volume - Centro Documentazione Luserna
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© CENTRO DOCUMENTAZIONE LUSERNA –DOKUMENTATIONSZENTRUM<br />
LUSERN ONLUS 38040 LUSERNA TN VIA TRENTO 6 TEL.0464.789638, FAX<br />
0464.788214 WWW.LUSERN.IT; E-MAIL: LUSERNA@TIN.IT<br />
S.A.R.G.O.N. Editrice e Libreria<br />
Via Induno 18b I-35134 Padova<br />
SAR.GON@libero.it<br />
I edizione Padova 2005<br />
stampa<br />
a cura di<br />
Daigo press srl<br />
I-35100 Padova
“LUSERNA – LA STORIA DI UN PAESAGGIO<br />
ALPINO”<br />
ATTI DEL CONVEGNO<br />
“SUL CONFINE... Percorsi tra archeologia, etnoarcheologia<br />
e storia lungo i passi della montagna di <strong>Luserna</strong>”<br />
<strong>Luserna</strong>, 28 dicembre 2002<br />
a cura<br />
di<br />
Armando De Guio e Paolo Zammatteo<br />
S.A.R.G.O.N. Editrice e Libreria<br />
<strong>Centro</strong> <strong>Documentazione</strong> <strong>Luserna</strong><br />
Dokumentationszentrum Lusern onlus
INDICE<br />
LUIGI NICOLUSSI CASTELLAN<br />
Presentazione<br />
NOTE DEI CURATORI<br />
ARMANDO DE GUIO<br />
Sul confine...: percorsi tra archeologia,<br />
etnoarcheologia e storia lungo i passi della Montagna di <strong>Luserna</strong>......................... p. 1<br />
PAOLO ZAMMATTEO<br />
Nuove scoperte a margine della mostra “Sul confine…”......................................p. 5<br />
COMUNICAZIONI PERVENUTE<br />
FLORIO SARTORI<br />
La Regola di Casotto.........................................................................................p. 7<br />
GIAN MARIA VARANINI, EDOARDO DEMO<br />
Attraverso le Prealpi, dal territorio vicentino a Trento<br />
(da un registro di bollette del 1469-74). ...........................................................p. 11<br />
PAOLO ZAMMATTEO<br />
<strong>Luserna</strong>, le antiche strade di confine e il passo di Lavarone...............................p. 21<br />
PAOLO ZAMMATTEO<br />
Lavarone, i Lombardi e la leggenda del Melegnon.............................................p. 43<br />
PAOLO ZAMMATTEO<br />
L’Architettura di <strong>Luserna</strong> dalle origini al 1800 ..............................................p. 63<br />
DE GUIO ARMANDO<br />
Archeologia di frontiera: il progetto “Ad Metalla” ...........................................p. 87<br />
TAVOLE
PRESENTAZIONE<br />
Il <strong>Centro</strong> <strong>Documentazione</strong> <strong>Luserna</strong> onlus è una Fondazione promossa dal<br />
Comune di <strong>Luserna</strong> (Trento) con la finalità principale di salvaguardare le testimonianze<br />
storiche e di promuovere la conoscenza della cultura e storia di <strong>Luserna</strong>,<br />
l’ultima vitale Comunità germanofona “Cimbra”.<br />
La lingua cimbra, corrispondente al medio alto tedesco meridionale, è quella<br />
dei coloni bavaresi che nei secoli X-XIII si sono insediati nell’area tra i fiumi<br />
Adige e Brenta e la pianura padano-veneta, ove hanno dissodato e resi fertili<br />
territori montani allora incolti e disabitati.<br />
Il <strong>Centro</strong> ha quindi accolto con entusiasmo la proposta del Prof. Armando<br />
De Guio di svolgere delle ricerche archeologiche sull’Altipiano di <strong>Luserna</strong> –<br />
Vezzena. Ha sostenuto organizzativamente e finanziariamente le campagne di<br />
indagine sul territorio, le settimane di alta formazione, i convegni e le mostre<br />
annuali, grazie anche ai contributi della Regione Trentino Alto Adige – Südtirol<br />
e della Fondazione Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto, ai quali va la nostra<br />
riconoscenza.<br />
Questo attento lavoro ha documentato la vita dell’uomo sul nostro altopiano<br />
degli ultimi tre millenni. Una vita fatta di sacrifici, in un ambiente difficile<br />
qual è quello di montagna, ma anche ricca di testimonianze dell’operatività e<br />
dell’ingegnosità degli uomini che ci hanno preceduto su questo territorio che è<br />
sempre stato un confine, ma anche una zona di transito e di incontro di popolazioni<br />
e di civiltà diverse.<br />
Ringraziamo sentitamente in primo luogo il prof. Armando de Guio<br />
dell’Università di Padova, il Prof. Mark John Pearce dell’Università di Nottingham,<br />
il Dott. Gianni Ciurletti e Franco Nicolis della Sovrintendenza ai Beni<br />
Archeologici della Provincia di Trento ed i tanti appassionati loro collaboratori.<br />
Con questa pubblicazione il <strong>Centro</strong> <strong>Documentazione</strong> <strong>Luserna</strong> intende mettere<br />
a disposizione di tutti gli atti del convegno ed i risultati del qualificante lavoro<br />
svolto dagli amici archeologi, confidando che possa essere di stimolo per<br />
sempre necessari ulteriori approfondimenti.<br />
Luigi Nicolussi Castellan<br />
Sindaco di <strong>Luserna</strong> e Presidente del <strong>Centro</strong> <strong>Documentazione</strong> <strong>Luserna</strong>
SUL CONFINE…: PERCORSI TRA ARCHEOLOGIA,<br />
ETNOARCHEOLOGIA E STORIA LUNGO I PASSI DELLA MONTAGNA DI<br />
LUSERNA<br />
Armando De Guio<br />
Viene qui proposto un percorso critico “di frontiera”, lungo i “passi” –<br />
fisiografici e metaforici – del “Monte di <strong>Luserna</strong>”, in una sorta di immersione<br />
conoscitiva aperta alle suggestioni, anch’esse “di frontiera”, della realtà virtuale<br />
(percorsi della mente…), non meno che all’impatto diretto in situ (percorsi dello<br />
scarpone…). Si tratta, in effetti, di misurarsi con l’istanza eccezionale di un<br />
“paesaggio fossile” composto da un fitto reticolo di segni / segnali / tracce, iscritti<br />
nel territorio nella speciale grammatica interattiva (uomo-uomo e uomoambiente)<br />
di attori sociali passati e presenti (“semiologia del paesaggio”)<br />
nell’arco di una cruciale escursione diacronica plurimillenaria: da una precoce<br />
architettura del paesaggio della fine dell’Età del Bronzo (impianti fusori del rame,<br />
infrastrutture connettive, confinarie, terrazzamenti e malghe…), al cruento<br />
ed ubiquitario teatro di guerra (warscape) della nostra storia più recente, fino alla<br />
fitta trama del “paesaggio eco-culturale” attuale.<br />
L’esito cumulativo di una tale “scrittura” si traduce in un “palinsesto” di<br />
tracce sovrapposte di vario grado di residualità (dall’emergente al sepolto), isolabili<br />
da supporti informativi di varia risoluzione spazio-temporale e tematica:<br />
dalle immagini digitali satellitari (remote sensing), alle foto aeree (fotointerpretazioni,<br />
dalla Grande Guerra ad oggi), ai documenti cartografici, epigrafici e a varie<br />
classi di fonti scritte o di memoria tradita e fino alle ricognizioni, prospezioni<br />
e scavi a terra.<br />
<strong>Luserna</strong>, nella sua quasi iconica locazione “liminare”, di soglia ecotonale e<br />
visuale, sembra rimandare in modo emblematico ad un paradosso connotativo<br />
portante e fondante: quello di uno status ancipite e diacronicamente metastabile<br />
fra tendenza a marginalizzazione / isolamento da un lato e vocazione intermittente,<br />
dall’altro, a strutturarsi come nodo cruciale di sistemi di relazione (pacifici<br />
o conflittuali) a lunga distanza. Gli straordinari ritrovamenti metallurgici<br />
della fine del secondo millennio a.C. ci rimandano, ad esempio, ad un “sistema<br />
di mondo” (world system) di una magnitudo produttiva “protoindustriale” (cfr. le<br />
tonnellate di scorie delle decine di apparati fusori individuati) e integrativorelazionale<br />
(dal Nord-Europa al Mediterraneo Orientale), assolutamente sorprendente,<br />
che fa degli Altipiani un cuore pulsante della protostoria europea e<br />
un nodo cruciale (“centrale”) della sua traiettoria evolutiva in termini di complessità<br />
sociale. Un’altra e ben più nota e drammatica istanza di entrata in un
2<br />
Armando De Guio<br />
“sistema di mondo” è rappresentata dalla Grande Guerra di cui il locale “paesaggio<br />
di guerra” (warscape) rappresentò un nodo ipercritico del teatro europeo<br />
e mondiale di cornice. A tali assunzioni emblematiche ad un world system corrispondono<br />
fasi di marginalizzazione ed isolamento entro le quali si sviluppano<br />
endemismi linguistici e culturali di varia natura estremamente connotati e di<br />
grande interesse scientifico. Le attuali problematiche socio-politiche e culturali<br />
di integrazione e tutela delle minoranze etno-linguistiche si istanziano sullo<br />
sfondo significativo di un passato, recente o remoto, di valenza potenzialmente<br />
o attualmente fondante.<br />
Su questa base composita di evidenze e stimoli scientifici, culturali e sociopolitici<br />
si esercita, ad una conforme scala di cooperazione- europea (Soprintendenza<br />
per i Beni Archeologici, Università di Padova, Nottingham) ed ora anche<br />
transeuropea (Boston University) – un progetto pilota di ricerca, valutazione,<br />
valorizzazione ed ECRM (Eco-Cultural Resource Management): l’integrazione operativa<br />
di tale ricerca con gli abitanti di <strong>Luserna</strong> (collaborazioni dirette al lavoro<br />
remoto e sul campo, interviste, etc.), nello spirito della più moderna e deontologicamente<br />
corretta “community archaeology”, offre, al contempo,<br />
un’opportunità di felice acclimatazione amicale (che innalza il tasso di coinvolgimento<br />
emozionale e talora anche il tasso etilico degli operatori) e uno strumento<br />
privilegiato di penetrazione conoscitiva nell’ambiente locale (cfr. ad esempio<br />
i filoni della “archeologia della guerra” o di “archeologia del nonno”,<br />
sulle tracce etnoarcheologiche di calcare, carbonare, malghe abbandonate, contrabbando…)<br />
all’inseguimento di affascinanti “storie” evenemenziali, congiunturali<br />
e di lunga durata.<br />
Proprio lungo quest’ultimo vettore evolutivo (longue durée) lo stato confinario<br />
del territorio si caratterizza per la straordinario riproposizione inerziale o “rifratturazione<br />
ciclica” lungo una faglia etno-politica “latente” (“frontiera” negoziale/conflittuale)<br />
che spesso viene fissata su terreno con realizzazioni infrastrutturali<br />
di notevole impegno energetico (eccezionali, al riguardo gli ultimi ritrovamenti<br />
di muretti confinari e “termini” molto antichi su laste). A questa fenomenologia<br />
va senz’altro riportata la circostanza straordinaria (ancora una<br />
volta rilevante ed emblematica nel quadro di una storia regionale europea di<br />
lungo termine) di una puntuale coincidenza fra il confine storico attuale e quello,<br />
isolato su base teleosservativa e ricognitiva, dell’Età del Bronzo (cfr. in merito<br />
la “figura spaziale” diagnostica dell’inedita concentrazione di forni fusori<br />
che si “arrestano” visibilmente lungo tale fascia che separava due entità).<br />
L’ambiguità fondante succitata del “Monte di <strong>Luserna</strong>” si mappa, in modo isomorfo,<br />
anche su questo tematismo confinario, forse uno dei più importanti e<br />
rappresentativi di una storia europea di lunga durata (fra “mondo germanico” e<br />
“mondo mediterraneo”) individuando da una parte una barriera e una linea di<br />
attrito etno-politica ai margini di “località centrali” spazialmente alquanto di-
Note dei curatori 3<br />
slocate, dall’altra una fascia ipersensitiva di interazione e canalizzazione forzata<br />
(“passi” e “creodi”) di flussi critici e vitali di risorse (umane, artefattuali, bioecofottuali<br />
e mentefattuali). Ne viene esaltata una ricerca, che insegue anch’essa<br />
le sue “frontiere”, presa nella rete di cattura di un ambiente al contorno, naturale<br />
ed umano, di un’indelebile impatto cognitivo ed emotivo.<br />
Prof. Armando De Guio<br />
Università di Padova<br />
E-Mail: armando.deguio@unipd.it
NUOVE SCOPERTE A MARGINE DELLA MOSTRA<br />
“SUL CONFINE…”<br />
Paolo Zammatteo<br />
Dopo il medioevo e gli aspri scontri tra fazioni feudali, su gran parte del<br />
Veneto si stendeva la Securitas Veneta, il controllo della Serenissima. Fu proprio<br />
Venezia a ispirare il senso di appartenenza degli antichi coloni bavarotirolesi<br />
che occupavano la cintura dei suoi possedimenti montani verso il confine,<br />
anche etnico, con l’Impero. Venezia concesse particolari privilegi alle comunità<br />
rurali, quali l’autogestione e il porto d’armi, stimolando in esse la convinzione<br />
di essere qualcosa di diverso, e unico, rispetto alle vicine e opposte fazioni<br />
tirolesi. Da qui nasce il richiamo ai “cimbri”, con un apparato leggendario<br />
che colloca l’origine di quei montanari addirittura al termine del I secolo dopo<br />
Cristo, in quanto discendenti di un leggendario popolo sconfitto da Roma.<br />
La “Cymbria”, abilmente descritta da Francesco Caldogno nel 1568, abbracciava<br />
in particolare l’intera provincia di Vicenza, tanto che la città stessa doveva<br />
essere considerata il capoluogo di questa prima “minoranza storica”.<br />
In realtà si trattava, per i monti, di gruppi di varia origine, in prevalenza<br />
germanici, esperti nell’uso del pascolo e del bosco, giunti a colonizzare gli altipiani<br />
delle Prealpi Venete a più riprese nei secoli precedenti secondo il modello<br />
applicato in tutta Europa nel basso medioevo.<br />
A rafforzare le posizioni dell’abile diplomatico (e con lui quelle di intellettuali,<br />
pubblicisti e funzionari veneziani), in quello stesso 1568 c’era una contingenza<br />
positiva, che l’uomo politico Caldogno non poteva non conoscere per<br />
quello che significava in realtà. La guerra con i Turchi, che di lì a due anni si sarebbe<br />
risolta con la vittoria di Lepanto, aveva indotto Venezia a esplorare le<br />
sue risorse, in particolare di ferro, in tutto lo Stato di Terraferma. Infine per la<br />
disponibilità di quantità ingenti di minerale e la vicinanza alla Laguna era stato<br />
privilegiato il centro di Caltrano, dove venne installato un importante impianto<br />
per la produzione di munizioni pesanti. Ad occuparsene erano giunti specialisti<br />
lombardi, in particolare bergamaschi per l’estrazione dei carbonati di ferro e<br />
bresciani per la fusione: i “pratici di miniera”, come il loro linguaggio, erano<br />
tedeschi per antica tradizione.<br />
Questo spiega, in quel momento, la frequenza con cui si usavano dialetti tedeschi<br />
anche nella pianura vicentina. Venezia, reduce dalla sconfitta di Cambray<br />
e accorta nel controllo del confine interno, ne fece un uso che per lei ave-
6<br />
Paolo Zammatteo<br />
va valore strategico: i “cimbri” nascevano non con l’intenzione di valorizzare<br />
un elemento etnico o linguistico, bensì per esigenze militari, che in quanto tali<br />
dovevano rimanere segrete.<br />
Nei secoli successivi la cosa non emerse, e quella forte connotazione dialettale<br />
venne a scemare, tranne a <strong>Luserna</strong>, che intanto si trovò isolata rispetto alle<br />
vie di traffico.<br />
La questione riemerse in toni asperrimi nel XIX secolo, dopo l’annessione<br />
del Lombardo-Veneto all’Italia. <strong>Luserna</strong>, posta sul confine e ultima frontiera di<br />
una lingua nazionale, si ritrovò il blasone di “isola etnica”. In epoca risorgimentale<br />
la strumentalizzazione fu atroce, tanto che vi furono una scuola italiana e<br />
una tedesca, un albergo “Andreas Hofer” e uno “Tricolore”. Il paese, che allo<br />
scoppio della prima guerra mondiale si trovò giusto in mezzo alla linea del fuoco<br />
per essere fatto a pezzi, non era più in sintonia con le sue origini. I poveri<br />
lusernesi, non bastasse questo, al loro ritorno dovettero fare i conti con<br />
vent’anni di italianizzazione forzata.<br />
Arch. Paolo Zammatteo<br />
Trento<br />
E-Mail: pzammat@tin.it
LA REGOLA DI CASOTTO<br />
Florio Sartori<br />
Da un paio d’anni il prof. Armando De Guio, docente di Metodologia della<br />
Ricerca Archeologica all’Università di Padova, sta effettuando ricerche<br />
sull’altipiano di <strong>Luserna</strong> con la collaborazione di un folto numero di giovani<br />
studenti laureandi.<br />
Dette ricerche coinvolgono pure il territorio di Casotto nei pressi delle malghe<br />
Krojer e Busa Biseletto. In particolare, nel pascolo della malga Krojer è<br />
stata scoperta una vecchia struttura di malga, che si presume abbandonata da<br />
alcune centinaia di anni. Con molta pazienza, frutto di un lavoro certosino, sono<br />
state portate alla luce le fondamenta ed il piccolo cortile interno; nelle vicinanze<br />
sono state trovate parecchie scorie di prima fusione, che svelano la presenza<br />
di forni fusori.<br />
Purtroppo, in seguito alla costruzione di trincee, di fortificazioni e baraccamenti<br />
nel corso della prima guerra mondiale e con i lavori di bonifica dei pascoli<br />
eseguiti nel passato recente, queste antichissime testimonianze sono state<br />
in parte cancellate e l’attività di ricerca risulta più difficile. E così è davvero<br />
complesso ricostituire il passato di un piccolo paese quale è Casotto, anticamente<br />
detto “Tufer”.<br />
Il ponte di Casotto era il varco ufficiale sulla Val Torra (anticamente Tovera),<br />
assurto a confine fino al 1797 tra i domini di Casa d’Austria e il territorio<br />
della Repubblica di Venezia, e dal 1866 fino al primo conflitto mondiale tra lo<br />
stesso Impero Asburgico ed il Regno d’Italia; a quei tempi Casotto apparteneva<br />
alla Giurisdizione di Caldonazzo, ultima propaggine della principesca Contea<br />
del Tirolo.<br />
L’identità di Casotto è l’identità stessa del confine. Se in altre situazioni e in<br />
contesti meno rarefatti il concetto è difficilmente accettabile, per i Casottiani<br />
non è così. Tanto che basterà citare un risultato “storico” di questi ultimi tempi<br />
per confermarne a un tempo la validità e che si tratta di un sentimento ancora<br />
attuale.<br />
In luogo di Casotto un tempo c’era un lago, che si dice di origine tettonica.<br />
Il più terribile sisma nelle nostre contrade che la storia ricordi avvenne il 3<br />
gennaio 1117 alle ore 22.00. Allora un terremoto colpì tutto il Nord Italia e<br />
portò scosse di assestamento “per quaranta giorni e più, tremò da Milano a<br />
Venezia e Trento, causando molti danni e vittime”; così scriveva il vicentino<br />
Conforto da Costozza.
