione del perché descriviamo le opere d’arte utilizzando termini<br />

che sono solitamente confinati alla descrizione degli esseri senzienti (più specificatamente, delle persone).<br />

Dire che la descrizione è metaforica senza aggiungere nient’altro, equivale ad evitare di fornire<br />

l’analisi che qui è richiesta”. L’articolo è “Music Discompos<strong>ed</strong>”, in Must We Mean What We Say?,<br />

Cambridge, Cambridge University Press, 180-212. Anche Davies sottolinea che non c’è ragione di pensare<br />

che il riferimento alla metafora possa sostituire l’analisi del fenomeno che è invece necessario spiegare:<br />

l’espressività della musica. Questa è l’accusa che può essere rivolta a Scruton, The Nature of Musical<br />

Expression, cit; D. A. Putman, Music and Metaphor of Touch, “Journal of Aesthetics and Art Criticism”,<br />

44, 1985, 59-66; Id., Some Distinctions on the Role of Metaphor in Music, “Journal of Aesthetic<br />

Education”, 23, 2, 1989, 103-106; M. Evans, Listening to Music, Macmillan, London, 1990.<br />

169


ebbe, per esempio, azzardato individuare una serie di contiguità sostanziali con l’idea<br />

metaforica del rivale Scruton certamente propenso anch’egli all’accettazione di un si-<br />

stema di significazione analogico 254 . Ma è sul comune piano dell’immaginazione con-<br />

sapevole e informata che le distanze sembrano ulteriormente ridursi a una mera forzatura<br />

tassonomica in linea con il tipico uso di rimarcare i contrasti, sorvolando così<br />

spesso sugli aspetti comuni sostanziali: la strategia di Budd di svincolarsi dalla metafora<br />

necessitata di Scruton è evidentemente prioritaria rispetto al rilevamento di alcune<br />

sostanziali identità che pure si mostrerebbero evidenti. Senza contare per inciso che<br />

molte delle teorie metaforiche moderne, (pensiamo nello specifico alla teoria interattiva<br />

di Max Black in primis) ipotizzavano già l’esistenza di una rete sotterranea di rapporti<br />

contrassegnata da scambi di somiglianze analogiche responsabili del venire alla luce<br />

delle conseguenti manifestazioni metaforiche.<br />

Se è vero, dunque, che Budd si muove con l’intento di riconoscere a tutte le idee<br />

in campo un qualche barlume di verità, è altrettanto vero che non sempre emerge<br />

un approfondimento esaustivo delle questioni poste, e d’altra parte il sostanziale <strong>ed</strong> esplicito<br />

riconoscimento del valore del metodo isomorfico, in senso generale appare più<br />

improntato ad un uso di tipo strategico-difensivo di quanto non sia propositivo in senso<br />

pieno: le idee di Budd non sembrano liberarsi per esempio da un eccesso di prudenza<br />

quando tenta di rimuovere alcuni aspetti (peraltro sostanziali) della tesi di Langer il cui<br />

fascino, innegabilmente suscitato sin dal suo apparire negli anni 40’ sulla scena filosofica,<br />

è stato costantemente accompagnato da una latente diffidenza. L’influenza neopositivista<br />

della prima riflessione analitica e probabilmente la controversa (e spesso fraintesa)<br />

er<strong>ed</strong>ità della concezione linguistica wittgensteiniana continuano a rappresentare<br />

per la scuola analitica una sorta di limite invalicabile, al di là del quale si prospetterebbero<br />

pericolose aperture metafisiche certamente non auspicabili.<br />

In questo contesto sembra possibile inquadrare la tiepida accettazione del simbolismo<br />

langeriano da parte di Budd che a proposito dei presunti difetti di quella teoria<br />

sostiene che l’idea secondo cui l’asserzione verbale è pressoché inutile per trasmettere<br />

in maniera precisa delle conoscenze relative al particolare carattere della nostra vita affettiva<br />

è imputabile alla sottovalutazione della Langer delle considerevoli risorse del<br />

linguaggio per descrivere come ci sentiamo. Budd sostiene infatti che Langer è erroneamente<br />

indotta, dall’enfasi che ella pone sui termini emotivi generici/comuni, a pensare<br />

che il linguaggio non possa poss<strong>ed</strong>ere una specificità quando è adoperato per descrive-<br />

254 Si rimanda alla lettura del paragrafo su Scruton.<br />

170


e i sentimenti – e questa presunta inadeguatezza viene quindi spiegata come una con-<br />

seguenza della discrepanza tra la modalità di rappresentazione propria del linguaggio e<br />

la struttura della nostra vita emotiva. Ma tale spiegazione – egli precisa – è ridondante.<br />

Poiché non è vero che, per descrivere il modo in cui ci sentiamo, dobbiamo limitarci ad<br />

usare le parole del linguaggio ordinario che designano i vari tipi di emozioni, tutt’al più<br />

integrandoli facendo riferimento ad alcune delle circostanze che fanno pensare al sentimento<br />

in questione. I sentimenti del tipo al quale Langer fa riferimento nella sua discussione<br />

sul significato della musica derivano la loro articolazione e la loro complessità<br />

dai pensieri sui quali sono fondati. Di conseguenza, la descrizione di tali sentimenti<br />

può essere effettuata con precisione, specificando i pensieri che sono integrali ad essi.<br />

E dal momento che non vi sono pensieri il cui contenuto non possa essere rappresentato<br />

nel linguaggio, non vi è in linea di principio alcuna difficoltà a descrivere in maniera<br />

precisa la natura particolare di un sentimento.<br />

Sul piano del linguaggio si articola dunque buona parte del pensiero di Budd: la<br />

possibilità di una caratterizzazione linguistica della precisa natura degli stati interni, diventa<br />

un problema centrale.<br />

Budd contesta con i m<strong>ed</strong>esimi argomenti la seguente celebre frase di Felix<br />

Mendelssohn: “i pensieri che sono espressi da un brano <strong>musicale</strong> che amo non sono<br />

troppo indefiniti per essere tradotti in parole, ma al contrario sono troppo definiti” 255 ;<br />

dietro affermazioni di questo tipo, non si cela una semplice denuncia delle presunte carenze<br />

di una certa lingua, bensì un’impossibilità di principio che rimanda a una presunta<br />

incommensurabilità di tipo logico e dunque irriducibile tra il linguaggio da una parte<br />

e le emozioni espresse da un brano <strong>musicale</strong> dall’altra. Una concezione, questa, tipicamente<br />

solipsistica, secondo cui le emozioni nella vita (oppure nella musica) appaiono<br />

più difficilmente descrivibili di quanto non lo siano gli oggetti materiali. Budd ritiene<br />

che tale visione delle cose non è convincente, argomentando che anche se è plausibile<br />

ammettere che le capacità espressive della musica ecc<strong>ed</strong>ano in qualche misura quelle<br />

della lingua ciò non vuol dire che esse non potrebbero mai essere espresse in virtù della<br />

presunta mancanza di corrispondenza tra la natura determinata delle emozioni e quella<br />

indeterminata del linguaggio. Altrove afferma, ad ulteriore conferma, che anche quando,<br />

per effetto di certe carenze del linguaggio, alcuni concetti non presentino un corrispettivo<br />

significato referenziale, tali carenze potrebbero essere emendate ricorrendo exnovo<br />

ad un termine adatto.<br />

255 F. Mendelssohn, Lettera a Marc André Souchay, Berlin, 5 October, 1842,<br />

171


Al m<strong>ed</strong>esimo principio è improntato il suo rifiuto nei confronti delle teorie me-<br />

taforiche che pretenderebbero di “catturare” il senso dell’indicibile traendolo da<br />

un’originaria condizione di indeterminatezza per portarlo all’evidenza del linguaggio<br />

positivizzando il carattere di vaghezza del discorso metaforico. Budd non riconosce va-<br />

lore a idee di questo tipo, poiché la concettualizzazione categoriale è per lui indipen-<br />

dente rispetto alla formulazione linguistica che la porta all’evidenza del linguaggio, e<br />

in fondo la sua polemica con Goodman sembra rimandare in ultima analisi proprio al<br />

disconoscimento di quel valore speciale della metafora che coinciderebbe con la possi-<br />

bilità stessa di esperire e non semplicemente nominare, etichettandoli, nuovi domini di<br />

riferimento, altrimenti inattingibili e dunque necessariamente metaforici.<br />

In polemica con Scruton, Budd respinge in particolare l’idea che le nozioni di<br />

movimento e azione 256 possano essere applicate alla musica metaforicamente, pur rico-<br />

noscendo che nell’ascolto <strong>musicale</strong> c’è qualcosa in più rispetto a una semplice perce-<br />

zione di suoni, ma qualunque sia questa cosa, non esiste ragione perché non possa esse-<br />

re detta secondo le regole di significazione del linguaggio ordinario. Budd ritiene in-<br />

soddisfacente l’assunto secondo cui movimento e azione sono metaforici, poiché una<br />

tale teoria non spiega ciò che dovrebbe spiegare se non è dotata di una motivazione in<br />

grado di individuare lo scopo; motivazione della quale il pensiero di Scruton evidente-<br />

mente è privo.<br />

L’individuazione dello scopo di una metafora consiste nell’esplicazione del suo<br />

significato; conseguentemente perché una metafora possa definirsi tale deve, sostiene<br />

Budd, poter essere convenientemente parafrasata, ma una proposizione come “la musica<br />

è triste” non può essere parafrasata perché il suo scopo non può essere catturato<br />

senza il riferimento al carattere emotivo dell’espressività della musica: la parola “triste”<br />

non può essere eliminata dalla descrizione della metafora della quale costituisce il<br />

pr<strong>ed</strong>icato trasposto, ovvero non può essere sostituita. Una parafrasi di essa non potrebbe<br />

comunque non contenerla, e dunque conclude Budd è come dire la stessa cosa con<br />

altre parole. Budd sembra raggiungere in tal modo, con successo, lo scopo di dimostrare<br />

come quello della metafora sia in fondo un problema tautologico, ma da questo de-<br />

256 M. Budd, Music and the Communication of Emotion, cit., pag. 132. «Se la funzione di una metafora è<br />

quella di indicare una qualche somiglianza tra M e E o un’espressione corporea o vocale di E, allora<br />

l’esperienza può essere caratterizzata come la percezione di tale somiglianza. Ma l’effetto di una siffatta<br />

mossa è quello di abbandonare, piuttosto che risollevare, la spiegazione metaforica proposta. Poiché se è<br />

possibile esplicitare lo scopo della metafora e utilizzarlo per fornire una caratterizzazione indipendente<br />

dell’esperienza allora la nozione di metafora non ha un ruolo fondamentale nella specificazione della natura<br />

dell’esperienza. Pertanto la spiegazione dell’esperienza nei termini della metafora o è emendabile<br />

oppure non è illuminante».<br />

172


stino sembra non sfuggire la sua stessa spiegazione poiché più avanti suggerisce l’idea<br />

che per superare questa impasse, la parafrasi potrebbe a sua volta contenere essa stessa<br />

termini metaforici, a patto che questi non costituiscano parte della metafora alla quale<br />

essa sta come parafrasi, e così rimandando evidentemente all’infinito la soluzione del<br />

problema.<br />

Per i sostenitori delle tesi metaforiche (Goodman in particolare) 257 questo non è<br />

un metodo adatto per analizzare la questione, ma solo un punto di vista, poiché la non<br />

parafrasabilità di tali descrizioni, piuttosto che mettere in discussione lo status di meta-<br />

fore, rivela invece i limiti del linguaggio letterale ai quali il ricorso alla metafora è un<br />

tentativo di rim<strong>ed</strong>iare. Questo passaggio ci dà modo di ritornare ancora una volta sulla<br />

circostanza, qui particolarmente esemplare, di come l’impossibilità di pervenire a un<br />

accordo, sia frutto di un errore che sta alla base: quello di considerare il linguaggio me-<br />

taforico e quello letterale come i campi di due domini inconciliabili di significazione<br />

linguistica, e di come l’insistita e colpevole miopia a voler interpretare di volta in volta<br />

l’uno nei termini concettuali dell’altro finisce inevitabilmente per determinare un cor-<br />

tocircuito. Lo stesso Davidson a cui Budd fa riferimento si mostra molto meno interes-<br />

sato alla questione della parafrasabilità di quanto non possa sembrare, limitandosi pru-<br />

dentemente a collocare il problema in una posizione più defilata rispetto ai problemi<br />

sostanziali posti dalla questione metaforica 258 , e concludendo infine che la metafora<br />

non presenta rispetto al linguaggio letterale alcun tipo di problema specifico tale da ne-<br />

cessitare il ricorso a un trattamento speciale rispetto ai casi ordinari.<br />

Ritornando alla questione centrale è interessante per noi soprattutto rilevare<br />

come l’adozione di una tesi isomorfica consenta a Budd di invalidare una volta per tut-<br />

te tesi metaforiche necessarie (la tesi della necessità metaforica), come ad esempio<br />

quella già esaminata di Scruton. Nello specifico l’idea cui Budd manifesta una particolare<br />

attenzione è una delle prime tesi isomorfiche comparse nella storia della riflessione<br />

filosofica sulla musica. Si tratta della tesi di Carroll Pratt. Ci preme precisare che<br />

257 «L’applicazione metaforica dei termini ha l’effetto, e spesso lo scopo, di tracciare significativi confini<br />

che agevolano il superamento di abitudini logorate dall’uso e di selezionare nuove specie importanti per<br />

le quali non abbiamo ancora descrizioni letterali semplici e familiari». Cfr. N. Goodman, Metafora come<br />

luce della luna, cit. pag. 156.<br />

258 «Concordo con l’opinione che le metafore non possono essere parafrasate, ma penso che ciò sia vero<br />

non perché le metafore dicano qualcosa di troppo inconsueto per essere espresso letteralmente, bensì<br />

piuttosto perché non c’è in esse niente da parafrasare. Possibile o no la parafrasi attiene a quanto viene<br />

detto, nella parafrasi si tenta di dire la stessa cosa in un altro modo. Ma, se v<strong>ed</strong>o giusto, una metafora<br />

non dice nulla al di la del suo significato letterale […] Infatti una metafora dice solo ciò che esibisce apertamente:<br />

di solito una falsità palese o una verità assurda. E questa verità o falsità ovvia non ha bisogno<br />

di parafrasi alcuna: il suo significato è dato dal significato letterale delle parole». Cfr. D. Davidson,<br />

Che cosa significano le metafore, cit., pp. 137 e 149.<br />

173


l’applicazione alla musica di una siffatta tesi isomorfica, derivata dagli studi prima<br />

scientifici e successivamente psicologici, era già stata operata da Riemann il quale<br />

nell’opera Wie hören Wir Musik? scrive: «In verità, non è affatto questione di esprime-<br />

re emozioni perché … la musica solo commuove l’animo in modo analogo a quello in<br />

cui lo commuove l’<strong>emozione</strong>, senza tuttavia pretendere in alcun modo di farla sorgere<br />

(<strong>ed</strong> ecco perché non significa nulla il fatto che effetti del tutto eterogenei abbiano for-<br />

me dinamiche simili, e possano perciò esser “espressi” dalla stessa musica, com’è già<br />

stato osservato, e molto giustamente da Hanslick) …» 259 .<br />

Tale teoria è quella successivamente sviluppata da Pratt, il quale (evidentemente<br />

in modo affatto indipendente da Riemann) è venuto alla conclusione che la musica<br />

né causa, né elabora sentimenti reali, ma produce certi effetti peculiari che noi scambiamo<br />

per sentimenti. La musica ha il suo speciale carattere uditivo che, «intrinsecamente<br />

contiene certe proprietà, le quali, in grazia della loro stretta somiglianza con certe<br />

caratteristiche del dominio soggettivo, vengono frequentemente confuse con vere e<br />

proprie emozioni» 260 , ma «queste caratteristiche uditive non sono affatto emozioni:<br />

semplicemente, suonano come gli stati d’animo sentono 261 … Più spesso che no, queste<br />

caratteristiche della musica non hanno un nome: sono semplicemente ciò che la musica<br />

è …» 262 . È il caso di precisare che è questa la tesi di Pratt cui ancor prima di Budd<br />

si era ispirata e aveva guardato Langer, la quale, muovendo dagli esiti particolari degli<br />

studi gestaltici e per l’appunto dalla tesi isomorfica di Pratt, cui non manca di fare esplicita<br />

menzione nell’opera Filosofia in una nuova chiave, ripensa le funzioni<br />

dell’isomorfismo. Esso si traduce in una somiglianza tra la morfologia del feeling umano<br />

e le proprietà strutturali-formali della musica, più che in una somiglianza tra il movimento<br />

in musica e i movimenti del e nel corpo, per come l’analogia si configura nella<br />

concezione di Pratt. Anche per Langer infatti l’espressività della musica non è il risultato<br />

del trasferimento dei sentimenti che qualcuno ha sentito né tantomeno è da intendersi<br />

come residuo emotivo delle impressioni che ha destato in noi l’ascolto, piuttosto<br />

evidenzia energicamente Langer: «formulazione e rappresentazione di emozioni, stati<br />

d’animo, tensioni mentali e risoluzioni: un “ritratto logico” della vita senziente e responsiva,<br />

una fonte di intendimento, non una richiesta di simpatia. I sentimenti rivelati<br />

dalla musica non sono essenzialmente, “la passione, l’amore o il desiderio del tale o del<br />

259<br />

H. Riemann, Wie Hören wir Music? (Come ascoltiamo la musica?), Leipzig, 1888, pp. 22-23.<br />

260<br />

C. C. Pratt, The Meaning of Music, New York and London, McGraw-Hill Book Co., 1931, pag. 191.<br />

261<br />

Corsivo mio.<br />

262<br />

Ivi, pag. 203.<br />

174


tal altro”, un invito a metterci nei suoi panni, ma sono direttamente presentati alla no-<br />

stra intellezione, sì che possiamo afferrare, realizzare, comprendere questi sentimenti<br />

senza pretendere di averli, o imputarli a qualcun altro. Proprio come le parole possono<br />

descrivere eventi di cui non siamo testimoni, luoghi e cose che non abbiamo visto, così<br />

la musica può presentare emozioni e stati d’animo che non abbiamo sentito, passioni<br />

che non avevamo prima subìto. Il suo soggetto è lo stesso che nell’autoespressione e i<br />

suoi simboli possono addirittura esser mutuati occasionalmente, dal dominio dei sintomi<br />

espressivi; ma gli elementi suggestivi così mutuati sono formalizzati e il soggetto<br />

“distanziato” in una prospettiva artistica» 263 . Sulla scia inoltre di quell’anima formalista<br />

di matrice hanslickiana che ha animato anche lo spirito di Pratt, e che però rivendica<br />

la necessità di ripensare la “forma” in un’accezione più significativa, troviamo anche il<br />

riferimento di Langer al motivo (decorativismo) come esp<strong>ed</strong>iente organizzativo delle<br />

opere d’arte figurativa. “I motivi – scrive Langer, tentando di dimostrare che qualsiasi<br />

forma di arte figurativa ha in sé l’anima del decorativismo – sono esp<strong>ed</strong>ienti organizzativi<br />

che mettono in moto l’immaginazione dell’artista e ‘motivano’ l’opera in un senso<br />

genuino. Essi la orientano e ne guidano lo sviluppo” 264 . Come evidenziato da Vizzardelli,<br />

«I motivi, in questa visione, rispondono ad un bisogno di astrazione che, pure, resta<br />

congeniale alla nostra intuizione dello spazio essendo guidato dall’interesse per la<br />

percezione dei ritmi e delle dinamiche emotive. Per questo la composizione grafica non<br />

è una copia di impressioni visive dirette, ma è il modo di foggiare queste impressioni<br />

secondo i ritmi della forma vitale, è simbolizzazione originaria. I motivi non agiscono<br />

come immagini riproduttive della realtà, sono piuttosto delle finestre artificiali che<br />

danno accesso ad un mondo interm<strong>ed</strong>iario, ad un mondo in cui si assiste ad uno scambio,<br />

ad una conversione interno-esterno, ad una intercettazione di piani distinti ma isomorfici»<br />

265 .<br />

263<br />

S. Langer, Filosofia in una nuova chiave, cit., pag. 286. In Feeling and Form poi così scriveva a tale<br />

proposito: Le strutture tonali che noi chiamiamo “musica” hanno una stretta somiglianza logica con le<br />

forme del sentimento umano: forme di sviluppo e decrescenza, di flusso e di accumulo, di conflitto e soluzione,<br />

di rapidità, arresto, somma eccitazione, calma o attivazione sottile e cadute nella sfera del sogno;<br />

non gioia e dolore, forse, ma il mordente dell’una o dell’altro o di entrambi; la grandezza e brevità e<br />

l’eterno trascorrere di tutto ciò che è vitalmente sentito. Questo lo schema, o la forma logica del sentire;<br />

e lo schema della musica è quella forma stessa, elaborata nella purezza e nel metro del suono e del silenzio.<br />

La musica è un corrispondente tonale della vita emotiva. Una tale analogia formale, o congruenza di<br />

strutture logiche, è la condizione prima per la relazione fra un simbolo e tutto ciò che questo deve significare.<br />

Il simbolo e l’oggetto simbolizzato devono avere qualche forma in comune. Cfr S. K. Langer,<br />

Sentimento e Forma, cit., pag. 43.<br />

264<br />

S. Langer, Sentimento e Forma, cit., pag. 86.<br />

265<br />

S. Vizzardelli, Musica, cit., pag. 98.<br />

175


Le tesi isomorfiche peraltro rappresentano il terreno di incontro per Langer e<br />

Pratt, i quali citano reciprocamente e con approvazione i rispettivi scritti. Pratt però a<br />

differenza di Langer non è dell’idea che la musica sia un simbolo (non-referenziale),<br />

ma egli sostiene che essa possi<strong>ed</strong>e un carattere emozionale, oggettivo, dovuto alla similarità<br />

formale tra il movimento <strong>musicale</strong> e le sensazioni organiche e cinestesiche che<br />

sono i correlati e i determinanti delle emozioni. Scrive Pratt in un articolo del 1954,<br />

“The Design of Music” 266 : «La musica tutto al più non è simbolica … il disegno tonale<br />

non sta per niente oltre se stesso. Esso non suggerisce emozioni e sentimenti. Esso è<br />

emozioni e sentimenti. Le qualità della percezione uditiva non sono segni iconici, neppure<br />

essi per loro stesso tramite rappresentano o imitano oppure copiano qualcosa» 267 .<br />

E aggiunge: «Le emozioni e la lotta della volontà e del desiderio sono incarnati nella<br />

musica non direttamente, ma indirettamente per via di disegni tonali che somigliano<br />

fortemente nel profilo formale al movimento interno degli spiriti … Ma qui in ultimo<br />

potrebbe essere vero che la musica diventa simbolica, perché sembra significare <strong>ed</strong> esprimere<br />

la gioia e il dolore di tutto il genere umano» 268 . Secondo la tesi di Pratt, le<br />

emozioni sono “soggettive” (cioè esperite, come interne al corpo): «Il materiale<br />

dell’<strong>emozione</strong> è un processo fisico, un elaborato modello di turbamento muscolare e<br />

viscerale» 269 . La musica non può incarnare o contenere le emozioni, ma per via del suo<br />

carattere dinamico la musica può poss<strong>ed</strong>ere proprietà che sono simili a quelle delle<br />

emozioni, per tale ragione si può dire che essa possi<strong>ed</strong>e o presenta un carattere emozionale.<br />

La musica non può “significare” (cioè, riferirsi a) emozioni; piuttosto, essa possi<strong>ed</strong>e<br />

proprietà formali con un oggettivo (cioè, “esterno al corpo”) carattere fortemente<br />

simile a quello delle emozioni: «L’agitazione è sia un sentimento organico che una<br />

percezione uditiva ma nel primo caso essa è un’<strong>emozione</strong> e nel secondo essa è<br />

un’impressione sensoria terziaria – due modi psicologici dell’esperienza completamente<br />

differenti, che tuttavia, per via della similarità nella forma, sono chiamati con lo stesso<br />

nome. La confusione verbale è largamente responsabile della confusione nella teoria»<br />

270 . Gli ascoltatori possono rispondere emozionalmente alla musica, ma l’espressività<br />

della musica è indipendente dai suoi effetti. In breve, come avevamo segnalato, Pratt è<br />

un formalista che contesta agli altri formalisti, come Hanslick, di avere eccessivamente<br />

266<br />

C. C. Pratt, The Design of Music, “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 12, 289-300.<br />

267<br />

Ivi, pag. 290.<br />

268<br />

Ivi, pag. 300.<br />

269<br />

Ivi, pag. 291.<br />

270<br />

C. C. Pratt, Music as the Language of Emotion, Washington, D. C.: Library of Congress, 1952, pag.<br />

18.<br />

176


contratto la nozione di forma. La musica presenta forme che colpiscono i sensi, le quali<br />

forme sono così simili a quelle dei sentimenti, al punto che possiamo caratterizzare la<br />

musica come triste, felice, e così via.<br />

Muovendosi dal riconoscimento di quanta e quale fecondità possa avere<br />

l’intuizione di Pratt, carpita sapientemente da Langer, Budd ritorna – anche in questo<br />

caso a dispetto della critica che Scruton ha mosso alla teoria della somiglianza in The<br />

Aesthetics of Music annoverandola come una delle tre teorie più pericolose<br />

dell’espressione in musica 271 – ad accogliere l’idea fondante e principale della tesi i-<br />

somorfica di Pratt incapsulata nel famoso slogan “la musica suona nel modo in cui le<br />

emozioni sono vissute”, e concentra la sua attenzione, v<strong>ed</strong>remo adesso nel particolare,<br />

sull’idea (che sta a fondamento della tesi di Pratt appena citata) che vi sia un’analogia<br />

tra i movimenti del nostro corpo e i movimenti della musica. Secondo Budd, quella di<br />

Pratt è una delle teorie che meglio possono aiutarci a comprendere il problema<br />

dell’espressività nella musica, sebbene nemmeno essa sia esente da problemi, derivanti<br />

in ultimo della particolare caratterizzazione che Pratt dà del movimento <strong>musicale</strong>.<br />

