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I grandi della
Fotografia
A cura di
Maria Grazia Dainelli
Gianni Berengo Gardin
Intervista al maestro della fotografia italiana in bianco e nero
di Maria Grazia Dainelli / foto Gianni Berengo Gardin
Quando ha capito che avrebbe
voluto intraprendere la professione
di fotografo?
Ho iniziato come fotoamatore per sei
anni e ho poi deciso di intraprendere la
professione di fotografo all’inizio degli
anni Sessanta quando un mio zio che viveva
in America mi mise in contatto con
Cornell Capa, fratello del grande Robert,
che m’inviò alcuni libri di fotografi
americani. Presi ispirazione da alcuni
di loro, soprattutto Eugene Smith e Dorothea
Lang, che ai tempi pubblicavano
su Life e Magnum. Compresi che con la
fotografia potevo raccontare delle storie
ed è da allora che faccio il mio mestiere
cercando di farlo al meglio.
Nasce come fotografo in bianco e nero
e ancora oggi continua con questa
scelta, per quale motivo?
Sono nato con la televisione in bianco
e nero, appassionato di cinema francese
sempre in bianco e nero e la maggior
parte dei miei maestri utilizzavano questa
forma di rappresentazione visiva, a
cui mi sono ispirato con i miei reportage
perché secondo me il colore distrae chi
fa la foto e chi la legge.
Ha accumulato un archivio monumentale
di 2.000.000 di scatti e pubblicato
circa 260 libri. Come si arriva a
questi grandi numeri?
La mia prima pubblicazione risale al
1954 quando alcune delle mie foto furono
pubblicate su Il Mondo di Mario Pannunzio.
Successivamente, l’incontro con
un editore svizzero mi consentì di pubblicare
il libro su Venezia in bianco e nero.
Ebbe un grande successo non solo
per merito mio ma anche perché c’era
un testo di Giorgio Bassani e uno di Mario
Soldani; tale notorietà mi permise di
entrare a far parte del mondo della fotografia
professionale a tutti gli effetti, collezionando
da quel momento mostre in
tutto il mondo e numerose pubblicazioni.
Negli anni del boom economico si è
dedicato al reportage industriale lavorando
per Fiat, Ansaldo, Pirelli, Olivetti:
con questi importanti committenti
è riuscito ad esprimersi liberamente?
È stato un autentico privilegio lavorare
per Olivetti perché ho potuto apprezzare
il fermento culturale intorno a questa
grande azienda mantenendo intatta la
mia libertà espressiva. Si fidavano di me
e avevo un profondo rapporto di amicizia
con Giorgio Soavi. Scattare per Fiat
è stato molto più problematico perché
avevo alcune persone intorno che mi
controllavano quotidianamente.
Talvolta è stato accostato a Henri Cartier
Bresson per il lirismo della sua fotografia.
È lui il maestro del Novecento
a cui si è ispirato maggiormente?
Lavorando per due anni come cameriere
a Parigi e avendo molto tempo libero,
ho avuto il privilegio di conoscere grandi
scrittori e soprattutto grandi maestri
come Robert Doisneau. Fotografavo assieme
a lui ma non andavamo d’accordo
perché metteva in posa i suoi soggetti e
le foto erano costruite. Vorrei precisare
che da sempre mi definiscono il Cartier
Bresson italiano ma in realtà mi sento
il Willy Ronis italiano, per l’ammirazione
che nutro verso i suoi scatti ricchi di
un’umanità semplice ma gioiosa.
Ha raccontato, dal dopoguerra ad oggi,
l’emancipazione della donna, il
progresso sociale e civile. Cosa l’ha
spinta a dedicarsi al reportage?
L’impegno del fotografo non deve esse-
Parma, ospedale psichiatrico (1968) Venezia, passaggio di una Grande Nave nel Canale della Giudecca (2013)
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GIANNI BERENGO GARDIN