8<br />
Florio Sartori<br />
A Verona franarono le mura esterne dell’Arena, di tutta la cinta rimase solo<br />
la ben nota Ala.<br />
A Venezia il terremoto fu causa di una eruzione di acqua sulfurea dal suolo.<br />
Nel Veneto la terra si aprì in molti luoghi e franarono molte montagne.<br />
L’abate Agostino dal Pozzo scriveva: “il laghetto ch’è nel distretto di Brancafora,<br />
poco distante dalla villa di Casotto... era stato formato da una immensa<br />
frana o dirupamento del monte a sinistra (destra orografica, ndr) del fiume, che<br />
aveva otturato l’alveo, e fermato il corso dell’acqua, la quale per lungo tempo<br />
seguitò a penetrare sotto quel gran cumulo di pietre, detto ancora le Marogne,<br />
e sortiva in varj zampilli poco sotto alla chiesa del Casotto sino al principio di<br />
questo secolo (1700, ndr.), nel quale fu in qualche modo disgombrato l’alveo<br />
dell’Astego. È probabile che una tal rovina sia accaduta nel terribile terremoto<br />
accaduto al 3 di gennaio del 1117, il quale secondo quel che scrive l’annalista<br />
Sassone fu così orribile, che non v’è alcuno che possa dire d’averne sentito un<br />
simile. Fece delle altre gran ruine, mentre sappiamo che per un simile dirupamento<br />
si fermò eziandio per qualche giorno il corso dell’Adige”.<br />
Lo sbarramento dell’Astico (denominato nell’antica Tavola Teodosiana Mino<br />
Medoaco, poi Medoaco Minore, in seguito divenuto Lastego, Astego e infine<br />
Astico) “durò per 261 anni e cioè fino a quando, il 22 ottobre del 1378, una<br />
disastrosa alluvione lo ruppe”. Così rammenta Conforto da Costozza.<br />
L’alluvione provocò morte fra gli uomini e gli animali con effetti disastrosi soprattutto<br />
nella bassa pianura.<br />
Cosa ci sia sotto a quell’immensa frana nessuno può dirlo. È stato trovato<br />
un grosso tronco di larice millenario con i segni evidenti della scure di un boscaiolo<br />
vissuto quasi mille anni fa.<br />
La villa di Casotto compare per la prima volta in un documento del 1385,<br />
sette anni dopo l’alluvione. Da sempre i Casottiani erano organizzati in una<br />
Regola, un’istituzione che risale al medioevo, per cui gli abitanti sono i soli<br />
proprietari di un territorio indiviso e ne determinano in modo autonomo le<br />
norme di gestione, riunendosi in Assemblea e avendo personalità giuridica di<br />
diritto privato.<br />
In origine, gli abitanti di Casotto vivevano della poca agricoltura che offriva<br />
la montagna, pascolavano le loro greggi, fabbricavano il carbone utilizzando la<br />
legna. Abitavano le pendici del monte sopra il paese attuale, perché il luogo offriva<br />
più sicurezza. Il fondovalle era poco abitato, la gente viveva soprattutto<br />
sui monti, al riparo, per timore delle razzie dei soldati, dei viandanti e dei briganti,<br />
che imperversavano numerosi in quanto la valle era frequentata per il<br />
transito verso la Germania.<br />
Alcune persone lavoravano nella vecchia miniera di ferro, sfruttata a partire<br />
dal 1400 fino al 1509 e poi abbandonata a causa di una pestilenza, che uccise
La Regola di Casotto 9<br />
molti abitanti, come ebbe a scrivere Giovanni Sartori. Pochi sopravissero e<br />
venne a mancare la manodopera. Poi, lentamente, la vita riprese.<br />
Ma con la Circolare del 5 gennaio 1805, in applicazione del nuovo Codice<br />
Penale Austriaco, la Regola di Casotto e le altre regole tirolesi venivano soppresse<br />
perché indicate quali “illecite combriccole di popolo”. Di fatto nella<br />
Giurisdizione di Caldonazzo la soppressione venne attuata qualche anno dopo,<br />
il 15 agosto 1824, in base al Decreto Aulico di pari data, che stabiliva (dopo la<br />
parentesi dell’incorporazione alla Giudicatura di Levico nel periodo 1810-1815)<br />
il passaggio di Caldonazzo, Centa, Lavarone, <strong>Luserna</strong>, Pedemonte e Casotto al<br />
Giudizio distrettuale di Levico, mentre Palù, nell’alta Valle della Fersina, passava<br />
a quello di Pergine.<br />
Dopo il primo conflitto mondiale, Casotto divenne un Comune italiano;<br />
quindi in forza della R. Legge nr. 1111 del 2 luglio 1929 i Comuni di Pedemonte<br />
e Casotto passarono dalla Provincia di Trento a quella di Vicenza.<br />
La Legge Fascista nr. 1184 del 1 luglio1940 sanciva la soppressione del Comune<br />
di Casotto, che assieme ad altre frazioni concorreva a formare il nuovo<br />
Comune di Valdastico, mentre l’ulteriore evoluzione diocesana del 1964 rimetteva<br />
Casotto alla competenza vescovile vicentina.<br />
Il seguito è storia recente e fa riflettere sul valore del legame alle origini, ai<br />
luoghi e alla tradizione.<br />
Oggi chi sale la val d’Astico lungo la strada statale 350 nota un imponente<br />
edificio ottocentesco, “cittadino” e di sapore eclettico. Un tempo fu scuola elementare,<br />
canonica e caseificio.<br />
Costruito nel 1885 e denominato “palazzo”, dall’anno seguente fu sede della<br />
scuola elementare “Torquato Tasso” e nel 1887 venne offerto al curato l’uso<br />
del secondo piano, oltre all’accesso al sottotetto e alla cantina.<br />
Prima di allora esisteva già un edificio, eretto nel 1762, che fungeva da scuola<br />
e canonica, ma a causa della crescita demografica era diventato troppo piccolo.<br />
Era locato vicino alla Chiesa, là dove ora c’è l’ampliamento del cimitero.<br />
Tutto il terreno era stato oggetto di donazione, probabilmente come lascito testamentario,<br />
da parte di un certo Berto Sartori.<br />
Non è dato sapere chi sia stato il progettista del “palazzo”, certo è che fu<br />
persona assai capace. La manodopera, invece, apparteneva alla Comunità di<br />
Casotto, che possiamo a ragione ritenere ben felice di realizzare un’opera così<br />
importante e unica nella zona. Tale fu l’orgoglio, che l’edificio appariva persino<br />
su un timbro comunale dell’epoca.<br />
Da quest’anno lo stabile è divenuto sede della re-istituita Regola di Casotto,<br />
l’unica realtà di tale tipo nella provincia di Vicenza. Oltre ad essere Casa di Regola,<br />
quell’edificio così pregno di significati per la Comunità casottiana è anche<br />
l’emblema dell’iter molto complesso, da cui è risorta la Regola stessa.
10<br />
Florio Sartori<br />
Era il 12 giugno 1955 e la Comunità casottiana tramite una petizione si espresse<br />
a favore dell’acquisizione del “palazzo”, chiedendone la proprietà<br />
all’Amministrazione Comunale.<br />
Purtroppo ciò non era possibile, a meno che la Regione Veneto non riconoscesse<br />
la validità dell’Antica Regola, quindi anche la sua personalità giuridica di<br />
diritto privato.<br />
Sono occorsi quarantasei anni di impegno costante, ma l’Autorità competente,<br />
finalmente, avrebbe confermato la Regola di Casotto con il sospirato<br />
Decreto n. 77 del 18 luglio 2001. Il passaggio del “palazzo” dal Comune alla<br />
Regola, metafora e simbolo di un desiderio condiviso dalla Comunità, è avvenuto<br />
nel 2002.
ATTRAVERSO LE PREALPI, DAL TERRITORIO VICENTINO<br />
A TRENTO<br />
(DA UN REGISTRO DI BOLLETTE DEL 1469-74)<br />
Gian Maria Varanini – Edoardo Demo<br />
1. Con effetto combinato e convergente, due circostanze hanno a lungo<br />
limitato lo sviluppo delle ricerche di storia economica e sociale nel territorio<br />
trentino medievale e lo condizionano pesantemente tutt’ora.<br />
Il primo condizionamento, non eliminabile, è costituito dalle fonti documentarie.<br />
Anche per il periodo successivo all’inoltrato secolo XII, quando<br />
l’archivio del principato vescovile prende consistenza, si tratta infatti di fonti<br />
solo molto parzialmente suscettibili di utilizzazione in prospettiva economicosociale.<br />
Per giunta, il principato vescovile ha una disuguale e debole proiezione<br />
sul territorio (alta ad esempio in Val di Non e anche nelle Giudicarie e in Vallagarina,<br />
ove si viene costituendo fra XII e XIII secolo un minimo di ‘burocrazia’<br />
vescovile attraverso la rete delle gastaldie, nulla o minima altrove: Val di Fiemme,<br />
Valsugana). Continuano a mancare invece – in parte per difetto di produzione,<br />
in parte per difetto di conservazione –, e mancheranno sino alla fine del<br />
medioevo, altre tipologie documentarie essenziali nel panorama documentario<br />
tardomedievale, per la storia dell’economia e dei commerci: le fonti cittadine<br />
(per la debolezza assoluta del comune di Trento, che non è egemone né politicamente<br />
né economicamente, e dunque neppure documentariamente, sul territorio)<br />
e le fonti notarili (in realtà prodotte nelle valli con maggiore capillarità di<br />
quanto non si pensi usualmente, almeno dal Trecento, ma larghissimamente<br />
perdute).<br />
Un secondo condizionamento è invece di carattere culturale. A partire<br />
dall’Ottocento, la tradizione storiografica trentina ha sempre privilegiato una<br />
prospettiva di storia politico-istituzionale, anche per lo spirito dei tempi, segnati<br />
dal problema nazionale italiano. Non mancò ovviamente nella ricca produzione<br />
erudita sviluppatasi fra Ottocento e Novecento, sino alla prima guerra<br />
mondiale, una qualche attenzione alla storia del commercio (con particolare riferimento<br />
ad alcuni specifici ambiti: il vino, i prodotti minerari, il legname). Ma<br />
si trattò comunque di ricerche minoritarie, ulteriormente inariditesi dopo la<br />
prima guerra mondiale quando la storiografia tedesca abbandonò largamente il<br />
campo delle indagini trentine e la storiografia di matrice italiana confermò (anche<br />
in armonia con gli orientamenti prevalenti a livello nazionale) un’opzione<br />
preferenziale per prospettive di storia etico-politica. È sintomatico il fatto che
12<br />
Gian Maria Varanini – Edoardo Demo<br />
un organico programma di ricerche di storia demografica ed economica, con<br />
qualche apertura anche nella direzione costantemente negletta della storia agraria,<br />
sia stato impostato soltanto negli anni Cinquanta del secolo scorso. Ciò<br />
non accadde per merito della storiografia locale, bensì per impulso di un vecchio<br />
ma vitalissimo campione della storiografia italiana del primo Novecento,<br />
profondo conoscitore degli archivi trentini (al recupero dei quali aveva partecipato<br />
nel 1919), come Roberto Cessi. Le ricerche da lui svolte e fatte svolgere<br />
agli allievi (Federico Seneca e Aldo Stella) costituirono però una fiammata isolata.<br />
Nel campo della storiografia trentina, l’eccezione a questo quadro è costituita<br />
da Antonio Zieger.<br />
In questo quadro, va inoltre (e infine) segnalata una ulteriore distorsione<br />
che, in modo molto parziale, mi propongo, con questo minimo intervento, di<br />
contribuire a correggere. Anche quando, nelle pieghe delle ricerche di storia<br />
politico-istituzionale trentina della prima metà del Novecento, emerge (come è<br />
inevitabile che accada nelle indagini più approfondite) qualche interesse per la<br />
dimensione economico-sociale e per la storia del commercio, l’asse interpretativo<br />
coincide con un asse geografico pressoché esclusivo: il tradizionale rapporto<br />
nord-sud, lungo la via del Brennero e del Resia e la valle dell’Adige. Ciò vale,<br />
per non fare che un esempio rilevante della storiografia trentina novecentesca,<br />
per la monografia del Cusin sui primi due secoli del principato vescovile di<br />
Trento, risalente al 1938. Tracce di questo orientamento si ritrovano persino<br />
nelle ricerche più recenti e pregevoli, che hanno cominciato (a partire dagli anni<br />
Settanta del Novecento) a rinnovare la storiografia trentina nel campo che qui<br />
interessa: si pensi alle ricerche di storia mineraria (Braunstein e altri) e di storia<br />
della vitivinicoltura e del commercio vinicolo (Andreolli). Ovviamente, è più<br />
che doverosa la sottolineatura della centralità di questo rapporto: la funzione di<br />
Trento e del suo territorio come cerniera fra Italia e Germania, Trento come<br />
città bilingue e di confine, e così via. Piace qui ricordare al riguardo, in riferimento<br />
alla seconda metà del Quattrocento della quale ci si occuperà in questo<br />
breve saggio, la brillante interpretazione di un grande storico franco-tedesco,<br />
Philippe Braunstein, che ha individuato sottilmente (in un bell’articolo che reca<br />
il titolo significativo “Confins italiens de l’empire”) gli elementi che sostanziano la<br />
presa di coscienza dei viaggiatori tardomedievali che si muovono da nord a sud<br />
(e viceversa) lungo l’itinerario del Resia e del Brennero. Tra S. Michele<br />
all’Adige e Trento, essi intuiscono di trovarsi davvero su uno spartiacque culturale<br />
e sociale, capiscono di traversare un invisibile confine. Si tratta di circostanze<br />
talmente note e consolidate, entrate anche nel ‘senso comune storiografico’,<br />
che non avrebbero meritato neppure lo spazio della constatazione che ho<br />
qui loro accordato. Perciò va segnalata come una distorsione l’esclusività<br />
dell’attenzione a questa pur essenziale prospettiva geo-storica, che trascura altre<br />
dimensioni, altre relazioni geografiche ed economiche.
Attraverso le prealpi, dal territorio vicentino a Trento 13<br />
Il modesto esempio che presento in questa occasione si inscrive appunto in<br />
una linea di ricerca che ovviamente non contraddice la centralità del rapporto<br />
nord-sud nella storia del territorio trentino, ma che la integra. Ogniqualvolta si<br />
approfondisce – osservando con attenzione le pur modeste fonti disponibili –<br />
una tematica specifica, capita in effetti di constatare la ricchezza delle relazioni<br />
culturali, sociali ed economiche intra-alpine, che traversano il territorio trentino<br />
in direzione ovest-est o est-ovest. Ci troviamo qui all’interno di quella épaisseur<br />
des Alpes, di quello ‘spessore’ geografico – così diverso da una semplice barriera<br />
– del quale ha parlato più volte il maggior storico vivente della montagna alpina,<br />
Jean-François Bergier.<br />
Farò qui l’esempio della storia mineraria, cioè di un comparto non trascurabile<br />
della storia economica trentina del tardo medioevo, adducendo anche<br />
qualche esempio relativo proprio al territorio montano tra Vicenza e Trento<br />
che è l’oggetto specifico di questo contributo. Una lunga tradizione di studi<br />
imperniata sulle gloriose fonti normative del liber poste montis Arzentarie compreso<br />
nel Codex wangianus minor ha sottolineato e continua a sottolineare, appunto,<br />
la dipendenza dell’attività mineraria nel territorio trentino medievale dal ‘mondo’:<br />
a livello di uomini, di know-how tecnologico, di lessico. Viceversa non è difficile<br />
scoprire le tracce non trascurabili, sin dal Duecento, della migrazione da<br />
ovest ad est dei ‘tecnici’ bergamaschi, che esportano nella montagna trentina le<br />
loro tradizioni prima di superare anche lo spartiacque fra il bacino dell’Adige e<br />
quello del Piave e insediarsi nell’area dolomitica. Nel 1282, quattro magistri originari<br />
de episcopatu Bergomi, forse discendenti di alcuni magistri attivi nei decenni<br />
precedenti in val di Fiemme, ricevono dalla consorteria signorile vicentina dei<br />
da Velo i diritti di prospezione mineraria e di installazione di forni e fucine, e il<br />
conseguente indispensabile godimento dei boschi e delle acque, in una vasta<br />
area compresa fra Rotzo ad est, il monte Melignone, il monte Tonezza e valle<br />
Orsara ad ovest (dunque sul secolarmente conteso confine fra Lastebasse e<br />
Folgaria), Arsiero e la valle di Posina a sud, con esplicito riferimento alla consuetudo<br />
attestata nel liber sancti Vigilii. I da Velo, che da tempo (come ha mostrato<br />
Bortolami nel suo contributo alla Storia dell’altipiano di Asiago) erano in relazione<br />
con la famiglia trentina dei da Beseno anch’essa interessata al controllo delle<br />
montagne fra il Trentino e il Vicentino, si impegnano a fornire, all’occorrenza,<br />
ben 300 laboratores ai quattro imprenditori minerari.<br />
Allargando l’obiettivo, più in generale, alle relazioni commerciali, non è difficile<br />
trovare per il territorio trentino conferme all’importanza notevole e sottovalutata,<br />
insieme al fondamentale itinerario della valle dell’Adige, degli itinerari<br />
commerciali secondari, relativamente secondari, che si intersecano nel territorio<br />
del principato vescovile nel senso della longitudine, tra la Lombardia e il<br />
Trentino, tra la val di Fiemme e la valle del Piave, tra la val Lagarina e la montagna<br />
veronese e vicentina. Non tornerò qui su concetti molto noti alla ricerca
14<br />
Gian Maria Varanini – Edoardo Demo<br />
storica sulle Alpi: l’apertura delle Alpi al traffico a partire dalla metà del Trecento,<br />
con la formulazione da parte di Guichonnet e di Bergier dello slogan delle<br />
Alpi vissute, contrapposto a quello delle Alpi attraversate del periodo imperiale;<br />
oppure su concetti come quello del fascio di strade e di itinerari, della frequente<br />
compresenza cioè di una pluralità di itinerari alternativi, e più o meno paralleli,<br />
in grado di collegare due località in una vallata o in una zona d’altipiano, laddove<br />
non vi sia evidentemente la costrizione determinata da un valico montano; o<br />
ancora sul concetto di area di strada come elemento che favorisce<br />
l’affermazione di un potere politico, concetto elaborato da Sergi per il versante<br />
italiano delle Alpi occidentali, ma perfettamente adattabile ad esempio alla vicenda<br />
storica dei Castelbarco in val Lagarina e anche a quella dei da Caldonazzo<br />
in Valsugana.<br />
Dunque, quando si osserva da vicino un territorio specifico, uno specifico<br />
valico, il bacino di un fiume, si constata la verità banale, ma non per questo<br />
meno significativa, di una montagna intensamente percorsa, in tutte le direzioni,<br />
nella quale la mobilità degli uomini e delle merci è nel tardo medioevo notevolissima.<br />
2. Si è accennato sopra al problema costituito dalle fonti documentarie,<br />
che per la storia della mobilità intra-alpina di uomini e di merci è particolarmente<br />
grave per il territorio trentino. Il confronto con la documentazione formidabile<br />
prodotta per il Duecento e Trecento dai due più importanti stati di<br />
passo delle Alpi – la serie plurisecolare dei conti di castellania dei Savoia ad occidente<br />
e i Rechnungsbüchern tirolesi (distribuiti su un arco temporale più limitato)<br />
attualmente in corso di edizione da parte di Christoph Haidacher – non fa che<br />
aumentare il rimpianto, anche se quest’ultima fonte ha qualche positivo riverbero<br />
anche sullo studio del territorio trentino. Invero, qualche altro giacimento<br />
documentario esterno – come luogo di produzione e come luogo di conservazione<br />
– al territorio trentino, come la documentazione notarile veronese conservata<br />
nell’Ufficio del Registro, merita ancora di esser valorizzata appieno (in<br />
prospettiva trentina se ne è occupato soltanto, in alcune ricerche recenti, E.<br />
Demo). Anziché lamentarsi, è opportuno valorizzare il poco che c’è; e questo<br />
poco riguarda la seconda metà del Quattrocento.<br />
In particolare per il ventennio di episcopato di Johannes Hinderbach (1465-<br />
1486), è infatti possibile incrociare le prime tracce della documentazione del<br />
comune di Trento (che costituisce, nella prospettiva che qui interessa,<br />
l’indicatore di una complessiva vitalità economica e commerciale del territorio)<br />
e i pochi relitti della documentazione amministrativa prodotta per conto di un<br />
principe vescovo che è un amministratore attento ed esigente. Dalla documentazione<br />
comunale e dalle rimostranze rivolte al vescovo Hinderbach impariamo<br />
ad esempio che negli anni Settanta il lanificio trentino era in notevole espan-
Attraverso le prealpi, dal territorio vicentino a Trento 15<br />
sione e che una variegata gamma di cittadini, in parte coincidenti col ceto consolare<br />
(Terlago, Saraceni, «de Perociis», Calepini, da Brez, e altri), faceva lavorare<br />
panni di lana, cercando di emanciparsi dall’egemonia commerciale e produttiva<br />
esercitata dagli imprenditori bergamaschi, di Lovere e Gandino. «Adonque<br />
la reverendissima signoria vostra bene faceret istos bergamaschos totaliter eos expellere<br />
de ista civitate quia proverbialiter dicitur che non hè cossì bone terre dove praticha<br />
bergamaschi che y non le guasti. Meio seria che fusse via de qua, azò che y non<br />
fosseno la destrutione de questa magnificha citade». Testimonianze importanti<br />
dunque di quella poderosa diffusione del lanificio delle prealpi lombarde che la<br />
storiografia recente (Epstein, Albini, Silini per il Bergamasco, Grillo per il Comasco)<br />
ha con grande abbondanza di dati dimostrato e nella prospettiva trentina<br />
ciò è la prova di una importante corrente di traffico da ovest ad est. Questa<br />
occasionale documentazione cittadina è del resto confermata dai dati desumibili<br />
da un importante registro del dazio prelevato al passo del Tonale nell’anno<br />
1470, edito dallo Stenico una trentina di anni fa e da me studiato in una precedente<br />
occasione, e molta attenzione merita pure la fonte sulla quale si basa questa<br />
comunicazione.<br />
Si tratta del ms. 435 della Biblioteca Civica di Trento, un manoscritto cartaceo<br />
di 00 cc., sul quale un officiale episcopale trascrisse le registrazioni effettuate<br />
(verosimilmente su altri registri o fascicoli) tra il settembre 1468 e il giugno<br />
1474 alle porte della città dai funzionari vescovili incaricati di riscuotere il dacium<br />
bullettarum o ‘dazio piccolo’. Con tutta probabilità, il vescovo di Trento riscosse<br />
a partire dai primissimi anni del Quattrocento questo dazio, le caratteristiche<br />
del quale sono analoghe a quelle del dazio delle porte di molte altre città<br />
italiane. Vi era soggetto chiunque passasse dalle porte, sia in previsione di un<br />
soggiorno in Trento sia per semplice transito. In totale, il registro elenca circa<br />
11.200 item: nei quattro anni pieni (1469-1471 e 1473, escludendo cioè i primi<br />
nove mesi del1468 e i primi sei mesi del 1474, nonché il 1472 condizionato da<br />
una pestilenza) la media delle registrazioni è di 2.000 bollette. Tuttavia il numero<br />
degli individui è largamente superiore perché spesso una sola bolletta era relativa<br />
ad un gruppo più o meno numeroso, si trattasse dei servitori di un dominus,<br />
o dei famuli di un mercante, o talvolta anche di una comitiva di pellegrini.<br />
Le notizie che ogni bolletta somministra sono evidentemente essenziali; e<br />
inoltre, per quanto le registrazioni seguano uno schema, non sempre del tutto<br />
omogenee. L’attività professionale di colui che transita – una indicazione che ai<br />
fini di una indagine sulla mobilità di uomini e di cose, come quella che ci accingiamo<br />
a svolgere sarebbe un elemento della massima importanza – è precisata<br />
solo raramente. Si dichiara se le persone viaggiano a cavallo o a piedi, considerando<br />
peraltro pedester anche chi porta con sé un cavallo «da soma» o «da basto»<br />
senza cavalcarlo; in altre parole è equester, e paga una tariffa più elevata, solo chi
16<br />
Gian Maria Varanini – Edoardo Demo<br />
effettivamente viaggia a cavallo e non porta con sé un animale destinato al trasporto<br />
di mercanzie. È di maggiore interesse l’indicazione della porta (o del<br />
ponte) di entrata, dalla quale si può dedurre la direzione dalla quale i viandanti<br />
provengono, anche incrociando questo dato con la località d’origine. Si transita<br />
dunque «per portam Sante Crucis», la porta meridionale della città; «per pontem»,<br />
cioè per il ponte sull’Adige, e ancora «per Aquilam» e «per portam Santi<br />
Martini». La tariffa è differenziata, per motivi imprecisati, anche a seconda delle<br />
località di residenza o provenienza, con un importo lievemente minore per<br />
bergamaschi e bresciani che vengono a piedi rispetto ai veronesi e vicentini.<br />
Naturalmente non mancano le esenzioni, di solito legate al possesso di un lasciapassare<br />
rilasciato dall’autorità territoriale di provenienza ovvero dallo stesso<br />
