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Il modello istituzionale corporativo a Torino nel Settecento ...

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di gravi alterazioni dell’equilibrio esistente e non già di armonie economiche, come veniva<br />

preconizzato dagli alfieri del liberismo.<br />

La documentazione prodotta dal Consiglio e dal Consolato di commercio, dunque, sembra indicare<br />

che durante il <strong>Settecento</strong> la pratica di negare ai produttori libertà di ingresso sul mercato rientrasse in<br />

un <strong>modello</strong> generalmente condiviso per approntare <strong>nel</strong> paese una struttura produttiva adeguata agli<br />

scambi internazionali. Affinché le attività produttive, specie quelle ritenute strategiche a tal fine ,<br />

potessero mettere solide radici <strong>nel</strong>lo stato e quindi la crescita divenire irreversibile bisognava<br />

introdurre incentivi per attirare capitale umano dall'estero, sviluppare all’interno le istituzioni che<br />

erano in grado di formarne di nuovo, ma soprattutto limitare i rischi connessi alla perdita del lavoro<br />

quando la domanda ristagnava. <strong>Il</strong> patto implicito che univa i produttori di una corporazione e<br />

riemergeva nei momenti di maggiore tensione era che le commesse dei mercanti dovessero<br />

distribuirsi equamente tra tutti i mastri operai .<br />

Anche la manifattura privilegiata , se intendeva conservare la privativa, doveva impegnarsi a<br />

mantenere in attività un certo numero di telai indipendentemente dalle condizioni del mercato ,<br />

quindi, pur di assicurare l’occupazione agli operai qualificati, l’impresa veniva forzata dal potere<br />

centrale a produrre per il magazzino. Quando, infine, la situazione si faceva insostenibile,<br />

intervenivano le autorità economiche che, violando ogni legge di mercato, imponevano ai mercanti<br />

importatori, anch’essi peraltro monopolisti di diritto se non di fatto, l’acquisto forzoso di una quota<br />

parte della produzione nazionale.<br />

Rientrava <strong>nel</strong> <strong>modello</strong> condiviso anche una viva ostilità verso i processi di concentrazione messi in<br />

atto dagli operatori più dinamici presenti soprattutto <strong>nel</strong> settore tessile. In generale, tali<br />

comportamenti venivano intesi <strong>nel</strong> senso di un’aspirazione al massimo profitto invece di leggerli<br />

come una ricerca di economie attraverso l’ampliamento della scala produttiva . La concentrazione ,<br />

infatti, era sospettata di essere causa prima non tanto di fenomeni di proletarizzazione, quanto di<br />

emigrazione dei lavoratori specializzati, mastri e lavoranti, con il temuto effetto di uno sradicamento<br />

di quelle attività industriali dipendenti dal capitale umano che erano state faticosamente introdotte<br />

<strong>nel</strong> paese. Lo sviluppo delle forze produttive guidato dalle istituzioni economiche che si facevano<br />

garanti dell’osservanza delle regole , quindi, sembrava assicurare maggiore stabilità e difesa contro i<br />

rischi che <strong>nel</strong> lungo andare potessero manifestarsi <strong>nel</strong>lo stato processi di deindustrializzazione.<br />

Sebbene, già dalla metà del secolo, le inefficienze del sistema <strong>corporativo</strong> in ordine alla<br />

realizzazione degli obbiettivi produttivistici fossero state all’origine delle prime incertezze sulla<br />

reale efficacia ed efficienza del <strong>modello</strong> che raccoglieva il maggior consenso <strong>nel</strong> paese, dubbi anche<br />

più consistenti sorgevano nei protagonisti della vita economica circa la capacità del <strong>modello</strong><br />

alternativo, concorrenziale e individualista, di conseguire uno sviluppo dell’offerta in spontaneo<br />

equilibrio con la domanda. L’eventualità più temuta era che in assenza di una adeguata regolazione<br />

da parte delle istituzioni economiche si verificassero crisi di saturazione del mercato che venivano<br />

considerate assai più dannose di quelle connesse alla sottoproduzione di materie prime perché le<br />

aspettative pessimistiche che avrebbero generato sarebbero state tali da mettere in fuga il bene più<br />

prezioso per la vita produttiva del piccolo regno, la manodopera specializzata, appunto. L’<br />

esperienza di economia di mercato che i manifattori subalpini e la classe dirigente in genere avevano<br />

maturato fino ad allora era limitata ad ambienti troppo ristretti perché la legge dei grandi numeri<br />

avesse potuto trovare applicazione. Quindi, risultava assai difficile per questi soggetti credere agli<br />

effetti rigeneranti in termini di efficienza che potevano venire dall'allontanamento dei produttori<br />

marginali per effetto della crisi e della successiva migliore allocazione delle risorse. Non solo ,ma<br />

l'esperienza fatta fino ad allora aveva mostrato l'imperfezione del mercato piuttosto che la sua<br />

teorica perfezione, per questa ragione buona parte dei memorialisti sabaudi ,interlocutori del<br />

Ministero dell’interno, riteneva che in un sistema economico guidato dalla smitthiana “mano<br />

invisibile”, anziché dall'istituzione , l'arbitrio sarebbe stato anche maggiore rispetto a quello che<br />

caratterizzava il sistema tradizionale basato sul privilegio <strong>corporativo</strong>. Difatti, così si argomentava,<br />

mentre il monopolio legale era comunque delimitato e controllabile da un'autorità, il sistema di<br />

concorrenza oltre a non offrire garanzie per il consumatore in merito alla tutela della qualità del<br />

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