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Anno Numero 1993 11 - Studi Filosofici

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nelle nostre intenzioni di significato. 32 E tutte queste<br />

prospettive sembrano suggerire che - come Rorty ha<br />

mostrato - noi possiamo solo presupporre una “base<br />

contingente per un consenso possibile” come una base di<br />

senso comune anche per l’etica, 33 dal momento che una<br />

singola persona non può evitare di essere dipendente,<br />

nelle sue preconcezioni del bene, dallo sfondo storico<br />

della sua tradizione culturale.<br />

Ma perché è impossibile negare la presupposizione di<br />

norme valide universalmente - come quella della parità<br />

dei diritti - in una discussione su questi problemi, anche<br />

in un dibattito con rappresentanti di forme di vita socioculturali<br />

molto differenti? O più esattamente: perché i<br />

molti filosofi, che a livello dei loro enunciati negano la<br />

necessità di presupporre qualunque norma valida universalmente,<br />

in effetti contraddicono l’enunciazione (performance)<br />

delle loro asserzioni dal momento che riescono<br />

a portare avanti argomentazioni dotate di senso, cioè,<br />

intellegibili? (Non ho mai visto, per esempio, che R.<br />

Rorty in una delle sue lunghe argomentazioni contro la<br />

possibilità di presupporre forme universali si sia mai<br />

comportato come se egli non sapesse che tutti i partner<br />

delle discussioni devono certamente seguire norme di<br />

comunicazione universalmente valide.)<br />

Qualcuno potrebbe forse dire che le norme procedurali<br />

che devono essere seguite in un discorso argomentativo<br />

su un qualsiasi problema non hanno nulla a che vedere<br />

con la ricerca di norme morali valide per la vita quotidiana,<br />

dal momento che esse sono semplicemente strumenti<br />

in relazione al comune, ma nondimeno contingente scopo<br />

della discussione in atto?<br />

Prima di tutto risponderei a quest’ultima argomentazione<br />

nel modo seguente. Il fatto che noi dobbiamo discutere<br />

qualunque argomento controverso in un discorso argomentativo<br />

non è contingente o incidentale, dal momento<br />

che non c’è ragionevole alternativa a quel metodo se non<br />

desideriamo combattere o negoziare, ma vogliamo riuscire<br />

a capire tramite ragionamenti chi ha ragione sull’argomento<br />

in questione. Ma questo - che si desideri sapere<br />

chi ha ragione - è il presupposto di ogni discussione<br />

filosofica. Da ciò segue che il metodo del discorso<br />

argomentativo, comprese le sue presupposizioni normative<br />

moralmente rilevanti, non può essere evitato in<br />

filosofia. E’, vorrei affermare, l’a priori di ogni filosofia<br />

trascendetal-pragmatico, o in altre parole: appartiene al<br />

non-contingente “fatto della ragione” in senso kantiano.<br />

E, come ho già suggerito, questo fatto non-contingente<br />

della ragione non può essere esterno o incidentale rispetto<br />

alle reali controversie morali del mondo della vita,<br />

poiché è la sola istituzione umana che può fornire una<br />

possibile, ragionevole soluzione a queste controversie.<br />

Ciò è riconfermato dal fatto che in tutte le controversie<br />

umane, espresse a quel livello della comunicazione che<br />

pur non attinge ancora il piano del discorso argomentativo,<br />

le parti in conflitto avanzano spontaneamente pretese<br />

di validità universale finché non interrompono la comunicazione.<br />

34<br />

Come potrebbero allora questi fatti della comunicazione<br />

essere riconciliati con il riconoscimento del carattere<br />

contingente, proprio di ogni sapere di sfondo storicamente<br />

dato, di tutte le nostre nozioni circa il bene in differenti<br />

CONFERENZA<br />

22<br />

forme di vita socio-culturali?<br />

Ritengo che si faccia un errore, allorché, nel quadro della<br />

presente discussione, si contrapponga la contingenza<br />

storica alla universalità delle norme - un errore simile a<br />

quello fatto nell’opporre l’etica particolare della vita<br />

buona all’etica formale-deontologica della giustizia o del<br />

diritto. In entrambi i casi si trascura il fatto che coloro -<br />

cioè i filosofi - che discutono della contingenza storica<br />

delle condizioni di sfondo di tutte le forme di vita si sono<br />

già sempre, in modo riflessivo, portati al di là di queste<br />

condizioni contingenti. E lo hanno fatto, accettando la<br />

nuova istituzione post-illuminista del discorso argomentativo<br />

che, a partire dalle sue origini ad oggi, fornisce le<br />

condizioni procedurali per la possibilità della filosofia e<br />

di tutte le scienze. Ora, facendo assegnamento su queste<br />

precondizioni dell’argomentazione - che nessun filosofo<br />

può evitare 35 - essi hanno anche riconosciuto alcune<br />

precondizioni normative valide per ogni argomentazione<br />

comunicativa, le quali non possono venire annoverate tra<br />

le condizioni di sfondo, storicamente contingenti, delle<br />

diverse tradizioni culturali della morale.<br />

Ovviamente, le non-contingenti presupposizioni normative<br />

del discorso argomentativo devono essere formali e<br />

procedurali. Perciò non possono prescrivere norme materiali<br />

o i valori di una vita buona per culture specifiche,<br />

ma solo condizioni restrittive che rendano possibile alle<br />

diverse forme di vita la coesistenza e la cooperazione.<br />

Ora questa differenza e questa complementarità, di cui ho<br />

già parlato, possono, anche nel caso di Rawls, chiarire la<br />

relazione tra le norme universali della giustizia come<br />

equità e una particolare tradizione americana di moralità.<br />

Si potrebbe facilmente ammettere che Rawls avrebbe<br />

potuto sviluppare ed esplicitare dettagliatamente i suoi<br />

due principi di giustizia, se non affidandosi e ricollegandosi<br />

alla specifica tradizione morale e alla costituzione<br />

politica americana. In questo senso il suo libro fornisce<br />

semplicemente delle proposte da sottoporre ai discorsi<br />

pratici degli uomini, allo stesso modo dell’opera di ogni<br />

altro filosofo, il quale ovviamente deve lasciarsi ispirare<br />

dalla sua particolare tradizione culturale.<br />

Ma questa ammissione non implica una resa dell’universalismo<br />

etico al relativismo-storico. Poiché i principi<br />

della giustizia come equità devono essere anche basati su<br />

quelle intuizioni morali che ci sono fornite dalle presupposizioni<br />

non-contingenti dell’istituzione - o della filosofica<br />

meta-istituzione - del discorso argomentativo, cui<br />

ogni filosofo deve partecipare, allo scopo di argomentare.<br />

(Vorrei anche dire: allo scopo di pensare con una<br />

qualche pretesa di validità intersoggettiva per i suoi<br />

pensieri.) E qui abbiamo trovato il punto archimedico di<br />

una fondazione pragmatico-trascendentale dell’universalità<br />

della morale, senza la quale una macroetica planetaria<br />

umana sarebbe di fatto impossibile.<br />

Comunque, in conclusione del mio lavoro, voglio ancora<br />

mettere in evidenza che una morale del tipo “giustizia<br />

come equità “ non è sufficiente dal punto di vista delle<br />

esigenze poste dalla macroetica, sebbene molto sarebbe<br />

già stato ottenuto se realizzassimo qualcosa di simile al<br />

programma di Rawls, per esempio riguardo ai rapporti tra<br />

il Primo, il Secondo e il Terzo Mondo. Ma - come ho<br />

tentato di proporre in ciò che precede - è necessaria anche

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