principe vescovo di Trento. Interessanti infine, per la storia della città, anche le<br />
menzioni della destinazione all’interno dello spazio urbano (si tratti di un hospicium,<br />
come più spesso accade, o di una casa privata). Ma ai fini della presente<br />
indagine, il dato più significativo è quello dell’origine e della provenienza geografica,<br />
sulla base del quale si può stimare molto grossolanamente la consistenza<br />
dei flussi di movimento, che nell’arco dell’anno presentano concentrazioni<br />
notevoli in coincidenza sia con le fiere di Bolzano (mezza Quaresima, san Bartolomeo,<br />
sant’Andrea), sia con qualche altra ricorrenza (ad esempio, in aprile, il<br />
pellegrinaggio a S. Gottardo di Mezzocorona).<br />
Come accennato all’inizio (cfr. nota bibliografica), questa massa ingente di<br />
documentazione è attualmente oggetto di trascrizione e di studio da parte del<br />
dott. Edoardo Demo e dello scrivente. Dato lo stadio ancora iniziale della ricerca,<br />
le osservazioni sulla mobilità di uomini e di merci fra Trento e Vicenza<br />
che saranno svolte in seguito sono da considerare provvisorie e indicative.<br />
Qualche indicazione tuttavia se ne può trarre, a partire da una prima (e preliminare,<br />
ma decisiva) constatazione. Il movimento che interessa le montagne fra<br />
la Val d’Adige e il Vicentino non è che un aspetto secondario del formidabile<br />
fenomeno di mobilità che interessa tutto il versante meridionale delle Alpi e<br />
delle Prealpi nel settore trentino. Ovviamente il primo posto spetta ruolo preminente<br />
degli itinerari (anche stradali) dell’asta atesina, con la conseguente cospicua<br />
presenza dei veronesi: non di rado si tratta di famiglie patrizie anche di<br />
alto profilo, tuttora attive nel commercio (e basterà menzionaere accanto ai lagarini<br />
veronesizzati Manueli di Ala e Del Bene i Maffei, gli Sparavieri, i Dionisi,<br />
i Boldieri, gli Auricalco, i Guarienti, gli Spolverini). I dati desumibili dal registro<br />
di bollette trentino confermano poi il peso ormai noto, ma davvero formidabile<br />
e difficile da sottovalutare, dei traffici fra la Lombardia e il territorio trentino,<br />
e la posizione notevolissima dei lombardi nell’economia commerciale delle Alpi<br />
orientali. I protagonisti sono in primo luogo i bergamaschi (da Lovere e da<br />
Gandino, ma anche dalle altre vallate prealpine): per giungere a Trento, essi seguono<br />
l’itinerario del Tonale, ma anche – non raramente – quello delle Giudi-
Attraverso le prealpi, dal territorio vicentino a Trento 17<br />
carie e della Valle dei Laghi. Tutt’altro che rare sono le provenienze da Milano<br />
e dal Milanese, da Como e dal Comasco, e anche da città lombarde di pianura<br />
come Cremona e Crema.<br />
3. Queste considerazioni forniscono dunque uno sfondo importante per<br />
l’analisi della documentazione relativa alle prealpi trentino-vicentine, e per qualificare<br />
– nei limiti consentiti dalla fonte – le caratteristiche sociali e le specificità<br />
geografiche di questo movimento di uomini e di beni.<br />
Questi dati della seconda metà del Quattrocento costituiscono un ottimo<br />
osservatorio per apprezzare gli esiti di un lungo processo storico. Sono state le<br />
ricerche di Bortolami che in anni recenti hanno approfondito notevolmente la<br />
storia insediativa e sociale dell’altipiano di Asiago fra il XII e il XIV secolo. È<br />
sostanzialmente una storia di condivisione e di separazione, nella quale le popolazioni<br />
(per lo più di etnia tedesca, come è ben noto) provenienti dalla Valsugana<br />
e dalla Vallagarina si incontrano dialetticamente con le popolazioni (e<br />
con le forze signorili) provenienti dalle vallate dell’alto Vicentino. Per parte mia<br />
mi limiterò a ricordare qui un solo elemento, peraltro capitale, di questa vicenda<br />
plurisecolare. Alludo alla conosciuta norma compresa nello statuto comunale<br />
di Vicenza del 1264, nella quale si prevede la costruzione di ben tre strade<br />
«que possint carrezari» fra Vicenza e il territorio trentino: attraverso la valle<br />
dell’Agno e il passo di Campogrosso (m. 1464) verso la Vallarsa, attraverso la<br />
val Leogra e il pian delle Fugazze (m. 1162) ancora verso la Vallarsa, attraverso<br />
la val d’Astico e la valle di Posina e il passo della Borcola (m. 1207) verso la<br />
valle di Terragnolo. Una di esse, quella del pian delle Fugazze, «ad equitandum<br />
et carrezandum congruencius et levius» avrebbe dovuto esser costruita dai due<br />
comuni cittadini, Vicenza e Trento; le altre invece «fiant per consortes si volent»,<br />
sono lasciate dunque all’eventuale iniziativa dei signori e dei comuni. Con<br />
larga probabilità, è attraverso questi itinerari che si proviene, dal territorio veneto,<br />
a Trento, anche se almeno allo stato attuale della ricerca è impossibile definire<br />
il numero di coloro che – gravitando su Verona – scelgono l’itinerario<br />
della Val d’Adige.<br />
Le provenienze da Padova e da Treviso sono scarse, e – cosa invero più<br />
sorprendente – anche quelle da Bassano; globalmente un trentesimo rispetto a<br />
quelle da Vicenza e un quarantesimo circa rispetto a quelle da Verona. Fra questi<br />
due territori c’è infatti un rapporto relativamente stabile, che vede prevalere<br />
anche se di poco le provenienze da Verona e che sembra mantenersi abbastanza<br />
stabile nell’arco dell’intero quinquennio. Nel biennio 1468-69 ad esempio<br />
risultano compilate circa 250 bollette per provenienze da Vicenza o dal territorio<br />
vicentino, a fronte di cirica 380 per Verona e per il territorio veronese, e le<br />
proporzioni sembrano mantenersi nell’intero quinquennio. Ovviamente,
18<br />
Gian Maria Varanini – Edoardo Demo<br />
nell’ottica circoscritta al territorio dell’altipiano di Asiago è il dato delle provenienze<br />
dal Vicentino che specificamente interessa.<br />
Ho usato il termine ‘Vicentino’ perché rispetto a Verona e al Veronese una<br />
differenza balza chiarissima dal confronto. L’incidenza delle provenienze dirette<br />
dal capoluogo berico è infatti di poche decine, e soprattutto manca quella<br />
componente socialmente ed economicamente elevata che abbiamo constatato<br />
per Verona, rappresentata in modo notevole dall’élite mercantile. Tra i Vicentini,<br />
si possono registrare pochissimi cognomi noti: un Machiavelli, un Mainenti,<br />
forse un Calderari, e poco più; al contrario, c’è qualche caso interessante di<br />
mercante tedesco radicatosi a Vicenza, che mantiene relazioni commerciali con<br />
il nord, come è il caso di Tommaso «a Tellis» «de Monico Alemanie, sed nunc<br />
habitator et civis Vincentie». A farla da padrone sono dunque le provenienze<br />
dal distretto vicentino, e particolarmente interessante è un’analisi più ravvicinata<br />
di queste provenienze. Se non manca, infatti, qualche ‘rappresentanza’ della<br />
pianura, la maggioranza assoluta delle bollette relative a vicentini in transito riguarda<br />
le vallate dell’alto Vicentino, naturalmente con maggior presenza dei villaggi<br />
posti a quote più elevate o comunque ben addentro nelle valli, ma non<br />
senza attestazioni per i centri pedecollinari: così è per Arsiero, Posina, Carré,<br />
Caltrano, Piovene, Fara, S. Vito di Leguzzano, Thiene, Cornedo, Marostica.<br />
Tra le attività professionali attestate per i distrettuali vicentini, la presenza di<br />
molti lanaioli costituisce una attesa conferma di quanto le ricerche del Demo<br />
hanno mostrato con efficacia: il lanificio delle valli vicentine (ad esempio ad<br />
Arzignano e a Schio) è una realtà importante. Analoghe considerazioni possono<br />
essere fatte per il settore del cuoio e delle pelli. Quanto agli uomini della<br />
montagna vicentina, essi sono fittamente presenti; quasi tutti i Sette Comuni<br />
sono rappresentati (Asiago, Rotzo, Roana, Lusiana, Gallio, ecc.) e hanno una<br />
evidente specializzazione nelle attività di trasporto, visto che la qualifica di<br />
«mulaterii» li riguarda in modo diffuso, insieme peraltro con altri di Velo<br />
d’Astico o genericamente «de Vicentina». Sarebbe allettante infine ricollegare<br />
alle attività metallurgiche la robusta presenza di uomini di Forni d’Astico<br />
(«Furni de Vicentina»), ma mancano per ora riscontri puntuali.<br />
Questo insieme di indizi costituisce dunque una conferma, utile pur nella<br />
sua modestia, di due dati strutturali. Da un lato, la circolazione di uomini e di<br />
beni attraverso gli altipiani di Asiago, di Lavarone e di Folgaria è nel Quattrocento<br />
una maglia di quell’immensa fittissima rete di relazioni commerciali e culturali<br />
che copre l’intera montagna alpina e prealpina: per riprendere la nota<br />
immagine di Bergier, ‘le Alpi (e le prealpi) attraversate’, e non nel senso di pochi<br />
itinerari obbligati finalizzati a un veloce transito, ma nel senso di un ‘attraversamento’<br />
in tutte le direzioni e su tutti gli itinerari. Dall’altro lato, osservando<br />
la stessa realtà in un’ottica più locale, si ha la conferma che questo comprensorio<br />
montano posto fra Trento e Vicenza, queste ‘Alpi vissute’ (ripren-
Attraverso le prealpi, dal territorio vicentino a Trento 19<br />
dendo anche qui uno slogan di Bergier) mantengono anche nel Quattrocento<br />
quella sostanziale unitarietà che già le fonti del XII e XIII e gli studi su Lavarone<br />
e su Folgaria dei tempi di Bottea e Reich suggerivano. Una unitarietà non<br />
priva di contrasti ovviamente: ma i contrasti – che pure ci sono stati e ci sono<br />
in ogni montagna – nascono e secolarmente prosperano (lo dimostra il caso<br />
emblematico della citata controversia fra Lastebasse e Folgaria recentemente<br />
riesaminata in uno studio del Bellabarba, che si è trascinata anche oltre la definizione<br />
settecentesca dei confini tra gli Stati) proprio laddove la compenetrazione<br />
è particolarmente stretta.<br />
Prof. Gian Maria Varanini<br />
Dipartimento di Discipline Storiche Artistiche e Geografiche<br />
Università di Verona<br />
gianmaria.varanini@unipd.it<br />
NOTA BIBLIOGRAFICA<br />
Mi limito a segnalare gli studi effettivamente utilizzati per la stesura di queste brevi<br />
note, dai quali sarà facile risalire ad altre ricerche, tenendo presente in ogni caso la recente<br />
bibliografia generale posta a chiusura del vol. III (L’età medievale), a cura di A. Castagnetti<br />
e G.M. Varanini, della Storia del Trentino (Bologna 2004). Nel merito, alcune<br />
considerazioni convergenti con quelle qui esposte si possono leggere in G.M. Varanini,<br />
L’economia: aspetti e problemi (sec. XIII-XV), ove si svolgono considerazioni in parte<br />
analoghe e si utilizza anche, rapidamente, il ms. 435 della Biblioteca Comunale di<br />
Trento.<br />
Per il panorama delle fonti documentarie trentine, cfr. dunque G.M. Varanini, Le<br />
fonti per la storia locale in età medievale e moderna: omogeneità e scarti fra il caso trentino ed altri<br />
contesti, in Le vesti del ricordo, Atti del convegno di studi sulla politica e le tecniche di gestione<br />
delle fonti per la storia locale in archivi biblioteche e musei (Trento, palazzo<br />
Geremia, 3-4 dicembre 1996), Trento 1998, pp. 29-46: per un aspetto particolare cfr.<br />
anche Id., Il documento notarile nel territorio del principato vescovile trentino nel tardo medioevo.<br />
Brevi note, in Costruire memoria. Istituzioni, archivi e religiosità in val di Sole e nelle valli alpine, a<br />
cura di U. Fantelli, S. Ferrari, M. Liboni, A. Mosca, R. Stanchina, <strong>Centro</strong> Studi per la<br />
Val di Sole, Cles 2003, pp. 107-117. Per le ricerche di Roberto Cessi e della sua scuola,<br />
cfr. R. Cessi, Per lo studio sistematico dei problemi di storia economico-sociale della regione trentina,<br />
in Studi e ricerche storiche sulla regione trentina, Padova 1953, pp. 1-4 (per qualche considerazione<br />
metodologica), e come esempi di studi F. Seneca , Problemi economici e demografici<br />
del Trentino nei secoli XIII e XIV in R. Cessi (ed.), Studi e ricerche storiche sulla regione trentina,<br />
Padova 1953, pp. 7-48; A. Stella , Politica ed economia nel territorio trentino-tirolese dal XIII al<br />
XVII secolo, Padova 1958. Qualche ulteriore considerazione e richiami bibliografici ag-
20<br />
Gian Maria Varanini – Edoardo Demo<br />
giornati sull’amministrazione periferica del principato vescovile in G.M. Varanini, Gli<br />
spazi economici e politici di una Chiesa vescovile: assestamento e crisi nel principato di Trento fra fine<br />
XII e inizi XIV sec., in Gli spazi economici della Chiesa nell’Occidente mediterraneo (sec. XIImetà<br />
XIV), Atti del sedicesimo convegno internazionale, Pistoia 16-19 maggio 1997,<br />
Pistoia 1999, pp. 287-312. Il saggio di Ph. Braunstein citato è Confins italiens de l'empire:<br />
nations, frontières et sensibilité européenne dans la seconde moitié du XV e siècle, in La conscience<br />
européenne aux XV e et au XVI e siècle. Actes du colloque international organisé à l'Ecole normale<br />
Superieure des Jeunes Filles (30 septembre-3 octobre 1980) avec l'aide du C.N.R.S., Parigi 1982.<br />
Per l’attività mineraria cfr. G.M. Varanini, A. Faes, Note e documenti sulla produzione e sul<br />
commercio del ferro nelle valli di Sole e di Non (Trentino) nel Trecento e Quattrocento, in La sidérurgie<br />
alpine en Italie (XII e-XVII e siècle), études réunies par P. Braunstein, Rome<br />
2001, pp. 253-288; G.M. Varanini, Iniziative minerarie nelle prealpi vicentine. Un documento<br />
del 1282, in Tempi, uomini ed eventi di storia veneta. Studi in onore di Federico Seneca, Rovigo<br />
2003, pp. 113-126. Per i commerci nell’area trentino-tirolese del Quattrocento cfr. in<br />
particolare E. Demo, Le fiere di Bolzano e il commercio fra area atesina e area tedesca fra Quattrocento<br />
e Cinquecento, in G.M. Varanini (ed.), Le Alpi medievali nello sviluppo delle regioni contermini,<br />
Napoli 2003; E. Demo, Traffici e mercanti lungo le strade di Germania, in 1500 circa.<br />
Landesausstellung 2000, Catalogo della Mostra, Bolzano 2000. Per gli itinerari in direzione<br />
ovest-est, cfr. G.M. Varanini, Itinerari commerciali secondari nel Trentino bassomedioevale,<br />
in E. Riedenauer (ed), Die Erschliessung des Alpenraums für den Verkehr im Mittelalter und in<br />
der frühen Neuzeit - L’apertura dell’area alpina al traffico nel medioevo e nella prima età moderna,<br />
Historikertagung in Irsee - Convegno storico a Irsee 13.-15. IX. 1993, Bolzano 1996,<br />
pp. 101-128. Per il ms. 435 della Biblioteca Comunale di Trento, cfr. infine la nota introduttiva.
LUSERNA, LE ANTICHE STRADE DI CONFINE<br />
E IL PASSO DI LAVARONE<br />
Paolo Zammatteo<br />
Inquadramento<br />
Capita spesso che, dove non c’è il conforto delle fonti, siano le leggende a<br />
riportare alcune verità, seppure deformate o fortemente retrodatate, e quelle di<br />
<strong>Luserna</strong> sono la raccolta più ricca rimasta sugli Altipiani fra Trento e Vicenza<br />
(BACHER 1905: BELLOTTO, (a cura di)1978): un racconto afferma che il villaggio<br />
fu creato da mandriani lavaronesi nel corso del Cinquecento (BER-<br />
TOLDI 1994, p. 42) e non c’è dubbio che l’insediamento sul monte si sviluppò<br />
definitivamente assieme all’espansione a Est di Lavarone.<br />
La pastorizia aveva già inciso sulla natura degli Altipiani da molto tempo e la<br />
presenza di un confine aveva senz’altro influito pesantemente sulla considerazione<br />
socio-politica degli ampi pascoli di Vezzena, intorno a cui tutti gli elementi<br />
di interesse di queste contrade orbitarono fino all’era moderna.<br />
L’antica chiesa di Santa Maria a Brancafora è il primo dato certo. Precedentemente<br />
i monti di Lavarone e <strong>Luserna</strong> erano dipesi dalla Pieve di Caltrano: nel<br />
753, a un anno dalla nascita della nuova abbazia benedettina di Nonantola, leggenda<br />
vuole che il suo fondatore le avesse donato cinque “masserizie” a Cogolo,<br />
Musson e Caltrano; certamente Berengario I re d’Italia nel 917 aveva donato<br />
la montagna dei Sette Comuni a Sibicone, vescovo di Padova; Sibicone, molto<br />
probabilmente nella prima metà del decimo secolo, aveva aperto i due ospizi di<br />
Brancafora e di San Pietro Valdastico. Gli stessi territori, che erano appartenuti<br />
alla corte di Caltrano, vennero confermati alla diocesi di Padova nel 1026 da<br />
Corrado il Salico.<br />
Unica matrice con la possibilità di offrire elementi documentari e deduttivi<br />
sulla storia più antica dei luoghi è la viabilità, la cui prima indicazione risale al<br />
1192 (BRIDA 1970, p. 86). Quattro secoli più tardi, da questo di Levico si può far<br />
tratto al vicino Lago di Caldonazzo nella Giurisdittione de’ baroni Trapp, Feudale della<br />
Chiesa di Trento. ...E quanto sia della Giurisdittione di Caldonazzo, oltre il Villaggio con<br />
la sua Chiesa, e Palazzo antico di Residenza, il sito, che si stende in Piano, e Monte, riesce<br />
fertile, & uno de’ più proprij per Caccia, compresa anche la Montagna di Lavarone, Passo<br />
obliquo per l’Italia verso Vicenza, e dove di notabile stà la Chiesa di Brancafora consecrata<br />
dicesi, da un Vescovo, che poi fù Papa, & che perciò l’arricchì di Gratie Spirituali, & In-
22<br />
Paolo Zammatteo<br />
dulti. Qual Chiesa dipende dal Vescovo di Padova, rispetto à’ confini, che si fan’ oltre Pedemonte<br />
con S. Marco (MARIANI 1673, p. 535).<br />
Il fulcro degli Altipiani è da sempre sulle quote di Vezzena, ampio sistema<br />
di pascoli a lungo contrastato fra Vicentini e Trentini, Lavaronesi, Levicensi e<br />
Luserni. Intorno ad esso gravitavano alcune strade, di cui due almeno segnarono<br />
il confine: i Menadori di Caldonazzo e di Levico e la Strada della Val Tora,<br />
margine indiscusso tra Feltre, Trento e Vicenza. Tre gli ospizi: Brancafora, Lavarone,<br />
Monterovere, con un ruolo non secondario per la valle del Rio Torto.<br />
In mezzo si erge, usque in fines principatus vescovilis, il Monte di <strong>Luserna</strong>, su cui<br />
nel XIII e nel XIV secolo si incrociano le testimonianze e gli interessi diretti di<br />
Arsiero, Velo d’Astico, Brancafora, Lavarone e Caldonazzo, fra l’attestazione<br />
consolidata delle giurisdizioni, la questione di Vezzena, la ripresa della ricerca<br />
mineraria e i contrasti per gli usi di pascolo e i diritti feudali.<br />
In questo quadro spiccano subito due particolarità:<br />
a dispetto dell’ultimo tratto della Via Imperiale verso Trento, che non<br />
risulta fortemente praticato, la tratta più battuta era la valle del Centa:<br />
altre strade molto antiche correvano fra Calceranica, Migazzone e<br />
Vattaro, oppure Caldonazzo e Campregheri sulla destra del torrente<br />
Mandola;<br />
malgrado il confine, sugli altipiani di Lavarone e <strong>Luserna</strong> ci sono tre<br />
ospizi attestati sulla valle del rio Torto: Brancafora; Lavarone e Monterovere,<br />
tra Lavarone, Caldonazzo e Levico, in cima ai menadori<br />
omonimi ma anche in testa alla strada per la Val d’Assa e al sentiero<br />
per la Vallesella, il vecchissimo tratturo di Porta Manazzo.<br />
Un paesaggio medievale<br />
Nel 1471, quando il dinasta di Caldonazzo, nell’ennesimo tentativo di risolvere<br />
la questione del confine del principato, interrogò vari testimoni della zona,<br />
<strong>Luserna</strong> comparve in quattro deposizioni come Liserna. Nell’etimologia arcaica<br />
Lis Erna indica un passaggio, un valico. E la memoria popolare ricorda che localmente<br />
il paese veniva chiamato anche Lusérn o Lasérn.<br />
Ci sono vari toponomi che rimandano a un passaggio, a un sentiero, prendendo<br />
forme diverse dal latino lapsus, scivolo, o dal corrispondente medioevale<br />
laso, canalone: Laas (il Menador di Caldonazzo (BELLOTTO 1978, p. 185) e<br />
Latz, che indica il bosco sul Monte di <strong>Luserna</strong> nei pressi di Scalzeri (CAROT-<br />
TA 1997, p. 325). J. Bacher all’inizio del Novecento ricordava anche dar Laas<br />
von Masétnar (il canalone di Masetti), dar Laas vo Leve (il canalone di Levico), dar<br />
Laas vo Kalnétç (il canalone di Caldonazzo) (BELLOTTO 1978, p. 185).<br />
Il limite della linea di demarcazione passava nei pressi dell’ospizio di Monterovere,<br />
che compare per la prima volta in un documento del 1485 col nome di
<strong>Luserna</strong>, le antiche strade di confine e il passo di Lavarone 23<br />
zum Heusel (al casotto). Era possesso di quelli di Caldonazzo, cosa riconosciuta anche da<br />
quelli di Lavarone. Il masetto formava, come oggiun, ospizio per quelli che andavano per il<br />
Menador di Caldonazzo e per la Valle del Rio Torto in Valdastico, a Brancafora, ovvero a<br />
<strong>Luserna</strong>, o fra <strong>Luserna</strong> e Lavarone, o da Lavarone – Vezzena - Val d’Assa - Asiago e<br />
viceversa (REICH 1973, p. 146).<br />
Da Monterovere la strada seguiva il confine fra Trento e Vicenza fino alle<br />
sorgenti di Vezzena, per continuare in direzione della Val d’Assa: ma un ramo<br />
affiancava ancora il confine, piegando verso il Bisele e la Val Tora: il confine, volgendo<br />
a mattina lungo lo spigolo delle montagne, veniva a toccare le due fontanelle di Vezzena<br />
e attraverso il Bisele metteva a capo nella Val Tora, che poi seguiva fino all’Astico<br />
(MANTESE 1952, p. 420).<br />
L’ospizio di Brancafora, all’epoca un maso tedesco (NICOLUSSI MOZ<br />
2001, p. 451) 1 , aveva annessi e terreni sufficienti all’autosostentamento, creando<br />
lo status di un potere autonomo sul Monte di <strong>Luserna</strong>, un cuscinetto fisico<br />
fra Trento e Vicenza: probabilmente per questo nel 1260 veniva indicato come<br />
“districtus Luxernæ” (LORENZI 1932 : ZAMMATTEO 2001-b).<br />
A Monterovere convergevano due tratturi, menadóri, ossia tracciati destinati<br />
all’avvallamento del legname 2 . Il più importante restò sempre quello di Caldonazzo,<br />
che sfociava alla Magnifica Corte, sede della giurisdizione. Quello di Levico,<br />
un tempo popolarissimo, si imbocca al Dazio di Inghiaie e segue il Rio<br />
Bianco, il confine più antico sul fronte della Valsugana.<br />
1 Con il nome di “maso” venivano descritte le pertinenze a meridione della Curazia ancora<br />
nel 1599.<br />
2 La “menata” era la condotta a valle del legname che poteva avvenire attraverso le “risine”,<br />
sfruttando il corso dei torrenti, o con l’ausilio di forza animale. “Avvallamento”: Si utilizzavano<br />
per il trasporto a valle i ripidi canali naturali (tovi). Dove non esisteva la possibilità<br />
di aprire strade o di raggiungere i luoghi di abbattimento con carrarecce, i boscaioli costruivano<br />
canali artificiali, incassandoli nel terreno, selciandoli e rifinendoli sui fianchi con<br />
pietre robuste e lisce. Altri venivano messi in opera scegliendo un percorso, scavando un<br />
canale, rivestendolo con antenne di legno sistemate in modo che nell’incontro testa-coda<br />
non offrissero alcun ostacolo. Quando superavano torrenti, o punti di terreno mancante, i<br />
canali diventavano autentici ponti sostenuti da possenti impalcature. La loro pendenza favoriva<br />
le alte velocità di discesa. I toppi non dovevano incagliarsi, disporsi di traverso, uscire<br />
di pista. Si costruivano perciò tratti brevi con fuoriuscite a salire dove i legni rallentavano<br />
la corsa, si fermavano e per rotolamento o trascinamento con “zappino” erano risistemati<br />
in un nuovo tratto di canale. I boscaioli muniti di zappini venivano distribuiti<br />
lungo questi percorsi in modo da vedersi o da potersi udire. Con urla convenzionali o con<br />
fischi segnalavano via libera all’avvallamento o lo interrompevano in caso di pericolo o<br />
fuoriuscita dei toppi. Un vecchio documento (B.C. TN. ms. 369) così comanda: “Prima di<br />
tovezzare e di menare legni chiama trei volte ad alta voce a dover ritirarsi”. Quando la neve<br />
cadeva la si pressava lungo le “risine”e la si gelava facendovi scorrere acqua. Là dove<br />
esistevano ripide carrarecce i toppi legati con robuste catene scendevano a valle solidali ad<br />
un carro con solo avantreno, trascinandosi dietro, anche in funzione di freno, gruppi di<br />
toppi appaiati a due a due con biette legate ad anelli” (ŠEBESTA 1983, pp. 9-11).