In Music and the Emotions, Budd prende le mosse proprio dalla tesi che Pratt<br />

sviluppa nell’opera The Meaning of Music. Si tratta di un’ipotesi prettamente dualistica<br />

secondo la quale: ciò che una persona esperisce come esterno al suo corpo è per quella<br />

persona oggettivo e ciò che esperisce come appartenente oppure interno al suo corpo è<br />

invece soggettivo. Secondo questo criterio gli stati d’animo e le emozioni sono soggettivi<br />

per la persona che sente tali emozioni o stati: ciò che qualcuno prova quando egli<br />

sente preoccupazione, ansia, disagio, paura e gioia, appartiene o è interno al suo corpo.<br />

Un’<strong>emozione</strong> è soggettiva nel senso che ciò che viene sentito è localizzato all’interno,<br />

piuttosto che all’esterno, del corpo del soggetto. Quando una persona esperisce<br />

un’<strong>emozione</strong>, ella sente la contrazione della fronte, la tensione dei suoi muscoli, il san-<br />

271 In ordine, tali teorie sono: a) la teoria biografica, secondo la quale un’opera d’arte esprime uno stato<br />

della mente perché l’artista “mette nell’opera il suo stato mentale”; b) la teoria dell’evocazione: spostando<br />

l’attenzione dall’artista allo spettatore-ascoltatore, questa teoria identifica l’<strong>emozione</strong> espressa da<br />

un’opera con l’<strong>emozione</strong> indotta nell’ascoltatore. Dobbiamo invece distinguere il significato di un’opera<br />

dal suo significato per me. Dire che io associo ad un’opera <strong>musicale</strong> certi miei sentimenti, esperienze,<br />

memorie è come non dire niente sul suo carattere <strong>musicale</strong>. L’espressione appartiene invece, ci suggerisce<br />

Scruton riprendendo esplicitamente la tesi crociana della sintesi intuitiva, al carattere estetico di<br />

un’opera d’arte. Si può apprezzare l’espressività di un’opera solo prestando attenzione a essa, e ascoltando<br />

l’<strong>emozione</strong> in essa. Basta distrarsi e l’esperienza svanisce. Ma si possono apprezzare le associazioni<br />

fatte durante l’ascolto di un’opera <strong>musicale</strong> anche chiudendo la mente ad essa, anche distraendosi.<br />

Quelle associazioni sono provocate, stimolate dall’esperienza estetica, ma si estendono molto al di là di<br />

essa; c) la teoria della somiglianza: secondo questa teoria l’espressione in musica è fondata sull’analogia<br />

o somiglianza tra una struttura <strong>musicale</strong> e uno stato mentale. Scruton ritiene che la teoria della somiglianza<br />

musica-emozioni sia maldestramente al centro del dibattito estetico a partire dalle tesi di S. Langer<br />

fino alle ipotesi sviluppate M. Budd e P. Kivy. Cfr. R. Scruton, The Aesthetics of Music, cit., pag.<br />

144-148.<br />

177


gue che pulsa, o qualche altro accadimento interno o diretto al proprio corpo. Ma tal-<br />

volta parliamo degli stati d’animo e delle emozioni come se si pensasse che essi possa-<br />

no essere proprietà di fenomeni che sono per ciascuna persona oggettivi – in particola-<br />

re, come se essi possano essere proprietà della musica. Eppure non può essere letteral-<br />

mente vero che la musica incarna l’<strong>emozione</strong>, perché essa non è un corpo vivente che<br />

sente i propri processi corporei. In che modo, allora, dobbiamo intendere la descrizione<br />

della musica come agitata, calma, malinconica, s<strong>ed</strong>ucente, inquieta, pomposa, appas-<br />

sionata, triste, trionfante o bramosa 272 ?<br />

L’intento di Pratt, nell’ambito di questa riflessione, è quello di contrapporre<br />

un’alternativa alla teoria secondo la quale questi sono semplicemente stati d’animo o<br />

sentimenti che l’ascoltatore erroneamente ha trasferito da se stesso alla musica perché è<br />

diventato vittima di quella che Ruskin ha chiamato “fallacia patetica” (the pathetic fal-<br />

lacy) 273 . Ruskin ha cr<strong>ed</strong>uto infatti che le nostre emozioni possono causare una falsità<br />

nella nostra esperienza del mondo esterno. Gli oggetti fisici possono cioè assumere fal-<br />

se apparenze sotto l’influenza di violente emozioni, per questo motivo noi siamo porta-<br />

ti ad attribuire a tali oggetti caratteristiche che in realtà essi non possi<strong>ed</strong>ono. Noi attri-<br />

buiamo agli oggetti inanimati caratteristiche che sono specifiche delle cose viventi e attribuiamo<br />

ad altri tipi di cose viventi qualità che solo gli esseri umani possi<strong>ed</strong>ono. Sebbene<br />

sappiamo che le creature non-umane non possi<strong>ed</strong>ono caratteristiche specificatamente<br />

umane e che gli oggetti inanimati non sono forme di vita, le emozioni hanno il<br />

potere di farceli apparire diversamente: questi oggetti possono cioè apparire come se<br />

fossero caratterizzati da proprietà che essi sono incapaci di poss<strong>ed</strong>ere. Lo stato eccitato<br />

dei nostri sentimenti ci rende, per un certo periodo, irrazionali. Mentre la nostra ragione<br />

è temporaneamente sconvolta, immaginiamo che gli oggetti che percepiamo abbiano<br />

caratteristiche che sappiamo essi non possono avere.<br />

Se qualcuno che ascolta musica è così potentemente colpito dalla musica al<br />

punto di arrivare a pensarla come animata e a percepirla come qualcosa che è in uno<br />

stato emotivo, allora questa falsità nella sua coscienza è un esempio di tale fallacia patetica:<br />

è stata la forza dei sentimenti che lo ha spinto a proiettare nella musica<br />

l’<strong>emozione</strong> che egli sente. Secondo Budd, tuttavia, un’illusione che comporti la dislocazione<br />

dell’<strong>emozione</strong> vissuta da un soggetto in un oggetto inanimato, non è un qualcosa<br />

al quale siamo naturalmente portati a cr<strong>ed</strong>ere. Inoltre la descrizione della musica<br />

in termini emotivi, così concepita, è sempre ingiustificata: un carattere è stato erronea-<br />

272 Cfr. C. C. Pratt, The Meaning of Music, cit., 157-162.<br />

273 John Ruskin, Modern Painters, Volume III, London, 1856, Cap. XII.<br />

178


mente trasferito dall’ascoltatore alla musica, ma la descrizione della musica come<br />

gioiosa, triste o trionfante non sempre è inappropriata.<br />

Forse, allora, la descrizione emotiva della musica è semplicemente un modo fan-<br />

tasioso di parlare in cui le emozioni apparentemente attribuite alla musica dovrebbero<br />

essere intese come emozioni che sono provate dall’ascoltatore; ciò che l’ascoltatore,<br />

esprimendosi in questa maniera, vuole significare, può essere quindi vero, sebbene egli<br />

si esprima in modo ingannevole. Tuttavia questa proposta è di poco migliore di quella<br />

prec<strong>ed</strong>ente: poiché sebbene non richi<strong>ed</strong>a che l’ascoltatore esperisca emozioni così vio-<br />

lente da fargli perdere la ragione, essa invero richi<strong>ed</strong>e che provi l’<strong>emozione</strong> che egli<br />

stesso apparentemente attribuisce alla musica. Eppure non è necessario che un indivi-<br />

duo si senta trionfante, triste, allegro, affinché egli possa correttamente caratterizzare la<br />

musica attraverso i nomi di queste emozioni. Per Budd infatti, è il caso di mettere in<br />

chiaro con vigore, vale il concetto fondamentale secondo cui le qualità delle emozioni<br />

sono proprietà udibili della musica: il modo più basilare in cui esperiamo la musica<br />

quando la sentiamo come espressiva di un’<strong>emozione</strong> consiste nel sentire l’<strong>emozione</strong>, di<br />

cui la musica è espressiva, come caratterizzante la musica stessa, come quando la sentiamo<br />

come sobria, malinconica, allegra o felice: noi sentiamo l’<strong>emozione</strong> nella musica.<br />

In che modo, allora, dobbiamo interpretare l’apparente attribuzione di stati d’animo<br />

e di emozioni alla musica?<br />

La soluzione che Pratt dà a questo problema è una soluzione di tipo isomorfico,<br />

come d’altronde avevamo evidenziato, <strong>ed</strong> è una soluzione cui Budd – interessato<br />

anch’egli a contravvenire una volta per tutte a ragionamenti come quelli insiti nella teoria<br />

della fallacia patetica che spesso, cr<strong>ed</strong>iamo di comprendere, confluiscono anche<br />

nell’approdo di alcune particolari caratterizzazioni metaforiche – guarda con attenzione<br />

considerandola meritevole di ulteriori approfondimenti. L’idea di Pratt, così esposta da<br />

Budd, è la seguente:<br />

Ci sono movimenti sia del, che nel, corpo: il nostro corpo può muoversi<br />

<strong>ed</strong> è esso stesso un luogo di movimenti. Alcuni di questi movimenti<br />

vengono sentiti attraverso sensazioni organiche e cinestesiche.<br />

Il fatto che possiamo sentire cinestesicamente <strong>ed</strong> organicamente i<br />

movimenti corporei è la principale ragione per cui, per descrivere il<br />

modo in cui ci sentiamo, utilizziamo parole che indicano il carattere<br />

dinamico del movimento. Le parole ‘forte’, ‘debole’, ‘languido’, ‘agitato’,<br />

‘inquieto’, ‘tranquillo’, ‘eccitato’, ‘quieto’, ‘indeciso’, ‘grazioso’,<br />

goffo’, ‘maldestro’, ‘rapido’, ‘ritmico’ e ‘fluente’, ad esempio,<br />

possono correttamente essere usate per descrivere il modo in cui ci<br />

sentiamo. Ma queste parole si applicano ugualmente alle qualità dei<br />

179


movimenti corporei di cui facciamo esperienza. Perciò, se c’è un’altra<br />

specie di movimento che possi<strong>ed</strong>e queste stesse caratteristiche del<br />

movimento sentito nel nostro corpo, queste parole possono essere applicate<br />

con uguale efficacia ad altre specie di movimento. Di conseguenza<br />

non c’è nessuna fallacia patetica in questo uso delle parole.<br />

Ed infatti il movimento <strong>musicale</strong> possi<strong>ed</strong>e caratteristiche del tipo richiesto.<br />

Quindi, un’affermazione come “la musica è angosciata”,<br />

quando è vera, è letteralmente vera 274 .<br />

L’applicazione della nozione di movimento alla musica è, come Budd non man-<br />

ca di evidenziare, un’operazione alquanto problematica. Tuttavia la nozione di movi-<br />

mento <strong>musicale</strong> sostenuta da Pratt sembra essere più convincente di quella proposta da<br />

altri filosofi, in particolare Scruton. Entrambi prendono seriamente in considerazione la<br />

rilevanza che, nella critica <strong>musicale</strong>, i termini indicanti determinate forme di movimento<br />

rivestono. Tuttavia, mentre per Scruton tali termini hanno una necessaria valenza<br />

metaforica − il che, in virtù delle critiche prima ricordate all’idea scrutoniana<br />

dell’ineliminabilità delle metafore musicali, lo condanna al fallimento 275 − Pratt spera<br />

di risolvere il problema indicando un parallelo tra, da una parte, alcuni dei processi che<br />

ascoltiamo nella musica e, dall’altra parte, la nostra percezione del movimento tramite<br />

la vista (by sight) e la cinestesia. Il movimento fisico è un cambiamento di posizione<br />

nello spazio. Se consideriamo un semplice caso di movimento di traslazione, allora<br />

percepiremo il movimento attraverso la vista in virtù del fatto che il nostro campo visivo<br />

contiene una successione di qualità visive simili poste in differenti posizioni. Quando<br />

uno strumento <strong>musicale</strong> fa seguire, a una nota, un’altra nota avente una diversa frequenza,<br />

noi sentiamo, uno dopo l’altro, suoni simili corrispondenti a livelli di frequenza<br />

differenti. Ora, se noi accettiamo la tesi di Pratt sull’esperienza della frequenza, allora<br />

la nostra percezione uditiva della frequenza implica, fenomenologicamente,<br />

l’esperienza di una dimensione spaziale. Quindi, quando uno strumento <strong>musicale</strong> suona,<br />

in successione, delle note di frequenza differente, il nostro campo uditivo contiene<br />

qualità uditive tra loro simili e poste in una successione di posizioni differenti. Questo<br />

parallelo tra l’esperienza di una serie di note di diversa frequenza e la percezione del<br />

movimento tramite la vista è sufficiente, secondo quanto sostiene Pratt, a fornire le basi<br />

per l’attribuzione alla musica di caratteristiche proprie del movimento. La musica può<br />

contenere processi che possi<strong>ed</strong>ono proprietà simili a quelle che altri tipi di movimento<br />

propriamente detti possi<strong>ed</strong>ono. In particolare, il movimento <strong>musicale</strong> è capace di ripro-<br />

274 M. Budd, Music and the Emotions, cit., pag. 39.<br />

275 Sulle critiche di Budd alla spiegazione del movimento <strong>musicale</strong> avanzata da Scruton, si v<strong>ed</strong>a M.<br />

Budd, Musical Movement and Aesthetic Metaphors, cit.<br />

180


durre la struttura formale del movimento fisico. Il movimento <strong>musicale</strong> – che è oggetti-<br />

vo – possi<strong>ed</strong>e proprietà molto simili a quelle del movimento corporeo – che è soggettivo<br />

(per la persona avente il corpo in questione). La stretta somiglianza tra le caratteristiche<br />

dei due tipi di movimento ci autorizza ad applicare ad entrambi, e nella stessa<br />

maniera, le parole che indicano queste caratteristiche.<br />

Secondo Budd, tuttavia, il tentativo di Pratt di risolvere il problema del movimento<br />

che verrebbe percepito nell’ascolto della musica è destinato al fallimento 276 . In<br />

primo luogo, infatti, è sbagliato rappresentare le forme del movimento <strong>musicale</strong> come<br />

un’illusione percettiva; e tuttavia questo è tutto ciò che si può trarre dalla somiglianza<br />

tra l’esperienza dei suoni musicali con la percezione visiva e cinestetica del movimento.<br />

In ogni caso, l’esperienza di una serie di note di diversa frequenza non comporta<br />

l’esperienza di una variazione continua nella frequenza del suono, laddove quando un<br />

oggetto si muove attraverso il nostro campo visivo, la nostra esperienza comporta un<br />

cambiamento continuo nella posizione occupata dall’oggetto che a noi appare. In secondo<br />

luogo, non è sempre vero che, nell’ascoltare una successione di note di diversa<br />

frequenza, percepiamo un movimento verso l’alto e verso il basso. Ma la spiegazione<br />

che Pratt dà del fenomeno del movimento <strong>musicale</strong> implica che noi, nell’ascoltare ciascuna<br />

di tali successioni, dovremmo percepire un siffatto movimento. In terzo luogo, la<br />

spiegazione fornita da Pratt non è in grado di dar conto della possibilità del contrappunto:<br />

noi ascoltiamo due melodie e le percepiamo come se proc<strong>ed</strong>essero assieme, anche<br />

quando le melodie sono prodotte da strumenti aventi un timbro identico o simile. Ma<br />

l’evidente discontinuità del cambiamento nella frequenza di una successione di note ci<br />

imp<strong>ed</strong>isce di modellare l’esperienza del contrappunto sulla percezione visiva di due<br />

movimenti simultanei.<br />

Lo stretto parallelo che Pratt voleva rinvenire tra il cosiddetto ‘movimento’ nella<br />

musica e il movimento reale, in realtà, dunque, stando alle analisi fatte da Budd, non<br />

sussiste. Tuttavia, ciò non comporta la diretta dismissione dell’ipotesi di Pratt relativa<br />

al modo in cui si dovrebbe comprendere l’apparente attribuzione di proprietà soggettive<br />

alla musica: difatti, sebbene la sua ipotesi cerchi di sfruttare tale presunto parallelo,<br />

a ben v<strong>ed</strong>ere essa non necessita che la musica sia, o sia esperita come, una forma di<br />

movimento: essa potrebbe non aver bisogno di nient’altro se non del fatto che la musica<br />

possi<strong>ed</strong>a un certo numero di caratteristiche di alcune forme di movimento. È perciò<br />

necessario, secondo Budd, considerare più dettagliatamente la spiegazione che Pratt<br />

276 Le critiche che Budd rivolge alla nozione di movimento <strong>musicale</strong> sviluppata da Pratt e che ci accingiamo<br />

ad analizzare, sono ampiamente sviluppate in M. Budd, Music and the Emotions, cit., pp. 37-51.<br />

181


fornisce riguardo all’utilizzo dei termini che denotano emozioni per descrivere la musi-<br />

ca.<br />

La spiegazione si basa, come abbiamo visto, sull’affermazione secondo cui le<br />

emozioni e gli stati d’animo sono esperienze soggettive: quando noi esperiamo<br />

un’<strong>emozione</strong> oppure siamo soggetti ad uno stato d’animo, ciò che noi sentiamo (orga-<br />

nicamente oppure cinestesicamente) sono processi che coinvolgono movimenti del, oppure<br />

nel, nostro corpo. Ora, se un movimento, o una propensione al movimento, è implicato<br />

in un certo stato psicologico, ci sarà un carattere, C, del movimento, che noi<br />

sentiamo quando siamo in quello stato. E potrebbe darsi che noi diciamo di sentire C<br />

quando ci troviamo in quello stato psicologico precisamente perché questo (carattere) è<br />

proprio ciò che noi sentiamo quando siamo in quello stato. Ma questo carattere potrebbe<br />

essere poss<strong>ed</strong>uto anche da un brano <strong>musicale</strong> – nel qual caso la musica potrebbe essere<br />

propriamente descritta come C. E la descrizione della musica come C non sarebbe<br />

figurata ma letterale. La sua forza non dipenderebbe dall’applicazione primaria del<br />

termine ‘C’ ad un stato psicologico. Piuttosto, lo stato psicologico deriverebbe il suo<br />

nome da una qualità del movimento che è comune al movimento <strong>musicale</strong> e a quello<br />

fisico. Noi saremmo, e insieme sentiremmo, C; la musica non dovrebbe essere sentita<br />

come C, ma semplicemente essere C. È precisamente questo tipo di possibilità che<br />

Pratt propone come la corretta comprensione dell’uso dei termini che denotano emozioni<br />

per descrivere la musica.<br />

Pratt presenta un numero di stati psicologici che a suo avviso possono illustrare<br />

la sua spiegazione. Uno di questi stati è l’agitazione. Quando un individuo è in uno stato<br />

di agitazione egli è tende a comportarsi in modo agitato; e se egli in effetti si comporta<br />

in modo agitato, egli sente i movimenti agitati che il suo corpo produce. Ma il carattere<br />

agitato di questi movimenti può essere condiviso da molti altri tipi di fenomeni,<br />

e in particolare dalla musica. E se un brano <strong>musicale</strong> ha questo carattere agitato, allora<br />

la sua descrizione come agitato è letteralmente vera. Un altro stato è l’irrequietezza. Se<br />

un individuo si sente irrequieto, egli non si sente in (uno stato di) quiete. Egli sente cose<br />

come un’incapacità a rimanere calmo e un aumento del ritmo della respirazione e del<br />

battito cardiaco. Più o meno gli stessi tipi o aspetti del movimento possono trovarsi nella<br />

musica: «Passaggi staccati, trilli, accenti forti, crome, rapidi accelerandi e crescendo,<br />

scosse, ampi sbalzi di frequenza – tutti questi esp<strong>ed</strong>ienti portano alla creazione di una<br />

struttura uditiva che è appropriatamente descritta come irrequieta» 277 . Pratt sostiene<br />

277 C. Pratt, The Meaning of Music, cit., pag. 198.<br />

182


che la maggior parte delle parole come ‘giocoso’, ‘capriccioso’, ‘trionfante’, ‘potente’,<br />

‘marziale’, ‘maestoso’, ‘calmo’, ‘pacifico’, ‘urgente’, ‘combattente’, ‘sconcertante’,<br />

‘tumultuoso’, ‘incerto’, e ‘ansioso’, può essere utilizzata per indicare emozioni e stati<br />

d'animo; e quando tali parole sono usate in questa maniera, esse «si riferiscono ad esperienze<br />

psicologiche che includono, tra i loro componenti, vari tipi di movimento. Nella<br />

misura in cui analoghi tipi di movimento possono presentarsi sotto forma di variazioni<br />

o relazioni di diverse tonalità, le stesse parole si applicano altrettanto bene agli effetti<br />

musicali» 278 .<br />

In breve: la musica può essere agitata, irrequieta, trionfante o calma poiché essa<br />

può poss<strong>ed</strong>ere il carattere proprio dei movimenti fisici che sono implicati negli stati<br />

d’animo e nelle emozioni a cui vengono assegnati tali nomi − i quali nomi vengono assegnati<br />

alle emozioni e agli stati d’animo suddetti precisamente perché è proprio questo<br />

carattere del movimento fisico (agitatezza, irrequietudine, ecc.) che viene sentito (avvertito,<br />

percepito) quando gli stati d’animo o le emozioni sono esperite. Per questo tipo<br />

di spiegazione è essenziale che vi siano caratteristiche del movimento che possano essere<br />

percepite in due modi differenti: attraverso il sentimento organico e cinestesico<br />

nella percezione del movimento corporeo e attraverso l’ascolto nella percezione del<br />

movimento <strong>musicale</strong>.<br />

L’irrequietezza e l’agitazione sono probabilmente i due esempi che forniscono<br />

il maggiore supporto alla spiegazione di Pratt. Qualcosa è in uno stato di irrequietezza<br />

se essa è incessantemente in uno stato di movimento. Qualcuno che è irrequieto trova<br />

difficile starsene fermo e si muoverà nervosamente. Egli può percepire l’incessante<br />

movimento del suo corpo tramite sensazioni corporee/fisiche, nel qual caso egli prova<br />

irrequietezza, oppure è consapevole della sensazione di irrequietezza. E, analogamente,<br />

la musica può essere soggetta a uno stato di incessante cambiamento. Ancora, qualcosa<br />

è in uno stato agitato se si sta muovendo in avanti e indietro o se sta tremando. Qualcuno<br />

che è agitato si comporterà in modo agitato salvo che non reprima la sua inclinazione;<br />

<strong>ed</strong> egli può sentire/avvertire i movimenti agitati che il suo corpo compie. E la musica<br />

può riprodurre in se stessa uno stato simile all’agitazione. Tuttavia, sostiene Budd,<br />

rilevando quella che a suo avviso rappresenta un’insormontabile difficoltà nell’ipotesi<br />

avanzata da Pratt, il ragionamento fatto a proposito dell’irrequietezza e dell’agitazione<br />

non sembra poter essere esteso alla maggioranza delle emozioni, degli stati d’animo, o<br />

278 Ivi, pp. 197-198.<br />

183


più in generale delle condizioni psicologiche in cui una persona può trovarsi, e che<br />

vengono normalmente attribuite − nella critica <strong>musicale</strong> − determinate composizioni.<br />

Le caratteristiche che individuano il movimento di un oggetto possono essere<br />

costituite dal numero di movimenti che esso compie, dalle parti dell'oggetto che sono in<br />

movimento, dalle modalità, dall’estensione, dalla velocità e dalla forza di ogni movimento<br />

e dalla resistenza con cui ogni movimento viene sostenuto. È solo la condizione<br />

psicologica (ovvero stato d’animo o <strong>emozione</strong>) che può essere definita da un insieme di<br />

caratteristiche di questo tipo che può accordarsi con l’ipotesi di Pratt. Ma, osserva<br />

Budd, non vi è alcun insieme di siffatte caratteristiche che definisca (tanto per fare un<br />

esempio piuttosto indicativo) l'<strong>emozione</strong> della tristezza, ovvero che specifichi ciò che<br />

una persona prova quando si sente triste, <strong>ed</strong> in relazione al quale tale sentimento sia caratterizzato<br />

come tristezza. La tristezza, infatti, è una forma di infelicità, e quando<br />

qualcuno si sente infelice non c’è nessun insieme di caratteristiche proprie del movimento<br />

corporeo che dia il suo nome a quel sentimento. Inoltre, la tristezza è un tipo<br />

specifico di infelicità: è l’infelicità che si prova per una perdita, per una sofferenza, per<br />

una delusione. E i movimenti corporei che sono indicativi di infelicità non sono in se<br />

stessi sufficienti a determinare quale sia l’oggetto dell’infelicità di cui essi sono sintomo:<br />

non vi sono movimenti fisici che sono specifici della tristezza in quanto distinta<br />

dalle altre forme di infelicità. Pertanto, la descrizione della musica come triste non può<br />

essere compresa facendo uso del modello che Pratt propone.<br />

Budd rileva che non sarebbe una replica adeguata all’argomento da lui sostenuto<br />

affermare che un certo tipo di movimento corporeo costituisce una parte, ma solo<br />

una parte, di ciò che qualcuno prova quando si sente triste. Poiché anche se questo fosse<br />

vero, non sarebbe sufficiente ad autorizzare l’attribuzione di tristezza alla musica<br />

nella maniera difesa da Pratt. Se una persona, quando si sente triste, sente o prova qualcosa<br />

in più di questo tipo di movimento, allora − in accordo col modello di Pratt − dovremmo<br />

attribuire, alla musica che incarna questo movimento, qualcosa in meno<br />

dell’intera condizione emotiva o psicologica indicata dalla parola ‘triste’. Pratt sostiene<br />

che certe parole, quando sono usate per le emozioni e gli stati d’animo, indicano esperienze<br />

psicologiche che includono tra i loro componenti varie forme di movimento. Ma<br />

la conclusione che egli trae da ciò non segue necessariamente: “Nella misura in cui analoghe<br />

forme di movimento possono essere presentate tonalmente (ovvero, sotto forma<br />

di variazioni o relazioni di diverse tonalità), le stesse parole si applicano altrettanto<br />

bene agli effetti musicali”. Se il mio petto si gonfia con orgoglio, questo fatto non rap-<br />

184


presenta una base sufficiente a farmi attribuire (la proprietà del) l’orgoglio ad un brano<br />

