materie. O, in altro modo, anche il cinese Liu Jianhua, autore <strong>di</strong> suggestioni <strong>di</strong> città e linee urbane attraverso materiali <strong>di</strong> tipo <strong>di</strong>verso, dalla plastica alla ceramica. La <strong>scultura</strong> può tornare a erigersi, sebbene debba <strong>di</strong>scutere inevitabilmente con la sua controparte: la <strong>di</strong>ssipazione, lo sgretolamento, la fragilità. Perfino quei giovani in cui resta forte il metodo d’approccio concettuale non possono fare a meno <strong>di</strong> ripensare alla storia. Giorgio Andreotta Calò riesuma uno dei tra<strong>di</strong>zionali ambiti del monumentale, quello ai caduti, sebbene non possa esimersi dal tradurlo in un’esperienza personale come salire alle cave e riprovare l’attività dei cavatori a cui l’opera è de<strong>di</strong>cata. Cyprien Gaillard - suggestionato dalla storia che svanisce, dagli e<strong>di</strong>fici abbattuti, anche quando si tratta monumenti <strong>di</strong> architettura modernista poco illustre - fa compiere un viaggio a ritroso a un pezzo <strong>di</strong> marmo, un frammento superstite del rivestimento della lobby delle Twin Towers: unico modo oggi in cui si possano affrontare insieme la problematica della <strong>scultura</strong> e quella della storia. Rossella Biscotti torna agli archivi anarchici e lo fa recuperando anche la tecnica della tipografia a caratteri mobili, imponendo però un rapporto <strong>di</strong>- retto con il singolo visitatore, che deve decifrare i testi in caratteri <strong>di</strong> piombo posti a rovescio su vasti tavoli. Kevin van Braak investiga l’architettura fascista, in particolare quella che dava luogo a facciate scenografiche per parate e incontri <strong>di</strong> massa. Nemanja Cvijanović, sempre pronto a ri<strong>di</strong>scutere le ideologie politiche del Novecento in chiave critica e malinconica, lavora sull’Internazionale, l’inno che tanta parte ha avuto nella storia del secolo passato; Marcelo Cidade, invece, torna al minimalismo <strong>di</strong> gran<strong>di</strong> blocchi <strong>di</strong> marmo introducendovi però un commento critico carpito dalla cultura underground dei writers da cui proviene. Valentin Carron ri<strong>di</strong>scute i simboli tipici della sua cultura d’origine e insieme del modernismo, con deplacement che mettono in dubbio il valore <strong>di</strong> quei simboli, al tempo stesso recuperandoli. Infine, c’è Daniel Knorr che insiste invece su tematiche più generali, su una storia naturale, quasi geologica, affrontando il tema della consunzione attraverso il lento bruciare <strong>di</strong> un incenso per tutto il periodo della mostra. A ben guardare, in realtà, la monumentalità più statica e imponente non è finita, ha solo cambiato registro. È l’architettura che ha preso il posto della <strong>scultura</strong>, fornendo i simboli, i monumenti in cui le nostre città si riconoscono, giacché la loro funzionalità avvalla più facilmente la proiezione <strong>di</strong> un desiderio <strong>di</strong> maestosità, <strong>di</strong> elevazione, da sempre insito nel- l’uomo. Ecco allora che una serie <strong>di</strong> maquette e alcuni progetti specifici stanno a segnare in mostra questo spostamento <strong>di</strong> versante. Da Zaha Ha<strong>di</strong>d a Norman Foster, da Jean Nouvel a Daniel Libeskind, da Massimiliano Fuksas a Frank O. Gehry, o a gruppi più giovani come gli Asymptote o MVRDV. Effettivamente, dal punto <strong>di</strong> vista della ricerca estetica, questi monumenti non si <strong>di</strong>scostano troppo dalla <strong>scultura</strong> <strong>di</strong> quarant’anni fa, postcubista, organica o informale, lasciando il primato della ricerca <strong>di</strong> punta ancora all’ambito dell’arte, o ad architetti utopisti come Yona Friedman che della visionarietà volatile hanno fatto da tempo il fulcro del loro lavoro. Non manca poi un accenno al lato opposto della monumentalità, alla performance, che nella sua fugacità pone il problema del tempo come istante, anziché <strong>di</strong> una temporalità duratura e stabile. Nevin Aladag, Vanessa Beecroft, Zorka Wollny, insieme a un work shop <strong>di</strong> Grzegorz Kowalski, rappresentano proprio questo aspetto <strong>di</strong> un’arte immateriale che attraversa lo spazio e il tempo, e che grazie alla possibilità <strong>di</strong> mescolanza sinestetica sembrerebbe uno degli ambiti più ricchi <strong>di</strong> futuro. Questa mostra non intende, comunque, dare risposte certe. 24
Non sono i tempi per <strong>di</strong>re cosa succederà, come si assesterà l’attuale fase <strong>di</strong> trasformazione, cosa accadrà dei simboli passati. Essa vuole essere una sorta <strong>di</strong> cartina <strong>di</strong> tornasole, un’indagine in vitro svolta all’interno <strong>di</strong> una città che è un laboratorio a cielo aperto, per la tra<strong>di</strong>zione che la lega in<strong>di</strong>ssolubilmente all’arte, e per le con<strong>di</strong>zioni che la fanno specchio <strong>di</strong> una situazione globale. Ecco dunque Postmonument, una mostra che vuole rappresentare un’età <strong>di</strong> trapasso, in cui i valori del passato sembrano esauriti, ma quelli del futuro non sono forse ancora nati. Questo percorso, iniziato con dei simboli cimiteriali, si chiude con una croce: una croce piatta e orizzontale <strong>di</strong> Carl Andre. Ciascuno la legga come vuole: un monito, un ritorno al passato, oppure una forma minimale senza significato che non ha nulla a che fare con i simboli che abbiamo conosciuto. Fabio Cavallucci (in Postmonument, saggio nel catalogo della mostra) 25
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