24<br />
Paolo Zammatteo<br />
Al tempo che se faceva la menata in quel de Levego ... la menata era presso il rivo Biancho<br />
(LORENZI 1981) 3 : era la via impiegata per raggiungere le fiere levicesi da<br />
Marostica e Asiago (REICH 1973, p. 172). Malgrado il ruolo secondario rispetto<br />
alle vie che collegavano Caldonazzo all’altopiano di Lavarone, la carta di de<br />
Sperges, la Tirolis pars meridionalis Episcopatum Tridentinum del 1762, indica tutto il<br />
percorso della Val d’Assa col nome di Menador di Levico, quasi a sottolinearne<br />
la popolarità. E popolare lo era davvero: in realtà il Menador di Levico non sarebbe<br />
mai stato ammesso tra le strade istituzionali di attraversamento degli Altipiani.<br />
Il Menador di Levico veniva indicato anche con altri nomi.<br />
Il rivo che nomina i Caldonaci il rivo biancho, è quello che da Levegani e nominado il rivo<br />
de val schura; ... le vie nel discendere non metono nelle vie maistre de Caldonazo, ma ben<br />
schavezano il rivo della val Schura in quatro over cinque logi, et descendono verso Levego;<br />
... lui ha sentudo chiamar il rivo bianco anche rivo de val schura et anche rivo dei Bergamasch<br />
(REICH, pp. 169, 171).<br />
Si parla di vie, perché sarebbero diventate due: la seconda scendeva dalla<br />
Val Pisciavacca lungo il nuovo confine, fissato più ad Est dalla Sentenza Roboretana<br />
del 1605: era la strada dei Bròzi (GORFER 1977, p. 872) in ricordo dei<br />
carri a due ruote e con il retro a strascico, usati per l’avvallamento del legname.<br />
La Val d’Assa correva pressoché interamente all’interno dei confini dei Sette<br />
Comuni Vicentini, che già in epoca remota erano in possesso di particolari privilegi.<br />
Lo sfruttamento del collegamento con Asiago dalla Val d’Assa compare<br />
solo in documenti del 1487. All’epoca della guerra tra Sigismondo Conte del<br />
Tirolo e la Repubblica di Venezia, le vie da difendere contro l’invasione dei Veneziani<br />
dalla parte di Lavarone erano l’antica dell’Astico o di Vicenza, serrata dal covelo di Rio<br />
Malo, la malagevole a ritroso del Rio Torto, quella sua per le balze di <strong>Luserna</strong>, quella a ritroso<br />
della Tora [...] Di tutte queste strade o sentieri, la più comoda da battere era quella da<br />
Val d’Assa alle Vezzene, la quale appunto servì a vicendevoli invasioni ai belligeranti<br />
(REICH 1973, p. 148). In seguito la sua comodità avrebbe trovato riscontro<br />
nell’ambito degli scambi commerciali per il collegamento tra l’Alta Valsugana, il<br />
Pedemontano e la pianura di Marostica (BRIDA ,1989, p. 56).<br />
Nel 1537 si nominavano la via maistra, che conduce in Visentina e le vie che vanno<br />
verso il bislo e lucerna (REICH 1973, p. 166), ovvero la via della Val d’Assa, ormai<br />
la principale, e le due diramazioni sulla val Tora e in direzione di Casotto: il<br />
passo del Bisele veniva menzionato per l’ultima volta alla fine del Seicento come<br />
del tutto secondario (STOLZ 1953, p. 117; p. 238).<br />
3 “Menador” (documento del 1556).
<strong>Luserna</strong>, le antiche strade di confine e il passo di Lavarone 25<br />
Più ad Ovest, a Lavarone, c’era un bivio fra la strata a qua itur Vicentiam superius<br />
usque ad culmina montium del 1192, da cui alle Casàre era possibile dirigersi<br />
verso Trento dalla sella di Carbonare, scendendo oltre il passaggio obbligato<br />
fra il dosso del Postèl e la Covéla (in la versus Cintam ) fino alla pista preistorica sul<br />
monte Rive, e la strada di Folgaria verso Castel Beseno, in Vallagarina. Per la<br />
Valsugana la strada più battuta era quella di Lanzìno, passante sulla destra del<br />
Torrente Centa (BRIDA 1989, pp. 347-384). 4 e attestata alla Magnifica Corte di<br />
Caldonazzo. Da lì, nel corso del Seicento, al Lanzin Vecio sarebbe stata affiancata<br />
un’altra via, il Novo Lanzin, ben più agevole. Dalla parte di Vicenza la Strada<br />
Imperiale aveva il suo caposaldo al Covòlo di Rio Malo, a lungo gestito dai<br />
Belenzani su accordo con i dinasti di Caldonazzo, per poi scendere in Valdastico<br />
e proseguire verso la pianura.<br />
Un tracciato passava da Costesin, Basson, Marcai (Malga Giau – dove<br />
“giau” può significare valico in un antico linguaggio prelatino – indica ancora<br />
oggi, localmente, la Malga Marcai di Sopra), Manazzo, Vallesella, Valsugana: si<br />
trattava di un passaggio sedimentato dall’uso della monticazione (manazzo=maneggio).<br />
Il Manazzo viene citato nella Carta di Regola di Caldonazzo del 1260, in cui<br />
il Comune reclamava il possesso ab antico della Costa qua confinat cum Manazo,<br />
sfruttata indebitamente dai Vicentini: è chiaro il rilievo del valico sul Monte<br />
Mandriolo rispetto a Vezzena, qui chiamata semplicemente Costa. Il toponimo<br />
riappare negli atti della Commissione per i confini, istituita nel 1605 tra Austriaci,<br />
Trentini e Veneti, quando si decise che le montagne di Costa e di Vezzena,<br />
coi loro pascoli, boschi e pertinenze, spettavano alla Comunità di Levico,<br />
nonché in carte successive.<br />
La frequentazione di lungo periodo della via “naturale” della Vallesella giustifica<br />
la forte attrazione esercitata sugli altipiani dalla Valsugana: anche<br />
l’attestazione di Pedemonte come appartenente al distretto di Caldonazzo, che<br />
sembra essere riconosciuta in modo indolore nella prima metà del Quattrocento<br />
malgrado la dedizione a Vicenza della Villa di Brancafora nel 1385, può essere<br />
ricompresa in una vocazione naturale, fisica o politica che fosse, del luogo:<br />
e questo stesso dato ribadisce anche la presenza di una strada lungo il rio Torto.<br />
4 Si riunivano alla antica pista sul lato idrografico sinistro nei pressi del Maso Strada. Ancora<br />
oggi il tratto successivo, quello verso Campregheri, viene ricordato con il nome di “Via<br />
Imperiala”. Riguardo alla difesa della pista fra Trento e Lavarone (la via a qua itur Vincentiam)<br />
nei pressi di Caldonazzo, (ZAMMATTEO 2001-d).
26<br />
Paolo Zammatteo<br />
Una questione di supremazia<br />
Nel 1264 gli statuti di Vicenza prevedevano la costruzione di tre nuove<br />
strade verso Trento, que possint carrezari attraverso tre vallate parallele: dalla valle<br />
dell’Agno al passo di Campogrosso alla Vallarsa e alla Valle dell’Adige; dalla<br />
Val Leogra al passo del Pian delle Fugazze ancora alla Vallarsa; dalla valle di<br />
Posina al passo della Borcola, alla valle di Terragnolo e di qui alla Vallagarina.<br />
Una delle strade, ad equitandum et carrezandum congruencius et levius, doveva essere<br />
costruita per cura dei due comuni cittadini di Vicenza e di Trento. Le altre<br />
fiant per consortes, cioè per mano dei comuni rurali, si volent. La natura<br />
dell’impresa è confermata dal fatto che si intese utilizzare, per un sopralluogo<br />
segreto da compiersi sui passi montani ad videndum unde melius et levius possit fieri<br />
strata, degli homines religiosi qui nulli layco subiaceant. Evidentemente c’erano grossi<br />
problemi con i signori di castello.<br />
Nel corso del Duecento, e con particolare evidenza nella seconda metà del<br />
secolo, i vescovi di Trento e di Feltre persero definitivamente il controllo politico<br />
degli itinerari stradali intra-alpini. Ciò andò a vantaggio dei nuovi poteri<br />
privati che si aggregavano attorno ad una strada, come avvenne per i Caldonazzo-Castelnuovo.<br />
L’espansione feudale dei Caldonazzo-Castelnuovo avvenne tra la costruzione<br />
di Santa Margherita a Castelnovo (circa 1100) e l’erezione del castello sul<br />
Monte Rite dopo il 1201. La devozione a Santa Margherita è un elemento unificante<br />
dei cimbri, forse al di là dell’unità linguistica o territoriale (TOLDO<br />
1984, pp. 80-81), e negli edifici di culto si ritrova un dato prezioso per il riconoscimento<br />
dei passaggi più significativi.<br />
Il toponimo compare all’imbocco delle antiche vie di accesso; per iniziare, a<br />
Santa Margherita di Ala, duecentesco ospizio vanghiano protagonista della colonizzazione<br />
cimbra dei Lessini e del Baldo. Il caso più antico è quello di Rotzo,<br />
che insieme a Castelletto e Albaredo è considerato il più antico abitato<br />
dell’Altopiano dei Sette Comuni, essendo menzionato fin dall’anno 917.<br />
Sempre intitolate a Santa Margherita, altre tre chiese dei monti vicentini rimandano<br />
ad un legame con attività minerarie, perché collocate in zone in cui<br />
era consistente l’estrazione: la parrocchia di Rovegliana (Recoaro), Santa Margherita<br />
di Roncà (Arzignano), la chiesa di Bevadoro a Val d’Agno. Anche la<br />
cappella di Santa Margherita a Marter di Roncegno, pur comparendo solo nel<br />
1460, è prossima ai giacimenti a solfuri di Vetriolo e Cinque Valli.<br />
La figura della santa, ausiliatrice delle partorienti, declina a <strong>Luserna</strong> in Frau<br />
Berchta, un immaginario abitante del bosco, che qui è una strega ostetrica<br />
(ZAMMATTEO 2001-f).<br />
Il Castel-novo viene menzionato la prima volta nella dichiarazione dei fratelli<br />
D.nus Yeremias et Albertus de Cautonacio il 25 gennaio 1201, quando davanti al<br />
vescovo di Trento Corrado II di Beseno chiedevano il permesso di erigere
<strong>Luserna</strong>, le antiche strade di confine e il passo di Lavarone 27<br />
quoddam Castrum su un loro bene allodiale quod ipsi fratres habent supra Villa de<br />
Cautonacio, il Monte Rive. La Torre dei Sicconi sarebbe sorta in alto sopra la<br />
strada esistente, tanto che si può far risalire a quest’epoca la fortuna della via<br />
del Lanzino (ribadita poi in un nuovo tracciato, realizzato nel 1690 circa, e nella<br />
ottocentesca strada del Tomazzolo) e il suo rapido prevalere rispetto alla percorrenza<br />
più antica verso Mattarello e la Valle dell’Adige. In seguito, con Caldonazzo<br />
saldamente al centro della giurisdizione, questa e le altre strade convergenti<br />
sul paese, vecchie e nuove, sarebbero cresciute progressivamente di<br />
importanza (BRIDA, ANZOLETTI 1981) 5 .<br />
La via della Valdastico e degli Altipiani era tanto consolidata, che Caldonazzo<br />
riuscì a deviare sempre di più i flussi di traffico da e per Trento solo rispetto<br />
all’ultimo tratto dell’antica strada commerciale e dopo le quote di Lavarone.<br />
Il Lanzin Novo fu realizzato nel corso del Seicento: da Caldonazzo saliva al<br />
Monte Cimone e verso le Casare e Lanzino rimanendo sul versante destro del<br />
torrente Centa. In un documento del 1699 si afferma che era dotato di stanga e<br />
garitta per la riscossione del dazio (CAROTTA 1997, p. 28).<br />
La mappa degli itinerari<br />
La Strada Imperiale risaliva lungo il lato idrografico sinistro del torrente Astico,<br />
passando da Brancafora - dove veniva riscosso il dazio sul legname (NICO-<br />
LUSSI MOZ 1599, p. 451) - e Carotte, dove in loc. Roserack esisteva un punto<br />
di sosta per i cavalli; da lì si riduceva ad una mulattiera che, passando tra lo Zahnloch<br />
ed il Covolo di Rio Malo (un riparo in grotta tanto conosciuto, che qui ci si<br />
limita ad accennarne), raggiungeva il Dazio vicino alla frazione Piccoli: lungo<br />
una diramazione, che collega il Dazio a Carbonare, si trovano ben tre ripari naturali,<br />
il Covolo dell’Agnolona a Nosellari, il Bus dell’Arcangeleto a Girardi e la Cogola,<br />
un importantissimo sito di frequentazione umana dalla preistoria fino al XV<br />
secolo 6 .<br />
La Strada Imperiale proseguiva verso la chiesa di San Floriano, Lanzino (sinonimo<br />
di gancio, così chiamato presumibilmente per la presenza di uno sbarramento),<br />
le Casare (dove si divideva la strada per Folgaria), l’Osteria del Goto e<br />
Maso Strada, caposaldo del confine fra Folgaria e Caldonazzo, il Dazio di Cen-<br />
5 “È singolare rilevare come gli interessi e i rapporti umani, pur facilitati dall’invitante sella<br />
di Vigolo, scansino l’asse dell’Adige, indirizzandosi verso la vallata principale (Valsugana)<br />
e i raccordi montani con il Vicentino, sfruttando le quote di Monterovere e Lanzin. Il<br />
tratturo del menador, soprattutto, è componente irrinunciabile per l’economia<br />
dell’epoca”. Per la viabilità rinascimentale vedi anche BRIDA 2000, p. 428.<br />
6 I ripari in roccia lungo le strade possono essere stati occasionali punti di guardia, Bischofswachen,<br />
ma solo il Covolo di Rio Malo, alto sulla Strada Imperiale al limite di Lavarone,<br />
ebbe sicuramente un presidio.
28<br />
Paolo Zammatteo<br />
ta San Nicolò (che doveva trovarsi al quadrivio di Campregheri), Vattaro,<br />
dov’era un altro dazio, e da qui alla valle dell’Adige.<br />
Da Monterovere scendeva il Menador di Levico, giù fino al Dazio di Inghiaie<br />
e alla chiesa di Santa Giuliana. Da lì attraverso Barco era possibile raggiungere<br />
la Vallesella, Borgo e Castelnovo, restando a monte rispetto alla Bastia<br />
del Marter e alle fortificazioni esistenti fra Caldonazzo e Borgo Valsugana. Un<br />
tragitto alternativo preferiva l’antica via di Porta Manazzo, che era stata attrezzata<br />
per il transito e la sosta dei muli, come dimostrano i toponimi di Pausa e<br />
Trozzi.<br />
Tra Monterovere e Caldonazzo correva anche il Menador omonimo che,<br />
seguendo la Val Scura, sbucava al Castello di Corte e alla Casa della Decima.<br />
Un’altra strada risaliva il torrente Tora oltre il Monte di <strong>Luserna</strong>, sul confine<br />
confermato da Enrico re di Germania nel 1004 per il Principato Vescovile di<br />
Trento. Il tracciato più vecchio si staccava dalla Strada Imperiale in destra Tora<br />
a Molino (a monte di Braido e Dogana in Valdastico e sotto il maso di Casoto),<br />
affrontava il passo del Bisele e da lì biforcava verso l’ospizio di Monterovere e<br />
le Vezzene.<br />
Il Ponte Rossati è vicino alle Sorgenti del Bisele e probabilmente sostituisce<br />
più a monte un antico attraversamento del torrente Tora. Sembra evidente che<br />
quel primo ponte aveva rappresentato un punto strategico sul confine: alla metà<br />
del Cinquecento nel livello del maso al Casoto alla Tora (CAROTTA 1997, p.<br />
114) 7 i conti Trapp imposero all’affittuario la manutenzione del Ponticellum super<br />
torrentem Torae pro pedestribus illuc transeuntibus; non è precisato dove fosse: ma se<br />
il livello si riferiva alla Strada Imperiale, il vecio Lanzin, non sarebbe certamente<br />
stata usata la definizione Ponticellum, e la faccenda del ponte non sarebbe stata<br />
assegnata a un singolo maso:<br />
la manutenzione del vecchio Lanzin faceva parte dei pioveghi, cioè delle prestazioni di manodopera<br />
gratuita, imposti dal regolamento di corte dei Trapp agli abitanti della circoscrizione<br />
di Lavarone, della quale facevano parte anche Pedemonte e Casotto. Leggiamo nel<br />
regolamento della magnifica corte di Caldonazzo: Li Lavaroni sono obbligati a fare e<br />
mantenere la strada del Lancin tanto verso l’Astico che verso Caldonazzo, e di ripararla<br />
ogni volta ch’il bisogno lo richiederà, a tall’effetto il Capitano gli da il sostentamento, cioè<br />
ad ognuno due pani, e da bere oppure due Lire di farina di polenta, e formaggio col vino à<br />
proporzione della quantità di lavoranti (CAROTTA 1997, p. 29).<br />
Un ponte sul Tora giustificava le affermazioni del 1487, quando si descrissero<br />
la via di Lavarone per le balze di <strong>Luserna</strong> e quella a ritroso della Tora, e del<br />
1535 con le vie del bislo e di luserna, portando ad affermare che il ramo della Cin-<br />