<strong>musicale</strong> che possi<strong>ed</strong>e una certa caratteristica tendenza ad espandersi/estendersi. Una<br />

forma di movimento corporeo (secondo la spiegazione di Pratt) deve infatti costituire<br />

tutto ciò che una persona sente quando esperisce una certa <strong>emozione</strong> – essa (ovvero la<br />

forma del movimento) deve anche dare/prestare il proprio nome all’<strong>emozione</strong> – affin-<br />

ché la musica che esibisce la stessa forma (di movimento) possa essere correttamente<br />

caratterizzata m<strong>ed</strong>iante il nome dell’<strong>emozione</strong>.<br />

La proposta di Pratt non è quindi in grado, secondo Budd, di fornire una soluzione<br />

generale al problema dell’apparente attribuzione alla musica di ciò che è soggettivo.<br />

Il linguaggio della critica <strong>musicale</strong> utilizza un gran numero di termini che denotano<br />

emozioni e stati d’animo, ma il modo in cui essi vengono utilizzati non può essere<br />

compreso basandosi sul modello che Pratt difende. Il difetto principale della teoria di<br />

Pratt sta, secondo quanto evidenziato dalle critiche di Budd che abbiamo ora esposto,<br />

nell’aver ristretto la base di somiglianza tra musica <strong>ed</strong> emozioni alle caratteristiche attinenti<br />

al movimento − le quali non sono fondamentali né per la prima, vista<br />

l’impossibilità di definire con esattezza la nozione di movimento <strong>musicale</strong> (se non ricorrendo<br />

alle farraginose costruzioni metaforiche), né per le seconde, dato che i movimenti<br />

percepiti nel nostro corpo non esauriscono la componente fenomenica delle nostre<br />

emozioni e dei nostri stati d’animo. La soluzione sta quindi, secondo Budd, nel ripartire<br />

dall’idea sottesa al modello isomorfico e rielaborarla in una forma più elastica,<br />

che sappia cioè dar conto della molteplicità di fattori e di elementi che possono costituire<br />

il terreno comune della musica da un lato e delle emozioni dall’altro, e che non si<br />

lasciano ridurre (come voleva invece Pratt) ad aspetti relativi al movimento percepito.<br />

Il modello isomorfico proposto da Budd trova espressione in quella che lui chiama<br />

“concezione minimale di base” dell’espressività <strong>musicale</strong>. Vale la pena, a tal proposito,<br />

riportare l’intero passo in cui troviamo un’esaustiva spiegazione di tale concezione:<br />

Il concetto minimale di base dell’espressione <strong>musicale</strong> delle emozioni<br />

risulta essere questo: quando ascoltate una certa musica come espressiva<br />

dell’<strong>emozione</strong> E − quando sentite E nella musica − voi sentite la<br />

musica come se suonasse nel modo in cui E viene vissuta 279 ; la musica<br />

è espressiva di E se è corretto sentirla in questo modo, o se il pieno<br />

apprezzamento della musica richi<strong>ed</strong>e che l’ascoltatore la senta in que-<br />

279 La frase ‘quando ascoltate una certa musica come espressiva dell’<strong>emozione</strong> E − quando sentite E nella<br />

musica − voi sentite la musica come se suonasse nel modo in cui E viene vissuta’ si può anche tradurre<br />

così: ‘quando nell’ascoltare una certa musica si pensa che sia espressione dell’<strong>emozione</strong> E − quando si<br />

sente l’<strong>emozione</strong> E nella musica −, si sente la musica risuonare nel modo in cui l’<strong>emozione</strong> E viene vissuta’<br />

.<br />

185


sto modo. Pertanto, il senso in cui sentite l’<strong>emozione</strong> nella musica −<br />

il senso in cui essa è una proprietà udibile della musica − sta nel fatto<br />

che percepite una somiglianza tra la musica e l’esperienza<br />

dell’<strong>emozione</strong> […] La spiegazione dà ragione anche di una caratteristica<br />

sovente rimarcata dell’esperienza <strong>musicale</strong>, ovvero del fatto che<br />

la musica può essere sentita come espressiva di diverse emozioni nello<br />

stesso lasso di tempo: ciò è possibile in quanto è possibile che vengano<br />

percepite simultaneamente delle relazioni di somiglianza tra<br />

sentimenti diversi, se non addirittura opposti. Inoltre essa fornisce<br />

una solida base all’idea, apparentemente paradossale, secondo cui<br />

nell’esperienza della musica noi percepiamo direttamente ciò che<br />

normalmente percepiamo indirettamente (attraverso cioè il suo manifestarsi<br />

nell’apparenza corporea), ovvero la ‘vita interiore’<br />

dell’<strong>emozione</strong>. O, nella formulazione di Schopenhauer, all’idea secondo<br />

cui la musica è una rappresentazione di ciò che non può mai<br />

essere direttamente rappresentato. Sebbene la somiglianza tra una cosa<br />

e un’altra non richi<strong>ed</strong>a che il soggetto che la percepisce debba essere<br />

consapevole di ciò in cui la somiglianza consiste, la percezione<br />

(non-creativa) di una somiglianza richi<strong>ed</strong>e che le due cose debbano<br />

essere simili in un aspetto che è responsabile della percezione. Pertanto<br />

l’<strong>emozione</strong> può essere propriamente sentita nella musica nel<br />

senso sotteso alla somiglianza trans-categoriale solo nella misura in<br />

cui la musica e l’<strong>emozione</strong> si assomigliano. Inoltre, affinché si possa<br />

giustificare la percezione di una somiglianza tra un oggetto e un altro<br />

identificando una proprietà comune attraverso la riflessione<br />

sull’aspetto manifesto dei due oggetti stessi, l’essenza della somiglianza<br />

non deve trovarsi al di sotto della soglia della consapevolezza,<br />

sì da non poter essere rilevata e resa esplicita. Perciò questo tipo<br />

di giustificazione riflessiva della percezione della somiglianza tra la<br />

musica e le emozioni richi<strong>ed</strong>e che la musica e le emozioni debbano<br />

assomigliarsi in qualche maniera (che sia) evidente. Ma l’aspetto per<br />

cui i due oggetti sono simili, e che è responsabile dell’impressione di<br />

somiglianza, potrebbe anche rimanere al sotto della soglia della consapevolezza,<br />

nel qual caso la sua rilevazione competerebbe più a<br />

un’investigazione scientifica, che non a una riflessione sugli aspetti<br />

manifesti degli oggetti» 280 .<br />

Appare dunque risuonare forte quanto mai l’eco dello slogan di Pratt, “music<br />

sounds the way emotions feel”. Questo spiega più che mai quindi il fatto che per Budd,<br />

come correttamente rileva anche Bertinetto 281 , l’analogia tra l’espressione <strong>musicale</strong> e<br />

l’espressione reale non implica l’utilizzo di metafore, ma semplicemente che l’ascolto<br />

della musica come triste è un caso reale del sentimento della tristezza. La tristezza, sarà<br />

il caso di ricordare ancora una volta, è infatti per Budd una proprietà udibile della musica.<br />

Il modello isomorfico fin qui delineato e riassunto nella concezione minimale di<br />

280<br />

M. Budd, Values of Art, cit., pag. 135-137.<br />

281<br />

A. Bertinetto, “Peter Kivy e il dibattito sul «formalismo arricchito»”, in Filosofia della musica.<br />

Un’introduzione, cit. pag. 340, nota 31.<br />

186


ase è piuttosto vicino a quello di Pratt; in entrambi vi è l’idea che l’espressività musi-<br />

cale sia ascrivibile a una somiglianza tra la musica e le emozioni; la differenza sta, co-<br />

me anticipato, nella base di somiglianza che per i due autori accomuna musica e emo-<br />

zioni. Se per Pratt tale base riguarda essenzialmente caratteristiche corporee associate<br />

al movimento, Budd ritiene che sia un errore rappresentare il ‘feeling’ proprio di<br />

un’<strong>emozione</strong>, come ad esempio l’ammirazione, il disgusto, la gratitudine, la timidezza<br />

o la nostalgia, come composto unicamente da sensazioni corporee. Una tale identifica-<br />

zione potrà apparire cr<strong>ed</strong>ibile solo se ci concentriamo esclusivamente su un numero e-<br />

siguo di casi particolari che si ritiene che siano paradigmatici − ad esempio, la paura<br />

per un pericolo imminente. In questi casi vi sono delle evidenti manifestazioni corporee<br />

che il soggetto dell’<strong>emozione</strong> esperisce: l’adrenalina, il battere del cuore, il drizzarsi<br />

dei peli, il brivido lungo la spina dorsale. Ma per la maggior parte delle emozioni e de-<br />

gli stati d’animo, le sensazioni corporee caratteristiche, se esistono, sono poche; e per<br />

quanto riguarda l’intero spettro delle emozioni, compresa la paura, se anche<br />

un’<strong>emozione</strong>, nel venire esperita, fosse sempre accompagnata da sensazioni corporee<br />

caratteristiche, queste non riuscirebbero a identificare il sentimento (feeling) proprio<br />

dell’<strong>emozione</strong>. Piuttosto, è l’attitudine valutativa, provata dal soggetto, nei confronti<br />

del modo in cui il mondo viene rappresentato, e non le sensazioni corporee che vengono<br />

patite, che rende la sua reazione una reazione emotiva e serve a definire l’<strong>emozione</strong><br />

che il soggetto prova. La verità è che le sensazioni corporee sono un elemento secondario<br />

dell’esperienza di un’<strong>emozione</strong>. I sentimenti intrinseci all’esperienza delle emozioni<br />

sono invece, primariamente, forme percepite di desiderio e di repulsione (come per<br />

l’invidia, il disprezzo o la vergogna), di dolore (come per la paura o per il cordoglio),<br />

di piacere (come per la gioia, il divertimento o l’orgoglio) e dispiacere, soprattutto il<br />

dispiacere derivante da un desiderio frustrato (come per la rabbia). Il sentimento proprio<br />

di un’<strong>emozione</strong> spesso è un fenomeno complesso, <strong>ed</strong> è costituito da più di uno solo<br />

di questi elementi. Inoltre, i sentimenti che sono coinvolti ne, ma non sono intrinseci<br />

a, l’esperienza delle emozioni, comprendono, oltre alle sensazioni corporee, i sentimenti<br />

di energia o di spossatezza (come per la gioia o la tristezza), di movimento o di impulsi<br />

al movimento (come per il tremore corporeo legato all’ansia), di inclinazioni o di<br />

impulsi all’azione (come per la collera), o di tensione o di rilassamento (come per<br />

l’eccitamento e per il sollievo).<br />

Sulla scorta di questa concezione delle emozioni, e in particolare della loro<br />

componente esperienziale − la quale, sola, può espressa dalla musica astratta, in quanto<br />

187


questa, come detto, può riflettere solo il carattere non-rappresentazionale e non-<br />

concettuale delle esperienze emotive −, Budd proc<strong>ed</strong>e ad enumerare quelle che secondo<br />

lui sono le risorse in virtù delle quali la musica è capace di rispecchiare quegli aspetti<br />

del sentimento che sono accessibili ad essa − i quali aspetti comprendono primariamen-<br />

te, lo ripetiamo, la mera realtà del desiderio e la facilità o la difficoltà con cui esso viene<br />

soddisfatto, la tensione e il rilassamento, il piacere, il dolore, la soddisfazione e il<br />

dolore nelle loro varie gradazioni, e secondariamente, le differenze nella direzione, nella<br />

magnitudo, nella velocità e nel ritmo del movimento percepito, i livelli di energia<br />

avvertita, e così via.<br />

Una prima risposa è costituita dal meccanismo che regola le melodie. Già Schopenhauer<br />

aveva a suo tempo sottolineato la corrispondenza tra l’aspetto melodico della<br />

musica (da un lato), e il processo secondo cui i desideri sorgono e vengono soddisfatti<br />

(dall’altro). Una melodia, per come la concepiva Schopenhauer, è un processo in cui<br />

c’è una progressione da un punto di riposo relativo a un altro punto dello stesso tipo: le<br />

frasi che intrecciandosi compongono la melodia, formano dei processi più brevi le cui<br />

note conclusive rappresentano il traguardo di tali frasi, ma questi traguardi sono solamente<br />

momentanei e la melodia giunge al termine solo quando essa ritorna alla nota<br />

fondamentale in maniera definitiva. Tale processo è analogo al modo in cui, per conseguire<br />

un risultato che desideriamo e che ci siamo prefissi, noi ci impegniamo strenuamente<br />

per raggiungere un traguardo interm<strong>ed</strong>io, che probabilmente raggiungeremo e<br />

dal quale saremo momentaneamente appagati, ma solo fino a che non sorge un nuovo<br />

desiderio che richi<strong>ed</strong>e di essere soddisfatto, e così via fino a che il traguardo finale viene<br />

raggiunto. Più semplicemente, possiamo dire vi è una corrispondenza naturale tra il<br />

passaggio, che è integrale alla musica tonale, da quei suoni musicali che sono in attesa<br />

di risoluzione a quelli che non lo sono, e il passaggio dagli stati di desiderio agli stati di<br />

soddisfazione, ovvero dagli stati di tensione agli stati di liberazione. Un’altra corrispondenza<br />

interessante è, secondo Budd, quella tra la dimensione della frequenza e la<br />

dimensione verticale dello spazio, e, di conseguenza, tra le successioni di note aventi<br />

una differente frequenza (rispetto alla durata e all’intensità) e i movimenti (ritmici) verso<br />

l’alto e verso il basso aventi maggiore o minore magnitudo e velocità, sì da permettere<br />

alla musica di riflettere i movimenti che vengono percepiti e che sono integrali a<br />

determinati tipi di <strong>emozione</strong> (come avviene per il tremore del corpo, che è intrinseco al<br />

sentimento di una forte ansia o agitazione). Ma le corrispondenze tra musica e emozioni<br />

non finiscono qui. I livelli di energia percepita trovano degli analoghi naturali nelle<br />

188


variazioni della forza della pulsazione <strong>musicale</strong>, del grado del movimento e della mas-<br />

sa <strong>musicale</strong>, ad esempio. Il sentimento del fluttuare o dell’essere eccitati può essere ri-<br />

specchiato dalla musica (rispettivamente) attraverso un alleggerimento della tessitura<br />

<strong>musicale</strong>, probabilmente riducendola a un’unica, e molto acuta, linea melodica, o attraverso<br />

degli aumenti di frequenza, di volume e di ritmo.<br />

In virtù di queste <strong>ed</strong> altre risorse Budd ritiene che non vi siano particolari difficoltà,<br />

almeno in teoria, a giustificare la nostra percezione di una somiglianza tra la musica<br />

e le emozioni, gli stati d’animo e i sentimenti: a tal fine è sufficiente indicare gli<br />

aspetti che accomunano entrambi, e che sono stati appena elencati e analizzati. I soli<br />

casi in cui possono sorgere delle difficoltà, sono quelli in cui la base della somiglianza<br />

si trova al di sotto della soglia della consapevolezza (come nel caso, ad esempio, del<br />

suono malinconico poss<strong>ed</strong>uto da una triade minore, in quanto opposta a una triade<br />

maggiore). Budd riconosce che, per quanto accuratamente possiamo ragionare su come<br />

la musica risuona e su come le emozioni vengono vissute, ci sono situazioni (di cui egli<br />

peraltro dà pienamente conto nella sua concezione minimale, riportata in prec<strong>ed</strong>enza)<br />

in cui potremmo non essere capaci di identificare una proprietà comune che sia responsabile<br />

della percezione della somiglianza − nel qual caso dovremmo accontentarci del<br />

fatto che si hanno delle risposte comuni.<br />

Al di là di tali casi, comunque marginali, il modello isomorfico proposto da Budd<br />

si rivela certamente più elastico di quello Pratt, essendo la ‘base di caratteristiche comuni’<br />

tra musica e emozioni indicata dal primo più vasta e più coerente (con la dinamica<br />

esperienziale delle emozioni) di quella individuata dal secondo. Ma la maggiore<br />

elasticità della teoria di Budd non si misura solo sulla estensione della suddetta base,<br />

ma anche sull’integrazione, da lui successivamente operata, della propria concezione<br />

minimale dell’espressività <strong>musicale</strong> − secondo la quale, lo ripetiamo, la nostra esperienza<br />

del sentire la musica come emozionalmente espressiva equivale alla nostra esperienza<br />

dell’ascoltare la musica risuonare nel modo in cui un’<strong>emozione</strong> viene sentita −<br />

con altre possibili concezioni. Egli riconosce infatti che esistono altre concezioni della<br />

percezione dell’espressione <strong>musicale</strong> delle emozioni, le quali sono legittimamente applicabili<br />

alla musica. La mossa successiva operata da Budd consiste quindi nel v<strong>ed</strong>ere<br />

in che modo tali concezioni ulteriori possono essere innestate sulla concezione minimale,<br />

la quale spiega la percezione dell’espressività <strong>musicale</strong> ricollegandola alla semplice<br />

percezione di una somiglianza tra la musica e i sentimenti.<br />

189


Budd guarda soprattutto alla teoria del finzionalmente vero (make-believ<strong>ed</strong>ly) 282 ,<br />

sostenuta da Kendall Walton, per il quale la frase posta nella forma “M è E” (laddove<br />

M indica un brano <strong>musicale</strong>, e E indica un termine emotivo come triste, allegro, angosciato,<br />

ecc.) più che metaforicamente è da intendersi finzionalmente. Tale teoria, spiega<br />

Budd, sembra in grado in qualche misura di approssimarsi alla sua teoria<br />

dell’espressività <strong>musicale</strong>, sebbene egli non sposi appieno la formula del make-believe<br />

nell’accezione integrale di Walton, un’accezione caratteristicamente coinvolgente in<br />

modo decisivo l’immaginazione (imagination-involving). Walton esplicita la sua teoria<br />

immaginativa dell’espressione <strong>musicale</strong> nell’articolo “What Is Abstract about the Art of<br />

Music?” 283 nel modo che segue:<br />

un passaggio P è espressivo di E se e solo se l’ascoltatore è propenso,<br />

nell’ascoltare P, a immaginare o che egli sta ascoltando l’espressione<br />

comportamentale, da parte di qualcuno, di E, oppure che egli sta<br />

prendendo coscienza dei propri sentimenti verso E.<br />

Con la teoria di Kendall Walton Budd condivide in linea generale l’enfasi posta<br />

sulle emozioni immaginate in connessione con la musica ascoltata, condivide cioè in<br />

ultima istanza l’idea di base dell’approccio del “make-believe”, vale a dire: l’idea che<br />

la musica emozionalmente espressiva è quella musica designata per incoraggiare<br />

l’ascoltatore ad immaginarsi il sopravvenire di esperienze emotive. Un’idea, possiamo<br />

facilmente comprendere, analoga sotto questo aspetto anche a quella che, abbiamo già<br />

esposto, è sostenuta da Jerrold Levinson, il quale anch’egli mette in gioco una simile<br />

ipotesi immaginativa nella sua teoria empatica dell’ascoltare la musica immaginariamente<br />

come una persona, un agente che incarna l’<strong>emozione</strong>, con la quale appunto m<strong>ed</strong>iante<br />

l’immaginazione siamo portati ad imm<strong>ed</strong>esimarci. Ora, per quanto propenso ad<br />

accogliere l’idea fondante della teoria del make-believe, Budd specifica, in Music and<br />

Communication of Emotion, che esistono diversi modi in cui la nozione di verità di finzione<br />

può essere utilizzata per spiegare il concetto dell’espressione <strong>musicale</strong> delle emozioni.<br />

Nello specifico – egli spiega – si possono distinguere tre modi particolari in<br />

282<br />

Kendall Walton, Pictures and Make-Believe, in “Philosophical Review” LXXXII (July 1973), 298-<br />

299.<br />

283<br />

Kendall Walton, What Is Abstract about the Art of Music?, in “Journal of Aesthetics and Art Criticism”,<br />

46, 1988.<br />

190


cui “M è E” potrebbe essere analizzata nei termini della nozione di verità di finzione,<br />

<strong>ed</strong> è necessario quindi determinare quale di tali modi sia quello più cr<strong>ed</strong>ibile 284 .<br />

1) In primo luogo: si consideri ad esempio l’<strong>emozione</strong> dell’angoscia. Secondo il<br />

suggerimento di Walton “M è angosciato” dovrebbe probabilmente essere inteso come<br />

“*M esprime l’angoscia (di qualcuno o di qualcosa)* (MB)” 285 . Al fondo di questa<br />

spiegazione vi è l’idea del finzionalmente vero secondo cui la musica espressiva di<br />

emozioni viene esperita come se essa sia, finzionalmente, l’espressione sonora<br />

dell’<strong>emozione</strong> di un individuo. Budd rileva che questa prima ipotesi non cattura<br />

un’importante concezione dell’espressione <strong>musicale</strong> delle emozioni, dal momento che<br />

tale idea non si applica a molta della musica che esperiamo come espressiva di emozioni<br />

e che ha valore per noi proprio in quanto la esperiamo come espressiva di emozioni.<br />

L’idea che l’<strong>emozione</strong> venga espressa attraverso il corpo di qualcuno non rientra<br />

nemmeno parzialmente nell’attitudine che, riflette Budd, abbiamo nei confronti di questo<br />

tipo di musica, vale a dire: quando sento un’<strong>emozione</strong> nella musica, la mia relazione<br />

con questa <strong>emozione</strong> non è m<strong>ed</strong>iata dall’idea che i suoni emanino dal corpo di una<br />

persona in virtù della sua condizione emotiva. Per tale ragione egli ritiene necessario<br />

quindi, diciamo così, invalidare questa prima variante e utilizzare in altro modo la nozione<br />

di verità di finzione – e, precisamente, in un modo che stabilisca una relazione<br />

più stretta tra l’ascoltatore e l’<strong>emozione</strong> che viene espressa nella musica – se il risultato<br />

finale deve essere quello di conseguire un concetto più completo dell’espressione <strong>musicale</strong><br />

delle emozioni.<br />

2) Un secondo modello esplicativo basato sulla nozione di finzione, un modello<br />

che evita qualsiasi riferimento all’espressione finzionale delle emozioni, potrebbe essere<br />

questo: “M è angosciato” deve essere inteso come “*M è angosciato* (MB)”. Ma<br />

non è chiaro come lo si dovrebbe interpretare. Se può essere letteralmente vero che<br />

qualcosa è angosciato solo se è una creatura senziente (in breve, se è un individuo), allora<br />

la definizione suggerisce la seguente lettura: “*M è un individuo che è angosciato*<br />

(MB)”. Budd tuttavia non è propenso ad esplorare questa possibilità, ritenendo che vi<br />

sia una lettura ad essa strettamente imparentata ma assai più esplicativa. Secondo<br />

quest’ultima, “M è angosciato” va inteso come “*M è un’esperienza di angoscia*<br />

(MB)”, o (il che è lo stesso) “*M è l’esperienza che un individuo ha dell’angoscia*<br />

(MB)”. Questa è una possibilità più invitante, poiché è più cr<strong>ed</strong>ibile, precisa Budd,<br />

284<br />

L’analisi di queste tre diverse modalità è svolta da Budd in, Music and the Communication of Emotion,<br />

cit., pp. 132-137.<br />

285<br />

“*p* (MB)” deve essere letto come “è finzionalmente vero che p”.<br />

191


appresentare finzionalmente la musica come l’esperienza di una persona che rappresentarla<br />

finzionalmente come una persona. Secondo questa seconda lettura<br />

dell’interpretazione finzionale, quindi, quando ascolto una musica che descrivo come<br />

‘angosciata’, io fingo che la mia esperienza di M sia un’esperienza di angoscia, oppure<br />

immagino che, nell’esperire M, io stia provando un’esperienza di angoscia. Una siffatta<br />

caratterizzazione della mia esperienza sarebbe, per Budd, invitante sotto vari aspetti.<br />

Uno di questi è che essa spiegherebbe la nostra inclinazione tanto ad affermare, quanto<br />

a negare, che esperiamo l’<strong>emozione</strong> che sentiamo essere espressa dalla musica: io esperisco<br />

davvero quell’<strong>emozione</strong>, ma solo finzionalmente. Un altro aspetto che rende appetibile<br />

la suddetta caratterizzazione è che essa spiegherebbe la nostra inclinazione a<br />

rappresentare l’espressione <strong>musicale</strong> dell’<strong>emozione</strong> come intrinsecamente particolare:<br />

il mio sentire M è un’esperienza diversa dal mio sentire qualsiasi altra cosa, sicché il<br />

mio *esperire l’angoscia* (MB) nel sentire M è un’esperienza diversa dal mio<br />

*esperire l’angoscia* (MB) nel sentire qualcos’altro. Un terzo fattore di attrattiva verso<br />

questa caratterizzazione è che essa rappresenta l’apprezzamento del lato emozionalmente<br />

espressivo della musica in modo tale da non ridurre la musica a un semplice veicolo<br />

per la comunicazione delle emozioni: se apprezzo un brano <strong>musicale</strong> in virtù del<br />

fatto che sento tale brano come espressivo di una certa <strong>emozione</strong>, ciò che sto apprezzando<br />

è la mia esperienza del sentire la musica, che equivale al mio *esperire<br />

l’<strong>emozione</strong>* (MB). Ma, a fronte di queste attrattive, Budd è dell’avviso che non sia poi<br />

così desiderabile rappresentare la mia esperienza del sentire M come angosciato in un<br />

modo tale che il mio sentire M debba equivalere al mio *esperire l’angoscia* (MB),<br />

ovvero continuare a sostenere che, quando sento M come angosciato, deve essere finzionalmente<br />

vero, relativamente a me stesso, che io sono in uno stato d’angoscia. Poiché<br />

anche se questo fosse vero, non è necessario che le cose stiano in questi termini: la<br />

musica angosciata non sempre esige che l’ascoltatore che riconosce l’angoscia sia finzionalmente<br />

angosciato. Posso certamente immaginare che la mia esperienza di un brano<br />

<strong>musicale</strong> sia un’esperienza di angoscia, e questa esperienza immaginativa può propriamente<br />

essere descritta come un’esperienza del sentire la musica come espressiva di<br />

angoscia. Ma essa non è l’unica esperienza di questo genere, e probabilmente non è<br />

nemmeno la più importante.<br />

3) Il terzo modo in cui “M è angosciato” potrebbe essere analizzato nei termini<br />

della nozione di verità di finzione, il quale modo evita anche qualsiasi riferimento<br />

all’espressione finzionale di emozioni, è anche quello preferibile per Budd. Posto nella<br />

