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LA TOSCANA NUOVA - OTTOBRE 2020

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I grandi della

Fotografia

A cura di

Maria Grazia Dainelli

Gianni Berengo Gardin

Intervista al maestro della fotografia italiana in bianco e nero

di Maria Grazia Dainelli / foto Gianni Berengo Gardin

Quando ha capito che avrebbe

voluto intraprendere la professione

di fotografo?

Ho iniziato come fotoamatore per sei

anni e ho poi deciso di intraprendere la

professione di fotografo all’inizio degli

anni Sessanta quando un mio zio che viveva

in America mi mise in contatto con

Cornell Capa, fratello del grande Robert,

che m’inviò alcuni libri di fotografi

americani. Presi ispirazione da alcuni

di loro, soprattutto Eugene Smith e Dorothea

Lang, che ai tempi pubblicavano

su Life e Magnum. Compresi che con la

fotografia potevo raccontare delle storie

ed è da allora che faccio il mio mestiere

cercando di farlo al meglio.

Nasce come fotografo in bianco e nero

e ancora oggi continua con questa

scelta, per quale motivo?

Sono nato con la televisione in bianco

e nero, appassionato di cinema francese

sempre in bianco e nero e la maggior

parte dei miei maestri utilizzavano questa

forma di rappresentazione visiva, a

cui mi sono ispirato con i miei reportage

perché secondo me il colore distrae chi

fa la foto e chi la legge.

Ha accumulato un archivio monumentale

di 2.000.000 di scatti e pubblicato

circa 260 libri. Come si arriva a

questi grandi numeri?

La mia prima pubblicazione risale al

1954 quando alcune delle mie foto furono

pubblicate su Il Mondo di Mario Pannunzio.

Successivamente, l’incontro con

un editore svizzero mi consentì di pubblicare

il libro su Venezia in bianco e nero.

Ebbe un grande successo non solo

per merito mio ma anche perché c’era

un testo di Giorgio Bassani e uno di Mario

Soldani; tale notorietà mi permise di

entrare a far parte del mondo della fotografia

professionale a tutti gli effetti, collezionando

da quel momento mostre in

tutto il mondo e numerose pubblicazioni.

Negli anni del boom economico si è

dedicato al reportage industriale lavorando

per Fiat, Ansaldo, Pirelli, Olivetti:

con questi importanti committenti

è riuscito ad esprimersi liberamente?

È stato un autentico privilegio lavorare

per Olivetti perché ho potuto apprezzare

il fermento culturale intorno a questa

grande azienda mantenendo intatta la

mia libertà espressiva. Si fidavano di me

e avevo un profondo rapporto di amicizia

con Giorgio Soavi. Scattare per Fiat

è stato molto più problematico perché

avevo alcune persone intorno che mi

controllavano quotidianamente.

Talvolta è stato accostato a Henri Cartier

Bresson per il lirismo della sua fotografia.

È lui il maestro del Novecento

a cui si è ispirato maggiormente?

Lavorando per due anni come cameriere

a Parigi e avendo molto tempo libero,

ho avuto il privilegio di conoscere grandi

scrittori e soprattutto grandi maestri

come Robert Doisneau. Fotografavo assieme

a lui ma non andavamo d’accordo

perché metteva in posa i suoi soggetti e

le foto erano costruite. Vorrei precisare

che da sempre mi definiscono il Cartier

Bresson italiano ma in realtà mi sento

il Willy Ronis italiano, per l’ammirazione

che nutro verso i suoi scatti ricchi di

un’umanità semplice ma gioiosa.

Ha raccontato, dal dopoguerra ad oggi,

l’emancipazione della donna, il

progresso sociale e civile. Cosa l’ha

spinta a dedicarsi al reportage?

L’impegno del fotografo non deve esse-

Parma, ospedale psichiatrico (1968) Venezia, passaggio di una Grande Nave nel Canale della Giudecca (2013)

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GIANNI BERENGO GARDIN

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