7 La data del livello di Casotto è il 20 giugno 1561.
<strong>Luserna</strong>, le antiche strade di confine e il passo di Lavarone 29<br />
géla, sul versante vicentino della valle, esisteva già e dando maggior valore al<br />
rastrello, la stanga esistente al passo del Bisele.<br />
Una pista secondaria veniva affrontata a piedi per portare i sacchi di farina<br />
in spalla dal mulino di Casotto fino a <strong>Luserna</strong>. A Scalzeri, invece, resta il ricordo<br />
di una tettoia per la sosta di muli, impiegati anch’essi per il trasporto della<br />
farina fino al paese. Da Scalzeri sale anche il sentiero devozionale sovrastato<br />
dal Covolo di Pisciavacca, forse Bischofswache, che da Brancafora, sfidando l’asperità<br />
della roccia, arriva a Tezze di <strong>Luserna</strong>, incrocia la vecchia strada per Monterovere<br />
presso la cisterna e la cappella campestre dedicata a San Rocco (di poco<br />
posteriore all’epidemia di colera del 1853), e nel suo tragitto originario sbucava<br />
nella piazza della frazione principale passando sotto la chiesa settecentesca. Il<br />
suo ricordo è nitido, in quanto costituiva il collegamento con la Curazia e il cimitero<br />
di Pedemonte fino alla metà del XVIII secolo (ZAMMATTEO 1999b).<br />
Inoltre i masi di Pedemonte sono di gran lunga i centri abitati più vicini alle<br />
frazioni di <strong>Luserna</strong>, e questa via venne impiegata comunemente fino agli anni<br />
Sessanta del XX secolo.<br />
Una via mineraria<br />
All’interno della viabilità tra la Valdastico e gli altipiani di Lavarone e <strong>Luserna</strong><br />
dev’essere riconosciuta la rilevanza del Rio Torto (ZAMMATTEO 1999-b),<br />
visti i molti elementi di rilievo, dall’ospizio di Monterovere al Covolo delle<br />
Campane, dal sito metallurgico protostorico del Pletz von Motze (<strong>Luserna</strong>) al<br />
Maso di Santa Maria (Masetti) e attraverso l’antico tratto superiore del Prighelveg<br />
(il Sentiero dei Pellegrini) ai pascoli di Vezzena, dal Passo Cost di Lavarone-<br />
Longhi allo sbocco pedemontano di Brancafora.<br />
Quella pista aveva perso significato già nel XV secolo, tanto che, come dimostra<br />
uno scritto di fine Ottocento, il suo tratto finale serviva impianti di fusione<br />
del ferro.<br />
I.R. Governo, Imspruck<br />
Sartori Giovanni di Giovanni dela Contrà Scalzeri di Pedemonte del distreto Levico esendo<br />
io dala mia tenera gioventù aplicante al studio, così per grazia di Dio mi è venuto fra le<br />
mani una grande quantità di memorie scrite dei nostri antenati possesori, che despiegano<br />
molte cose, cose che è stato suceso ai nostri antenati possesori. Così adesso alimpiamente del<br />
mio discorso dichiaro qualcosa di belo: 1 primo: qui vicino a pedemonte si trova una contrada<br />
così deta Forni questa porta il nome per il motivo che si trova la grande quantita di<br />
forni, che colava ogni qualità di Metali che dai nostri monti veniva scavati epoi condoti in<br />
questo così deto forni; il primo inviamento fu cominciato acolar il metalo di qualunque sorte<br />
fu dal ano 600 dopo Lera Cristiana del Mondo, questi lavori continuo fino Lanno
30<br />
Paolo Zammatteo<br />
1508, ma va ricorda che questo lavoro ci è venuti abandonati per il motivo che dal 1509 ci<br />
èvenuta dala basa Italia una grande quantita di armati qui nei nostri contorni così fecero<br />
una grandissima strage di mortalità di questo povero popolo; poi lano stesso partì una<br />
grande malatia poi di peste e fu ancora una grande mortalità che restò il 5 per 100 e per<br />
motivo di questa grande mortalità fu abandonata i lavori. Così io studiando questa bela<br />
memoria andò soppra luogo intuti ibuchi che estati oturati, òscavati e o trovata la verita; vi<br />
sono in queste caverne banche di miniera e venesono di queste che non sono cominciate; così<br />
invase le memorie otrovato quele e anche che dele altre oscoperto io andando per monti, ma<br />
io dichiaro laverita: queste miniere che otrovato conosco che sono pietre minerali ma non conosso<br />
che sorte che sia. Secondo: dopo questa mortalità che estato sucessa, il magistrato di<br />
Venezia trovando dele sentenze che parlava sopra le Miniere divald’astico opedemonte, dal<br />
anno 1552 partì da Venezia per curiosità ci evenuto ascoprire miniere di Vald’astico. Dice<br />
così che amatina del vilagio di sampietro nella vale del’orco si trova una miniera 8 overo<br />
sia un picolo buco dai fiori essegni verificò sia di puro argento e che aveva deciso di fabricare<br />
un altro edifizio sulaqua delastego. Dal anno 1508 unaltra buco sitrova nella vale barberena<br />
che è sopra Toneza e soto Milignone 9. Questo verificò ai fiori e segni che sia di puro<br />
argento; unaltra che si trova amatina del vilagio del Casoto 10 nella vale della Tora che<br />
all’ingresso nasse un zampillo di aqua entrò inquesta dice che inalto del buco si trova unforo<br />
che averà servito per dar lume oforo ala Caverna dice che inalto del buco si trova un palo<br />
di fero che aservito per calar giu il materiale e che dalla croda giala vericò che la miniera<br />
sia di otomo fero e questo buco estato scavato intorno ala metà del 14 secolo; unaltro buco<br />
8 Non se ne trova traccia. Poco più ad Est compaiono altre due miniere: la cava Menegolli,<br />
alla confluenza della Val d'Assa nella Val d'Astico. Minerali: Aragonite, Artinite, Brucite,<br />
Calcite, Idromagnesite, Piroaurite-Sjoegrenite, Thomsonite; la cava di Settecà, presso Pedescala.<br />
Minerali: Piroaurite-Sjoegrenite. IGM.36 I SE, foglio Rotzo.<br />
9 Probabilmente si tratta della miniera a cui si riferisce la leggenda, che parla della miniera<br />
del Melegnon, presso Passo Coe. Sarebbe stata il motivo dell’arrivo di maestranze minerarie<br />
“sassoni” o tirolesi, che poi convertirono la propria attività alla coltivazione del suolo<br />
(ZAMMATTEO 2001-a; ZAMMATTEO 2001-b; ZAMMATTEO 2001-c). Qui viene ricordata<br />
la Val della Vena per le some di minerale ferroso che scendevano da Val Barberena<br />
alla volta dei forni sul Torrente Astico e nei pressi si trova la cava di Val di Neve, a<br />
Tonezza. Minerali: Brucite, Idromagnesite, Idrotalcite, Piroaurite-Sjoegrenite. IGM.36 I<br />
SO, foglio Lastebasse.<br />
10 Alla miniera si accede a pochi minuti da Casotto. L’imbocco in alto, di cui si parla, è tuttora<br />
agibile.
<strong>Luserna</strong>, le antiche strade di confine e il passo di Lavarone 31<br />
che si trova nela vale del riosolo dela contrà Scalzeri 11 vericò che questa sia platino zingo<br />
vano argento 12 e così tante altre.<br />
Così dichiaro che dal anno 1440 si trovava nela vale del riotorto di Pedemonte il forno del<br />
ferro che colava il ferro 13. Unaltra memoria che parlava così che uncerto cerata caldogno dei<br />
forni essendo uomo intendente sopra leminiere, estatto messo da Antonia e giacomo cerato<br />
dei forni, che era quei che colava questo; trovandosi nei suoi ultimi estremi di sua vita dice<br />
così che Valdastico sono povera ditereni ma ilnoltre insecondo luogo sono richissima diminiere<br />
di qualunque sorte ma solo dice che non sia ancora scoperta Caverna del oro puro<br />
massisso.<br />
Così trovando tuti questi registri che parlava sopra le miniere le presento ala Giustizia così<br />
adeso facia la sua buona volotà perché cerco il bene di tuta la patria. 14<br />
Il forno del ferro del 1440 è l’unico impianto siderurgico medioevale registrato<br />
a Lavarone, probabile centro di lavorazione per il minerale estratto al<br />
Monte Horst (AUSSERER 1996, p. 82), che è stato individuato grazie a documenti<br />
austroungarici del 1856 15 e del 1917 16 : già nel 1423 Domenico del fu Federico<br />
da Lavarone aveva disposto un lascito alla Confraternita dei werki, lavoratori<br />
di miniera, del borgo e della Pieve di Pergine 17 , ed è l’unico atto contemporaneo<br />
a registrare, indirettamente, un rapporto fra l’Altopiano e l’attività estrattiva.<br />
Tradizione vuole che gli antichi forni metallurgici siano stati convertiti<br />
11 La cava di Val Riosolo, presso Scalzeri. Minerali: Aragonite, Calcite. IGM.36 I SO, foglio<br />
Lastebasse. Le antiche miniere individuate sono state oggetto di sfruttamento fino a circa<br />
20 anni fa come cave di pietra. La genesi metamorfica dei giacimenti, dovuta ad intrusione<br />
di magmi basaltici nella dolomia principale e al conseguente forte riscaldamento della roccia<br />
circostante ha prodotto, oltre alla metamorfosi della dolomia, come effetto secondario,<br />
un buon numero di specie mineralogiche che in taluni casi caratterizzano il giacimento.<br />
Una cava, indicata in mappa ma non nel manoscritto, si trova a Sud di Ciechi: qui è ancora<br />
evidente la discarica esterna, che lambisce la destra idrografica del Torrente Astico.<br />
12 Blenda.<br />
13 Probabilmente è quello individuato sulla sinistra del Rio Torto al confine fra Pedemonte e<br />
Lavarone, a cui fa riferimento la referenza successiva.<br />
14 ARCHIVIO DI STATO DI TRENTO, CAPITANATO DISTRETTUALE DI TREN-<br />
TO – MINIERE. I.: 1888-896. Manoscritto. Dall’atto di archiviazione risulta che la data<br />
di stesura è il 3 maggio 1894. Inoltre pare che parte delle notizie siano state assunte da<br />
documenti originali, di cui non si conosce la collocazione attuale, e che si tratti dei medesimi<br />
utilizzati (o scritti) da DAL POZZO 1985.<br />
15 CATASTO AUSTRIACO. MAPPE. N. 164, Comune Lavarone, Foglio 6 (anno 1856):<br />
“Hinter Hurst”, confina a Nord “Belen”, a Est “Monterovere”, a Sud “Gabriolle”, a Ovest<br />
“Tablat”.<br />
16 MUSEO STORICO ITALIANO DELLA GUERRA – ROVERETO - FOTO AEREE.<br />
RV 130/155: “Magre e zona a sud di Monte Horst (quota 1387), 17/10/1915”.<br />
17 Documento esistente nell’Archivio Parrocchiale di Pergine con segnatura sbagliata, 1483 e<br />
non 1423.
32<br />
Paolo Zammatteo<br />
a calchère (Insieme 1989. LARCHER 1995, p. 223), i cui ruderi in valle del Rio<br />
Torto non sono infrequenti. Il tracciato veniva utilizzato anche per<br />
l’avvallamento del legname da Val dei Rapàri, ripari, le anse da cui i boscaioli<br />
regolavano la discesa dei tronchi lungo i torrenti.<br />
L’antica viabilità interna a Lavarone<br />
Poco a monte, una biforcazione di quanto rimane della pista del rio Torto<br />
collega con il versante opposto e, passando sotto il Bus del Stoféle, affronta Passo<br />
Còst. Nei pressi, a Longhi, un edificio di svolgeva una funzione ufficiale e di<br />
sicura rilevanza locale. Secondo Tomaso Franco questo era l’ospizio di Lavarone<br />
(FRANCO 2000, pp. 52-53).<br />
La sua ipotesi di una percorrenza trasversale da Longhi a Lanzino, alternativa<br />
alla salita dal rio Malo, è corretta. A Lavarone ci sono ancora i segni di una<br />
strada, che sembra sia stata oggetto di un riassetto già in epoca remota: ne resta<br />
una tratta da Bertoldi fino al dosso del Monco.<br />
Gli elementi di interesse lungo il tracciato non sono pochi. Sopra Gionghi si<br />
trova la cosiddetta mecca, un blocco perfettamente cilindrico in pietra compatta,<br />
forse perso durante un trasporto di elementi edilizi verso una destinazione importante.<br />
Poco oltre Bertoldi una vasca in pietra bianca, parzialmente sbozzata,<br />
è stata utilizzata per il restauro del margine stradale. Più in là la strada raggiunge<br />
la sella del monte Tomazzolo, dove si conclude con una singolare svolta a<br />
destra perfettamente ortogonale. I prati e le pendici ai due lati della strada sono<br />
segnati con sigle incise nelle pietre emergenti, che testimoniano un godimento<br />
esclusivo di quei pascoli.<br />
Alla sella del monte Tomazzolo la strada scendeva di quota: passando sulle<br />
pendici delle Rive e dei Somi, lasciava dietro di sé il torrente Mandola, raggiungeva<br />
Migazzone e Susà, da lì toccava finalmente Trento giungendovi dal passo<br />
del Cimirlo. Oltre a ricalcare piste antichissime, almeno nel tratto valsuganese,<br />
il vantaggio di questa via era duplice: ci si manteneva in quota solo nel tratto di<br />
Lavarone e si evitavano le paludi dell’Alta Valdastico e della Brenta, passando<br />
poi sui declivi meridionali della Valsugana fino quasi alla città.<br />
Nel basso medioevo la tratta da Caldonazzo alla Val d’Astico passante dal<br />
Lanzino e Chiesa rimpiazzo per importanza il vecchio tracciato, e sul finire del<br />
Cinquecento l’ospizio di Lavarone era descritto come del tutto fuori strada.<br />
... il giorno 2 ottobre 1591 il curato di Lavarone condusse Carlo Guizzerato (convisitatore<br />
del Vescovo) e altri due cavalieri ad hospitium (...) distans a domo Ecclesia predicta<br />
(San Floriano di Lavarone) circiter 1000 passus di percorso montuoso e difficile». (...) p.<br />
230r: «il giorno 19 maggio 1604 ... quindi ritornato (il Vescovo) all’ospizio, dopo aver<br />
cenato nella casa parrocchiale, riposò di notte. (FRANCO 2000, p. 52)
<strong>Luserna</strong>, le antiche strade di confine e il passo di Lavarone 33<br />
Un ostacolo e un vincolo insormontabile, il prato<br />
Nei territori di pascolo i percorsi più antichi privilegiano i valloni e i crinali,<br />
perché il prato dev’essere rispettato. L’alpe è una vasta distesa, in gran parte libera<br />
da piante ed arbusti e la ricrescita dell’erba richiede meno tempo più si sale:<br />
nella rotazione del pascolo il pastore può stilare un calendario più ritmato<br />
rispetto alla pianura. Si va dal giorno del cargo, di norma il 13 giugno, S. Antonio,<br />
a quello del descargo, il 21 settembre, S. Matteo.<br />
Le regole della monticazione sono poche e immutabili. L’erba va rassodata:<br />
all’inizio della primavera, quando il ciuffo è calpestato dal bestiame o girato dal<br />
pastore, la zolla e le radici si allargano e vengono rincalzate dalla terra, che aderisce<br />
meglio al fusto e induce i pollini a generare nuovi fusti più forti.<br />
Se l’erba viene recisa dal passaggio degli erbivori o tosata dall’uomo, riprende<br />
il suo sviluppo e può essere brucata o falciata di nuovo. Per la fienagione, il<br />
pastore realizza canali artificiali e raccoglie l’acqua piovana in pozze, perché<br />
l’erba sull’argine cresce meglio; i bacini sfruttano depressioni naturali, le doline,<br />
rese impermeabili da uno strato di tèra créa battuta.<br />
Queste considerazioni, che sono debitrici di un elegante articolo di Jean<br />
Blanc (BLANC 2000, pp. 23-25), valgono ovunque. In più, se si considera la<br />
particolare vocazione della fascia montana vicentina rispetto ai fiumi, vettori<br />
naturali per gli spostamenti dei pastori e risorsa inesauribile per le greggi, riferendosi<br />
all’industria lanaria di Padova e Altino, gli Altipiani hanno un valore<br />
aggiunto.<br />
Un racconto tramandato dai contastorie di <strong>Luserna</strong> ha un sapore arcaico e<br />
cita il mare Adriatico, dove almeno dall’età imperiale le mandrie trovano pascoli<br />
freschi e ristoro durante l’inverno.<br />
Il pastore e il pesce<br />
“Un pastore custodiva le sue pecore presso il mare. Faceva freddo ed egli si<br />
sentiva gelare. Cercò una pietra dove accendere un piccolo fuoco per riscaldarsi,<br />
perché in mezzo all’erba non lo voleva accendere per non bruciarla. Trovò<br />
una bella pietra liscia, vi accese sopra il fuoco e rimase lì a scaldarsi. Ma tutto a<br />
un tratto quella gli diede uno scossone, che mandò lui e le pecore a cadere in<br />
mare, dove annegarono tutti.<br />
Il povero pastore aveva acceso il fuoco sul dorso di un pesce enorme, che<br />
quando sentì il calore si scosse, e quello scossone segnò la fine del pastore e<br />
delle sue pecore (BELLOTTO, pp. 41-42).” 18<br />
18 I riferimenti seguenti a Bacher si trovano alle pp. 303, 292.
34<br />
Paolo Zammatteo<br />
Sarebbe molto interessante, a riguardo, tracciare una mappa dei siti un tempo<br />
paludosi, inutili alla coltivazione, ma via privilegiata delle mandrie.<br />
In considerazione della vetustà nell’uso di pascolo, tracciare l’evoluzione tipologica<br />
delle malghe sembra molto difficile. Ma alcune ipotesi si possono<br />
formulare tenendo conto delle fonti, fra cui un fascino particolare hanno gli<br />
studi etnografici ottocenteschi del Baragiola. Le note seguenti fanno riferimento<br />
proprio alle sue osservazioni.<br />
Alla scala minima il mandriano poteva contare su un casotto trasportabile,<br />
una barella con una copertura a due falde rivestita di pelle o di scandole, evolutasi<br />
successivamente in un cassone di tavole ben connesse fra loro. In un passaggio<br />
del suo libro Baragiola cita la consuetudine degli italiani sugli altipiani<br />
vicentini di realizzare baite mobili trasportabili da quattro uomini o carri con<br />
sopra una minuscola abitazione in legno al traino di buoi. E negli stessi anni la<br />
cosa era ancora ben comune, tanto che Josef Bacher, nel registrare i racconti di<br />
<strong>Luserna</strong>, afferma espressamente.<br />
“Occorre sapere che i vaccari e i pastori non dormono nelle casàre, ma possiedono<br />
delle capanne in legno con delle stanghe sotto per sollevare la capanna<br />
stessa e portarla dove il pastore vuole.”<br />
Il bosco ha una valenza strategica, in quanto portatore della risorsa legno,<br />
tanto per il combustibile quanto per le parti lignee degli edifici, in particolare di<br />
quelle a Blockbau. Anche i boscaioli e i carbonai creano edifici precari, dai semplici<br />
capanni a due spioventi ricoperti di pelle a strane baite appoggiate su cippi<br />
in pietra e che a un certo punto hanno appunto le ruote per poter essere spostate<br />
più agevolmente. Quest’uso viene rievocato nel 1523, quando l’Europa<br />
era attanagliata dal timore di un nuovo Diluvio Universale, nei suoi diari Marin<br />
Sanudo affermava che “tutta la terra è inclinata a devution per paura de questi<br />
deluvii” e “in Friuli et Visentina si hanno preparato caxe su monti di legname e<br />
provisto di victuarie”.<br />
La “caxa” di Sanudo era più evoluta rispetto al riparo dei pastori, una capanna<br />
trasportabile in Blockbau, con pareti in tronchi sovrapposti orizzontalmente<br />
a incastro angolare dispari e il tetto a due spioventi ricoperto di corteccia,<br />
paglia o scandole, allestita su un terrazzamento artificiale con zoccolo di<br />
fondazione in pietra, la cosiddetta struttura mista. Ancora Bacher riporta che<br />
gli “uomini erano impegnati a trasportare le casàre di legno di una malga italiana.<br />
Dovevano prendere il legname di quelle vecchie e portarlo in altro luogo,<br />
dove rifare le casàre daccapo.”<br />
Queste soluzioni permettevano al pastore di vegliare sugli animali rinchiusi<br />
entro uno steccato mobile, la mandra, dimensionata per poter essere smontata e<br />
rimontata in un giorno da un uomo solo.
<strong>Luserna</strong>, le antiche strade di confine e il passo di Lavarone 35<br />
Strutture molto antiche sono anche i grandi ovili, dove all’inizio della monticazione<br />
e prima di accedere ai pascoli viene racchiuso il bestiame proveniente<br />
dal fondovalle, per una precauzione sanitaria non così ovvia: gli ovili sono in<br />
condominio e come tutte le attività dell’uomo sulle alpi sono condotti secondo<br />
le Regole, di villa o consorzio.<br />
Affiancando l’abitazione precaria in malga fino a sostituirla, l’organizzazione<br />
del pascolo si evolse verso edifici stanziali. Un ibrido fra gli ovili in lastre di<br />
pietra e la capanna a tecnica mista dovevano essere le Vecchie Malghe a Millegrobbe,<br />
di cui si ricorda ancora che le pareti verticali erano realizzate con la<br />
stessa tecnica degli ovili e dei margini stradali.<br />
Se nelle forme iniziali l’insieme della malga si può limitare ad un capanno<br />
circondato da pascoli, si passa progressivamente a soluzioni articolate su più<br />
elementi con funzioni diverse, comunicanti tra loro a due a due e formanti<br />
corpi distinti, smontabili e trasportabili in quella parte di pascolo che si vuole<br />
concimare. I due corpi si affacciano su una corte che spesso è recintata. Col<br />
passare del tempo la muratura sostituisce il Blockbau e la malga diventa “stabile”<br />
(da cui i termini locali stabi e stabièl).<br />
Il nucleo è la casàra, dove si produce e si conserva il formaggio, articolata in<br />
diversi ambienti (la casàra del fuoco, la casàra del latte, il casarìn). Vi sono poi<br />
gli staléti per i maiali e spesso anche il pollaio, la stalla per i bovini, che nelle<br />
malghe più povere si riduce ad un semplice ricovero per ospitare qualche capo<br />
ammalato, e un piccolo orto delimitato da un muretto a secco. Nel sottotetto si<br />
incetta lo strame, ma, quando vi dormono i lavoranti, si intramezzano anche<br />
delle camere 19 .<br />
La casa tradizionale di <strong>Luserna</strong> nacque sullo stesso modello delle casàre, in<br />
legno prima, in pietra poi. I primi masi risalgono al XV secolo, mentre l’assetto<br />
urbanistico delle due frazioni principali, <strong>Luserna</strong> e Tezze, è dovuto alla loro<br />
posizione invidiabile, che nel Seicento attrasse famiglie da Asiago, Lavarone,<br />
Roncegno e Terragnolo.<br />
In conclusione...<br />
Durante la fase di affermazione dei regni romano-germanici i poteri pubblici,<br />
per quanto deboli, non erano stati messi in discussione. Successivamente,<br />
con l’insorgere della feudalità, questa condizione venne meno a causa dei nuovi<br />
poteri privati. Dalla nuova situazione sarebbero state generate alcune componenti<br />
fondamentali per l’assetto definitivo del paesaggio costruito, veri e propri<br />
“fossili”, eredità pre-industriali sedimentate nel quadro ambientale odierno. Si<br />
19 Le casàre stanziali di <strong>Luserna</strong> venivano referenziate la prima volta in ANICH, HUEBER<br />
1774.