192


sua forma semplice (questo terzo modello afferma che): “M è angosciato” deve essere<br />

inteso come “È la natura di M che fa sì che *l’angoscia viene esperita* (MB)”. In altre<br />

parole: “È finzionalmente vero che l’angoscia viene esperita, e questa verità finzionale<br />

è causata da M”.<br />

Un vantaggio di questo modello esplicativo è, certamente, sostiene Budd, che esso<br />

offre una concezione più liberale dell’esperienza del sentire l’angoscia nella musica,<br />

rispetto a quella fornita dal modello prec<strong>ed</strong>ente (anch’esso collegato all’idea di verità<br />

di finzione). Poiché, sebbene esso esiga che la mia esperienza della musica che io sen-<br />

to come espressiva dell’angoscia sia guidata dalla mia consapevolezza che è finzionalmente<br />

vero che l’angoscia viene esperita, esso non esige che debba essere finzionalmente<br />

vero che tale angoscia sia la mia, ovvero che io sia angosciato. In altre parole,<br />

chiarisce Budd in Values of Art 286 , questa terza lettura del modello finzionale<br />

dell’espressività <strong>musicale</strong> prev<strong>ed</strong>e che anziché immaginare che la vostra esperienza<br />

dell’ascolto del brano <strong>musicale</strong> sia un’esperienza del provare il sentimento, voi potreste<br />

semplicemente immaginare che quella musica sia un’istanza di quel sentimento. Questa<br />

terza ipotesi di tipo immaginativo richi<strong>ed</strong>e che voi utilizziate l’immaginazione; ma tale<br />

immaginazione non introduce all’interno di ciò che state immaginando, e, in particolare,<br />

non esige che voi concepiate l’istanza immaginaria del sentimento come se fosse la<br />

vostra. Se ci si immagina che un brano <strong>musicale</strong> sia l’istanza di un sentimento, ci si<br />

immagina dunque qualcuno che stia provando tale sentimento. Il soggetto del sentimento<br />

non deve, tuttavia, essere concepito come qualcuno in particolare − il compositore<br />

o noi stessi, ad esempio, tanto per citare i due candidati più probabili −, ma può assumere<br />

la forma alquanto indefinita di ‘persona’ immaginata nella musica.<br />

Questa terza ipotesi si innesta agilmente sul modello isomorfico rappresentato<br />

dalla concezione minimale di base: è sufficiente riconoscere che la causa del nostro<br />

immaginare, durante l’ascolto di un brano <strong>musicale</strong>, che esso sia un’istanza di una certa<br />

<strong>emozione</strong>, poggia sulla percezione, più o meno consapevole, di un certo numero di somiglianze<br />

tra certe caratteristiche strutturali del brano e il feeling interno all’esperienza<br />

dell’<strong>emozione</strong> che attribuiamo alla musica ascoltata. Ma ci sono altri due vantaggi che<br />

rendono questa terza ipotesi di tipo immaginativo particolarmente adeguata a descrivere<br />

l’espressività <strong>musicale</strong>, e che meritano quindi di essere considerati. Il primo riguarda<br />

l’annosa questione − per le teorie, come quella di Budd, che sostengono che le proprietà<br />

emotive sono proprietà che appartengono alla musica − di come dar conto del fatto<br />

286 M. Budd, Values of Art, cit., pp. 147-157.<br />

193


che, per quanto irrilevanti ai fini dell’attribuzione dei termini emotivi alla musica, le<br />

risposte emotive suscitate dalla musica espressiva di emozioni sono una forma di interazione<br />

(dell’ascoltatore con la musica) che ricorre spesso e che è dunque assai importante.<br />

Budd sostiene a tal proposito che ci sono fondamentalmente due modi in cui immaginarsi<br />

un’occorrenza di un’<strong>emozione</strong> può sollecitare una risposta emotiva: si può<br />

essere o direttamente contagiati dall’<strong>emozione</strong> che si sta immaginando durante<br />

l’ascolto di un brano, oppure si può essere colpiti da tale <strong>emozione</strong> in maniera simpatetica<br />

o antipatetica.<br />

Se esperite una risposta simpatetica all’<strong>emozione</strong> espressa, sostiene Budd, sarete<br />

ovviamente consapevoli del fatto che l’<strong>emozione</strong> alla quale state rispondendo non è reale,<br />

ma è finzionale: state solo immaginando un’esperienza di quella <strong>emozione</strong>, <strong>ed</strong> è<br />

questa <strong>emozione</strong> immaginata che vi colpisce. La vostra reazione emozionale simpatetica<br />

sarà quindi diversa rispetto a una situazione di vita reale, dove la vostra reazione si<br />

basa su una cr<strong>ed</strong>enza relativa a un effettiva occorrenza dell’<strong>emozione</strong> in una particolare<br />

persona; e lo sarà per più di un motivo. Poiché, nel caso nel caso dell’espressione <strong>musicale</strong><br />

dell’<strong>emozione</strong>, l’<strong>emozione</strong> dalla quale siete colpiti non solo è immaginata (anziché<br />

reale), ma è anche astratta e, in un certo senso, disincarnata: l’<strong>emozione</strong> non riguarda<br />

nessun determinato stato di cose e non è esperita da nessuna persona avente caratteristiche<br />

definite (età, razza, sesso, e così via). Se, ad esempio, l’<strong>emozione</strong> è quella<br />

del trionfo, si tratterà di un trionfo il cui oggetto non è specificato, così come non è<br />

specificato l’individuo al quale attribuirlo; si tratterà infatti del sentimento trionfante<br />

non di un particolare individuo, ma di una persona indeterminata, la quale è definita unicamente<br />

dalla natura dell’<strong>emozione</strong> che ella finzionalmente prova. L’<strong>emozione</strong>, qui,<br />

non ha né un oggetto definito né un soggetto definito. Pertanto la vostra risposta simpatetica<br />

all’esperienza immaginata dell’<strong>emozione</strong> consisterà unicamente in un’<strong>emozione</strong><br />

diretta verso tale <strong>emozione</strong> astratta e disincarnata: proverete un sentimento simpatetico<br />

verso la malinconia o la solitudine, oppure proverete piacere nel trionfo o nella gioia<br />

immaginarie di un’altra persona.<br />

Se la vostra risposta nei confronti dell’aspetto emozionalmente espressivo della<br />

musica rispecchia l’<strong>emozione</strong> espressa, ovvero se venite ‘contagiati’ da tale <strong>emozione</strong>,<br />

l’<strong>emozione</strong> espressa dalla musica verrà anche in questo caso esperita come astratta e,<br />

nel senso appena chiarito, disincarnata. Ma non si potrà dire che immaginerete semplicemente<br />

un’occorrenza dell’<strong>emozione</strong>: voi esperirete l’<strong>emozione</strong>, e la esperirete nella<br />

194


forma in cui essa viene espressa dalla musica. Pertanto sperimenterete come ci si sente<br />

a provare malinconia, solitudine o trionfo, senza che ricolleghiate tale sentimento a un<br />

pensiero che specifichi l’oggetto del sentimento stesso. Inoltre, sarete consapevoli del<br />

fatto che questo sentimento è prodotto in voi solo dall’immaginarvi l’<strong>emozione</strong> che una<br />

persona fittizia prova, sicché il sentimento di malinconia, solitudine o trionfo che proverete<br />

verrà da voi sperimentato non solo in una forma indefinita ovvero priva di oggetto<br />

(il che potrebbe darsi anche per i sentimenti che proviamo nella vita reale), ma<br />

anche in una forma tale che non sarà corretto descrivervi come malinconici, soli o<br />

trionfanti. Il fatto che sperimentiate come ci si sente a provare malinconia, solitudine o<br />

trionfo non implica che vi sentiate malinconici, soli o trionfanti, ovvero che vi troviate<br />

in uno stato, o condizione, di malinconia, solitudine o trionfo.<br />

L’ultimo vantaggio del terzo modello finzionale, costruito da Budd a partire dalla<br />

teoria di Walton e innestato sulla propria concezione minimale dell’espressività <strong>musicale</strong>,<br />

consiste nella sua capacità di dar conto, almeno in parte, del valore artistico della<br />

musica. Se tale valore, secondo Budd, non può ridursi alla sola presenza di proprietà<br />

espressive − in quanto, secondo lui, il potenziale artistico di un brano <strong>musicale</strong> dipende<br />

soprattutto dalla sua struttura formale-compositiva, e quindi ‘puramente’ <strong>musicale</strong> 287 −,<br />

è pur vero, egli aggiunge, che l’immaginazione delle emozioni che ha la sua base nella<br />

musica, talvolta permette all’ascoltatore di sperimentare immaginariamente la natura<br />

intima degli stati emotivi in una maniera particolarmente vivace e intensa (in virtù della<br />

complessità della composizione <strong>musicale</strong>) e quindi soddisfacente. Inoltre, un brano<br />

<strong>musicale</strong> può essere composto in una maniera tale da condurre l’ascoltatore dotato di<br />

immaginazione attraverso una successione di stati d’animo le cui vicissitudini formano<br />

un dramma dotato di una sua logica interna e che si risolve in un modo che dona una<br />

profonda soddisfazione, in quanto concludendosi comunica probabilmente il raggiungimento<br />

di un’armonia, di una pace, di una stabilità, dell’accettazione del destino e della<br />

comprensione degli eventi. Per di più, esperendo in questo modo la musica emozionalmente<br />

espressiva, l’ascoltatore rinuncia all’autonomia della propria immaginazione<br />

per consegnarsi nelle mani del compositore. Se la fiducia dell’ascoltatore è ripagata<br />

dall’ascolto, il comprendere (da parte sua) che l’esperienza dell’<strong>emozione</strong> che egli im-<br />

287 Budd cita, come esempio paradigmatico di valore artistico, il Ricercare a Sei voci di Bach. Sebbene si<br />

tratti indubbiamente di una musica splendida, il suo fascino risi<strong>ed</strong>e, secondo il filosofo americano, “non<br />

nel suo costituire l’espressione di vari tipi di stati emotivi, ma nel modo magistrale con cui Bach tratta le<br />

voci, le quali si intrecciano armoniosamente secondo schemi sempre cangianti, sicché il mondo sonoro<br />

dell’ascoltatore è caratterizzato da sviluppi multipli che cambiano in continuazione all’interno di una<br />

struttura ordinata in un modo eccezionalmente chiaro e complesso” (Budd, Values of Art, cit., p. 156).<br />

195


magina o prova (durante l’ascolto) non è unicamente la sua, ma può essere vissuta an-<br />

che ad altre persone <strong>ed</strong> è stata resa possibile dall’immaginazione creativa del compositore,<br />

sviluppa in lui un senso di comunione con le altre persone che con la sua sola e<br />

personale attività immaginativa non potrebbe raggiungere.<br />

In conclusione, possiamo rilevare come l’incessante tentativo di Budd di opporsi<br />

alla necessità della tesi metaforica rimanda all’idea di ribadire il principio della letteralità<br />

delle descrizioni emotive della musica e quindi la loro piena comunicabilità, così<br />

dimostrando anche la fallacia delle tesi solipsistiche e dei linguaggi privati come si evince<br />

(pur se con qualche esitazione) dalla presa di distanza da Langer sul piano del<br />

simbolismo presentazionale, e dal rifiuto delle riflessioni intimistiche di Mendelssohn e<br />

di Deryck Cooke. È questo forse il maggiore merito che gli va ascritto: mantenere le<br />

attribuzioni emotive alla musica sempre oltre la soglia normativa della referenzialità<br />

ordinaria − compito che egli assolve elaborando un modello isomorfico, sulla scia di<br />

quello di Pratt ma senza ricadere nelle ristrettezze di quest’ultimo. Ugualmente meritoria<br />

è la tendenza generale a mantenere un atteggiamento di cautela a fronte della consapevolezza<br />

di una realtà estremamente articolata che non sempre supporta l’univocità di<br />

regole generali; cautela che prende forma nell’integrazione, proposta da Budd, della<br />

sua concezione minimale ‘isomorfica’ di base, con un’ipotesi finzionale desunta da<br />

Walton. Come contropartita, emerge forse il rischio che, in seguito a tali integrazioni,<br />

la concezione isomorfica perda la sua specificità e quindi la sua intrinseca ricchezza di<br />

senso.<br />

196


6. Stephen Davies: le caratteristiche esteriori delle emozioni<br />

La posizione di Stephen Davies 288 , nell’opera Musical Meaning and Expres-<br />

sion, prende le mosse, come in molti altri casi che abbiamo analizzato, da una pars de-<br />

struens piuttosto dettagliata e articolata. Egli infatti considera e rifiuta una alla volta:<br />

a) le teorie descrittive della musica: l’idea cioè che la musica descriva (come il<br />

linguaggio);<br />

b) le teorie rappresentazionali, per le quali la musica ha un contenuto raffigurativo<br />

nello stesso modo in cui i quadri rappresentali/figurativi lo hanno.<br />

c) le teorie simboliche, per le quali invece la musica simbolizza (in modo distinti-<br />

vo) le emozioni; nel caso specifico, Davies si trova in netta rottura con la tesi<br />

del simbolismo di Langer e di Goodman.<br />

Ugualmente Davies resiste all’idea:<br />

a) che l’espressività della musica possa spiegarsi solamente come libera espressio-<br />

ne della personalità del compositore, sebbene a volte i compositori esprimano<br />

davvero, nell’atto del comporre, le emozioni che attraversano il proprio animo.<br />

b) che l’espressività della musica consiste nel suo potere di commuovere<br />

l’ascoltatore, anche se gli ascoltatori qualche volta sono commossi dalla musi-<br />

ca.<br />

Queste teorie infatti, per Davies, collocano il significato della musica oltre i<br />

confini del brano <strong>musicale</strong> – come se tale significato fosse un qualcosa a cui si è fatto<br />

riferimento, o che è stato denotato, o simbolizzato, o rappresentato, o sfogato, o desta-<br />

to. All’opposto, egli si dichiara favorevole ad una teoria diversa, la teoria cioè che col-<br />

loca il significato della musica all’interno dell’opera, in quanto risi<strong>ed</strong>ente nelle sue<br />

288 Stephen Davies è Senior Lecturer in Filosofia alla University of Auckland, New Zeland. Egli si è occupato,<br />

tra le altre cose, dei problemi della definizione e della valutazione dell’arte, occidentale e non<br />

(attestandosi su una posizione definibile come contestualista), nonché dell’interpretazione delle opere<br />

letterarie. Tra i suoi scritti, segnaliamo: Musical Meaning and Expression, cit.; The Philosophy of Art,<br />

Malden, Blackwell, 2006; The Expression of Emotion in Music, in “Mind”, 89, 67-86, 1980; Is Music a<br />

Language of the Emotions, “The British Journal of Aesthetics”, 23, 222-233, 1983; Attributing Significance<br />

to Unobvious Musical Relationship, “Journal of Music Theory”, 27, 203-213, 1983; Truth-Values<br />

and Metaphors, “Journal of Aesthetics and art Criticism”, 42, 291-302. 1984; The Expression Theory<br />

Again, “Theoria”, 52, 146-167, 1986; The Evaluation of Music, in “Alperson”, <strong>ed</strong>., 307-325, 1987; Review<br />

of Kivy’s Music Alone, “Canadian Philosophical Review”, 10, 368-372, 1990; The Ontology of<br />

Musical Works and the Authenticity of Their Performances, “Noûs”, 25, 21-41, 1991; Definitions of Art,<br />

Ithaca, Cornell University Press, 1991; Review of Kivy’s Sound Sentiment, “Journal of Aesthetics and Art<br />

Criticism”, 49, 83-85, 1991; The End of Art, “A Companion to Aesthetics”, Ed. David E. Cooper, Oxford,<br />

Blackwell, 138-142, 1992; Representation in Music, “Journal of Aesthetics Education”, 27, n. I,<br />

15-21, 1993; Musical Understanding and Musical Kinds, “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 52,<br />

69-81, 1994.<br />

197


proprietà intrinseche. Scrive infatti Davies: «Io sostengo, nello specifico, che le emo-<br />

zioni espresse in musica sono proprietà del brano» 289 .<br />

Ritenendo che l’espressività sia in qualche modo “incarnata” nella musica stes-<br />

sa, e comunque non riferibile, se non isomorficamente, a elementi ad essa esterni, Da-<br />

vies rientra a pieno titolo nella vasta schiera dei post-formalisti che hanno cercato fati-<br />

cosamente di affrancarsi dall’originaria asetticità dello strutturalismo hanslickiano per<br />

aprire l’esperienza <strong>musicale</strong> all’universo delle emozioni umane, marcando nello specifico<br />

l’insostituibilità delle descrizioni emotive con quelle descrizioni sensibili o dinamiche<br />

che costituivano l’orientamento suggerito da Hanslick.<br />

Molte sono le analogie riscontrabili quindi col pensiero di Kivy, molte le questioni<br />

riprese e sviluppate direttamente da Malcolm Budd e molte quelle insospettabilmente<br />

rintracciabili con le teorie metaforiche rivali, da noi già prese in esame, di Goodman,<br />

Scruton e di Zangwill.<br />

Nella sostanza si ripropongono, spesso irrisolte, le difficoltà storicamente associate<br />

a tutti i reiterati tentativi di connettere, sulla base di una logica scientifica, la struttura<br />

della musica con le categorie emozionali, difficoltà accentuate dalla rinuncia alle<br />

potenzialità offerte dalle descrizioni metaforiche e dalla continua, quasi ansiosa, riaffermazione<br />

di un problematico principio di letteralità discorsiva. In particolare, precisiamo<br />

che, il valore della concezione letterale difesa da Davies rappresenta una versione<br />

della teoria già esaminata di Budd 290 : come Budd anch’egli prende posizione infatti<br />

contro chi propende per una concezione metaforica delle descrizioni musicali.<br />

Davies si oppone, in particolar modo, a quelle teorie che ipotizzano l’idea secondo<br />

cui la musica conseguirebbe il proprio effetto espressivo in virtù di una propria<br />

tipologia di simboli, rilevando la sostanziale indicibilità di tali simbolismi, tanto nel caso<br />

di Langer che in quello di Goodman. Davies si oppone pertanto a qualsiasi tipo di<br />

sistema simbolico, più o meno ineffabile, che persegua la significazione a prescindere<br />

dall’unico sistema legittimo e pubblico: quello del linguaggio letterale, salvo poi abbracciare<br />

alla fine una soluzione che individua nell’estensione connotativa dei termini<br />

emozionali l’escamotage per tenere insieme, nei termini di ciò che potrebbe definirsi,<br />

letteralmente corretto, l’oggettività della struttura <strong>musicale</strong> con i termini che adoperiamo<br />

nella descrizione delle emozioni umane. Davies sostiene, infatti, che i termini<br />

che denotano emozioni utilizzati per descrivere determinati aspetti (o modi di apparire),<br />

sia delle persone che degli oggetti naturali o delle opere d’arte, sono parassitari rispetto<br />

289<br />

S. Davies, Musical Meaning and Expression, cit., pag. 201.<br />

290<br />

Ivi, cit., pag. 150-151.<br />

198


all’uso che di tali termini si fa per riferirsi alle emozioni che vengono vissute; essi rap-<br />

presentano cioè un uso secondario, seppur letterale, di tali termini. In tale uso seconda-<br />

rio, i termini che denotano emozioni descrivono le caratteristiche esteriori delle emozioni<br />

(characteristics emotion in appearances), <strong>ed</strong> è in tale uso che l’espressività <strong>musicale</strong><br />

risi<strong>ed</strong>e. Così scrive a tale proposito: «L’espressività della musica consiste nel suo<br />

presentare le caratteristiche esteriori delle emozioni […] Oltre a riconoscere che il parlare<br />

(ad esempio) della tristezza della musica implica un uso secondario e derivato della<br />

parola “triste”, ho sostenuto che quest’uso secondario è di un tipo a noi familiare. Esso<br />

è un uso stabilito in contesti ordinari e non-musicali in cui attribuiamo le caratteristiche<br />

delle emozioni agli aspetti esteriori delle persone, o degli animali non-umani, o degli<br />

oggetti inanimati. In tal senso, l’espressività attribuita alla musica non è misteriosamente<br />

confinata all’ambito <strong>musicale</strong> […] Le caratteristiche esteriori delle emozioni sono<br />

attribuite senza che si prendano in considerazione i sentimenti o i pensieri di ciò a<br />

cui esse sono attribuite. Questi aspetti dell’espressione non sono emozioni che sono<br />

vissute, che hanno oggetti, che implicano desideri o cr<strong>ed</strong>enze - esse non sono affatto<br />

emozioni che occorrono/sopraggiungono. Esse sono proprietà emergenti delle cose a<br />

cui esse sono attribuite» 291 .<br />

Fondamentale è infatti per Davies la distinzione tra parole che denominano le<br />

emozioni, i sentimenti e gli stati d’animo, nel loro uso primario e le parole che denominano<br />

le emozioni nel loro uso secondario. La differenza sostanziale sta nel fatto che<br />

le prime si riferiscono ad esperienze, mentre le seconde non riguardano in alcun modo<br />

l’esperienza, ma riguardano quello che Davies definisce per l’appunto le “caratteristiche<br />

esteriori delle emozioni”. Un esempio, in primis, è per Davies il carattere<br />

dell’aspetto di una persona, del suo portamento, del suo volto, o della sua voce, che a<br />

volte viene descritto utilizzando termini che denotano emozioni. Di una persona possiamo<br />

cioè dire “egli è dall’aspetto triste” oppure “egli dà l’impressione di essere triste”.<br />

Ma in casi come questi non vogliamo dire che quella persona si sente triste; né<br />

vogliamo dire che quella persona spesso si sente triste, o che immaginiamo finzionalmente<br />

che egli si sente triste. Il riferimento cioè in questi casi non è, infatti, a qualsivoglia<br />

<strong>emozione</strong>, ma all’aspetto esteriore della persona. Esse, insomma, le caratteristiche<br />

esteriori delle emozioni sono mostrate “all’esterno” senza essere “esperite all’interno”.<br />

Le caratteristiche esteriori delle emozioni sono attribuite all’aspetto delle persone e<br />

non, come invece avviene per le emozioni, alle persone stesse. È il caso dei volti che<br />

291 Ivi, cit., pag. 228.<br />

199


non sentono emozioni e non pensano pensieri; essi sono non-senzienti. Le caratteristi-<br />

che esteriori delle emozioni, a differenza delle emozioni vissute, non si riferiscono a<br />

oggetti emozionali e non implicano cr<strong>ed</strong>enze, desideri o attitudini. È in questo senso<br />

che egli ritiene, dunque, che i termini che denotano emozioni non possano applicarsi<br />

alla musica nel loro uso primario, quanto piuttosto nel loro uso secondario.<br />

Dal nostro punto di vista, accr<strong>ed</strong>itare una estensione connotativa dei termini di-<br />

scorsivi equivale evidentemente a compiere un deciso passo indietro rispetto alla ini-<br />

ziale riaffermazione del carattere logico letterale del linguaggio e suggerisce pericolose<br />

analogie con i presupposti fondativi delle principali concezioni metaforiche moderne.<br />

Nel sistema interattivo di Max Black per esempio i termini discorsivi (nomi) non si applicano<br />

come etichette alle cose, ma vanno identificati come sistemi di implicazioni associate<br />

o come (detto in altre parole) estensioni connotative 292 .<br />

Nel caso specifico, Davies sottolinea come una tale scelta non configura di per<br />

sé una metafora, e non inficia di conseguenza la validità del linguaggio letterale, dovendosi<br />

in tal modo (letteralmente) considerare certi modi di dire, che avendo smaltito<br />

nell’uso l’originaria intrinseca contraddittorietà, acquisiscono nel tempo la piena legittimità<br />

delle espressioni ordinarie. L’apertura concessa da Davies ci pare ispirata alla distinzione<br />

già prospettata da Davidson tra il significato (letterale) del linguaggio e il suo<br />

uso nella prassi discorsiva, uso che consentirebbe nel caso in questione di aggirare i limiti<br />

descrittivi posti dall’univocità denotativa, ma che ci pare ispirata alla necessità di<br />

riconoscere legittimità di diritto a ciò che si presenta già con una innegabile attestazione<br />

di fatto, allo scopo di sottrarre certe espressioni dell’uso comune dal dominio metaforico<br />

per ricondurle su un piano di letteralità.<br />

Ma in fondo anche in questo caso la distinzione appare non necessaria, la questione<br />

sembra di forma più che di sostanza: postulare un grado di letteralità interm<strong>ed</strong>io,<br />

ovvero di secondo livello per cooptare all’interno del primo (quello letterale in senso<br />

pieno) certi usuali modi di dire che si costituiscono nel tempo in consolidate realtà linguistiche<br />

atipiche per sottrarre spazi semantici al regno del metaforico, ci sembra<br />

un’operazione più politica che filosofica, dettata dall’urgenza più che dalla ragione.<br />

Urgenza di dover in qualche modo sistematizzare quelle espressioni che non rientrando<br />

a pieno titolo nei canoni della denotazione discorsiva, costituiscono certamente motivo<br />

di grave imbarazzo e, tuttavia, si rendono necessarie quando come nel caso specifico un<br />

linguaggio troppo scientifico imp<strong>ed</strong>irebbe a causa della sua rigidità di parlare di cose<br />

292<br />

Rinviamo alla trattazione della suddetta teoria già esposta nelle premesse storiche del dibattito sulla<br />

metafora.<br />

200


inanimate nei termini propri degli esseri senzienti ovvero di estendere le categorie lin-<br />

guistiche da un dominio concettuale a un altro. Ma l’operazione non è priva di rischi,<br />

poiché legittimando i casi sopradescritti, come metafore morte, Davies finisce per riconoscerne<br />

implicitamente la legittimità, almeno sotto il profilo storico.<br />

Il problema delle metafore morte introduce una questione ampiamente dibattuta<br />

tra gli studiosi: capovolgendo i termini della questione, potremmo considerare che<br />

quando una metafora smaltisce la sua iniziale contraddizione, di cui l’irriflessiva appropriazione<br />

da parte della comunità dei parlanti ne è la dimostrazione, allora avrà dilatato<br />

lo spazio semantico del linguaggio, aggiustandosi progressivamente verso la sua<br />

estrinsecazione in ragione dei modi con cui entra a far parte di quel linguaggio: nella<br />

prima fase della sua “vita” la sua caratteristica è quell’indeterminatezza, condizione<br />

necessaria che le permette di entrare in contatto con forme di realtà extra-semantiche,<br />

la seconda fase è quella che consente almeno in parte di acquisire quelle nuove conoscenze,<br />

(nuovi domini di riferimento) introducendole nel linguaggio.<br />

L’uso irriflessivo di una certa metafora potrebbe quindi non essere certificazione<br />

della sua morte, in quanto tale, ma anzi del suo compiuto passaggio dal primo stato<br />

al secondo. In altri termini, l’uso smaltisce nel tempo la caratteristica contraddizione<br />

interna tra significato esplicito (letterale) e significato implicito (metaforico).<br />

Quanto più irriflessivamente viene usata, tanto più essa avrà assolto al suo<br />

compito di estendere il confine semantico del linguaggio, nella misura in cui avrà introdotto<br />

al suo interno quelle realtà che solo nel linguaggio diventano pienamente tali,<br />

vale a dire: reali per noi. Ma il problema in definitiva ci sembra mal posto poiché indurrebbe<br />

anche in questo caso a conseguenze paradossali come quella di dover disporre<br />

di un determinato criterio per poter decidere se una metafora è viva o morta, e (sorvolando<br />

sulla pertinenza letterale dell’attribuzione di termini come vita o morte a cose inanimate),<br />

ipotizzare eventualmente livelli di vita interm<strong>ed</strong>i o stati di morte apparente.<br />

Più sensato sembrerebbe invece rendersi conto come in questo ennesimo caso il<br />

confine tra metaforicità e letteralità appare ridursi ulteriormente fino ad identificarsi unicamente<br />

con le rispettive etichette. Zangwill sostiene che non esiste un criterio discriminate<br />

per identificare le metafore vive e quelle morte, salvo ipotizzare (non senza<br />

ironia) una sorta di paradiso letterario come loro luogo di destinazione finale. Egli<br />

spiega infatti che nei discorsi sulla musica, la valenza metaforica consiste non nel suo<br />

stato di salute, bensì precipuamente nella sua proprietà di rappresentare un’<strong>emozione</strong>,<br />

201


pur in mancanza di qualsiasi riferimento a un corrispettivo stato mentale in cui agisca<br />

un’occorrenza di quel termine, quindi una sorta di immagine pura, priva di riferimento.<br />

Centrale è dunque la nozione di immaginazione che solo attraverso la rinuncia<br />

all’intenzionalità emozionale ci consente di parlare della musica nei termini di triste,<br />

allegra. L’immaginazione costituisce allo stesso modo e con le m<strong>ed</strong>esime caratteristiche<br />

il fulcro dell’idea di Davies, e si rivela via via come quell’elemento trasversale capace<br />

di subordinare imprescindibilmente a sé concezioni che pure sembrerebbero inconciliabili<br />

tra di loro: da Kivy a Scruton, da Budd allo stesso Zangwill, a Levinson<br />

l’immaginazione si rivela decisiva tanto nelle teorie incentrate sulla metafora, tanto in<br />

quelle che, al contrario, vi rinunciano optando per una descrizione letterale dei termini<br />

implicati; essa si pone come candidato principale a rivestire una funzione transcategoriale,<br />

capace di stabilire connessioni che favoriscono il passaggio da un dominio<br />

di riferimento concettuale a un altro; variamente declinata a seconda della specificità<br />

dei diversi contesti teorici, l’immaginazione (ci) consente di rilevare la presenza di una<br />

data <strong>emozione</strong> in forme che non la rappresentano in quanto occorrente o intenzionale e<br />

per le quali Kivy aveva coniato il termine di “espressivo di tristezza” contrapposto a<br />

“esprimere tristezza” che indica invece una rappresentazione ovvero una fenomenologia<br />

motivata da un corrispondente stato interno di tristezza, accompagnato sempre da<br />

ulteriori manifestazioni empiriche. Scelta, questa di Kivy, che Davies sottoscrive in<br />

pieno, riconoscendo l’acutezza della distinzione colta dal collega, e rimarcando ulteriormente<br />

con una lunga spiegazione l’importanza delle manifestazioni emotive non<br />

motivate, ovvero di una fenomenologia dell’apparenza imm<strong>ed</strong>iata e non m<strong>ed</strong>iata (che<br />

lo stesso Scruton approverebbe in pieno) 293 priva di caratteristiche riferibili a un oggetto<br />

esperito e dunque capace di declinare nei termini delle emozioni umane i discorsi<br />

sulla struttura formale della musica, superando in questo modo i limiti delle rispettive<br />

concettualizzazioni categoriali.<br />

Come nota ancora Zangwill, il metodo e l’obiettivo della riflessione di Davies<br />

non si discostano molto dai parametri tipici delle descrizioni metaforiche dei termini<br />

emotivi, eppure Davies rigetta questa attribuzione optando, come abbiamo visto, per<br />

una descrizione letterale, sia pure di secondo livello. L’impressione è che dietro la molteplicità<br />

delle sigle impiegate agisca una sola e unica realtà, una sola immaginazione,<br />

indipendente e incurante dei termini usati per descriverne o catturarne il senso.<br />

293 Si v<strong>ed</strong>a la nozione scrutoniana di “pensiero non detto”.<br />

202


Nel merito, dunque, la teoria generale di Davies è che la musica sia in prima<br />

luogo espressiva nel suo rappresentare non le istanze delle emozioni ma l’apparenza<br />

acustica di ciò che egli chiama caratteristiche delle emozioni (emotion characteristics<br />

in appearances): in particolare l’esperienza del movimento in musica sarebbe simile<br />

alla nostra esperienza di quelle forme di comportamento che negli esseri umani si ma-<br />

nifestano fenomenologicamente dando luogo ai diversi aspetti associati alle varie emo-<br />

zioni. L’espressività della musica dipende prevalentemente da una somiglianza che<br />

percepiamo tra il carattere dinamico della musica e il movimento dell’uomo: andatura,<br />

comportamento, atteggiamento.<br />

In questa particolare caratterizzazione del principio di somiglianza, Davies,<br />

consapevole che tale posizione può essere troppo facilmente riconducibile a quella già<br />

sostenuta da Kivy, puntualizza che in realtà egli non è affatto propenso a considerare<br />

l’idea, sostenuta dal collega, che la somiglianza fondamentale sia quella che la musica,<br />

per via di elementi come la cadenza, l’intonazione, la frase, il timbro, il tono e la tessi-<br />

tura, intrattiene con la voce umana (considerata nel suo aspetto fenomenico, ovvero in-<br />

dipendentemente dal contenuto di un eventuale atto comunicativo verbale). Scrive Davies<br />

a riguardo: «dal momento che la musica è un’arte del suono, si potrebbe pensare<br />

che la musica presenti le caratteristiche proprie delle emozioni per via della somiglianza<br />

con alcune proprietà che si manifestano nell’espressione vocale delle emozioni occorrenti.<br />

Tale concezione è difesa in Kivy (1980), e non vi è dubbio che in essa vi sia<br />

qualche verità, sebbene io pensi che tale somiglianza spieghi solo una piccola parte<br />

dell’espressività. Per le mie orecchie, la somiglianza tra la musica e la voce è tenue. Allo<br />

stesso modo, trovo ci sia poca somiglianza tra la musica e il volto umano, sebbene i<br />

volti siano tra i principali elementi che presentano non solo le espressioni di emozioni<br />

vissute ma anche di caratteristiche esteriori delle emozioni» 294 .<br />

In realtà, secondo Davies, nell’ascoltare la musica noi percepiamo il movimento,<br />

e tale movimento presenta delle somiglianze con i movimenti che conferiscono a<br />

una persona il suo portamento o la sua andatura, e che sono a loro volta le manifestazioni<br />

esteriori di determinati sentimenti e stati d’animo. In realtà, secondo Davies,<br />

nell’ascoltare la musica noi percepiamo un movimento, e tale movimento presenta delle<br />

somiglianze con i movimenti che conferiscono a una persona il suo portamento o la<br />

sua andatura, e che sono a loro volta le manifestazioni esteriori di determinati sentimenti<br />

e stati d’animo. Pertanto, l’espressività della musica dipende prevalentemente da<br />

294 S. Davies, Musical Meaning and Expression, cit., pag. 229.<br />

203


una somiglianza che percepiamo tra il carattere dinamico della musica e il movimento<br />

dell’uomo − la sua andatura, il suo portamento, il suo atteggiamento, e così via. Una<br />

siffatta definizione di espressività richi<strong>ed</strong>e degli ulteriori chiarimenti. In primo luogo,<br />

ci si potrebbe chi<strong>ed</strong>ere: in che senso possiamo parlare di movimento nella musica? Se<br />

non si vuole ricorrere a spiegazioni metaforiche (che, come si è visto, presentano non<br />

pochi problemi, primo fra tutti quello di identificare cos’è che, nello spazio <strong>musicale</strong>, si<br />

muove da una posizione a un’altra), come quella offerta da Scruton, è necessario cercare<br />

altre ipotesi esplicative. La soluzione di Davies è, in sintesi, la seguente: si può parlare<br />

di movimento non solo in riferimento a elementi che occupano posizioni nello spazio<br />

e che si spostano da una posizione all’altra, ma anche in riferimento a processi puramente<br />

temporali, in cui non c’è nessun individuo che cambia la sua posizione nello<br />

spazio, e non c’è nulla che si muove da uno posto ad un altro. Che l’uso dei termini che<br />

denotano movimento sia legittimo anche per tali processi, è confermato dal fatto che il<br />

tempo stesso è frequentemente descritto in termini spaziali: c’è lo scorrere del tempo;<br />

c’è il passare del tempo; il tempo si evolve; le cose accadono a tempo debito. Analogamente,<br />

diciamo che un fiume è in costante movimento, o che ci possono essere movimenti<br />

politici per la guerra nel M<strong>ed</strong>io Oriente, o ancora, che l’indice del Dow Jones<br />

reagisce (a un certo evento) scendendo verso il basso. Tali usi sono secondari ma del<br />

tutto frequenti e legittimi, e, cosa importante, per nulla metaforici, in quanto legati<br />

all’idea di processi temporali. Ora, essendo la musica un’arte del processo temporale,<br />

ad essa possiamo applicare la stessa nozione di movimento:<br />

Un tema è costituito dal movimento nel modo in cui il progresso<br />

dell’indice del Dow Jones lo è. Il progresso dell’indice del Dow Jones<br />

può essere rappresentato con un grafico, ma le coordinate attraverso<br />

cui il movimento è registrato non sono nello spazio reale (anche<br />

se la rappresentazione grafica lo è; si confronti questa rappresentazione<br />

grafica con la notazione <strong>musicale</strong>). L’indice del Dow Jones può<br />

essere contrapposto all’indice del New Zealand di Barclay dello stesso<br />

periodo; molti processi temporali sono intrecciati tra loro in molteplici<br />

modi (si confronti questo con l’armonia e la polifonia). L’uso<br />

dei termini relativi alla posizione e al movimento concernenti la musica<br />

è forse secondario, ma questo non implica che tali termini operano<br />

come metafore vive. Lo stesso uso secondario è comunemente diffuso<br />

al di fuori del contesto <strong>musicale</strong>, come ho indicato, e il dire che<br />

una nota è più alta di un’altra nota non è più metaforico, a mio avviso,<br />

del dire che l’indice Dow Jones è in rialzo. Il movimento <strong>musicale</strong><br />

differisce dal paradigma (dello spostamento spaziale) introdotto sopra<br />

perché il movimento è quello di un processo nel tempo, non perché il<br />

movimento <strong>musicale</strong> è aberrante o di tipo speciale. Nei casi che riguardano<br />

la musica, è possibile negare l’appropriatezza di tale carat-<br />

204


terizzazione, o negare l’oggettività del fenomeno esperito, solo rimettendo<br />

in discussione le descrizioni e le esperienze, assai diffuse e<br />

consuete, di fenomeni non-musicali. Inoltre, la descrizione della musica<br />

in tali termini non sembra essere eliminabile; dubito che qualcuno<br />

possa parlare della tonalità, o della chiusa finale di una sinfonia di<br />

Beethoven, ad esempio, senza far ricorso alle nozioni di spazio o di<br />

movimento 295 .<br />

In secondo luogo, rimane da spiegare per quale speciale criterio la somiglianza<br />

rilevante ai fini dell’attribuzione di proprietà espressive alla musica sia quella tra il<br />

movimento <strong>musicale</strong> e le caratteristiche esteriori del movimento umano. La tesi di Da-<br />

vies è che vi siano delle proprietà del movimento <strong>musicale</strong> che aiutano ad attirare la<br />

nostra attenzione sulle somiglianze con la vita emotiva. Nello specifico, l’idea è che il<br />

movimento <strong>musicale</strong> attira la nostra attenzione sull’espressività perché, come l’azione<br />

e il comportamento umani (e diversamente dai processi causali), esso esibisce ordine e<br />

finalismo. Il movimento <strong>musicale</strong>, in questo senso, è rivestito di umanità (ovvero, pre-<br />

senta sembianze umane) non semplicemente perché la musica è creata <strong>ed</strong> eseguita da<br />

esseri umani, bensì perché essa fornisce un senso di unità e di conformità a scopo. Noi<br />

riconosciamo, nel proc<strong>ed</strong>ere della musica, una logica tale che ciò che segue deriva naturalmente,<br />

senza essere determinata, da ciò che prec<strong>ed</strong>e; in questo, il movimento <strong>musicale</strong><br />

è più simile all’azione umana che al movimento casuale o ai movimenti totalmente<br />

determinati di un meccanismo non-umano. Questa proprietà della musica, ritiene<br />

Davies, deriva dal carattere degli stessi materiali musicali, e non solamente dal riconoscimento<br />

del fatto che le mani umane plasmano questi materiali − in particolare, egli<br />

sottolinea l’importanza della tonalità nel conferire al movimento <strong>musicale</strong> il suo carattere<br />

teleologico 296 . Detto in altri termini, l’idea dell’espressività anche per Davies passa<br />

indubbiamente, come abbiamo visto anche per Kivy, Budd, da una fenomenologia propria<br />

della struttura <strong>musicale</strong>, qui presentata come dimensione acustica dello spazio e<br />

295 Ivi, pp. 235-6.<br />

296 “Nella musica tonale, la tonica è percepita nell’ascolto come centro, ovvero come un punto di riposo.<br />

Le note che non costituiscono la tonica sono percepite nell’ascolto come attratte verso di essa, e la forza<br />

dell’attrazione dipende dalla posizione della nota nella scala, dalla sua “distanza” dalla tonica. Per esempio,<br />

nella scala maggiore, melodicamente la nota principale è quella più fortemente attratta verso la tonica.<br />

Gli accordi sono comparativamente tesi o rilassati (discordanti o concordanti) in relazione all’accordo<br />

tonico; la dissonanza tende verso una risoluzione. Di conseguenza, l’andamento della musica, il suo movimento,<br />

corrisponde a un’esperienza di aumento o di diminuzione della tensione, di spinta e di trazione,<br />

di impulso e di decadimento, <strong>ed</strong> esso giunge al termine con l’arrivo della tonica finale.” (Ivi, p. 236).<br />

Davies riconosce tuttavia che possono esistere dei modi di organizzare i materiali musicali, diversi da<br />

quelli tradizionalmente tonali che dominano la musica classica occidentale, e tali da poter essere usati<br />

per creare delle strutture musicali che siano percepibili come coerenti − altrimenti gran parte della musica<br />

contemporanea occidentale (perlomeno quella atonale) e molte tradizioni musicali non-occidentali<br />

non avrebbero alcun senso, il che è alquanto improbabile.<br />

205


del movimento musicali 297 . Anzi è proprio in questa direzione – non ci sembra indebito<br />

evidenziare – che i post-formalisti odierni cercano di conciliare i tratti di un arido for-<br />

malismo con la dimensione espressiva che gli stessi hanno riconosciuto alla musica.<br />

Vogliamo evidenziare inoltre che questa idea del movimento in relazione alla musica<br />

ricorre frequentemente nella letteratura odierna e non, interessanti soprattutto la caratte-<br />

rizzazione di spazio e del movimento <strong>musicale</strong> come “ideali” (da Edmund Gurney) op-<br />

pure “virtuali” (in Langer), oppure “metaforici” (in Pratt).<br />

Un ultimo chiarimento ci preme effettuare, per completare il quadro della teoria<br />

dell’espressività <strong>musicale</strong> delineata da Davies. Le caratteristiche esteriori delle emo-<br />

zioni sono, come abbiamo visto, del tutto slegate da pensieri, cr<strong>ed</strong>enze o desideri; esse<br />

esprimono la componente fenomenologica e non-intenzionale delle emozioni (pur non<br />

essendo necessariamente la loro conseguenza diretta), e possiamo riconoscere tali e-<br />

spressioni (ad esempio la gioia) in soggetti che non conosciamo affatto (ad esempio os-<br />

servando una persona che ride di gusto, pur ignorando il motivo della sua risata). Ciò<br />

ha delle importanti conseguenze, in quanto delimita considerevolmente il campo delle<br />

emozioni che possi<strong>ed</strong>ono delle manifestazioni esteriori specifiche; di certo non vi rien-<br />

trano emozioni “elevate” come la speranza, l’imbarazzo, la perplessità, l’irritazione, o<br />

l’invidia (per l’identificazione delle quali abbiamo bisogno non solo di determinate<br />

manifestazioni esteriori, ma anche della conoscenza degli oggetti a cui esse sono rivol-<br />

te). Vi rientrano invece emozioni meno raffinate come la tristezza e la felicità, considerate<br />

però genericamente e non nelle loro forme particolari (come la depressione, la malinconia,<br />

l’avvilimento da un lato, o il godimento, l’euforia, il buon umore dall’altro),<br />

le quali sono distinguibili solo in relazione alla natura dei loro oggetti formali. Ciò significa<br />

che, tornando alla teoria dell’espressività <strong>musicale</strong> di Davies, la gamma di emozioni<br />

che la musica, quando viene ascoltata, presenta nella maniera appena esposta,<br />

e di cui quindi può essere espressiva, è ristretta a quelle emozioni o stati d’animo aventi<br />

espressioni comportamentali caratteristiche, ovvero la tristezza o la felicità considerate<br />

in generale (il che si accorda, secondo Davies, in maniera piuttosto precisa con la nostra<br />

esperienza dell’espressività <strong>musicale</strong>, dal momento che tale esperienza consiste, a<br />

suo avviso, nel trovare l’espressività all’interno del brano e nel considerare il carattere<br />

di tale espressività solitamente come alquanto generale).<br />

In conclusione ci preme rilevare che l’analogia avvalorata da Davies risi<strong>ed</strong>e nella<br />

maniera in cui queste somiglianze sono esperite, piuttosto che essere fondata su una<br />

297 Ivi, pp. 229-240.<br />

206


qualche inferenza che cerchi di stabilire una relazione simbolica tra alcune componenti<br />

specifiche della musica e alcuni particolari frammenti del comportamento dell’uomo.<br />

Somiglianze cioè che si danno percettivamente nell’imm<strong>ed</strong>iatezza. Quando si ascolta la<br />

musica, le emozioni cioè sono percepite come appartenenti ad essa, così come gli a-<br />

spetti esteriori delle emozioni sono presenti nel comportamento, nell’atteggiamento e<br />

nell’andatura dei nostri simili e di altre creature viventi. La tristezza della musica è una<br />

proprietà dei suoni dei brani musicali. Ecco perché non c’è, secondo Davies, alcun bi-<br />

sogno di descrizione, o di rappresentazione, o di simbolizzazione, o di altri tipi di deno-<br />

tazione che connettano l’espressività <strong>musicale</strong> a delle emozioni occorrenti, poiché il ca-<br />

rattere espressivo della musica risi<strong>ed</strong>e all’interno della sua propria natura.<br />

In tal senso possiamo anche adesso comprendere meglio la polemica di Davies<br />

con Goodman, per il quale ciò che è espresso da un’opera d’arte è metaforicamente e-<br />

semplificato. Ciò che esprime tristezza è metaforicamente triste. E ciò che è metafori-<br />

camente triste è realmente ma non letteralmente triste, cade cioè sotto un’applicazione<br />

trasferita di qualche etichetta coestensiva a triste. Inoltre, da questo punto di vista, dal<br />

momento che l’espressione, come la rappresentazione, è una forma di simbolizzazione,<br />

le proprietà espresse, non sono solo poss<strong>ed</strong>ute metaforicamente, ma anche fatte oggetto<br />

di riferimento, esibite, emblematizzate, indicate. In sintesi, la teoria dell’espressione di<br />

Goodman è questa: X esprime Y se e solo se X possi<strong>ed</strong>e Y metaforicamente e X esem-<br />

plifica Y. Sebbene X non denota realmente Y, la denotazione è presente all’interno di<br />

questa relazione – che va da “Y” (il pr<strong>ed</strong>icato) a X. Un’opera d’arte è espressiva quan-<br />

do possi<strong>ed</strong>e metaforicamente una proprietà che essa esemplifica. Goodman, come ave-<br />

vamo anticipato, propone questa analisi come un’analisi generale dell’espressione nelle<br />

arti, che si può applicare alla pittura, per esempio, come alla musica. Un brano musica-<br />

le è triste solo nel caso in cui esso ha la proprietà metaforica dell’essere triste e questa<br />

proprietà è esemplificata.<br />

Davies precisa che l’obiezione alla quale la teoria di Goodman va naturalmente<br />

incontro è questa: l’esemplificazione implica l’uso di una proprietà già poss<strong>ed</strong>uta<br />

dall’opera d’arte, un uso che (nella spiegazione di Goodman) garantisce la denotazione.<br />

Ma se l’opera possi<strong>ed</strong>e già la proprietà dell’essere triste, ad esempio, allora<br />

l’espressività ha a che fare con il possesso piuttosto che con l’esemplificazione. Questo<br />

evidenzia, sostiene Davies, che la preoccupazione di Goodman è rivolta all’uso simbolico<br />

dell’espressività artistica, ovvero a un discorso che fa uso di quell’espressività, ma<br />

l’opera potrebbe poss<strong>ed</strong>ere la proprietà espressiva senza che venga usata per denotare<br />

207


la proprietà che possi<strong>ed</strong>e (cioè, senza che la proprietà venga esemplificata).<br />

L’espressività, infatti, non è per Davies una questione di esemplificazione;<br />

l’esemplificazione è una condizione necessaria non per l’espressività in quanto tale ma<br />

per il riferimento, tramite l’uso della proprietà rilevante.<br />

Davies spiega infatti che, come a giusta ragione ha evidenziato Beardsley 298 , le<br />

proprietà esemplificate sono degne di nota o di valore indipendentemente dal fatto che<br />

ad esse sia stata attribuita una funzione esemplificatoria, e perciò non dobbiamo concentrarci<br />

troppo sul fatto che esse siano esemplificate; piuttosto, dovremmo focalizzarci<br />

sulle proprietà in questione, e non sul loro riferirsi ad altro; il brano <strong>musicale</strong> non ha<br />

bisogno di denotare alcunché, poiché il semplice esibire/presentare le proprie qualità<br />

rilevanti da un punto di vista estetico permette ad esso (ovvero al brano) di fare la propria<br />

parte nell’aiutarci a comprendere il mondo e a relazionarci con questo. Da questo<br />

punto di vista è dunque chiaro che, l’analisi di Goodman presuppone, piuttosto che<br />

spiegare, l’espressività nell’arte, poiché si ritiene che la sua preoccupazione è rivolta<br />

infine piuttosto all’uso referenziale a cui l’espressività dell’arte stessa si presta.<br />

Inoltre, Davies manifesta una certa insofferenza anche riguardo alla spiegazione<br />

di Goodman per il quale semplicemente funzionando come carattere entro un sistema<br />

simbolico, l’opera utilizza le proprie proprietà per conseguire la denotazione e, quindi,<br />

l’esemplificazione. Le arti infatti secondo Goodman hanno in comune alcune proprietà<br />

che riflettono la loro natura simbolica generale – la denotazione, in particolare – ma esse<br />

sono distinguibili da altri sistemi simbolici per il loro tendere all’opacità, dal momento<br />

che dirigono la loro funzione simbolica verso se stesse. Da questo punto di vista,<br />

l’opera seleziona le sue proprietà per l’esemplificazione, proprio nello stesso modo in<br />

cui possiamo dire che una superficie colorata seleziona la luce che rifletterà. L’ipotesi<br />

qui in gioco è che la denotazione non presuppone un uso intenzionale e quindi nemmeno<br />

l’esemplificazione lo presuppone. Goodman infatti non parla degli usi che vengono<br />

fatti delle opere d’arte; in realtà, egli non discute né di artisti né del modo in cui questi<br />

ultimi applicano e dunque utilizzano gli schemi simbolici da lui descritti. Goodman ritiene<br />

infatti che la funzione dei simboli può essere studiata senza tener conto delle cr<strong>ed</strong>enze<br />

o dei motivi di un qualche soggetto/agente i quali potrebbero aver provocato le<br />

relazioni coinvolte (nel funzionamento del simbolo). Egli dice che, ad esempio, non c’è<br />

bisogno di chi<strong>ed</strong>ersi chi ha lanciato la palla, o se è solo rotolata dallo scaffale, per conoscere<br />

il modo in cui la palla rimbalza. Detto in altri termini, l’ipotesi qui accr<strong>ed</strong>itata<br />

298 Cfr. M. C. Beardsley, On Understanding Music, In Price, <strong>ed</strong>., 55-73, 1981.<br />

208


da Goodman è che laddove le convenzioni di un sistema simbolico sono stabilite, esse<br />

operano (ovvero, fanno il loro lavoro) indipendentemente dal loro essere usate inten-<br />

zionalmente. Il significato emerge e viene prodotto al’interno del contesto di un siste-<br />

ma simbolico, indipendentemente dal fatto se ci sia o meno qualcuno che crea o dirige<br />

intenzionalmente l’attenzione su tale portata significativa. A tale proposito, Joseph<br />