36<br />
Paolo Zammatteo<br />
tratta di interventi puntuali (gli edifici), vocazioni del suolo (es. i pascoli), strade<br />
e confini istituzionali. Vanno ricordati soprattutto:<br />
la Curazia di Brancafora, che ebbe possesso di gran parte del Monte di<br />
<strong>Luserna</strong> e lo rese impermeabile allo sviluppo di nuovi insediamenti fino<br />
al XV-XVI secolo;<br />
l’Ospizio di Lavarone;<br />
l’Ospizio di Monterovere, che conferma l’importanza del rio Torto<br />
come via di accesso agli altipiani;<br />
indirettamente i documenti, che a partire dal 1202 dimostrano la compresenza<br />
di poteri diversi, pubblici e privati, sul Monte di <strong>Luserna</strong>.<br />
Tutto ciò dimostra la presenza di modelli istituzionali e infrastrutturali strategici,<br />
che anticipano in parte l’ammansamento medievale. Non serve però a<br />
giustificare i ricoveri per animali di Lanzino, l’ovile di parte vicentina, segnalato<br />
da Tomaso Franco a valle della fraz. Piccoli, l’analogo recinto sotto Carbonare<br />
lungo un’antica via per Lastebasse. Per essi la spiegazione potrebbe venire dal<br />
modello organizzativo delle malghe, impiegato altrove anche in epoche recenti.<br />
Infatti le comunità di valle 20 spesso usavano mantenere un grande appezzamento<br />
tenuto a prativo, su cui insisteva un rustico (stallafienile), pertinenza di una o<br />
più unità rurali oppure risorsa esclusiva di un potere signorile. A questo modello<br />
si riferirono sicuramente l’origine del Masetto di Brancafora, in valle del Rio<br />
Torto, e di Barco (= barga, ricovero per animali), la frazione di Levico alla base<br />
del monte sul versante della Valsugana da cui era possibile raggiungere Vezzena,<br />
passando dal Menador.<br />
Una lettura dinamica della viabilità ha consentito di riconoscere come al<br />
volgere dell’età castellana erano cambiate molte cose:<br />
1. nel XV secolo era prevalsa la posizione della fazione tirolese, e ciò condizionò<br />
favorevolmente l’occupazione del Monte di <strong>Luserna</strong> da parte<br />
dei pastori lavaronesi;<br />
2. dalle nuove condizioni sarebbe sorto l’insediamento stanziale, che con<br />
le sue corti e nelle case in linea avrebbe ricalcato le tipologie costruttive<br />
delle malghe;<br />
3. strettamente legata all’importanza di Brancafora, l’antica salita del Rio<br />
Torto passò in subordine, dapprima come tracciato minerariometallurgico<br />
fra il Monte Horst e la Valdastico, ma anche in questo<br />
senso declinò rapidamente;<br />
20 Già organizzate in “vile”.
<strong>Luserna</strong>, le antiche strade di confine e il passo di Lavarone 37<br />
4. il lento insorgere di un nuovo pensiero rispetto al territorio, alla funzionalità<br />
dei collegamenti, alla gestione territoriale comportò poi il declino<br />
della strada di fondovalle lungo il torrente Tòra e con essa del<br />
passo del Bisele;<br />
5. Monterovere si trovò all’incrocio fra la cinquecentesca via della Val<br />
d’Assa e le strade secondarie per Caldonazzo e Folgaria. La sua importanza<br />
venne meno, quando anche i menadori risultarono ormai del tutto<br />
inadeguati ai commerci;<br />
6. da ciò dipese anche il riassetto “definitivo” della Via Imperiale attraverso<br />
Lavarone, con il Lanzin Novo in Val Caretta, dove nel 1699 i passanti<br />
puono viagiare comodamente, senza meter in rischio se medesimi, et cavali et altre<br />
sue robbe (CAROTTA 1997,p. 28) e l’abbandono definitivo dei passi orientali.<br />
Per una lettura più ampia e per maturare una opinione circa l’interesse rivolto<br />
alla viabilità nei secoli passati, un atto di estremo interesse è conservato<br />
all’Archivio di Stato di Trento negli “Atti dei confini” (Serie I. Fasc. 47, pos.<br />
14). Si tratta di una dichiarazione di parte veneta circa le strade sugli Altipiani<br />
fra Trento e Vicenza, databile con buona approssimazione al 1629.<br />
“[S.n, s. d.]<br />
Memoria delle strade che possono fare gli Austriaci per venire su nille Montagne dilli 7.<br />
Communi dove e poi facile intrare nel Teritorio Vicentino, Padovano, et nil Bassanese.<br />
P°: possono venire per Folgaria, et di Folgaria in Lavaron, e poi in Asiago passo largo.<br />
2°: Vi è Lanzino passo ordinario de Lavaron.<br />
3°: Vi è il Coregio de Cavorzo, strazordinario Jurisdicione dil Castello di Biseno.<br />
4°: Vi è il Menador Vecchio.<br />
5°: Vi è il Menador Novo che si fa ordinario partendosi da Asiago per Trento, qual ariva<br />
a Levigo.<br />
6°: Vi è la Val di Santa Ulgiana et viene a dare in campo Mandriolo strazordinario,<br />
Jurisdicione dil Ill. mo Sig. r Card. le di Trento.<br />
7°: Vi è la porta de Manazo, qual ariva al Borgo di Valsugana strada ordinaria de Asiago<br />
per ove si ponno condur anco le artelarie.<br />
8°: Vi è poco discosto un Coregio qual si ponbo servire à vinire à dar in una Somita da<br />
Manazo ditta Linzoletta.<br />
9°: Vi è un altro Coregio nelle cime di portel, qual va alle hole poco discosto dal Borgo de<br />
Valsugana.<br />
10°: Vi è nilla Somita ditta Linzoletta, un altro passo qual comincia per mezzo Castelnuovo,<br />
et viene à dare nella Montagna dille poze Jurisditione dil Sig. r dil Borgo di Valsugana.<br />
11°: Vi è Un altra Vale dove possono venire per mezo l’Hospidaleto, quale viene a dare<br />
nella Montagna de galmerara facile.
38<br />
Paolo Zammatteo<br />
12°: Vi è la strada Traversa di sopra la pertica, la quale viene a dare nilla Somita de<br />
Campo Cavera.<br />
13°. Vi è la pertica qual da in Campo Cavera.<br />
14°. Vi è il Col dil Arco che viene in Frizon.<br />
15°. Vi è la Saita qual parte sopra Primolan alla volta d’Enego, Giurisdicione di Castel<br />
Vivano.<br />
A questo s’aggiunge che l’anno passato il Cavaglir Caldogno è venuto a vedere un posto<br />
sotto Folgaria, quale ha indicato di poter battere il Castel di Biseno. Vi si ha mandato un<br />
Cap. o Cosmi di ordine di Rettori di Vicenza per considerare ditto passo.”<br />
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Paolo Zammatteo<br />
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Bari.
LAVARONE, I LOMBARDI E LA LEGGENDA DEL MELEGNON<br />
Paolo Zammatteo<br />
I minatori degli Altipiani negli scavi e nella leggenda<br />
In passato la presenza di attività minerarie e di forni di lavorazione aveva<br />
grande impatto sulle comunità locali: la casta chiusa dei tecnici, che usurpavano<br />
platealmente il legame sacro dell’uomo con la natura, aggredendone l’essenza e<br />
trasformandola irreversibilmente con costi enormi e danni ingenti, veniva vista<br />
per il suo verso oscuro, quello più prevaricante e distruttivo. Trattandosi poi<br />
spesso di una presenza “forzata” (nel medioevo i tecnici erano chiamati dalle<br />
signorie per trovare ad ogni costo risorse sotterranee sfruttabili), l’impatto dei<br />
metallurghi fu interpretato come più violento, letteralmente contro-natura.<br />
Ma, come è giusto che sia, l’anima del mondo, così saggiamente ascoltata dai<br />
montanari dediti alla pastorizia, può ancora prevalere: una leggenda, citata da<br />
Aldo Gorfer (GORFER 1977, p. 316), parla della miniera del Melegnon, presso<br />
Passo Coe a Folgaria: nel medioevo sarebbe stata il motivo dell’arrivo sugli Altipiani<br />
di maestranze minerarie, che poi convertirono la propria attività alla coltivazione<br />
del suolo.<br />
Sul Monte Melegnon, probabilmente in Valle Orsara, fu realmente attiva<br />
almeno una miniera di ferro (GORFER 1977, p. 316) 1 e altre si trovavano a<br />
Casotto, in Val Barberena e in Valle dell’Orco. C’è memoria di una miniera<br />
medioevale in località Grimen, sopra Buse e di fronte a Carbonare.<br />
La ricerca dei filoni avveniva seguendo i corsi d’acqua e nelle cavità, dove<br />
era più probabile che emergesse la vena metallifera, osservando le colorazioni<br />
delle rocce alla ricerca di ossidazioni, riprendendo gli scavi dove c’erano discariche<br />
precedenti, pozzi, gallerie, sondaggi, o anche scoria di prima lavorazione.<br />
In varie situazioni a nord della Valsugana tutto fa ritenere che i prospettori<br />
medievali abbiano riutilizzato giacimenti intaccati superficialmente nell’età del<br />
bronzo, individuabili per le tipiche conche innaturali sui versanti e soprattutto<br />
grazie alla presenza di scorie: nel medioevo e nel rinascimento la coltivazione<br />
sarebbe ripresa anche in modo intensivo, lasciando a testimonianza di un lungo<br />
1 VON SRBIK 1929. L’Autore, riferendosi alla concessione del 1282, cita la miniera di ferro<br />
sul Monte Melegnone e indica che il minerale estratto veniva trasportato verso Vicenza.
44<br />
Paolo Zammatteo<br />
periodo di sfruttamento gallerie e pozzi, talvolta particolarmente belli e straordinariamente<br />
ben conservati grazie al fatto che alla metà del XVI secolo<br />
l’estrazione venne interrotta bruscamente per essere poi abbandonata del tutto.<br />
Miniere sugli Altipiani<br />
I primi atti relativi a miniere nel Trentino sud-orientale provengono dal distretto<br />
di Castel Beseno, confine meridionale dei domini tirolesi e vescovili.<br />
Nel 1242-43 Odorico di Beseno otteneva per sé e nipoti una parte del livello de<br />
vena ferri et de bosco et aqua, in plebatu Beseni et de 6 plodiis ubi voluerint prope furnum,<br />
nonché sulla miniera di Garniga del Bondone (venam Garnige), avendoli investiti,<br />
su autorizzazione del podestà imperiale di Trento Sodegerio da Tito, a Mercadante<br />
e soci (REICH 1887, p. 10) 2 .<br />
Il documento successivo, datato 16 gennaio 1282, indica l’avvio di una<br />
campagna di ricerche oltre il crinale con la Valdastico 3 . Qui i concessori erano<br />
consorziati in ragione di uno jus locationis di assegnazione vicentina: il potere vescovile<br />
non viene menzionato e la compagnia proveniva dalle alpi bergamasche,<br />
che per l’estrazione dell’argento avevano costituito un precedente rispetto<br />
a Trento, dimostrando una organizzazione del lavoro ben precisa già nel tardo<br />
XI secolo. L’esempio del 1282 afferma la validità oltre i confini del principato<br />
del codice minerario di Trento, in tutto sette documenti del periodo 1208-1213<br />
inseriti negli statuti cittadini.<br />
L’ambito di rapporti fra l’organizzazione delle società minerarie trentine e<br />
quelle più antiche del Bergamasco – Ardesio, Val Seriana (FRANCOVICH et<br />
Alii 1994), l’uso di particolari tecniche di scavo 4 e il rapporto fra il monastero<br />
benedettino di Vallalta (BG) e quello di San Lorenzo a Trento, dove vennero<br />
stesi i primi atti del codice minerario (MOSCHETTI 1925, p. 361), indicano<br />
una eredità lombarda nel giovane contesto estrattivo trentino, all’epoca interessato<br />
soprattutto al rinvenimento di risorse argentifere destinate alle zecche cittadine.<br />
2 GORFER 1980, p. 98 e nota 30 a p. 155. Sul Bondone due camini ostruiti sono stati rinvenuti<br />
al Doss dei Laresi, ancora oggi appartenente al Comune di Garniga.<br />
3 BIBLIOTECA CIVICA BERTOLIANA (Vicenza), ARCHIVIO DI TORRE, Montagne –<br />
Libro I N° 34. Altra copia: T. VALLE, Raccolta di documenti estratti da opere stampate e manoscritte<br />
ed altre memorie riferibili alla storia civile ed ecclesiastica di Folgaria scritte da Tomaso Valle di<br />
Folgaria (BIBLIOTECA COMUNALE DI TRENTO, ms. 2405, n.28, op.cit.) [B’’]: copia<br />
ottocentesca. REICH 1973, p. 29 e nota n. 22.<br />
4 A Faedo è esemplare il caso delle Camere a Band. Anche sul monte Calisio sono stati riconosciuti<br />
i tratti di una tecnica di scavo di impronta lombarda.
Lavarone, i Lombardi e la leggenda del Melegnon 45<br />
Nel 1423 Bernardo Vintiller, figlio del nobile Francesco Vintiller da Bolzano,<br />
accettava un lascito da parte di Domenico del fu Federico da Lavarone in<br />
qualità di ministro della Confraternita dei Werki (minatori) del borgo e della<br />
Pieve di Pergine 5 . Testimonianze antiche su segni di miniere medievali sugli Altipiani<br />
sono le note di A. Dal Pozzo (DAL POZZO 1985, pp . 218- 219) e di<br />
C. Ausserer (AUSSERER 1996, p . 82).<br />
Dipendevano dalla Pieve di Lizzana le attività minerarie e siderurgiche di<br />
Vallarsa (in Val Ometto, a Speccheri e a Foppiano - plano furni nel 1353) e<br />
Trambileno (in Valle dei Lombardi, dove in località Le Slacche due fonderie<br />
contigue erano collocate lungo un tragitto che dall’alta valle porta verso San<br />
Nicolò). A Stedileri nel Settecento veniva data una concessione per l’argento e<br />
a Malga Fratòm sul Monte Lancia si ricordano ricerche aurifere ottocentesche.<br />
La miniera di Casotto (CALDOGNO 1598) si trova sulla destra del torrente<br />
Toretta, dove sono riconoscibili due ingressi nascosti da un vasto fronte di sterile,<br />
che costeggia la strada. Quello più in basso è quanto resta di una galleria<br />
secondaria del tipo a ogiva. Più in alto, oltre un breve tratto di sentiero e scarpata<br />
sotto roccia, l’ingresso principale si presenta ancora come venne descritto<br />
nel Settecento da Agostino Dal Pozzo (DAL POZZO 1985, p. 218). Seppure<br />
rinfrancato con calcestruzzo, il muro di chiusura con il piccolo foro sovrastante<br />
esiste ancora: dietro si apre uno stanzone, certamente intatto da epoca antica,<br />
mentre la galleria principale si trova poco a monte: si inerpica quasi verticalmente<br />
a inseguire la vena per alcune decine di metri.<br />
Nella miniera si è rinvenuta Ankerite, un carbonato di ferro economicamente<br />
irrilevante, composto per metà di calcio, un quarto di ferro e un quarto di<br />
magnesio: ben più utili potevano essere il “cappellaccio” limonitico (idrossido<br />
di ferro, o Goethite) o la Siderite.<br />
Per i carbonati era necessario l’arrostimento in legrana (o regana), un impianto<br />
simile a un forno a cupola celtico e interamente interrato nel pendio, realizzato in<br />
pietra arenaria o quarzo (Val Camonica) e di diametro maggiore rispetto a un<br />
forno a torretta: per le varie analogie si può ricondurre a una legrana quanto restava<br />
di una struttura sul Rio Torto, la cui particolarità principale era il fondo in<br />
5 Documento esistente nell’Archivio Parrocchiale di Pergine con segnatura sbagliata, 1483 e<br />
non 1423.
46<br />
Paolo Zammatteo<br />
argilla compatta e a crogiolo. Nel 1440 era in funzione un “forno del ferro” 6 ,<br />
l’unico impianto metallurgico registrato a Lavarone: essendo in valle del Rio<br />
Torto era prossimo agli scavi del Monte Horst (AUSSERER 1996, p. 82) 7 .<br />
Tradizione vuole che i forni siano stati trasformati in calchere: una, ben conservata,<br />
si incontra sulla sinistra poco addentro alla valle sul percorso che da<br />
Brancafora risale il torrente sulla sua sinistra idrografica. Coerentemente con<br />
quanto già rilevato, si pone anche la memoria locale, che pone anche la condizione<br />
di un’attività mineraria esclusivamente stagionale, quindi di un apprendimento<br />
delle tecniche estrattive ridotto all’ambito familiare (LARCHER 1995,<br />
p. 223).<br />
Nell’atto di investitura del 1282 ci sono due riferimenti 8 : l’origine dei minatori,<br />
qui fuerunt de episcopatu Bergami, e il tuvo de ferro, che fa pensare ad una escavazione<br />
a cielo aperto, tutt’altro che insolita a quei tempi. Sotto questo profilo i<br />
calcari grigi sono esemplari: nei punti di contatto e all’interno delle crepe possono<br />
conservare residui degli strati superiori dilavati o nuclei di origine organica,<br />
in particolare sotto forma di ossidi metallici.<br />
I Lombardi erano esperti nella estrazione e lavorazione dei carbonati e praticavano<br />
tecniche, che trovano riscontro perfino in Toscana (MENICONI<br />
1984, p. 211). 9<br />
Miniere che mostrano un’analoga tecnica di scavo sono note in Italia, oltre<br />
che al Monte Calisio in Trentino, anche nell’Appennino ligure in provincia di<br />
Savona e nelle Colline Metallifere in provincia di Grosseto. In quest’ultima località,<br />
come anche nel massiccio della Grigna, le cosiddette grotte-miniere si<br />
sono conservate integre; si tratta di cavità in parte naturali (vecchi condotti carsici)<br />
ed in parte artificiali. In queste grotte gli antichi prospettori osservarono<br />
6 ARCHIVIO DI STATO DI TRENTO, CAPITANATO DISTRETTUALE DI TREN-<br />
TO – MINIERE. I.: 1888-896. G. Sartori, manoscritto. Dall’atto di archiviazione risulta<br />
che la data di stesura è il 3 maggio 1894. Inoltre pare che parte delle notizie siano state assunte<br />
da documenti originali, di cui non si conosce la collocazione attuale, e che si tratti<br />
dei medesimi utilizzati (o scritti) da p. DAL POZZO (1985), op. cit., pp. 218, 219.<br />
7 La presunta tetraedrite di cui parla l’Autore è da identificarsi con un altro minerale di ferro,<br />
probabilmente ematite. Unico altro riferimento a una miniera a Lavarone è in STEL-<br />
LA 1957, p. 200: “nel maggio del 1713 furono investiti di una cava di gesso a Lavarone<br />
Giovanni e Gio-Batta Muneretti”. CATASTO AUSTRIACO. MAPPE. N. 164, Comune<br />
Lavarone, Foglio 6 (anno 1856): “Hinter Hurst”, confina a Nord “Belen”, a Est “Monterovere”,<br />
a Sud “Gabriolle”, a Ovest “Tablat”. MUSEO STORICO ITALIANO DELLA<br />
GUERRA – ROVERETO - FOTO AEREE. RV130/155: “Magre e zona a sud di Monte<br />
Horst (quota 1387), 17/10/1915”.<br />
8 BIBLIOTECA CIVICA BERTOLIANA (Vicenza), op. cit..<br />
9 Riguardo a Siena, a fine Trecento e inizio Quattrocento la città era ancora sede di un importante<br />
mercato del ferro, mentre alcune compagnie senesi operavano nel settore siderurgico<br />
con sedi secondarie fino a Brescia.
Lavarone, i Lombardi e la leggenda del Melegnon 47<br />
tracce di mineralizzazioni e ne intrapresero lo scavo limitatamente a quelle zone<br />
dove affiorava il filone.<br />
Una prima cernita del minerale avveniva all’interno dei cunicoli, sia in corrispondenza<br />
delle piccole camere di coltivazione, sia per riempire di detriti la<br />
parte inferiore di gallerie inclinate ed abbandonate (TIZZONI 1997, p. 273).<br />
L’influenza della più antica cultura mineraria lombarda si manifesta episodicamente<br />
in tutto il Trentino, secondo una mobilità in direzione Ovest-Est: nel<br />
1223 risulta un giuramento di fedeltà reso nell’episcopato di Bergamo ai signori<br />
di Giovo e Faedo 10 , il cui castello si trova in Val d’Adige, ben più a Nord. Da<br />
Faedo dipendeva la prima miniera d’argento documentata in Trentino, oggetto<br />
di compravendita fra i signori di Faedo e il vescovo di Trento nel 1185. Si trovava<br />
nelle Giudicarie (area di Preore), una zona soggetta ancora al vecchio ordinamento<br />
lombardo, stirpe da cui discendeva anche l’antica famiglia comitale.<br />
Minatori valtellinesi erano presenti sul Calisio e a Viarago 11 .<br />
Ma è del tutto particolare e considerevole la frequenza e la varietà di indizi,<br />
anche indiretti, che si incontrano fra Lavarone e le Valli del Leno: i toponimi<br />
Val dei Lombardi a Terragnolo e rivo dei Bergamaschi (REICH 1973, pp. 169-171),<br />
il Rio Bianco; le leggende con il nano Lombardo a Trambileno (ŠEBESTA 1980,<br />
p. 83), figura fantastica di ispirazione mineraria.<br />
Sugli altipiani tra Folgaria, Vallarsa e Lavarone più diffusi sono i toponimi<br />
metallurgici.<br />
Forni di Tonezza deve il suo nome all’intensa attività di lavorazione del minerale,<br />
che si estraeva dalla Val Barberena e veniva condotto attraverso il Passo<br />
della Vena. E Forni Valdastico riprende lo stesso motivo, ma per la lavorazione<br />
del ferro di Brancafora e San Pietro.<br />
A Folgaria troviamo Burfla (assaggio minerario) e Cechen (Zeche, compagnia<br />
mineraria). Sempre a Folgaria-Guardia c’è memoria di una antica miniera<br />
di rame in località Hindertoll - che sarebbe stata chiusa dopo una frana - e si<br />
trova ancora calcopirite (LARCHER 1995, p. 223). Maso Zeche è in Vallarsa e<br />
non è molto distante da Ometto, dalla Val Gerlano e dalla miniera “d’oro” di<br />
Speccheri, attiva fino al 1902. In Valle del Cherle, una valletta laterale a Omet-<br />
10 A margine di un avvenimento del 1223 si profila un legame dei da Giovo con il Bergamasco:<br />
Lucarda di Otelino di Caldaro giura fedeltà come donna della masnada di Concio di<br />
Giovo (GORFER 1990), I castelli del Trentino. Guida, Arti Grafiche Saturnia, Trento 1990:<br />
Vol. 2°, p. 80). L’avvenimento viene celebrato a Porta (S. Agostino), sede anche della società<br />
mineraria del 1289.<br />
11 La vicenda è ampiamente descritta in: ZAMMATTEO 2003, Viaggio attraverso un pezzo di<br />
storia del Trentino. L’eredità mineraria medievale e l’Alta Valsugana, in “Il Trentino”, rivista della<br />
Provincia Autonoma di Trento, anno XL, Numero 260, Trento 2003. ZAMMATTEO<br />
2000, ZAMPEDRI et Alii 2004, Le miniere d’argento di Viarago, in A.A.V.V., Storia del paese<br />
nei documenti e nei ricordi. Viaracum, Vilrag, Viarac, Viarago, Pergine Valsugana 2004.