Margolis obietta che la noncuranza, da parte di Goodman, nei confronti del ruolo<br />

dell’artista nel processo di simbolizzazione, ha la sfortunata conseguenza di antropo-<br />

morfizzare l’opera, come se essa da sola riuscisse ad esemplificare qualcuna delle sue<br />

proprietà 299 . Un’idea pienamente condivisa da Davies, il quale per quanto d’accordo<br />

con l’idea che le convenzioni (o, se si preferisce, i ruoli e le pratiche in cui un sistema<br />

di simboli è strutturato) svolgono la loro funzione di conferire significato anche nei ca-<br />

si in cui esse non siano usate per fare questo, tuttavia non può avallare l’ipotesi che<br />

questo giustifichi la liquidazione delle intenzioni, degli usi, o delle pratiche come irri-<br />

levanti al fine di stabilire il contesto per l’esemplificazione goodmaniana. Scrive Da-<br />

vies a tale proposito: «Dal fatto che in certe circostanze possiamo occuparci del conte-<br />

nuto simbolico senza fare riferimento alle intenzioni, non segue che potremmo sempre<br />

agire in questa maniera. Il fatto che noi possiamo considerare un contenuto simbolico<br />

senza far riferimento all’uso intenzionale non mostra che un sistema di simboli, come<br />

quelli che Goodman ha in mente, potrebbe produrre un significato esemplificatorio<br />

senza che esso (il sistema di simboli) sia mai stato usato, oppure (sia mai stato) compreso<br />

correttamente come usato, per effettuare una comunicazione. L’analogia di Goodman<br />

della palla che rimbalza è fuorviante; le palle rimbalzano indipendentemente<br />

dall’uso che ne facciamo, mentre i sistemi simbolici goodmaniani non esisterebbero a<br />

meno che non vi fosse una connessione tra il loro uso intenzionale e il loro significato<br />

pubblico garantito da quell’uso. I sistemi simbolici sono stabiliti e sorretti solo attraverso<br />

il loro utilizzo intenzionale – in generale, se non in ogni occasione» 300 .<br />

La polemica con Goodman sembra ricondurre dunque alla domanda se<br />

nell’apprezzamento estetico di un’opera d’arte possa darsi un sistema simbolico proprio,<br />

ovvero, che nei suoi riferimenti prescinda dall’univocità normativa del linguaggio<br />

letterale per conseguire la denotazione non per mezzo di un uso intenzionale, ma automaticamente<br />

attraverso le operazioni proprie di quel sistema, ovvero a prescindere<br />

dall’elemento umano. Da quanto detto, è chiaro che la risposta di Davies non può quin-<br />

299<br />

J. Margolis, What Is When? When is What? Two Questions for Nelson Goodman, Journal of Aesthetics<br />

and Art Criticism, 39, 266-268.<br />

300<br />

S. Davies, Musical Meaning and Expression, cit., pp. 142-143.<br />

209


di che essere negativa, poiché – egli sostiene – che i sistemi simbolici sono stabiliti e<br />

sorretti solo attraverso il loro utilizzo intenzionale, e la circostanza (non impossibile)<br />

che un’opera possa esemplificare per effetto della sua appartenenza a un sistema simbolico,<br />

un significato per il quale non era stata concepita, rappresenta un’eccezione rispetto<br />

all’intima connessione che lega inscindibilmente l’esemplificazione e l’uso.<br />

In questo percorso di minuziosa analisi Davies non trascura infine di evidenziare<br />

che problematica (nonché oscura) risulta per lui anche l’idea che le proprietà esemplificate<br />

dall’opera d’arte siano metaforiche. A tale proposito, secondo Davies, Goodman<br />

ha ragione nel pensare che sia necessario fare una distinzione tra il fatto che una<br />

proprietà <strong>musicale</strong> sia metaforica e il fatto che una proprietà <strong>musicale</strong> sia descritta metaforicamente,<br />

tuttavia non è comprensibile cosa significhi per la musica, non quindi<br />

per le descrizioni della musica, essere metaforica, visto che, in ultimo Goodman nega<br />

la concezione che la musica debba essere paragonata al linguaggio per ciò che concerne<br />

il suo significato 301 .<br />

301 Interessante aprire una parentesi qui per evidenziare, come fa Davies, che Goodman non è il primo e<br />

l’unico ad avere avanzato l’ipotesi che la musica stessa sia metaforica. Un prec<strong>ed</strong>ente significativo è<br />

quello di Donald Ferguson, il quale suggeriva che la musica ha una pressoché unica pr<strong>ed</strong>isposizione<br />

all’espressione metaforica. Dal suo punto di vista, nello specifico, una metafora è un’inflessione (il tono<br />

della voce nel discorso, ovvero l’espressione verbale) che aggiunge un “incremento poetico” al significato<br />

standard di una parola. In questo caso, Davies evidenzia che anche laddove ci si spingesse ad accettare<br />

questa strana spiegazione, non è affatto certo che Ferguson possa giustificare l’affermazione secondo cui<br />

la musica è adatta all’espressione metaforica. Le sue osservazioni secondo cui la musica riguarda per lo<br />

più l’inflessione della voce non costituiscono delle basi solide per fondare tale affermazione, poiché non<br />

è chiaro come tali inflessioni aggiungano un “incremento poetico” al “significato standard” di un’unita<br />

(<strong>musicale</strong>) corrispondente alla parola. Daniel Putnam (1989) è un altro autore che ha scritto a proposito<br />

della musica come metafora. L’altezza e la bassezza delle note, e il movimento <strong>musicale</strong>, sono caratteristiche<br />

metaforiche dei brani musicali. Egli suggerisce che, quando la musica diventa una metafora morta,<br />

le persone iniziano ad ascoltare non la musica ma una successione di suoni. E anche in questo caso, puntuale<br />

e pertinente è l’osservazione di Davies che: nella misura in cui questi autori aderiscono a un modello<br />

che fa dipendere la metafora dalle proprietà semantiche/sintattiche proprie dei linguaggi naturali, le<br />

loro affermazioni sulla musica rendono più confusa, anziché più chiara, la distinzione tra l’essere metaforico<br />

della musica e l’uso della metafora nella descrizione della musica, dato che non viene spiegato in<br />

che modo le considerazioni fatte a proposito di un tipo di metafora (ovvero quella letteraria) debbono<br />

essere interpretate quando vengono applicate all’altro tipo di metafora (ovvero quella <strong>musicale</strong>). La difficoltà<br />

che qualsiasi tentativo di caratterizzare la musica come metaforica partendo da un modello letterario<br />

della metafora si trova a dover fronteggiare è rilevata da Steven Krantz (1987), il quale proietta alcune<br />

delle più importanti teorie della metafora sul caso <strong>musicale</strong>. Le conclusioni di Krantz sono in gran<br />

parte negative. Egli stabilisce che solo facendo capo a una teoria interattiva della metafora, e solo riguardo<br />

a quella musica che poggia su associazioni culturali che garantiscono un qualche riferimento − ad esempio,<br />

(in quei passaggi musicali) dove le trombe connotano il potere – si può rintracciare qualche somiglianza<br />

con la metafora (linguistica). La teoria interattiva descrive la metafora come derivante<br />

dall’interazione tra i significati delle parti di una frase, come i soggetti e i pr<strong>ed</strong>icati. Ora, anche tale descrizione<br />

per Davies non ha ragione di sussistere, poiché egli è dell’idea che gli elementi musicali non<br />

hanno funzioni semantiche/sintattiche paragonabili (a quelle poss<strong>ed</strong>ute dalle parti di una frase). Se si<br />

tengono presenti queste circostanze, dire che la musica è metaforica (in quanto è simile alla metafora<br />

linguistica) equivale semplicemente ad adoperare una metafora che non chiarisce affatto i termini della<br />

questione. Cfr. D. Ferguson, Music as Metaphor: The Elements of Expression, University of Minnesota<br />

Press, Minneapolis, 1960; D. A. Putnam, Some Distinctions on the Role of Metaphor in Music, Journal<br />

210


La concezione di Davies, che identifica nell’aspetto convenzionale il valore del-<br />

la significazione simbolica (semantica), è convocata ugualmente contro l’altro princi-<br />

pale modello teorico in questione: quello di Langer. Davies, appoggiando le critiche già<br />

mosse da Budd, sostiene che Langer avrebbe frainteso la “forma logica” della teoria<br />

wittgensteniana alla quale dichiara di ispirarsi, perché nel momento in cui pretende di<br />

sostituire alla forma logico-discorsiva un’analoga forma presentazionale ne avrà di fatto<br />

snaturato il senso. Ma la questione è estremamente complessa. Lo stesso Wittgenstein,<br />

dopo il 1930, mostra grandi ripensamenti rispetto alla sua stessa teoria atomica<br />

delle proposizioni semplici esposta nel Tractatus, e questo potrebbe essere variamente<br />

interpretato tanto a favore di Langer che (all’opposto) dei suoi detrattori. Né Langer 302 ,<br />

però, né tantomeno Davies sembrano considerare che l’apertura del secondo Wittgenstein<br />

ad un possibile orizzonte extra-linguistico è una consapevolezza che si rivela già<br />

alla fine del Tractatus e che anticipando le Ricerche suggerisce che se da un lato i limiti<br />

del linguaggio sono i limiti del nostro mondo e pertanto di ciò di cui non si può parlare<br />

è meglio tacere, dall’altro il nostro mondo non esaurisce il confine del mondo che<br />

si estende anche oltre i limiti imposti alla conoscenza delle nostre stesse caratterizzazioni<br />

linguistico-concettuali. E, tale svolta, vogliamo precisare, potrebbe essere interpretata<br />

come un’apertura di senso che introduce il problema dell’indicibile. Ma lo<br />

scontro concettuale tra Davies e Langer sembra concentrarsi unicamente sui temi del<br />

Tractatus.<br />

L’impressione che se ne ricava è che dietro i ripetuti riferimenti all’autorità del<br />

pensiero wittgensteniano, operi il tentativo di avvalorare le proprie tesi, a volte in modo<br />

alquanto semplicistico senza tenere conto della complessità del suo pensiero, problematicamente<br />

in bilico tra l’atomismo delle proposizioni logiche e la referenzialità dei<br />

giochi linguistici, tra significati denotativi e connotativi, tra logica scientifica e aperture<br />

al mistico.<br />

Ed è proprio sul piano dell’ineffabilità delle esperienze emozionali, e dunque<br />

sulla presunta inadeguatezza del linguaggio che si consuma il centro della polemica,<br />

of Aesthetic Education, 23, 2, 103-106, 1989; S. C. Krantz, Metaphor in Music, Journal of Aesthetics<br />

and Art Criticism, 45, 351-360.<br />

302 Garry Hagberg acutamente così riassume la posizione di Langer, catturando così il modo in cui la sua<br />

concezione differisce da quella di Wittgenstein: su ciò di cui non si può parlare, si deve comporre, dipingere,<br />

scrivere, scolpire, e così via. Cfr. G. Hagberg, Art and Unsayable: Langer’s Tractarian Aesthetics,<br />

“The British Journal of Aesthetics”, 24, 325-340. È certo che in questi termini si possa riassumere la<br />

concezione di Langer, visto che, dal nostro punto di vista, la sua è un’interpretazione che potremmo dire<br />

letterale della celebre chiusa del Tractatus. L’idea di Wittgenstein infatti non era quella di una perpetua<br />

chiusura ai “mondi possibili”, per usare la terminologia leibniziana, ma se proprio di chiusura si vuol<br />

parlare questa era certamente riferita alle possibilità della significazione linguistica.<br />

211


poiché una simile ammissione invaliderebbe la tesi, difesa da Davies,<br />

dell’insostituibilità dei termini emotivi nelle descrizioni della musica. Se infatti il linguaggio<br />

dovesse rivelarsi insoddisfacente a dare conto della molteplicità e complessità<br />

delle emozioni, allora si potrebbe insinuare l’idea di una incommensurabilità tra<br />

l’universo delle emozioni e le parole usate per descriverle, e concludere conseguentemente<br />

che solo il ricorso a una teoria metaforica potrebbe gettare luce su ciò che il linguaggio<br />

non riesce ad illuminare.<br />

Davies riconosce che un certo grado di ineffabilità è sempre presente nelle cose,<br />

e dunque l’esperienza <strong>musicale</strong> non costituisce in tal senso un problema a sé, poiché le<br />

esperienze che proviamo in prima persona sono sempre e necessariamente più ricche e<br />

dense di significati di quel linguaggio che usiamo per descriverle, ma questo aspetto<br />

non inficia in alcun modo la loro piena comunicabilità, e d’altra parte il linguaggio è un<br />

sistema simbolico, il suo compito è quello di ridurre (per semplificare) la complessità<br />

della realtà ovvero il nostro rapporto col mondo, e non già di riprodurla punto per punto,<br />

poiché in tal caso non sarebbe più un sistema simbolico ma copia iconica della realtà<br />

e dunque inutilizzabile per la comunicazione. Se infatti, in virtù di una qualche particolare<br />

esperienza privata o per effetto di un’ostensione fossimo in grado di superare i<br />

limiti dell’indicibile e guardare nella natura delle cose, questa nostra conoscenza non<br />

avrebbe alcun uso intelligibile, rimarrebbe cioè incomunicabile.<br />

Come già rilevato in Budd, il segno più significativo della riflessione di Davies<br />

ci sembra essere rappresentato proprio dalla difesa del valore referenziale del linguaggio:<br />

l’insostituibilità dei termini emotivi nella descrizione della musica, più volte riaffermata,<br />

è funzionale al principale compito del linguaggio di consentire l’interscambio<br />

dei significati e delle esperienze. Un linguaggio che presentasse un’analogia punto per<br />

punto dei molteplici aspetti e delle svariate sfumature delle emozioni connesse<br />

all’esperienza <strong>musicale</strong> (così come a ogni altro tipo di esperienza) non sarebbe più un<br />

linguaggio, ovvero non ci consentirebbe di maneggiare le cose del mondo e di fatto la<br />

comunicazione risulterebbe imp<strong>ed</strong>ita. Pertanto, il fatto di verificare o intuire alcune<br />

ecc<strong>ed</strong>enze della realtà rispetto alle possibilità discorsive, non sarebbe un problema del<br />

linguaggio, ma delle false aspettative riposte in esso. Ovvero di una fraintesa valutazione<br />

dei suoi compiti e dei suoi limiti. L’avversione di Davies per le teorie metaforiche<br />

che pretendono di sopperire alle lacune del linguaggio, va dunque intesa più proficuamente<br />

sotto questo punto di vista, e in questo senso va inteso il primato del linguag-<br />

212


gio letterale al di là delle sterili polemiche sulla parafrasabilità o meno delle espressioni<br />

metaforiche 303 .<br />

Tali insistite contrapposizioni intese a definire lo schieramento di opposte fa-<br />

zioni e a consolidarle in quanto tali, costituiscono a nostro avviso un ostacolo alla chia-<br />

rificazione delle cose. Lo stesso Davies che pur ci pare colga esattamente nel segno<br />

riaffermando la pura convenzionalità linguistica dei discorsi sulla musica non si sottrae<br />

alla tentazione di difendere l’insostituibilità dei termini espressivi schierandosi almeno<br />

formalmente tra i detrattori della metafora. Avrebbe forse potuto rilevare più proficua-<br />

mente come tali sostituzioni non siano in definitiva né necessarie né sufficienti e co-<br />

munque non rimuoverebbero tutti i dubbi circa il significato del nome, poiché il nome<br />

(che sia usato letteralmente o metaforicamente) non rimanda comunque ad alcun tipo di<br />

verità o di falsità di natura, ma il suo significato dipende unicamente dal contesto e solo<br />

all’interno di esso l’enunciato può essere considerato vero. Pertanto una descrizione<br />

come “la musica è triste” può essere (è) vera all’interno di un discorso in cui i parlanti<br />

siano consapevoli della referenzialità e dei modi e delle regole in cui il termine triste<br />

viene usato.<br />

Al di fuori della referenzialità dei discorsi sull’espressività della musica, è evidentemente<br />

insensato chi<strong>ed</strong>ersi se sia vero o falso che la musica è triste, ugualmente insensato<br />

sarebbe cr<strong>ed</strong>ere che un uso metaforico possa conseguire un risultato migliore.<br />

In conclusione avanziamo la proposta che parlare di insostituibilità dei termini emotivi,<br />

può essere fuorviante, più opportunamente si potrebbe dire che una tale operazione sarebbe<br />

superflua o non necessaria.<br />

303 Budd, si è visto, sostiene che le metafore debbano essere parafrasabili letteralmente; Davies è un po’<br />

più morbido, e sostiene che una metafora sia chiarificabile anche facendo ricorso ad altre metafore. Entrambi<br />

sono comunque d’accordo sulla necessità di spiegare il senso delle metafore; senso che essi non<br />

ravv<strong>ed</strong>ono nelle descrizioni della musica in termini emotivi. Tali termini sono, secondo i due autori, insostituibili,<br />

ma non in quanto descrizioni metaforiche ineliminabili di una verità ineffabile, bensì in<br />

quanto descrizioni letterali di proprietà espressive che sono nella musica, e che affondano le loro radici<br />

in un certo tipo di isomorfismo.<br />

213


7. Jerrold Levinson: isomorfismo dell’esperienza vs isomorfismo descrittivo<br />

L’ultimo autore che prenderemo in esame nel nostro lavoro è Jerrold Levinson.<br />

Non si tratta di una scelta casuale: la teoria di Levinson sull’espressività <strong>musicale</strong>, come<br />

v<strong>ed</strong>remo tra poco, si presenta infatti, e ciò è evidente anche nelle intenzioni esplicite<br />

dell’autore, come una sorta di grande sintesi delle riflessioni fin qui esposte, sebbene<br />

tale sintesi sfoci in una posizione alquanto originale e che non ha mancato di destare<br />

perplessità in altri autori di ambito analitico. Il saggio a cui faremo principalmente riferimento<br />

è Musical Expressiveness (1996), dove Levinson porta a compimento le idee<br />

elaborate in forma ancora sperimentale in Music and Negative Emotion (1990) e Hope<br />

in ‘the Hebrides’ (1990) sul tema dell’espressività <strong>musicale</strong>. Egli esordisce chiarendo<br />

che il suo obiettivo primario è quello di dire esattamente che cos’è l’espressività <strong>musicale</strong>,<br />

ovvero di fornire un’analisi compiuta di cosa significhi dire che un passaggio <strong>musicale</strong><br />

P è espressivo di un’<strong>emozione</strong> E o di un qualche altro stato psicologico; il che<br />

significa che poco spazio sarà d<strong>ed</strong>icato allo studio delle cause o dei fondamenti<br />

dell’espressività <strong>musicale</strong>, o del valore dell’espressività nella musica.<br />

Per meglio chiarire che cosa egli intenda con espressività <strong>musicale</strong>, Levinson fa<br />

i seguenti esempi “non convenzionali” di musica espressiva: “l’apertura dell’Ottavo<br />

Quartetto di Shostakovich, la quale esprime tristezza e disperazione; l’Ottetto di Mendelssohn,<br />

il quale esprime una soave esuberanza; il finale della Musica da Camera N. 1<br />

di Hindemith, il quale esprime una insolente impudenza; l’apertura del Don Giovanni<br />

di Strauss, la quale esprime uno stato mentale giovanile, energico <strong>ed</strong> eroico” 304 . Questi<br />

sono i tipi di attribuzioni di cui egli cerca di illuminare il contenuto. Lo schema seguito<br />

da Levinson nel saggio Musical Expressiveness è abbastanza lineare, come nella tipica<br />

tradizione analitica. Il primo passo è costituito dal presentare una lista di desiderata che<br />

un’adeguata spiegazione dell’espressività <strong>musicale</strong> dovrebbe soddisfare. Dopodiché<br />

l’autore passa in rassegna un numero di proposte recenti relative a come si debba concepire<br />

l’espressività <strong>musicale</strong>, evidenziando le virtù e i vizi di ciascuna, e concludendo<br />

con quelle che sembrano essere le più adeguate. È solo a questo punto che Levinson<br />

avanza la sua proposta, mostrando come essa soddisfi (meglio delle posizioni rivali) i<br />

desiderata elencati all’inizio, e difendendola infine dalle obiezioni a cui essa va inevitabilmente<br />

incontro.<br />

304 J. Levinson, Musical Expressiveness, cit., p. 90.<br />

214


Ecco dunque quelli che, secondo Levinson, sono i desiderata che un’analisi ac-<br />

cettabile dell’espressività <strong>musicale</strong> deve cercare di soddisfare:<br />

I. L’espressività <strong>musicale</strong> dovrebbe essere vista come parallela o<br />

analoga all’espressione nel suo senso più letterale, ovvero, dovrebbe<br />

essere vista come il manifestarsi di stati psicologici attraverso segni<br />

esterni, in particolare attraverso il comportamento (requisito<br />

dell’“analogia”).<br />

II. L’espressività <strong>musicale</strong> dovrebbe essere vista come collegata in<br />

modo intelligibile all’espressività nelle altre arti, o perché essa è chiaramente<br />

una specie dell’espressività artistica considerata in generale,<br />

in accordo con una qualche plausibile concezione di quest’ultima, o<br />

perché essa è un parente stretto dell’espressività esibita nelle altre arti,<br />

laddove la divergenza è spiegabile in termini delle differenze salienti<br />

nei m<strong>ed</strong>ia utilizzati (requisito dell’“estendibilità”).<br />

III. L’espressività <strong>musicale</strong> dovrebbe essere vista come appartenente<br />

inequivocabilmente alla musica − ovvero come un sua proprietà o<br />

un suo aspetto − e non all’ascoltatore o all’esecutore o al compositore<br />

(requisito dell’ “esternalità”).<br />

IV. L’espressività <strong>musicale</strong> dovrebbe essere qualcosa che un ascoltatore<br />

sensibile esperisce o percepisce direttamente, piuttosto che<br />

pervenirvi intellettualmente, attraverso il ragionamento o la dimostrazione,<br />

almeno nei casi principali, ovvero in quelli concernenti<br />

l’espressione semplice (requisito dell’ “imm<strong>ed</strong>iatezza”).<br />

V. L’espressività <strong>musicale</strong> può essere concepibile come relativa a<br />

stati troppo specifici per essere tradotti in parole, ma deve comprendere<br />

anche, e principalmente, stati psicologici familiari considerati in<br />

generale (requisito della “generalità”).<br />

VI. L’espressività <strong>musicale</strong> dovrebbe essere tale che, quando venisse<br />

percepita o rilevata da un ascoltatore, ne deriverebbe naturalmente,<br />

se non inevitabilmente, l’evocazione di un sentimento o di uno stato<br />

affettivo, oppure l’immaginazione di un sentimento (requisito dell’<br />

“affettività”).<br />

VII. L’espressività <strong>musicale</strong> dovrebbe essere tale che l’esperienza di<br />

essa dovrebbe accompagnarsi al riconoscimento di un valore, contribuendo<br />

ad accrescere, perlomeno di norma, il valore dei brani che la<br />

possi<strong>ed</strong>ono (requisito dell’ “avere valore”) 305 .<br />

Il secondo passo, come detto, consiste nell’elencare quelle che egli identifica<br />

come le principali posizioni che nel dibattito analitico si sono contraddistinte relativa-<br />

mente al tema dell’espressività <strong>musicale</strong>. Levinson traccia a tal fine la seguente “mappa”:<br />

305 Ivi, pp. 91-92.<br />

215


In primo luogo, vi sono le concezioni basate sull’evocazione (o<br />

sull’eccitazione), le quali si differenziano in disposizionalista (Nolt),<br />

dell’appropriata risposta (Matravers) e auto-espressiva (Ridley).<br />

In secondo luogo, ci sono le concezioni basate sulla finzione, le quali<br />

si differenziano in introspezionalista (Walton), impersonalista<br />

(Budd), e rappresentazionalista (Callen).<br />

In terzo luogo, ci sono le concezioni basate sulla metafora, le quali si<br />

differenziano in esemplificazionalista (Goodman) e proiettivista<br />

(Scruton).<br />

In quarto luogo, ci sono le concezioni basate sul giudizio (o<br />

sull’inferenza), le quali si differenziano in teoria della corrispondenza<br />

(Wollheim), dell’adeguatezza (Barwell) e spiegazionista (Vermazen).<br />

In quinto e ultimo luogo, ci sono le concezioni basate sull’aspettodell’espressione,<br />

le quali si differenziano in vocalista (Elliott), fisiognomista<br />

(Davies) e animazionista (Kivy) 306 .<br />

Levinson anticipa che è in quest’ultimo gruppo che la sua teoria si colloca, seb-<br />

bene le somiglianze e le differenze emergeranno solo in un secondo momento, ovvero<br />

dopo la disamina delle principali teorie appena menzionate. Piuttosto che ripercorrere<br />

per intero tale disamina, ci concentreremo qui su quelle teorie alle quali abbiamo d<strong>ed</strong>icato<br />

più spazio all’interno del nostro lavoro, e che rivestono una particolare importanza<br />

nel dibattito analitico sulla questione dell’espressività <strong>musicale</strong>. Iniziamo dalla teoria di<br />

Malcolm Budd, la quale, come detto, può essere vista come una variante della tesi di<br />

Walton (riletta alla luce del modello isomorfico). Ciò che Budd in sintesi propone è<br />

questo: un passaggio P è espressivo di E se e solo se è finzionalmente vero che E viene<br />

esperito, sebbene non necessariamente dall’ascoltatore, e questa verità è generata da P<br />

nel modo corretto.<br />

Budd è arrivato a questa forma più impersonale di espressività-come-<strong>emozione</strong>finzionale<br />

in quanto egli pensa, giustamente, che “non è auspicabile rappresentare la<br />

mia esperienza del sentire (un passaggio) come angosciato in un modo tale che il mio<br />

ascoltare (tale passaggio) debba essere considerato come il mio esperire (finzionalmente)<br />

l’angoscia. … Poiché sebbene ciò possa essere vero, non è necessario che le cose<br />

vadano in questa maniera: invero, la musica angosciata non sempre richi<strong>ed</strong>e che<br />

l’ascoltatore che riconosce l’angoscia (nella musica) sia finzionalmente angosciato<br />

(ovvero, si immagini di essere angosciato in virtù dell’ascolto della musica)” 307 . Ma<br />

Budd ammette che in realtà non sa bene come l’espressione “nel modo corretto”, contenuta<br />

nella formulazione prec<strong>ed</strong>ente, debba essere intesa, <strong>ed</strong> egli è comprensibilmente<br />

scettico di fronte alla possibilità di delucidare tale espressione facendo ricorso a regole<br />

306 Ivi, pp. 92-3.<br />

307 M. Budd, Music and the Communication of Emotion, cit., p. 135.<br />

216


convenzionali della finzione che determinino il funzionamento dell’espressione musi-<br />

cale. In effetti, sembra che l’unica maniera plausibile di chiarire in che modo la verità<br />

finzionale che E viene esperito debba essere generata affinché P esprima E sia quella di<br />

postulare che un ascoltatore è spinto, nell’ascoltare P, a percepirlo come E, il che renderebbe<br />

inutile l’attribuire un qualsivoglia ruolo più elaborato alla finzione.<br />

In effetti, Budd sembra concludere che forse si debba conservare “solo l’idea<br />

sottesa all’approccio finzionale”, ovvero “l’idea che la musica emozionalmente espressiva<br />

è (una musica) concepita per spronare l’ascoltatore ad immaginarsi il sopraggiungere<br />

di esperienze emotive”, il che lascia aperta la questione di come ciò realmente avvenga.<br />

Ridotta a questa idea di base, osserva Levinson, probabilmente non vi è alcun<br />

conflitto tra l’approccio finzionale e quello da lui stesso raccomandato: secondo la sua<br />

prospettiva, infatti, la musica espressiva è una musica che invita l’ascoltatore ad immaginare<br />

delle emozioni, ma solo e specificatamente nel senso che l’ascoltatore è propenso<br />

ad immaginare che la musica sia un particolare tipo di manifestazione esteriore di<br />

una qualche <strong>emozione</strong> − ovvero (come v<strong>ed</strong>remo meglio poi) nel senso che l’ascoltatore<br />

è propenso a percepire la musica, nell’ascoltarla, come un’espressione personale, sui<br />

generis, di tale <strong>emozione</strong> da parte di un non meglio specificato individuo.<br />

Passando alla quinta classe di teorie prec<strong>ed</strong>entemente individuate − ovvero le<br />

concezioni basate sull’aspetto dell’espressione −, v<strong>ed</strong>iamo cosa Levinson ha da dire<br />

sulla teoria proposta da Stephen Davies, riassunta nella seguente maniera: P è espressivo<br />

di E se e solo se P presenta alcune caratteristiche sonore esteriori delle emozioni associate<br />

ad E − ovvero, presenta un aspetto sonoro analogo alle caratteristiche esteriori<br />

comportamentali dell’<strong>emozione</strong> E. L’idea di fondo che muove la riflessione di Davies,<br />

e su cui egli fonda la propria teoria, è che l’espressività <strong>musicale</strong> “dipende prevalentemente<br />

da una somiglianza che percepiamo tra il carattere dinamico della musica e il<br />

movimento, l’andatura, il comportamento o l’atteggiamento dell’uomo” 308 . Pertanto,<br />

“quando si ascolta la musica, le emozioni sono percepite come appartenenti ad essa,<br />

proprio come gli aspetti esteriori delle emozioni sono presenti nel comportamento,<br />

nell’atteggiamento e nell’andatura dei nostri simili e di altre creature viventi. La gamma<br />

di emozioni che la musica, quando viene ascoltata, presenta nella maniera appena<br />

esposta, è ristretta, come pure è vero degli aspetti dell’uomo (ovvero del suo compor-<br />

308 S. Davies, Musical Meaning and Expression, cit., p. 229.<br />

217


tamento), a quelle emozioni o stati d’animo aventi espressioni comportamentali caratte-<br />

ristiche” 309 .<br />

Secondo Levinson lo spirito di questa teoria è affine a quello della teoria che lui<br />

stesso difende; ciò che non lo convince è tuttavia la nozione principale attorno alla qua-<br />

le tale teoria ruota, vale a dire la nozione di ‘caratteristica esteriore <strong>musicale</strong>’ delle e-<br />

mozioni. Il problema, di cui Davies è consapevole, è che l’aspetto di un passaggio mu-<br />

sicale non è precisamente quello di una persona, o del viso o del corpo di una persona,<br />

in qualunque condizione, o del comportamento di una persona, in qualunque momento.<br />

Si tratta piuttosto, quando un passaggio <strong>musicale</strong> presenta un modo di apparire<br />

dell’<strong>emozione</strong> attraverso delle sequenze di suoni, di un modo di apparire analogo (o<br />

simile) a quello manifestato da una persona in una certa condizione. Ma allora, dato<br />

che ogni cosa è analoga (o simile) a qualsiasi altra cosa in qualche grado, il problema<br />

diventa quello di stabilire quanto grande deve essere l’analogia tra tale modo e quello<br />

manifestato dal comportamento umano affinché esso possa costituire una caratteristica<br />

esteriore sonora dell’<strong>emozione</strong> in questione, o anche quanto grande deve essere<br />

l’analogia tra l’esperienza (come Davies stesso talvolta, più cautamente, sostiene) del<br />

movimento <strong>musicale</strong> e quella del comportamento umano affinché il modo di apparire<br />

di tale movimento costituisca una caratteristica esteriore sonora dell’<strong>emozione</strong> in questione.<br />

È chiaro, secondo Levinson, che non si può rispondere a tale questione, se non<br />

facendo appello alla nostra disposizione a percepire, nell’ascolto, tale <strong>emozione</strong> − piuttosto<br />

che un’altra, o nessuna − nella musica, ovvero, facendo appello alla nostra disposizione<br />

a interpretare la musica come un’istanza fonetica di un’espressione personale,<br />

cioè a percepire gli aspetti umani in quelli musicali: la nostra disposizione, in breve, ad<br />

animare i suoni in una certa maniera. Solamente se avviene ciò, la musica possi<strong>ed</strong>e<br />

l’espressività in questione, indipendentemente dal grado oggettivo di analogia o somiglianza<br />

tra certi aspetti della musica e alcuni aspetti dell’uomo, come “la sua andatura,<br />

il suo comportamento o il suo atteggiamento”, in relazione ai quali essa è in ultimo espressiva.<br />

Non vi è infatti alcuna regola che ci permetta di tradurre le caratteristiche<br />

comportamentali esteriori in caratteristiche musicali esteriori; solamente l’atto del percepire,<br />

nella musica, i lineamenti del primo tipo di caratteristiche dà luogo alle seconde<br />

come tali. L’accusa che Levinson fa alla concezione di Davies è che, sostanzialmente,<br />

essa ha la colpa di mettere il carro − l’aspetto espressivo che risulta presente in un pas-<br />

309 Ivi, p. 239.<br />

218


saggio (<strong>musicale</strong>), il quale viene identificato come espressivo di E − davanti ai buoi −<br />

l’esperienza del percepire E nel passaggio che viene ascoltato.<br />

Sebbene sia abbastanza chiaro che Davies non vuole appoggiare la tesi secondo<br />

cui l’espressività <strong>musicale</strong> consiste in un’analogia, o somiglianza, con il comportamen-<br />

to letteralmente espressivo, il suo fare appello alle caratteristiche sonore delle emozioni<br />

in quanto poggianti su tale analogia o somiglianza <strong>ed</strong> emergenti su di essa suggerisce<br />

perlomeno che tali caratteristiche abbiano delle identità specificabili indipendentemente<br />

dalle esperienze del percepire l’espressione delle emozioni nella musica, e che esse<br />

probabilmente siano in ultimo ricavabili e classificabili di per se stesse, nello stesso<br />

modo in cui lo sono le caratteristiche esteriori comportamentali delle emozioni direttamente<br />

associate con le emozioni vissute − ad esempio, il carattere tipico di una faccia<br />

allegra, di uno sguardo triste, o di un gesto arrabbiato. Ma che ciò sia realmente possibile,<br />

ovvero che sia possibile identificare una particolare specie di aspetto caratteristico<br />

della musica “triste”, nello stesso modo in cui è possibile individuare le caratteristiche<br />

esteriori che le persone tristi nella vita reale normalmente manifestano, è secondo Levinson<br />

alquanto dubbio.<br />

Detto di Davies, v<strong>ed</strong>iamo come Levinson considera la proposta di Roger Scruton.<br />

Innanzitutto egli chiarisce che, sebbene tale concezione sia stata dallo stesso Levinson<br />

classificata tra quelle basate sulla metafora, essa potrebbe rientrare anche<br />

nell’ambito delle teorie basate sull’aspetto delle emozioni. Per quanto sia difficile formulare<br />

una proposta specifica sull’espressività sulla base di quanto affermato da Scruton<br />

− una delle ragioni di ciò è che egli è più interessato a dire che cosa significhi ascoltare,<br />

e penetrare in, tale espressività, piuttosto che a offrirne un’analisi −, Levinson<br />

ritiene che si possa interpretare la posizione di Scruton traducendola nella seguente<br />

formula: un passaggio <strong>musicale</strong> P è espressivo di un’<strong>emozione</strong> E nella misura in cui esso<br />

viene esperito come se presentasse o contenesse dei gesti caratteristici<br />

dell’espressione di E.<br />

Se le cose stanno in questa maniera, allora la teoria di Scruton è cr<strong>ed</strong>ibile, sebbene<br />

Levinson non possa esimersi dal confessare due riserve al riguardo. La prima riguarda<br />

il fatto che essa poggia sull’idea di metafora. Levinson, come anche altri autori<br />

già menzionati (si pensi soprattutto a Budd), pensa che il fare appello alla metafora in<br />

generale tende ad oscurare, piuttosto che illuminare, la questione dell’espressività. Una<br />

seconda, anche se più piccola, riserva, riguarda il fatto che il requisito dell’esperibilità<br />

dei gesti caratteristici di una particolare <strong>emozione</strong>, anziché dell’espressione esteriore<br />

219


dell’<strong>emozione</strong>, in una qualche maniera, è, probabilmente, inutilmente limitante. Ma<br />

Scruton ha sicuramente ragione, precisa Levinson, a dire che l’esperienza<br />

dell’espressione nella musica assume principalmente la forma del percepire,<br />

nell’ascolto del movimento <strong>musicale</strong>, i gesti compiuti da un individuo che esprime<br />

un’<strong>emozione</strong>; su questo punto le rispettive teorie giocano sullo stesso terreno.<br />

L’ultima spiegazione dell’espressività <strong>musicale</strong> che Levinson prende in consi-<br />

derazione è quella fornita da Peter Kivy in The Cord<strong>ed</strong> Shell. Nel testo di Kivy, Levin-<br />

son rintraccia tre distinte proposte relative al tema in questione. Una è che un passaggio<br />

<strong>musicale</strong> P è espressivo dell’<strong>emozione</strong> E se e solo se P viene interpretato come somi-<br />

gliante, nel suo profilo, al comportamento caratteristico di E; la seconda è che P è espressivo<br />

di E se e solo se P è collegato a E per mezzo di una somiglianza nei profili o<br />

di un’associazione convenzionale o di entrambe le cose; e la terza è che un passaggio<br />

<strong>musicale</strong> P è espressivo dell’<strong>emozione</strong> E se e solo se gli ascoltatori sono disposti ad ‘animare’<br />

P attribuendogli l’<strong>emozione</strong> E.<br />

Le prime due proposte, che il testo di Kivy (implicitamente) suggerisce, sostituiscono<br />

fatalmente una lista delle cause e dei fondamenti primari dell’espressività <strong>musicale</strong><br />

con l’analisi del concetto dell’espressività <strong>musicale</strong> stessa. La prima proposta,<br />

inoltre, ha l’ulteriore difetto di escludere pregiudizialmente l’elemento convenzionale<br />

dell’espressività, il che chiaramente non è nelle intenzioni di Kivy. Ma, per ciò che riguarda<br />

la terza proposta, essa è, a giudizio di Levinson, sostanzialmente corretta.<br />

L’unico problema è, a suo avviso, che essa rimane in qualche maniera oscura, dato che<br />

la nozione di animazione richi<strong>ed</strong>e una delucidazione tanto quanto la richi<strong>ed</strong>e la nozione<br />

di espressività. È proprio qui che può innestarsi la proposta di Levinson, in quanto egli<br />

cr<strong>ed</strong>e che l’ascoltare la musica come, o come se fosse, un’espressione personale, catturi<br />

ciò che Kivy vuol dire con l’espressione ‘animare i suoni’. Ciò è confermato da quanto<br />

Kivy stesso altrove esplicitamente afferma: “Noi dobbiamo v<strong>ed</strong>ere uno schema visivo<br />

come un veicolo di espressione − un volto o una figura − prima di poter v<strong>ed</strong>ere la sua<br />

espressività. Analogamente, noi dobbiamo ascoltare uno schema sonoro come un veicolo<br />

di espressione − una enunciazione o un gesto − prima di poter ascoltare la sua espressività”<br />

310 .<br />

A questo punto, Levinson è pronto a introdurre la propria concezione<br />

dell’espressività <strong>musicale</strong>, che egli formula nella seguente maniera:<br />

310 P. Kivy, Sound Sentiment, cit., p. 59.<br />

220


un passaggio <strong>musicale</strong> P è espressivo di un’<strong>emozione</strong> o di un’altra<br />

condizione psichica E se e solo se P, in un certo contesto, è prontamente<br />

e appropriatamente percepito nell’ascolto, da un ascoltatore<br />

adeguatamente informato, come l’espressione di E, effettuata in una<br />

maniera sui generis e “<strong>musicale</strong>” da parte di un agente indefinito, il<br />

personaggio della musica 311 .<br />

In questa proposta vi sono delle chiare affinità con le prec<strong>ed</strong>enti proposte relati-<br />

ve all’argomento in questione; il merito che Levinson si riconosce è di aver offerto nel<br />

modo più esplicito possibile, attraverso la formulazione appena fornita, il nucleo essen-<br />

ziale dell’espressività <strong>musicale</strong> − la pronta-percettibilità-come-espressione − a cui un<br />

consistente numero di autori si è approssimato, insieme eliminando tutto ciò che è inessenziale<br />

o che risponde ad altri aspetti del fenomeno dell’espressività nell’arte, come<br />

quello relativo a quali strutture o convenzioni servono a garantirne il funzionamento<br />

(ovvero alle cause dell’espressività), o a quali tipi diversi di risposta ad essa potrebbero<br />

esserci (ovvero agli effetti dell’espressività).<br />

La formula esposta da Levinson non è però pienamente comprensibile se non si<br />

fanno alcune precisazioni, che l’autore stesso ha esplicitato. Innanzitutto, egli specifica<br />

che per “contesto” intende sia il contesto interno all’opera − quello costituito dai passaggi<br />

musicali tra i quali quello dato si inserisce e con i quali si relaziona − sia il contesto<br />

esterno all’opera − quello costituito dallo stile individuale e generale entro cui la<br />

composizione data si inserisce, così come dall’ambiente che circonda i brani musicali<br />

di tale compositore e di altri compositori. Con l’avverbio “adeguatamente”, egli sottolinea<br />

il fatto che gli ascoltatori in questione devono aver familiarità con lo stile della<br />

musica e con la gamma espressiva ad esso inerente, con la natura e con le potenzialità<br />

degli strumenti adoperati, con gli scopi generali dei compositori di quel periodo, con le<br />

norme strutturali e estetiche del genere <strong>musicale</strong> a cui il brano dato appartiene, e così<br />

via. Inoltre essi devono anche essere in grado di dar prova di poss<strong>ed</strong>ere le abilità, le capacità<br />

discriminatorie, e le capacità di reazione comportamentale necessarie<br />

all’elaborazione di un giudizio estetico cr<strong>ed</strong>ibile 312 . Levinson chiarisce anche il perché<br />

egli ha denominato la maniera “<strong>musicale</strong>”, utilizzando le virgolette: lo scopo è quello<br />

di indicare che il personaggio della musica non deve essere concepito come una persona<br />

che esprime la propria <strong>emozione</strong> attraverso dei mezzi musicali. Vale a dire, non si<br />

311 J. Levinson, Musical Expressiveness, cit., p. 107.<br />

312 Il fatto che i “giudici” siano in grado di dar pubblicamente prova di tali abilità, e il riscontro di una<br />

convergenza dei loro giudizi circa brani musicali diversi da quello in questione, fanno sì, secondo Levinson,<br />

che la sua definizione non incorra in un circolo vizioso.<br />

221


sta qui suggerendo che ci immaginiamo che il personaggio in questione suoni il piano,<br />

o la tromba, oppure canti; piuttosto, si intende dire che il personaggio, in una qualche<br />

maniera non meglio specificata, sta manifestando l’<strong>emozione</strong> attraverso la creazione<br />

<strong>musicale</strong>, ma non nella maniera in cui le persone dotate di abilità musicali normalmen-<br />

te fanno. Infine, un’ultima precisazione dovrà riguardare il fulcro della definizione<br />

dell’espressività <strong>musicale</strong> offerta da Levinson, vale a dire “Il personaggio della musi-<br />

ca”, il quale, spiega l’autore, dovrebbe essere inteso come il soggetto dell’atto espressivo<br />

immaginario che percepiamo imm<strong>ed</strong>iatamente nell’ascolto. L’ascolto espressivo<br />

di una porzione di musica piuttosto estesa, in quanto opposta a un particolare passaggio,<br />

può ovviamente coinvolgere una serie di personaggi, piuttosto che uno solo.<br />

Levinson sostiene che sia possibile pervenire alla posizione alla quale egli è<br />

pervenuto relativamente al problema dell’espressività <strong>musicale</strong>, non solo cercando le<br />

affinità tra le diverse concezioni fin qui proposte da altri autori, ma anche partendo da<br />

quella che, probabilmente, va considerata come l’idea principale di base riguardo<br />

all’espressività nella musica, ovvero l’idea che un passaggio <strong>musicale</strong> P è espressivo di<br />

E se, per un ascoltatore normale e dotato di una certa esperienza, esso suona come E.<br />

Tale idea è sfociata nel famoso detto di Carroll Pratt, più volte citato anche nel corso<br />

del nostro lavoro: “La musica suona nel modo in cui le emozioni sono provate”. Tuttavia<br />

questa idea, posta in tali termini, non è secondo Levinson accettabile, poiché non<br />

poss<strong>ed</strong>iamo alcuna concezione intelligibile di cosa potrebbe voler dire, in astratto, il<br />

suonare come una qualsivoglia cosa. Si potrebbe allora perfezionare l’idea di base proponendo<br />

che, quando è espressivo, il passaggio viene piuttosto percepito come risuonante<br />

in maniera analoga all’esperienza che qualcuno ha di E. Questo è di sicuro un<br />

miglioramento, poiché fornisce perlomeno un qualcosa di particolare e di personale al<br />

quale il passaggio <strong>musicale</strong> può essere collegato foneticamente. Ma non siamo ancora<br />

arrivati a una soluzione soddisfacente, poiché rimane altrettanto difficile da comprendere<br />

cosa significhi che l’esperienza personale di un’<strong>emozione</strong> suoni come una qualsivoglia<br />

cosa. Il passo successivo nel processo di perfezionamento dell’idea di base non<br />

può che essere allora, secondo Levinson, il postulare che P viene percepito come risuonante<br />

in maniera analoga all’espressione di E da parte di un qualche individuo − un<br />

individuo che sta manifestando esternamente la propria esperienza di E. Il fatto che la<br />

musica debba suonare in maniera analoga ad una manifestazione esteriore di<br />

un’<strong>emozione</strong> è perfettamente intelligibile, sostiene l’autore, <strong>ed</strong> è, in effetti, un fatto letteralmente<br />

vero, in relazione a certe espressioni comportamentali, vocali e non, delle<br />

222


emozioni. In più, è facile e abbastanza naturale per noi immaginare l’esistenza di un<br />

modo di esprimere le emozioni alternativo e “specificatamente” <strong>musicale</strong>. Pertanto,<br />

riadattando il detto di Pratt alla luce di queste riflessioni, potremmo giungere ad affer-<br />

mare qualcosa del tipo: “La musica suona nel modo in cui una persona che esperisce e<br />

manifesta esternamente certe emozioni è” 313 ; il che è un altro modo per affermare la<br />

definizione dell’espressività <strong>musicale</strong> prec<strong>ed</strong>entemente fornita da Levinson, la quale, è<br />

evidente, soddisfa il fondamentale requisito dell’esternalità (terzo desideratum).<br />

Nel saggio che stiamo principalmente prendendo in esame, vale a dire Musical<br />

Expressiveness, Levinson dichiara all’inizio, come detto, di non voler discutere né di<br />

quelle che sono le cause dell’espressività <strong>musicale</strong>, né dei suoi possibili effetti o conse-<br />

guenze sull’ascoltatore, in quanto entrambi sono elementi inessenziali rispetto alla de-<br />

scrizione del significato intrinseco dell’espressività stessa. Tuttavia, una volta esplicita-<br />

ta la sua teoria della ‘persona <strong>musicale</strong>’, egli ritiene che un esame, seppur breve, dei<br />

suddetti elementi possa aiutarci a comprendere meglio alcuni importanti risvolti della<br />

teoria appena menzionata. Per ciò che concerne le cause dell’espressività <strong>musicale</strong>, Le-<br />

vinson ritiene che la somiglianza isomorfica tra musica e emozioni sia un fattore fondamentale<br />

per l’attribuzione di proprietà emotive alla musica, ma non sia l’unica. Altri<br />

fattori importati, che l’isomorfismo tende colpevolmente a ignorare, sono costituiti innanzitutto<br />

da quelle che lui chiama “risposte sub-emotive”, o “micro-sentimenti” − i<br />

quali comprendono “scosse, fremiti, pelle d’oca, soffocamenti; fitte, spasimi, sussulti,<br />

brividi; aumenti di tensione e rilassamenti, accelerazione e rallentamento del respiro,<br />

tensione e rilassamento dei muscoli; stati di aspettativa, apprensione, eccitazione, calma,<br />

soddisfazione, frustrazione; sentimenti di sorpresa, di conclusione, di incertezza;<br />

aumenti e cali di attenzione” 314 − che accompagnano il nostro ascolto dei brani musicali.<br />

Un’accelerazione del tempo o una suddivisione del battito può ad esempio produrre<br />

un aumento del battito cardiaco; un aumento costante di frequenza può generare ansia;<br />

la dolcezza di un accordo o di un vocalizzo può provocare una certa quantità di piacere;<br />

la risoluzione di una sospensione può portare a una sensazione di carattere misto; una<br />

dissonanza stridente può produrre un leggero dolore; una modulazione inattesa genera<br />

disorientamento; un cambiamento di direzione particolarmente attraente di una frase<br />

<strong>musicale</strong> suscita il desiderio che esso venga ripetuto o variato. Ora, Levinson sostiene<br />

che, sebbene non costituiscano l’intera componente esperienziale delle emozioni ordinarie,<br />

tali reazioni intrattengono evidentemente molte relazioni di affinità con le emo-<br />

313 Ivi, p. 116.<br />

314 Ivi, p. 113.<br />

223


zioni e con altri stati intenzionali pienamente sviluppati; esse sono gli ingr<strong>ed</strong>ienti di tali<br />

stati, e sono evocativi degli stessi, sebbene di per se stesse tali reazioni non siano in<br />

grado di indicare in maniera univoca nessuno di questi stati 315 .<br />

Non bisogna poi dimenticare il ruolo giocato da fattori di carattere convenzio-<br />

nale − pensiamo ad esempio al timbro del trombone, che solitamente tende (in assenza<br />

di elementi contrastanti) a rendere un passaggio <strong>musicale</strong>, per usare la terminologia le-<br />

vinsoniana, più prontamente ascoltabile come l’espressione comportamentale umana<br />

della solennità. Ad ogni modo, rimane il fatto che, in osservanza del requisito<br />

dell’analogia (primo desideratum), la proposta avanzata da Levinson preservi un ruolo<br />

primario al fattore della somiglianza tra la musica e i modi d’espressione umani, in par-<br />

ticolare di quelli riguardanti il suo comportamento, il suo gesticolare, il modo di cam-<br />

minare o parlare, e via dicendo. L’isomorfismo non è dunque l’unico fattore percepito<br />

responsabile dell’espressività (pur essendo quello principale); inoltre ciò che soprattut-<br />

to distingue la proposta di Levinson da quelle di Pratt, Budd, Scruton o Davies, è che il<br />

primo chiama in causa, come elemento necessario all’attribuzione di proprietà espres-<br />

sive alla musica, la nostra pr<strong>ed</strong>isposizione non solo a percepire tali fattori, ma anche a<br />

immaginare, a partire da essi, l’esistenza, attraverso la musica, di un individuo che agisce<br />

in una maniera in qualche modo simile a quella seguita dagli esseri umani quando<br />

manifestano le loro emozioni, pur utilizzando risorse diverse da quelle a cui questi ultimi<br />

attingono − ovvero risorse che sono analoghe al gesticolare, all’esprimersi con la<br />

voce, al muoversi in maniera espressiva, tipici dell’uomo, in tutte le loro forme, compresa<br />

la danza, ma che vanno al di là di queste. Quando la musica è espressiva, essa ci<br />

pr<strong>ed</strong>ispone a interpretarla come se essa fosse, o accogliesse in sé, un individuo che manifesta<br />

esternamente la sua vita interiore, attraverso delle modalità nuove e dotate di<br />

una potenza senza prec<strong>ed</strong>enti 316 .<br />

Passando invece agli effetti dell’espressività (come peraltro richiesto dal sesto<br />

desideratum, ovvero dal requisito dell’affettività), Levinson sostiene che vi possono essere<br />

almeno tre diverse maniere in cui un passaggio <strong>musicale</strong> espressivo può produrre<br />

uno stato affettivo in un ascoltatore. La prima implica che l’ascoltatore riconosca e identifichi,<br />

consapevolmente, il fatto che tale passaggio sia caratterizzato dall’<strong>emozione</strong><br />

315 Sull’importanza delle reazioni fisiche suscitate dall’ascolto della musica, si v<strong>ed</strong>a anche J. Levinson,<br />

Musical Chills, in Id., Contemplating Art, cit., pp. 220-36.<br />

316 A proposito, Levinson suggerisce anche che ascoltare un passaggio <strong>musicale</strong> come espressivo di E<br />

possa equivalere ad “ascoltarlo come, o a immaginarlo come se fosse, una persona che parla a noi in un<br />

linguaggio nuovo − un linguaggio che ci sembra di comprendere a un livello emotivo, sebbene non abbiamo<br />

familiarità con esso − e che attraverso tale linguaggio esprime ciò che sta provando”. (J. Levinson,<br />