48<br />
Paolo Zammatteo<br />
to, è stata anche rinvenuta galena argentifera (PERNA 1964, p. 73). Ciechi si<br />
trova a Pedemonte, [d]Ercech a Noriglio, dove una frazione di nascita recente,<br />
Fucine, ricorda la presenza di fabbri ferrai (MASTRELLI ANZILOTTI 1994).<br />
La zona compresa fra Trambileno e Terragnolo presenta testimonianze di<br />
attività fusorie localizzate e tracce toponomastiche di indubbia origine medioevale,<br />
perché legate a termini tecnologici minerari del tempo: e le aree di Terragnolo,<br />
Trambileno e Vallarsa vantano un documento inerente forni - risale al<br />
1353 un atto relativo alla loc. Sul Hual, in cui si parla della extimationem mansi de<br />
Huale a plano furni – Foppiano (ŠEBESTA 1992, p. 210) - e una campagna di<br />
ricerca dell’argento, questa però di epoca recente, al di sotto di Stedileri 12 . La<br />
Val delle Caldiere sale agli altipiani da Olle in Valsugana. Val delle Pignatte,<br />
compare a Terragnolo, e sarebbe la traduzione errata di Ofental, “Valle del<br />
Forno” (BATTISTI 1969, p. 197). La frazione Peltrèri lungo la valle ricorda la<br />
lavorazione di rame e piombo. Ferri e Staineri sono in Vallarsa (come “ferri” si<br />
indicavano gli attrezzi di scavo, e spesso erano realizzati sul posto per l’uso locale;<br />
“Stein” in tedesco). A nord di Staineri ci sono Fornace e la Val del Restèl,<br />
dove sono state ritrovate scorie di fusione (ŠEBESTA 1992, p. 210).<br />
Slachenpach rimanda alla stessa etimologia di Slacche (scorie di fusione) a<br />
Terragnolo 13 . In Smitta, voce cimbra settecentesca per Smithaus, fucina, si trova<br />
a Folgaria: da essa deriva il soprannome dei Fabro, “Smidéri”.<br />
La Val de L’Azàl sulla sinistra Leno a Terragnolo (trascritta erroneamente<br />
nella cartografia recente come Val della Zal) ricalca il riferimento toponomastico<br />
medioevale azale. Maso Slacche sorgeva lì sopra, mentre Ferrartal è il versante<br />
della montagna poco più a Est, di fronte a Peltrèri e alla Val delle Pignatte.<br />
Al ricordo di attività al fuoco, nella sola Pedemonte, sono legate le località<br />
Fornei a Ciechi e il Gorgo de la Fornass sul Rio Torto 14 .<br />
12 ARCHIVIO DI STATO DI TRENTO, Notai Rovereto, Giovanni Battista Grasser, 18<br />
maggio 1758 c. 227. Il documento è citato in I. PROSSER, Le Slache e il Piàm del Levro, Tipografia<br />
Stella, Rovereto 1999.<br />
13 “Lo Schneller raccolse sul posto la notizia che lì esistevano miniere. Nel 1472 si parla di<br />
un mansus Yslachi, che lo Schneller intende come Eisenschlag, cioè “scorie di ferro”. Egli<br />
interpreta, forse a ragione, che non si tratta di “scorie”, ma di “fucina” e vi vede perciò<br />
l’antico alto tedesco “Slac”, nel senso di “martellamento”. Scorie minerarie furono lì rinvenute<br />
all’inizio dell’Ottocento dal botanico roveretano Cristofori” (BATTISTI, op. cit., p.<br />
197).<br />
14 Qui esistevano una cava di argilla e la fabbrica di coppi che produsse il manto di copertura<br />
della chiesa di Santa Maria di Brancafora.
Lavarone, i Lombardi e la leggenda del Melegnon 49<br />
Il Loch von Geld, nascondiglio di un tesoro leggendario (BACHER 1905) 15 , è<br />
una cavità tra Millegrobbe 16 e il Forte di <strong>Luserna</strong> accomunabile, per certi versi,<br />
a una grotta-miniera: gli indizi sarebbero la conformazione delle cavità e una<br />
striscia di colore verde ramina nella volta della cavità principale, oltre a particolari<br />
colorazioni azzurre nel calcare, seppur lievi. Manca ogni traccia del minerale,<br />
che, però, sarebbe stato asportato del tutto.<br />
L’apertura, nascosta da una macchia di abeti e al fondo di un tovo, entra<br />
con pendenza moderata nella roccia calcarea. Subito all’interno si trova una<br />
camera piuttosto vasta. Poche strutture lignee non hanno impedito il distacco<br />
di un grosso blocco calcareo all’interno.<br />
Almeno in tre direzioni si diramano basse camere, delle quali una piuttosto<br />
profonda, sempre con un andamento incerto e irregolare.<br />
D’impatto l’aspetto darebbe ad intendere che si sia di fronte all’ingresso di<br />
una miniera. Come si è già detto, sulla volta del passaggio principale una striscia<br />
di calcare esposto all’aria e intriso dall’acqua muta repentinamente colore<br />
dal bianco grigio al verde intenso e le altre cavità sembrano seguire<br />
l’andamento bizzarro di una vena di minerale.<br />
Pare che nei pressi (Millegrobbe) siano stati rinvenuti campioni di galena:<br />
blenda si rinveniva nella cava di Scalzeri, sotto <strong>Luserna</strong>.<br />
Possiamo ipotizzare che la tecnica di prelievo del minerale di Foresta Paroletti<br />
sul Monte Fronte (Levico) (PREUSCHEN 1973, pp. 113-150), superficiale<br />
e per rapina, fosse in uso anche qui: e per una semplice analogia, date le molte<br />
somiglianze, può anche darsi che il Loch von Geld sia il frutto di nuovi sondaggi<br />
più recenti (XIII o XIV secolo) su una coltivazione meno accurata e più<br />
antica.<br />
In contrasto con quanto risulta da questo primo confronto, tra Millegrobbe<br />
e la località Knöttla sono comparse alcune schegge di scisto filladico, presente<br />
solo a quote più basse, a Lavarone-Piccoli (la “Spaccata”) e nei dintorni del giacimento<br />
a solfuri misti di Calceranica in Valsugana (PASSARDI et Alii, 2004).<br />
Dalla ricerca sul tema delle localizzazioni e dei rapporti fra aree di estrazione e<br />
aree di produzione del semilavorato può emergere una realtà complessa e<br />
controversa.<br />
In realtà la presenza di maestranze minerarie medievali non può essere accomunata<br />
all’origine di alcuni insediamenti, perché lì prevalse sempre il riferimento<br />
silvopastorale, mentre la pratica mineraria si mantenne in un ambito ri-<br />
15 L’opera comprende la trascrizione di vari racconti, poi tradotti in BELLOTTO (a cura<br />
di), op. cit.; DAL POZZO 1978, pp. 180- 181.<br />
16 Qui nelle rocce sedimentarie sono state segnalate piccole mineralizzazioni a galena, solfuro<br />
di piombo.
50<br />
Paolo Zammatteo<br />
stretto e a scala familiare. L’attività estrattiva si svolgeva in inverno: d’estate ci<br />
si occupava del legname, della produzione di carbone, dell’allevamento.<br />
Pochi segni a Sud del Monte Horst tra Lavarone e <strong>Luserna</strong> sono quelli di un<br />
sondaggio all’altezza del Km 35 della strada provinciale, là dove pare sia intervenuto<br />
uno scavo più antico, superficiale, per pietre da mola 17 , e quelli descritti<br />
da Carl Ausserer a Carbonare sono assenti: poco si può dire delle miniere ricordate<br />
in Località Grimen, sulla destra dell’Astico e nei pressi di Buse 18 , salvo<br />
che sopra la Strada Statale della Valdastico una piccola discarica di materiale<br />
spezzato grossolanamente e prevalentemente calcareo si confonde tra la vegetazione<br />
a un centinaio di metri a Est dall’affioramento di un filone silicizzato,<br />
proponendo una condizione ampiamente verificata per le coltivazioni minerarie<br />
in tutta l’area più a Est (Recoaro, Tretto).<br />
La promiscuità rende particolarmente difficile il riconoscimento delle tracce<br />
e non ha risparmiato nemmeno i resti dell’intensa attività fusoria dell’età del<br />
bronzo: non si può dimenticare quanto affermava E. Lorenzi riguardo alle scorie,<br />
che si rinvenivano abbondantemente nella Valle dei Lombardi (o Val de<br />
l’Inferno) a Trambileno, presso Maso Slacche 19 : ve n’è ancora in quantità e<br />
nell’affittanza di alcune malghe si imponeva l’obbligo di sotterrarne una certa quantità ogni<br />
anno (LORENZI 1981).<br />
Leggende minerarie cimbre<br />
L’area “cimbra” e l’alta Valsugana sono ricche di leggende in ambito minerario.<br />
Il tema più rilevante riguarda la comparsa dei tesori e la loro natura diabolica<br />
(SCHWEIZER 1984, pp. 125-129): nei pressi di Malga Valli a Trambileno<br />
il diavolo protegge un tesoro presentandosi come un serpente gigantesco<br />
(ŠEBESTA 1980), l’Aspio (NERI 1996, p. 196). In La miniera maledetta (NERI<br />
1997, p. 187), (Le Slacche - Trambileno) e in Il diavolo e le bocce d’oro: la miniera<br />
d’oro degli Speccheri in Vallarsa (NERI 1997, p. 195) ha l’aspetto di un ariete nero.<br />
Anche al Gorgo de la Fornass, vicino a Pedemonte-Longhi, un enorme masso ortogonale<br />
è denominato Scatola del Diaolo. La fantasia popolare ha visto più volte il diavolo<br />
balzare da un masso all’altro lungo la valle 20 come un grande e nero caprone (CAROTTA<br />
17 Nell’area sono presenti, superficialmente, un piccolo manufatto in porfido, che reca una<br />
singolare incisione longitudinale da usura, e una pietra arenaria su cui è incisa a coltello<br />
una figura quadrangolare con una breve linea verticale inscritta.<br />
18 Segnalazione del signor MASSIMO FOLGARAIT, Custode Forestale a Terragnolo.<br />
19 “Tra quota 700 m. e quota 950 m. in un tratto di monte, che va da Maso Slacche alla Val<br />
de l’Azal, le uniche tracce rinvenute sono quelle di due fonderie distinte ed apparentemente<br />
coeve” (GRAMOLA et Alii 2000).<br />
20 Si tratta della Valle del Rio Torto.
Lavarone, i Lombardi e la leggenda del Melegnon 51<br />
1997, p. 317), e a Lavarone nel Prato dell’Anthal un tesoro protetto dal diavolo<br />
è nascosto sotto un masso (GORFER 1977, p. 358).<br />
A <strong>Luserna</strong>, secondo Zingerle, piccole luci notturne segnalano la presenza di<br />
tesori: sono le anime dei defunti, che le custodiscono (SCHWEIZER, p. 125).<br />
Le leggende lusernesi di contesto strettamente minerario sono Verborgene Schätze,<br />
‘S Loch von Geld, ‘S Schnaidrarle. Le ultime sono state raccolte da Josef Bacher<br />
(BACHER 1905): il primo racconto venne inserito da M. Nicolussi Raut<br />
nel suo diario, redatto nei primi anni del Novecento 21 . In Verborgene Schätze<br />
prevale il riferimento al fato, alla casualità del ritrovamento, ma ciò che dapprima<br />
appare come materia insulsa, dimostrerà poi il suo valore 22 . Ci sono alcuni<br />
temi classici, il carattere magico del riconoscimento del minerale, l’argento,<br />
il metallo più ambito dalle ricerche medioevali e la sua trasformazione in monete.<br />
In ‘S Loch von Geld tre maghi “nella piazza di Venezia” (vo’ Wenéde, vo’<br />
Wenédige) informano due lusernesi dell’esistenza di una grotta vicina al paese,<br />
dove ogni anno tra il 15 e il 16 luglio il diavolo espone il suo denaro ad asciugare,<br />
ora camuffato in un modo, ora in un altro. Analizzando i racconti cimbri, B.<br />
Schweizer (SCHWEIZER 1984, p. 129) non riconosce né la figura mineraria<br />
del “Venediger”, leggendario cercatore di metalli, né il riferimento al seccaggio<br />
del minerale, un trattamento che veniva effettuato dopo la cernita tramite macinatura<br />
e lavaggio del materiale. A Lavarone – Cappella è nascosto un paiolo<br />
colmo d’oro 23 . Dove non si sa, né quando compare, una sola notte all’anno e<br />
alle quattro del mattino. A Lavarone - Slaghenaufi c’è una grotta, il Chèlda<br />
Platt, che è il “paiolo di soldi”. A Trambileno in La miniera maledetta (NERI<br />
1997, p. 187) riappare la “piazza di Venezia” e il nano Lombardo (ŠEBESTA<br />
1980, p. 83) è un Venediger: in Vallarsa c’è un racconto rabdomantico a Ciechi<br />
(NERI 1997, p. 194) , da Zeche, “compagnia mineraria”.<br />
21 CENTRO DOCUMENTAZIONE LUSERNA, M. Nicolussi Raut, Die Vergessenen von Lusern,<br />
Athesia, Bolzano 1998, p. 73; Verborgene Schätze.<br />
22 “Il motivo del tesoro è un autentico archetipo della tradizione popolare, sia della fiaba che<br />
della leggenda. La leggenda è legata sempre ad un aspetto molto concreto e tangibile, da<br />
cui scaturisce l’immaginazione fantastica. L’oro non proviene dal nulla, non semplicemente<br />
come nella fiaba, ma rivela la sua presenza tramite segni strani e interpretabili<br />
solo se la persona giusta coglie a tempo debito l’occasione propizia: la pietra apparentemente<br />
dozzinale si trasforma in materia preziosa solo seguendo determinati riti. È davvero<br />
un’immagine molto efficace quella dell’arcano sapere metallurgico al fine di riconoscere<br />
le pietre adatte a sottoporle a ben precisi trattamenti per compiere la miracolosa trasformazione<br />
di terra grezza in minerale fine” (KINDL 1993, p. 187).<br />
23 AZIENDA PER LA PROMOZIONE TURISTICA DEL TRENTINO, Leggende degli<br />
Altipiani di Folgarìa, Lavarone e <strong>Luserna</strong>. Trentino da Leggenda, Tipografia Alcione, Trento<br />
2000, p. 12; La pentola colma d’oro. Il racconto seguente, Bus del Stofèl. L’Uomo Selvatico, sempre<br />
da Lavarone, non contiene riferimenti alla figura fantastica dei molti racconti di montagna,<br />
bensì un più immediato rimando alla figura dello scorbutico, del burbero.
52<br />
Paolo Zammatteo<br />
In ‘S Schnaidrarle due stranieri chiedono ad un ragazzino di precederli in una<br />
caverna, di cui né lui, né altri del paese conoscono l’esistenza: per ricompensa i<br />
due sconosciuti gli donano alcune schegge di roccia, che poi si trasformeranno<br />
in argento; sorridendo lo chiamano “piccolo sarto”, indicandogli il mestiere che<br />
apprenderà da adulto. Se potevano rimanere dubbi sulla riconoscibilità del Venediger,<br />
’S Schnaidrarle li dissipa. I due stranieri trovano l’imbocco di una grotta<br />
sconosciuta, conoscono i segreti della trasformazione della pietra in metallo<br />
prezioso, possono presagire il futuro (BELLOTTO 1978, pp. 180-181, 218). Il<br />
ragazzetto viene mandato avanti perché innocente, quindi il diavolo, che protegge<br />
l’argento, su di lui non ha potere (SCHWEIZER 1984, p. 129). L’azione<br />
di ’S Schnaidrarle si svolge alla Rocca Tampf, il crinale roccioso a Est del Bisele,<br />
sulla quale un anziano della famiglia Baiz di <strong>Luserna</strong> affermava di conoscere<br />
l’imbocco di una miniera.<br />
I maghi rivolgano la loro attenzione a cavità esistenti: può davvero esserci<br />
un riferimento alle grotte-miniera, oppure il ricordo della ricerca di antichissimi<br />
punti di estrazione come possibili siti per nuove imprese minerarie.<br />
La figura più importante rimane il demone custode, ora ariete ora aspio, ovvero<br />
il basilisco, re delle biscie (ZAMMATTEO 2001-a) 24 . Le sue origini vanno<br />
legate ai fossili: le ammoniti erano spire di un serpente pietrificato o l’impalcato<br />
di un ariete. Si spiegano il diavolo in forma di caprone nero e i serpenti giganteschi,<br />
posti a proteggere ricchezze incredibili celate, guarda caso, nel fondo<br />
delle caverne tanto ricercate dai Venediger.<br />
Affiancando il culto dei santi patroni, originario del nord e carico delle sue<br />
suggestioni fantastiche, il serpente alato ha trovato ampio spazio<br />
nell’iconografia religiosa 25 : in ciò prosegue la tradizione di fondere eredità pagane<br />
e culto giudaico-cristiano. In quest’area il rettile viene associato frequentemente<br />
all’iconografia e al culto di santa Margherita, a cui sono dedicate la<br />
24 ZAMMATTEO 2001-b; ZAMMATTEO 2001-c ; ZAMMATTEO 2001-d.<br />
25 La gente veneta ha conservato la vecchia forma latina Margarita. In Oriente si chiama Marina<br />
e la tradizione popolare di origine medievale la celebra con i “Misteri di Santa Margherita”,<br />
una famosa opera teatrale di piazza; l’agiografo Giacomo da Varazze sviluppa<br />
nella Legenda Aurea l’episodio della ragazza “esposta” al drago. Nell’arte è raffigurata, infatti,<br />
come una ragazza in piedi sul drago; altre volte esce dalla sua bocca e lo trafigge con<br />
una lancia dall’impugnatura a forma di croce. Occorre rammentare la tradizione francese<br />
dei draghi di santa Margherita come modello gotico. Si tratta sempre di miti legati alla dimensione<br />
fantastica e pagana. Il tutto rientrerebbe in un riferimento ciclico alla natura, a<br />
cui i rimandi sono notevoli e diversificati (J. BALTRUSAITIS, Ali di pipistrello e demoni cinesi,<br />
in “Il Medioevo fantastico”, Adelphi, Milano 1973, pp. 175, passim).
Lavarone, i Lombardi e la leggenda del Melegnon 53<br />
chiesa di Rotzo, la più antica sugli Altipiani 26 , quella di Castelnuovo, documentata<br />
nel 1272 27 , Santa Marina a Besenello (1280) e Santa Margherita a Marter, la<br />
cui prima menzione è del 1460: anche su un capitello a Barco un frammento di<br />
affresco mostra il serpente alato.<br />
Santa Margherita è venerata in varie località circostanti dove fu consistente<br />
l’attività estrattiva: nel Vicentino a Posina, Rovegliana (Recoaro), Roncà (Arzignano),<br />
Bevadoro (Val d’Agno).<br />
Le tracce draconiane sugli Altipiani<br />
I segni dell’esistenza del dèmone serpente potevano essere vari:<br />
grotte, geodi e miniere, luoghi ideali per tesori dimenticati ed esseri fantastici;<br />
la credenza nella reincarnazione delle anime, la Seelentier (SCHWEIZER<br />
1984), molto diffusa fra i cimbri.<br />
Pressoché sempre sono determinanti gli affioramenti di fossili. Le ammoniti<br />
assomigliano alle spire di un serpente attorcigliato (o all’impalcato di un ariete).<br />
Il fatto che emergano dalla pietra era ritenuto una magia e spiega il diavolo,<br />
“daemon truculentus”, in forma di caprone nero o di serpente gigantesco.<br />
Nella famiglia del basilisco compaiono anche altri esseri, i draghi, gli aspi e<br />
le vipere, che vengono descritti accuratamente in vari manoscritti, tra cui spicca<br />
il Codice Aberdeen, un bellissimo bestiario gotico del XII secolo.<br />
Si trattava sempre di opere importanti, che prendevano riferimento dalla<br />
Creazione biblica per poi presentare vari animali, reali e non, e le facoltà prodigiose<br />
e sovrannaturali che avrebbero avuto secondo la tradizione popolare.<br />
Molto tempo dopo, mentre figure come Conrad Gesner (GESNER 1587) e<br />
Ulisse Aldovrandi (ALDOVRANDI 1640) affermeranno che gli “angui” –<br />
draghi, basilischi, aspi – non esistono, lo scienziato gesuita Athanasius Kircher<br />
26 “Santa Margherita, situata tra Castelletto e Rotzo, è considerata la più antica chiesa (e forse<br />
anche parrocchia) di tutto l’Altipiano. Essa era officiata da religiosi ed aveva un cimitero<br />
o sagrato, dove venivano sepolti i defunti che venivano colà portati dai paesi<br />
dell’Altipiano e (si dice) perfino da <strong>Luserna</strong> (DAL POZZO, Memorie ...)” (TOLDO, 1984,<br />
p. 80).<br />
27 “Al di là del Brenta su d’una verde terrazza del boscoso Monte Civeron s’innalza la chiesa<br />
di Santa Margherita. La chiesa esisteva prima del 1272 e in seguito era affidata alla custodia<br />
di un eremita. Secondo la tradizione, il paese di Castelnovo si stringeva, nei secoli andati,<br />
attorno alla chiesetta ai piedi del castello omonimo (Dosso di Castellare), del quale<br />
nel XIII secolo si impadronirono i Caldonazzo-Castelnovo. Castello e paese sarebbero<br />
stati distrutti dai Vicentini nella famosa calata del 1385. Castelnovo sarebbe allora stato ricostruito<br />
sulla riva sinistra del Brenta. (GORFER 1977), op. cit., p. 906).