Musical Expressiveness, cit., pp. 115-6).<br />

224


E, e quindi reagisca a tale riconoscimento in maniera empatica, simpatetica, o antipate-<br />

tica. La seconda implica che l’ascoltatore colga, in maniera sub-conscia, il fatto che ta-<br />

le passaggio sia caratterizzato da E, ad esempio riproducendone mentalmente i gesti,<br />

senza tuttavia che ciò sfoci nel riconoscimento intellettuale del tipo di <strong>emozione</strong> ripro-<br />

dotta. Il terzo, infine, implica che l’ascoltatore, col suo bagaglio di aspettative (musicali<br />

e percettive), semplicemente segua la progressione <strong>musicale</strong> del passaggio e provi un<br />

insieme variabile di reazioni di piccola scala e di micro-sentimenti del tipo prec<strong>ed</strong>entemente<br />

esemplificato che si sono in lui generati, i quali in modo naturale alimentano,<br />

in qualità di materiali di base, l’apprensione, conscia o sub-conscia, dell’espressività<br />

del passaggio in questione e influenzano quindi, in ultimo, ciò di cui il passaggio viene<br />

percepito, nell’ascolto, come espressivo.<br />

I sentimenti che proviamo in risposta alla musica non sempre, dunque, sono il<br />

risultato di un’identificazione volontaria con l’<strong>emozione</strong> del personaggio <strong>musicale</strong> che<br />

ci immaginiamo nell’ascolto. Altrettanto spesso, certi tipi di risposte emotive − le quali<br />

sono state denominate da Levinson sub-emotive − prec<strong>ed</strong>eranno e alimenteranno una<br />

siffatta identificazione con un personaggio, così come influenzeranno il modo in cui<br />

l’<strong>emozione</strong> del personaggio verrà costruita, o il tipo di <strong>emozione</strong>. Inoltre, quando<br />

l’identificazione con la musica è la via principale per la stimolazione di uno stato affettivo,<br />

non si dovrebbe pensare che si tratta sempre di una vera identificazione con, e della<br />

condivisione de, l’<strong>emozione</strong> del personaggio in quanto compresa e classificata in una<br />

certa maniera. Talvolta è sicuramente così; ma spesso si tratta semplicemente dell’autoappropriazione<br />

dei gesti percepiti nell’ascolto della musica, o semplicemente<br />

dell’assecondare internamente il fluire della musica nel mentre la si ascolta comprendendola<br />

(si pensi ad esempio al silenzioso “cantare insieme alla musica”), nessuno dei<br />

quali (fenomeni) presuppone la percezione consapevole, da parte dell’ascoltatore, del<br />

personaggio che esperisce e esprime una qualche particolare <strong>emozione</strong>.<br />

V<strong>ed</strong>iamo ora come Levinson affronta alcune delle obiezioni alle quali la concezione<br />

che spiega l’espressività <strong>musicale</strong> in termini di ascoltabilità-come-espressionepersonale<br />

può andare incontro. A tale concezione si potrebbe innanzitutto obiettare che<br />

l’immaginare un agente che stia esprimendo, attraverso ciò che avviene all’interno della<br />

musica, un’<strong>emozione</strong> E − al quale atto d’immaginazione potremmo equiparare il<br />

percepire la musica, nell’ascolto, come un’espressione di E − non può essere una condizione<br />

necessaria al riconoscimento del fatto che tale musica è espressiva di E, dal<br />

momento che un ascoltatore non ha bisogno di immaginare una siffatta cosa. La rispo-<br />

225


sta di Levinson consiste nel precisare che l’ascoltare-come immaginativo che, secondo<br />

la sua teoria, solitamente ha luogo quando percepiamo tale espressività, non deve necessariamente<br />

essere posto molto in primo piano, né, come egli ha già prec<strong>ed</strong>entemente<br />

sottolineato, deve necessariamente essere determinato in maniera assai precisa per ciò<br />

che riguarda la natura e l’identità dell’agente che sta esprimendo l’<strong>emozione</strong> o i meccanismi<br />

attraverso cui il suddetto agente manifesta esteriormente le emozioni per mezzo<br />

della musica.<br />

In secondo luogo, si potrebbe obiettare alla concezione di Levinson che essa<br />

implica che l’apprensione dell’espressività <strong>musicale</strong> sia un processo più riflessivo e intellettuale<br />

di quanto non sembri essere nella realtà, il che le imp<strong>ed</strong>irebbe di soddisfare<br />

il quarto desideratum della lista fornita all’inizio (ovvero il cosiddetto ‘requisito<br />

dell’imm<strong>ed</strong>iatezza’). Sembrerebbe infatti che, stando a quanto richiesto dalla teoria di<br />

Levinson, un ascoltatore che trovi un certo passaggio espressivo debba non solo percepire<br />

o ascoltare la musica come se fosse espressiva di un’<strong>emozione</strong>, ma debba anche<br />

inferire o giudicare che essa è stata prontamente e adeguatamente ascoltata in questa<br />

maniera da altre persone. Levinson risponde che, secondo la propria concezione, la<br />

percezione o l’apprensione dell’espressività <strong>musicale</strong> è davvero, di solito, imm<strong>ed</strong>iata e<br />

non-inferenziale. Ovvero, un ascoltatore qualificato ascolta la musica come se (essa)<br />

fosse un atto di espressione emotiva, acquisendo così in maniera del tutto normale, e<br />

senza l’intervento della riflessione, la convinzione che la musica sia prontamente e adeguatamente<br />

ascoltata in questa maniera da altre persone. Con ciò non va confusa però<br />

la conoscenza del fatto che la musica è risultata essere espressiva di un determinato<br />

stato emozionale − il che andrebbe tenuto distinto dalla semplice percezione o apprensione,<br />

da parte dell’ascoltatore, di tale espressività −, la quale conoscenza potrebbe in<br />

effetti richi<strong>ed</strong>ere la conferma testimoniata dalle reazioni convergenti avute da altri ascoltatori<br />

qualificati, o la consultazione di critici riconosciuti, i quali hanno lasciato una<br />

testimonianza scritta delle loro esperienze di ascoltare-come. Se teniamo a mente tale<br />

distinzione, conclude Levinson, allora non c’è alcuna contraddizione tra l’affermazione<br />

secondo cui l’espressività <strong>musicale</strong>, nella formulazione che da lui ne viene data, è qualcosa<br />

che degli ascoltatori adeguatamente informati possono apprendere direttamente, e<br />

l’ammissione che essi con ciò possono non sapere se l’espressività in questione sia<br />

precisamente quella che risulta loro essere.<br />

Si potrebbe ancora obiettare alla concezione di Levinson che essa rischia di ridurre<br />

l’espressività nella musica a una forma, seppur particolare, di rappresentazione.<br />

226


Qual è la differenza, ci si potrebbe chi<strong>ed</strong>ere, tra l’ascoltare un passaggio come il gioco<br />

delle onde nell’oceano, o come una battaglia, e l’ascoltare un passaggio come<br />

l’espressione sui generis di un’<strong>emozione</strong> da parte di una persona? In altre parole, è<br />

possibile evitare che l’espressività <strong>musicale</strong> collassi nella rappresentazione <strong>musicale</strong>,<br />

allorché adottiamo un modello dell’espressività <strong>musicale</strong> basato sull’ “ascoltare come<br />

se fosse un atto d’espressione”? 317 . La risposta, secondo Levinson, è affermativa; la sua<br />

teoria riesce a mantenere distinti i piani dell’espressione e della rappresentazione artistiche,<br />

sebbene queste siano in verità in una relazione più stretta di quanto solitamente<br />

si pensa (come presupposto dal secondo desideratum, ovvero dal requisito<br />

dell’estendibilità). Secondo la sua concezione, chiarisce Levinson, “un passaggio <strong>musicale</strong><br />

P esprime E non rappresentando E, ma fornendo ciò che è musicalmente richiesto,<br />

anche solo virtualmente, per la rappresentazione o per le espressioni finzionali di E −<br />

senza con ciò tuttavia rappresentare realmente tali espressioni” 318 . Non vi è una siffatta<br />

rappresentazione, principalmente in quanto le condizioni intenzionali per la rappresentazione<br />

non sono soddisfatte; ovvero, i compositori in genere non hanno l’intenzione<br />

che gli ascoltatori percepiscano tali atti espressivi nella loro musica. Inoltre, dato che<br />

l’ascoltare-come qui coinvolto è una forma di ascoltare-come-se-fosse, l’esperienza che<br />

sta al centro dell’ascoltare la musica come espressiva è di un tipo tutto sommato differente<br />

da quello dell’ascoltare, nei casi paradigmatici della rappresentazione <strong>musicale</strong>,<br />

un oggetto o un evento udibile nella musica; il primo è un tipo più attenuato di ascoltare-come,<br />

in quanto è un ascoltare che sta sotto l’egida del pensiero di una determinata<br />

espressione.<br />

Un’ultima e particolarmente insidiosa obiezione che è stata indirizzata alla nozione<br />

di “modalità sui-generis” di espressione, su cui la concezione di Levinson si basa,<br />

può essere formulata nella seguente maniera:<br />

Stando alla concezione difesa da Levinson, la musica espressiva è<br />

una musica che viene ascoltata come l’espressione personale sui generis<br />

di un’<strong>emozione</strong>. La concezione sembra quindi richi<strong>ed</strong>ere che gli<br />

ascoltatori ascoltino la musica come se fosse una modalità naturale di<br />

espressione delle emozioni … ovvero “come il modo in cui una per-<br />

317 In questa seconda tipologia di critiche può essere inserita, cr<strong>ed</strong>iamo, anche la critica mossa da Silvia<br />

Vizzardelli, la quale rileva che, se è vero, come vuole Levinson, che nell’ascoltare una musica espressiva<br />

noi percepiamo le emozioni musicali “come se queste fossero espressione di un personaggio”, allora il<br />

nostro rapporto con la musica è assimilabile a quello che abbiamo con la letteratura, poiché in ambo i<br />

casi “ci imm<strong>ed</strong>esimo in un carattere”; con ciò negando la specificità di ciascuna di queste due forme di<br />

espressività.<br />

318 J. Levinson, Musical Expressiveness, cit., p. 119.<br />

227


sona che sta esperendo l’<strong>emozione</strong> esprimerebbe comportamentalmente<br />

la sua <strong>emozione</strong>, se le persone esprimessero naturalmente i loro<br />

comportamenti attraverso la musica”. L’idea di base dell’ascoltare<br />

la musica come espressiva dell’<strong>emozione</strong> E si suppone sia questa:<br />

“Se la musica fosse una modalità naturale di espressione, questo brano<br />

<strong>musicale</strong> sarebbe realizzato da una persona che sta esperendo E”.<br />

Tuttavia, se le percezioni espressive che gli ascoltatori hanno di questo<br />

brano <strong>musicale</strong> dipendono da questa considerazione controfattuale,<br />

allora essi devono sapere cosa significhi dire che la musica è una<br />

modalità naturale di espressione. Ma dato che questo non si verifica,<br />

e ciononostante essi sono comunque in grado di ascoltare la musica<br />

come espressiva di emozioni, la concezione (basata sulla nozione di<br />

modalità) sui generis, per come è stata esposta, non può essere corretta<br />

319 .<br />

È possibile, secondo Levinson, replicare in due modi a tale obiezione. Il primo<br />

consiste nel continuare a sostenere che la modalità di espressione ascoltata nella musica<br />

deve essere del tipo sui generis appena indicato, aggiungendo tuttavia che gli ascoltato-<br />

ri non devono necessariamente sapere, in maniera dettagliata, cosa significa che la mu-<br />

sica è una modalità naturale di espressione, ma devono solamente essere disposti a po-<br />

stulare, nell’immaginazione, che la musica sia una siffatta modalità. Se quest’ultima<br />

condizione viene soddisfatta, nulla ci imp<strong>ed</strong>isce di pensare che la musica, in virtù del<br />

suo particolare profilo sonoro, delle risposte sub-emozionali che essa stimola, o di fattori<br />

convenzionali di vario genere, possa essere in grado di spingere gli ascoltatori a<br />

percepirla, nell’ascolto, come una naturale e alternativa modalità di espressione.<br />

Il secondo modo di replicare fa maggiori concessioni all’obiezione appena esposta.<br />

Esso richi<strong>ed</strong>e che si faccia quasi del tutto a meno di considerare la modalità di<br />

espressione ascoltata nella musica espressiva come una modalità sui generis. Sebbene<br />

la somiglianza tra la musica e le modalità di espressione umane sia solo parziale, probabilmente<br />

quando percepiamo l’espressività della musica noi stiamo ascoltando in essa<br />

non un tipo di espressione straordinario e sui generis, ma piuttosto un tipo non specificato<br />

di espressione personale − o anche semplicemente l’espressione personale tout<br />

court. E nondimeno, l’espressione che ascoltiamo nella musica è tale che, se qualcuno<br />

esprimesse davvero le proprie emozioni in quella maniera, ovvero, attraverso quella<br />

che sembra essere una musica emessa spontaneamente, questo costituirebbe un tipo sui<br />

generis di espressione. Quale delle due formulazioni dell’esperienza che funge da criterio<br />

per l’espressività <strong>musicale</strong>, si chi<strong>ed</strong>e quindi Levinson, è logicamente e fenomenologicamente<br />

la più indicata: 1) l’ascoltatore ascolta P come l’espressione personale di E<br />

319 Ivi, p. 120.<br />

228


(realizzata) in una maniera “<strong>musicale</strong>” e sui generis; o 2) l’ascoltatore ascolta P sem-<br />

plicemente come l’espressione personale di E, ma (realizzata) in una maniera che, se si<br />

riflettesse su di essa, sarebbe considerata come sui generis? Non è così facile risponde-<br />

re. Ad ogni modo, se adottassimo la risposta 1), l’obiezione verrebbe confutata; se a-<br />

dottassimo la risposta 2), l’obiezione verrebbe evitata.<br />

Ci si potrebbe ancora chi<strong>ed</strong>ere se la teoria dell’ascoltabilità-come-espressione-<br />

personale proposta da Levinson sia in grado di dar conto di quelle forme complesse e<br />

pluri-stratificate dell’espressività <strong>musicale</strong> di cui normalmente facciamo esperienza. Si<br />

pensi al terzo movimento del Quartetto per archi n. 6 di Bartok, intitolato “Burletta”,<br />

dove vi sono delle parti che esprimono un certo umorismo, e tuttavia evocano in noi, di<br />

primo acchito, l’immagine di una persona ubriaca; oppure si pensi alla musica “goffa”<br />

e “zotica” (in particolar modo per le note suonate dal contrabbasso verso la fine del<br />

pezzo) della Suite di Pulcinella di Stravinsky, la quale tuttavia è espressiva di un “pacchiano<br />

buon umore”. Di nuovo, sostiene Levinson, la sua teoria fornisce un buon paradigma<br />

per interpretare il carattere espressivo complesso di questi brani. Infatti, la ragione<br />

per cui Bartok esprime umorismo e non ubriachezza, e per cui Stravinsky esprime<br />

buonumore e non goffaggine, è che nell’ascoltare il primo brano noi percepiamo, in<br />

ultima analisi, non una manifestazione (<strong>musicale</strong>) di ubriachezza, ma piuttosto<br />

l’esistenza di un agente immaginario che finge, in maniera disinteressata, di essere ubriaco;<br />

così come nell’ascoltare il secondo brano noi percepiamo un agente immaginario<br />

che fa una parodia della suddetta goffaggine. In ciascuno dei due casi la musica<br />

viene “prontamente” ascoltata, all’interno del rispettivo contesto stilistico, come la parodia<br />

di second’ordine del comportamento di prim’ordine che viene in un primo momento<br />

chiamato in mente dalla musica, e quindi esprime qualcosa come uno spirito<br />

burlesco piuttosto che uno stato di rozzezza, oppure la parodia di un uomo ubriaco<br />

piuttosto che uno stato di pura ubriachezza. Un’espressione complessa di tipo differente<br />

è illustrata dallo Scherzo del Quartetto in Do diesis minore Op. 131 di Beethoven.<br />

Esso sembra essere espressivo di gioia, ma di un tipo particolare − una gioia che potremmo<br />

descrivere come frenetica. Questa espressività è in parte una funzione<br />

dell’inc<strong>ed</strong>ere proprio del brano, fatto di continue “fermate” e “ri-partenze”, di<br />

un’alternanza di segmenti ora lunghi e movimentati, ora brevi e calmi. Noi ascoltiamo<br />

la musica non semplicemente come l’espressione di gioia da parte di una persona, ma<br />

come l’espressione di gioia da parte di una persona frenetica, o di una gioia che viene<br />

esperita in maniera frenetica. È il modo in cui le diverse sezioni musicali sono collega-<br />

229


te tra loro che è cruciale per la realizzazione di questo tipo più specifico di espressività,<br />

che non si lascia ridurre al carattere imm<strong>ed</strong>iato proprio delle singole sezioni prese di<br />

per se stesse. Levinson suggerisce anche che in queste come in altre musiche noi per-<br />

cepiamo, in virtù della complessità della struttura compositiva, dei “personaggi musica-<br />

li di ordine più elevato”, ovvero dotati di una personalità complessa (corrispondente al<br />

modo in cui le diverse unità della composizione sono intrecciate) che non si lascia ri-<br />

durre a un singolo carattere (corrispondente a una particolare frase, melodia, cellula<br />

ritmiche, ecc).<br />

La concezione dell’espressività <strong>musicale</strong> difesa da Levinson si accorda anche,<br />

secondo l’autore, col fatto che alcuni, se non molti, passaggi musicali, pur essendo espressivi,<br />

non sono espressivi di stati emotivi a noi familiari e facilmente identificabili<br />

(dei quali la suddetta concezione, come visto, dà conto, in osservanza del quinto desideratum,<br />

ovvero del requisito della generalità). Ci possono essere diverse ragioni per<br />

questo, puntualmente rilevate da Levinson. Innanzitutto, un passaggio <strong>musicale</strong>, anche<br />

quando è molto interessante dal punto di vista <strong>musicale</strong>, può non essere affatto espressivo<br />

− ovvero, esso può non indurre degli ascoltatori adeguatamente informati a percepirlo,<br />

nell’ascolto, come se fosse un’espressione emozionale di un qualsivoglia genere<br />

320 . (Si pensi, ad esempio, ad alcune delle Invenzioni a due voci di Bach, o a certe<br />

parti del balletto Apollo di Stravinsky, o al terzo movimento della quinta sonata per violoncello<br />

op. 105 di Beethoven). Oppure un passaggio potrebbe essere tale da indurre<br />

negli ascoltatori varie e fluttuanti esperienze di ascolto della musica in quanto espressione<br />

di emozioni, esperienze che non convergono stabilmente su una particolare <strong>emozione</strong>;<br />

in altre parole, la dimensione espressiva di tale musica è irriducibilmente ambigua<br />

o indeterminata. (Alcuni esempi potrebbero essere rappresentati dall’inizio altamente<br />

evocativo del primo quartetto d’archi di Janacek, o dal primo movimento<br />

dell’enigmatica Sonata per violoncello e pianoforte di Debussy). Oppure, il che è differente,<br />

un passaggio può essere tale da indurre, in ascoltatori adeguati, un’esperienza divisa<br />

o duplice, eppure stabile e convergente, di ascolto della musica come se fosse<br />

un’espressione di emozioni; in tali casi vi è l’espressione non di una particolare <strong>emozione</strong><br />

ma di uno stato emozionale ibrido o misto, uno stato che probabilmente non incontriamo<br />

molto spesso in situazioni extramusicali. (Un esempio potrebbe essere il se-<br />

320 Anche per Levinson, come per altri autori citati nel nostro lavoro (si pensi ad esempio a Budd),<br />

l’espressività, pur essendo un elemento importante della musica (oltre che dell’arte in genere), non è<br />

l’unica fonte di valore di un brano <strong>musicale</strong>, che può essere interessante sotto molti altri profili (ad esempio<br />

per la sua struttura formale, per il suo collegarsi ad altre opere, ecc.). Si v<strong>ed</strong>a a tal proposito J.<br />

Levinson, Evaluating Music (1998), ora in Id., Contemplating Art, cit., pp. 184 – 208).<br />

230


condo tema del primo movimento del quartetto d’archi di Ravel, con la sua peculiare<br />

mescolanza di malinconia, sensualità e mistero).<br />

Infine, Levinson ci tiene a precisare in che modo la sua concezione soddisfa<br />

l’ultimo dei desiderata da lui stesso elencati all’inizio, quello che richi<strong>ed</strong>e che una<br />

spiegazione dell’espressività <strong>musicale</strong> debba riconoscere, e rendere intelligibile, il va-<br />

lore di tale espressività. In sintesi, egli sostiene che il valore che l’espressività <strong>musicale</strong>,<br />

intesa come la “pronta ascoltabilità della musica come espressione personale”, ha<br />

per chi la ascolta, è il valore insito nel confrontare “immagini dell’esperienza umana”;<br />

tale confronto, ovviamente, avviene anche nella nostra vita reale e quotidiana, ma<br />

quando ascoltiamo una musica espressiva noi ci formiamo immagini che sono costituite<br />

e intrecciate con la sostanza della musica, una sostanza in cui possiamo essere assorbiti<br />

così da vicino che è come se, per usare la famosa frase di T.S. Eliot, diventiamo noi<br />

stessi musica mentre la ascoltiamo, e partecipiamo così della vita mentale incarnata<br />

nella musica stessa. Una tale imm<strong>ed</strong>esimazione nella musica avviene in virtù del fatto<br />

che, e nella misura in cui, la musica in ultimo ci colpisce come se fosse davvero<br />

l’espressione di una certa <strong>emozione</strong> da parte di qualcuno. Una volta che ciò accade, “ci<br />

si apre la possibilità di identificarci con quell’atto immaginario di espressione e farlo<br />

nostro, a vari livelli, riproducendo interiormente i suoi gesti e sperimentando attraverso<br />

l’empatia i suoi aspetti più intimi − tutto ciò senza che si perda il contatto con le movenze<br />

specificatamente sonore che fanno sì che la musica sia esattamente ciò che è” 321 .<br />

Il motivo per cui abbiamo deciso di concludere il nostro lavoro di ricerca con<br />

l’analisi della teoria di Jerrold Levinson non è casuale. Sin dalle prime pagine del lavoro<br />

abbiamo infatti puntualizzato come fosse di primario interesse per noi l’evidenziare i<br />

punti di contatto riscontrabili tra le diverse posizioni che hanno animato il dibattito<br />

analitico sul tema dell’espressività <strong>musicale</strong>, piuttosto che schierarci con l’uno o con<br />

l’altro partito appoggiandone così l’apparente incompatibilità. Non sono mancati, certo,<br />

da parte dei vari autori qui esaminati, tentativi di mostrare delle affinità con quanto affermato<br />

da altri autori sullo stesso argomento. Tentativi che in Levinson assumono per<br />

la prima volta un aspetto sistematico. Egli presenta infatti la sua teoria come il naturale<br />

risultato del perfezionamento delle posizioni, pure per certi aspetti illuminanti, che lo<br />

hanno prec<strong>ed</strong>uto e con cui egli si è confrontato.<br />

Ora, ciò che qui in ultimo ci interessa non è tanto v<strong>ed</strong>ere se la teoria di Levinson<br />

ponga davvero la parola fine al dibattito sull’espressione delle emozioni in musica,<br />

321 J. Levinson, Musical Expressiveness, cit., p. 125.<br />

231


quanto prendere spunto dal metodo da lui seguito e puntualizzare quelli che, a nostro<br />

avviso, sono i presupposti che sembrano accomunare la maggior parte delle posizioni<br />

considerate.<br />

Non ci sembra azzardato riconoscere in un certo grado di isomorfismo tra musi-<br />

ca e emozioni la base principale dell’attribuzione di proprietà espressive alla musica.<br />

Tale isomorfismo riguarda per lo più da un lato il movimento <strong>musicale</strong>, dall’altro la<br />

componente propriamente affettiva (ovvero non cognitiva) delle emozioni. La relazione<br />

di somiglianza isomorfica appena enunciata non è però qualcosa che viene passivamente<br />

recepita dal soggetto, il quale si avvale invece della facoltà dell’immaginazione, che<br />

gli permette di percepire, ascoltandolo, il movimento <strong>musicale</strong> nel suo proc<strong>ed</strong>ere in sintonia<br />

con le dinamiche proprie della vita emotiva dell’uomo. A questo punto serve però<br />

un passaggio definitivo e coraggioso, vale a dire un vero e proprio salto da una nozione<br />

descrittiva di isomorfismo ad una nozione esperienziale. Non importa ciò che naturalmente<br />

registriamo come analogo strutturalmente o formalmente, ma ciò che ci appare<br />

tale all’interno della nostra esperienza. È nell’ambito complesso e multiforme della nostra<br />

esperienza che si costruiscono ponti, passaggi, conversioni sulla base della percezione<br />

diretta e in “prima persona” di isomorfismi. L’esperienza dell’espressività <strong>musicale</strong><br />

è identificabile in questa attività percettiva; attività che, pur coinvolgendo<br />

l’immaginazione, non ha nulla a che fare con l’inferenza razionale, ma si dà imm<strong>ed</strong>iatamente<br />

e spesso, sebbene non necessariamente, è accompagnata da una reazione emotiva<br />

significativa.<br />

Quella che abbiamo appena proposto è una sintesi personale dei risultati fin qui<br />

raggiunti dagli autori analitici che hanno dibattuto sul tema in questione. Volendo, potremmo<br />

anche noi estrapolare dalla sintesi appena compiuta alcuni requisiti, o desiderata,<br />

che brevemente potremmo chiamare: a) requisito dell’isomorfismo; b) requisito<br />

del movimento <strong>musicale</strong>; c) requisito del feeling component of emotion; d) requisito<br />

dell’immaginazione; e) requisito della risposta affettiva. A nostro avviso, essi possono<br />

essere un’utile guida per valutare le concezioni dell’espressività <strong>musicale</strong> che si fronteggiano<br />

in ambito analitico, e, cr<strong>ed</strong>iamo, da essi difficilmente potrà prescindere chiunque<br />

voglia proporre nuove concezioni relativamente al problema dell’espressività <strong>musicale</strong>.<br />

232


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