54<br />
Paolo Zammatteo<br />
dichiarerà che quei mostri si sono estinti perché esclusi dall’Arca durante il Diluvio<br />
Universale ( KIRCHER 1675).<br />
Un grande naturalista, Johann Jakob Scheuchzer, pubblicherà il resoconto<br />
degli avvistamenti di draghi avvenuti in Svizzera (SCHEUCHZER 1723): un<br />
drago si nasconde anche sulle sponde del lago di <strong>Luserna</strong> ed è raffigurato sul<br />
gonfalone della città.<br />
Tra il Codice Aberdeen e il trattato di Scheuchzer si sviluppa il simbolismo<br />
draconiano nell’arte e Jacopo da Varagine chiude l’epopea cortese scrivendo le<br />
agiografie di San Michele, San Giorgio e Santa Margherita, tutti accanto al drago-serpente,<br />
che ormai rappresenta il diavolo.<br />
Le credenze sui tesori nascosti (e sui maghi che li cercavano) costituiscono<br />
oggi l’argomento più suggestivo a favore della ricerca mineraria, che nel corso<br />
del medioevo avvenne certamente a Folgaria, Lavarone e <strong>Luserna</strong>, e nella dimensione<br />
fantastica di qui i rettili prevalgono rispetto all’ariete nero o ai rabdomanti<br />
per varietà e diffusione, come custodi dei tesori e per tutto quanto riguarda<br />
i poteri sovrannaturali assegnati a questi animali leggendari.<br />
Tutto intorno fioriscono le leggende del Basilisco di Mezzocorona,<br />
dell’Aspio e delle Anguane della Valsugana, evanescenti figure legate all’acqua,<br />
che nel nome celano una relazione con gli “angui”, i serpenti. Il basilisco di<br />
Campiglio è un pesce dal fiato letale, che Michel’Angelo Mariani scrive di aver<br />
visto esposto nella chiesa locale nel 1673.<br />
L’Aspio è considerato per lo più, semplicemente, il maschio della vipera (a<br />
Grigno, a Roncegno e ai Masi di Novaledo si racconta ancora di averlo visto).<br />
“La prima citazione del basilisco sembra risalire ad un versetto della Genesi,<br />
dal quale si evince che per molto tempo si è tradotta con basilisco una parola in<br />
ebraico (tsepha), che indica piuttosto un tipo di vipera (BARTOLINI 2000, p.<br />
123).”<br />
Da tsepha ad Aspio il passo è breve.<br />
Questo grande serpente alato si sposta in volo. A volte ruba il bestiame,<br />
come nel racconto Il terribile Aspio di Roncegno: qui l’animale è lungo più di<br />
dieci metri, verdastro, nero e giallo, la coda è lunghissima, le ali sono scure e da<br />
pipistrello, un umore nerastro gli cola dalla bocca. Si nasconde ai prati dei<br />
Menghi e si sposta fin dietro al monte Zaccon, sede di antiche attività estrattive<br />
(NERI 1997, p. 143).<br />
Ancora più spaventoso, sebbene innocuo, è il serpente alato di Tezze, che<br />
nelle ore calde delle giornate estive scende dalla Cima d’Asta, enorme e lucente.<br />
Vola silenzioso sopra l’abitato e la gente atterrita può vederlo bene, squamoso<br />
e viscido, d’un colore brunastro venato di azzurro, il collo lungo e la coda smisurata<br />
dietro due grandi ali di pipistrello.<br />
Vive nel laghetto di Ravetta e sulla Cima d’Asta (NERI 1997, p. 160): Partendo<br />
di qui o dal Fravòrt, il grande serpente alato sorvola gli altipiani e va a
Lavarone, i Lombardi e la leggenda del Melegnon 55<br />
deporsi su una roccia che è anche il suo nido oltre la Val d’Astico, il Sòio<br />
d’Aspio (GORFER 1977, p. 358).<br />
Con un altro nome, quello di basilisco, a Mezzocorona è il serpente alato<br />
con due code e la cresta, nato dall’uovo di un gallo di sette anni. Ha la caratteristica<br />
di distruggere quanto capita sul suo cammino bruciandolo, e per questo<br />
viene confuso con i draghi. Il suo sangue uccide istantaneamente il cavaliere<br />
che lo ha trafitto, incenerendolo.<br />
L’origine della leggenda è tutt’al più quattrocentesca (BARTOLINI 2000,<br />
pp. 119-130), ma l’immagine del serpente velenoso e malefico, che uccide con<br />
lo sguardo, con il fiato o un battito di coda, è antichissima. Può essere anche<br />
un serpente con la cresta dalla forma di corona oppure un ibrido mostruoso tra<br />
la lucertola ed il gallo, con diverse varianti sul tema.<br />
Un basilisco vola sulla Valle di Non e una goccia del suo veleno distrugge<br />
addirittura la montagna sopra Castel Thun (BOLOGNINI 1997, p. 47).<br />
“Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, VIII, 33) descrive il basilisco come serpente che<br />
nasce in Cirenaica, non più lungo di dodici dita, con in testa una macchia bianca come fosse<br />
un diadema. Col suo fischio mette in fuga tutti i serpenti e ha il potere di seccare piante ed<br />
erbe. 28 ”<br />
Un racconto di Roncegno, Il Serpente Magico, narra di un serpente, grosso più<br />
di un braccio, lungo due metri e forse più (NERI 1997, p. 142): l’erba su cui<br />
striscia diventa subito secca fra la sorpresa dei suoi uccisori: certamente è un<br />
basilisco.<br />
Basilisco (dal greco basileus) è il re dei serpenti. Emette sibili, che atterriscono,<br />
e crea il deserto: così Marco Anneo Lucano nel I secolo d. C. (Pharsalia, IX,<br />
696-726). Come tale lo troviamo a Sant’Egidio del Bosco, vicino a Rimini.<br />
“La storia narra di una chiesa infestata da serpenti tra i quali uno di dimensioni enormi<br />
– il basilisco – che andava gridando e lanciando fischi acutissimi che gelavano il sangue<br />
(BARTOLINI 2000, p. 119)”.<br />
Un racconto di Tezze, La Biscia Bianca, descrive il serpente mostruoso che si<br />
incontra lungo la strada della Pèrtica (NERI 1997, p. 167). È una biscia lunga e<br />
candida, come il serpente, Re delle bisce, che compare nella leggenda della Valle<br />
di San Lucano, una collaterale di Agordo. La valle è infestata dai rettili, come<br />
la chiesa di Sant’Egidio, ed il loro sovrano è proprio una Biscia bianca, immensa<br />
e spaventosa (KINDL 1993, pp. 121-122).<br />
Da Agordo torniamo alla Cima d’Asta e agli Altipiani, dove l’Aspio, in cui<br />
riconosciamo ormai un grande basilisco alato, trova rifugio: stando in alto, lo si<br />
può osservare meglio che non in valle.<br />
L’Orco Basilisco di Nosellari appare con “le fattezze del diavolo”: quando<br />
tiene in bocca un diamante, può volare, e la pietra assume riflessi violacei, ren-<br />
28 Ibidem.
56<br />
Paolo Zammatteo<br />
dendolo ancora più mostruoso. Sale sempre dalla Valdastico e va a posarsi nella<br />
Val Rossa sulla sinistra del torrente Centa. Un basilisco è anche la reincarnazione<br />
dell’anima di una giovane condannata per l’eternità in un racconto di <strong>Luserna</strong><br />
(BELLOTTO 1978, pp. 107-109), in quanto si tratta di un grande serpente,<br />
che sputa fuoco ed emette sibili spaventosi.<br />
Il basilisco sopravvive persino alle leggende sul demonio e al mito minerario,<br />
da cui trae alimento.<br />
“In data 14 luglio 1826 il prof. Giambattista Garzetti scriveva da Trento al bar. Antonio<br />
Mazzetti a Milano: ”<br />
Cfr. ms. n. 1398 p. 76 Bibl. com. di Trento (WEBER 1920, p. 265).<br />
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L’ARCHITETTURA DI LUSERNA DALLE ORIGINI AL 1800<br />
Paolo Zammatteo 1<br />
Il topos della malga e il contesto costruttivo locale<br />
Fra i più antichi edifici attestati archeologicamente sulla montagna trentina e<br />
lo sviluppo dei nuclei edificati sull’Altopiano esiste una correlazione fuori dal<br />
tempo, vincolata solo dalle tecniche e dai materiali. In questa ottica è come se<br />
si fosse assistito alla medesima evoluzione dell’insediamento, rievocata anche a<br />
distanza di millenni. Le ragioni sono di comprensione immediata, dettate<br />
com’erano dalle condizioni dell’alpe e da esigenze, che nel medioevo e nella<br />
preistoria erano del tutto analoghe.<br />
Presupposto comune è l’uso di tondame di legno, che interessa l’intera costruzione<br />
nell’edificio a incastro (Castello di Fiemme, la Volta di Besta a Ledro)<br />
e nelle malghe mobili. Viene usato per le strutture in elevazione e per la copertura<br />
nella tecnica mista (Doss Zelor), dove la fondazione o parte del recinto<br />
sono in muratura e dichiarano una collocazione stabile (gli stabi, i Tablat).<br />
L’evoluzione verso l’uso della pietra e degli avvolti, dove il legname scortecciato<br />
si limita al tetto, dimostra una indubbia eredità delle tecniche murarie romaniche,<br />
come è ben evidente negli esempi di malga che ancora esistono nel<br />
Ticinese e nei Grigioni.<br />
L’uso della pietra come materiale di costruzione comportò l’aggregazione<br />
delle funzioni di stalla e fienile (tezza, tiezo, Tetch) intorno a una sorgente, permettendo<br />
l’evoluzione dei nuclei aggregati chiamati masi, che sono documentati<br />
dalla metà del Quattrocento: un esempio fossile ancora attuale è quello del Bisele,<br />
mentre resti di strutture analoghe, risalenti al XIV secolo, sono ancora leggibili<br />
in aree contigue.<br />
Nell’aggregato d’alpeggio compaiono sempre l’abitazione (il fuoco), il fienile,<br />
la lavorazione casearia: la pozza o la fontana al centro focalizzano una corte<br />
delimitata dagli edifici. Fra XV e XVII secolo la corte, la Hof, rappresenta il<br />
genius loci dei nuovi villaggi, le vìle: <strong>Luserna</strong> (1623) e Sotto di <strong>Luserna</strong>, poi Tezze<br />
(1628).<br />
Cambierà il senso dell’abitazione, ormai stanziale per tutto l’anno, ma i caratteri<br />
tipologici degli edifici resteranno quelli originari delle costruzioni di malga.<br />
Il 1912 è un anno simbolico. Si chiude con la stesura di un Piano Regolatore<br />
per <strong>Luserna</strong>, dettato dalle esigenze belliche, da quel sistema di difesa territoriale<br />
1 Libero professionista, architetto a Trento.
64<br />
Paolo Zammatteo<br />
intorno al quale si sarebbe scatenata la Prima Guerra Mondiale. Già in<br />
quell’epoca molte cose erano cambiate. La storia di quelle trasformazioni ha il<br />
suo doppio nelle architetture del paese, nelle quali si riflette un consenso di regime<br />
cercato dalle istituzioni ma non altrettanto corrispondente e sentito dalla<br />
località.<br />
Le origini. Il XV e il XVII secolo<br />
La lettura degli effetti indotti sulla struttura di <strong>Luserna</strong> dalla presenza di un<br />
confine fisico, etico e politico come quello instaurato dopo il 1866, richiede la<br />
conoscenza a grandi linee dell’imprinting dato dagli eventi precedenti all’assetto<br />
dell’insediamento. Tutto dimostra una situazione prossimale dell’edilizia rispetto<br />
a quella condizione fragile ma insistente che era garantita dalla grande disponibilità<br />
di pascolo dell’altopiano, fattore determinante per la realizzazione<br />
dei percorsi e la frequentazione ab antiquo di tutta la zona prealpina.<br />
Non esistendo ancora un’analisi dettagliata dello stato primitivo<br />
dell’insediamento, occorre qui farvi riferimento per esteso, alla luce anche del<br />
contesto più ampio.<br />
Dopo che un secolo fiorente come il Duecento aveva permesso<br />
l’espansione verso il resto d’Europa di intere comunità tedesche, chi per una<br />
specializzazione mineraria, chi come colono agricolo, il Trecento fu sconvolto<br />
da eventi calamitosi e grandi contrasti. Emblema di quell’epoca, la signoria padovana<br />
dei Carraresi era definitivamente scomparsa dopo anni di scontri con<br />
una Venezia in prepotente espansione.<br />
In Val d’Astico il 25 novembre 1385 i rappresentanti della Villa di Brancafora,<br />
memori di un lascito dei conti di Velo avvenuto negli anni 1311-1315, giurarono<br />
fedeltà a Vicenza, che a sua volta il 25 aprile 1404 si sottomise alla Serenissima.<br />
Con ogni probabilità la Curazia di Brancafora sperava di trarre vantaggio<br />
dal governo veneto, certamente più disponibile della feudalità tedesca che<br />
deteneva giurisdizione su Caldonazzo e su parte dei possedimenti dell’antica<br />
chiesa curaziale. Questi si trovavano in vetta al Summum Luxernae, così chiamato<br />
per la prima volta all’interno del riconoscimento dei comuni di Arsiero,<br />
Velo e Cogollo del Cengio nel 1202. In un atto del 1260 era stato definito anche<br />
“districtus” (LORENZI 1932), termine che presupponeva un controllo<br />
ben organizzato di natura comitale. In realtà per il Monte di <strong>Luserna</strong> vi era un<br />
accumulo di diritti e contrasti fra i Velo di Valdastico e i dinasti trentini, da Beseno,<br />
Telvana-Caldonazzo, Trapp.<br />
Nel Quattrocento il Monte di <strong>Luserna</strong> era investito contemporaneamente<br />
dalla Curazia di Brancafora, quindi dal monastero agostiniano di Marostica, dalla<br />
diocesi di Padova, dal Principato Vescovile di Trento, dall’interesse sul confine<br />
dei Conti del Tirolo, dal possesso di un privato, il nobile vicentino Gio-
L’architettura di <strong>Luserna</strong> dalle origini al 1800 65<br />
vanni da Porto, da diritti vari di altri feudatari minori (vedi ad esempio<br />
l’investitura mineraria del 1282) e di rappresentanti delle ville sleghesi.<br />
A parte i carteggi per la definizione dei confini, lo provano le controversie<br />
di lungo periodo per il possesso di Monterovere e delle Vezzene: è emblematico<br />
che ancora nel novembre 1671 Giorgio Sigismondo Trapp dichiarasse di<br />
godere diritti sulla Valdastico in contraddittorio con i Velo (GORFER 1980, p.<br />
136).<br />
L’antico sistema insediativo degli Altipiani in rapporto al bacino del<br />
Brenta<br />
Ora facendo un passo indietro, si può evidenziare l’insieme di elementi, che resero<br />
indispensabile l’edilizia tradizionale di <strong>Luserna</strong>, giustificandone il significato<br />
e ritrovando anche i probabili caratteri costruttivi di lungo periodo dell’area.<br />
Pare proprio che le costruzioni siano state rigorosamente in legno per dei<br />
secoli: erano malghe, stalle e fienili. La novità dei masi sarebbe intervenuta solo<br />
dopo il 1413, epoca dell’affermazione tirolese sugli Altipiani trentini. E proprio<br />
nei masi si sarebbe sviluppata la tradizione della muratura.<br />
Per comprendere e come si è evoluta l’edilizia delle case di pietra, sono state<br />
ricercate ed indagate le più antiche opere murarie di qualche consistenza nei<br />
dintorni, purché non abbiano caratteristica palaziale: ne sono state individuate<br />
tre, i resti del castello di Castelnuovo, distrutto nel 1385, la Bastia di Calceranica<br />
e il vallo di Carbonare.<br />
La Bastia di Calceranica di per sé è già un argomento affascinante, in quanto<br />
molto estesa, ma la condizione che qui interessa di più non sta tanto nelle fortificazioni,<br />
bensì nella cosiddetta “pars massaricia”.<br />
A parte la distruzione di Caorso per opera del torrente Centa, solo due aree<br />
abitate, entrambe collocate sui pendii ed entrambe annesse a castelli, sono<br />
scomparse del tutto in Valsugana. La prima e più famosa era il villaggio di Castelnuovo,<br />
arroccato fra il Dosso Castellare (Casteller nella cartografia seicentesca)<br />
e la chiesa di Santa Margherita; di esso la leggenda narra che venne distrutto<br />
durante l’occupazione scaligera del 1385, tanto che fu ricostruito perfettamente<br />
al centro della Valsugana immediatamente dopo. Effettivamente costituisce<br />
l’unico esempio di villaggio di strada di fondovalle dell’intero corso trentino<br />
del Brenta e il rinvenimento recente di un atto del 1396 - riferito chiaramente<br />
al nuovo centro di fondovalle - è la prova che nella tradizione orale c’è<br />
qualcosa di più di un semplice mito popolare.<br />
L’altro sito sono gli scarsi edifici sparsi sul versante delle Bastie di Calceranica.<br />
Si tratta di un insediamento con vari elementi di unicità: abbandonato
66<br />
Paolo Zammatteo<br />
anch’esso pochi anni dopo il 1385, ovvero negli stessi frangenti che portarono<br />
alla distruzione del Castelnuovo, non è più stato riutilizzato, se non nel caso di<br />
maso Agostini e Maso Murari. Più a monte altre due strutture possono dare risposte<br />
attendibili circa l’edilizia mista di quell’epoca e sembra proprio che<br />
l’influenza di Caldonazzo sugli Altipiani trentini passi anche dalle tecniche in<br />
uso nella plaga del lago.<br />
Col tempo sarebbero giunte anche a condizionare le costruzioni in linea lusernesi<br />
e gli edifici di pendio delle Tezze, soppiantando del tutto l’edilizia in<br />
materiale deperibile diffusa sulle quote in un arco di tempo piuttosto lungo ma<br />
con progressione crescente.<br />
In particolare interessa citare qui il riferimento a un maso “de la Fontana”<br />
sito sul Monte di Caldonazzo e che nel 1399 era soggetto a livello annuo misto<br />
in denaro e in natura, ivi compresi tre stari “Castanearum” (BRIDA 2000, p.<br />
190 n. 11).<br />
Poco più in alto rispetto ai due edifici rurali nel Bosco delle Bastie compare<br />
ancora la traccia sul terreno di un basso recinto murario, del tutto analogo ai<br />
casi di epoca romana rinvenuti nella piana di Caldonazzo (ad esempio maso<br />
Urbanelli) e alle strutture retiche dei Montesei di Serso, un quadrilatero di 3<br />
metri per 4 posto a secco con un elevato modesto che era certamente la base di<br />
una struttura mista con elevati in legname. Qui una sorgiva era stata rinforzata<br />
con due fornici radenti a volta, una fontana appunto, come se ne trova un unico<br />
altro esempio a Lavarone-Raut (FRANCO 2003, p. 24).<br />
Per l’analisi intorno alle costruzioni lusernesi si tratta certamente di un sistema<br />
contiguo particolarmente interessante, in quanto può addurre elementi<br />
importanti circa l’ipotesi che l’uso della muratura per gli edifici civili sia stato<br />
introdotto nel corso dei secoli XV-XVIII proprio grazie ai rapporti particolarmente<br />
stretti che gli Altipiani intrattenevano con il centro della Giurisdizione,<br />
la Corte di Caldonazzo.<br />
Un cenno è necessario per correlare <strong>Luserna</strong> ad un secondo argomento,<br />
molto importante e ben localizzato a sud del torrente Brenta.<br />
A Castelnuovo una via affrontava le pendici del Monte Civerone in prossimità<br />
della chiesa di Santa Margherita e raggiungeva la Val di Sella. È ben difficile<br />
immaginare l’antichità di questo tratturo (perché di una pista per l’alpeggio si<br />
trattava), anche se occorre riconoscere che quel percorso, il quale poi si svolgeva<br />
in direzione di Porta Manazzo e delle Vezzene, era sicuramente conosciuto<br />
e sfruttato in epoca romana; in quel I secolo dopo Cristo, cioè, che sulla sponda<br />
settentrionale dell’Adriatico vide la fortuna di Altino come secondo centro<br />
della lana di tutto l’Impero, dovendo lasciare il primato alla stessa Roma.<br />
Una suggestiva novità viene dagli sviluppi del progetto archeologico “Ad<br />
Metalla” tuttora in corso (DE GUIO, ZAMMATTEO 2004): il minerale sfruttato<br />
dagli importanti impianti fusori, diffusissimi sugli Altipiani nell’età del
L’architettura di <strong>Luserna</strong> dalle origini al 1800 67<br />
bronzo, proveniva di certo dalle pendici, che fronteggiano la Valsugana: e la<br />
presenza di macine ed incudini per il processo di frantumazione del minerale<br />
precedente al suo arrostimento è stata scoperta proprio nei pressi del valico fra<br />
la Valle di Sella e Vezzena nel corso dell’ultima campagna di survey di agosto<br />
2004.<br />
Questo fatto prova con certezza che parte del rame, che veniva condotto<br />
sulle quote fra Trento e Vicenza almeno dodici secoli prima della fondazione<br />
delle due città, era estratto sul versante settentrionale del Monte Mandriolo.<br />
La questione assume particolare importanza, quando la si lega alla vocazione<br />
dei luoghi. Milleduecento anni prima di Cristo dalla Valle di Sella si scavava<br />
minerale metallifero e quella presenza di metallurghi aveva bisogno di una economia<br />
di supporto legata sì alla caccia, ma anche se non soprattutto al pascolo.<br />
Un pascolo transumante, la cui prerogativa era lo sfruttamento estivo, in una<br />
lunga tradizione di spostamenti di greggi fra le alpi ed il mare.<br />
Altino e i mercati romani giunsero molto più tardi a suggellarne l’efficacia<br />
nell’immutabile scansione stagionale della pastorizia.<br />
Tutto questo non fa che confermare la presenza da tempo immemorabile<br />
della via del Manazzo attraverso i luoghi segnati molto più tardi<br />
dall’insediamento antico di Castelnuovo, Santa Margherita, Spagolle.<br />
Se poi si aggiungono i dettagli della scoperta di un pugnale dell’età del bronzo<br />
sul Monte Civerone (BELLINTANI s.d.) e di vari altri reperti risalenti alla<br />
cultura di Haltstatt, dei quali Franco Marzatico può affermare con certezza<br />
“un’ampia continuità dalla fine del VII agli inizi del V secolo avanti Cristo”, risulta<br />
del tutto chiara una fruizione estremamente radicata – se non costante –<br />
del “passaggio di Santa Margherita” (LANZINGER et alii 2001, p. 456).<br />
Il medesimo legame, ben precedente alla nascita dei villaggi di Caldonazzo e<br />
Calceranica, forse vincola gli Altipiani trentini alla zona che sta fra le foci del<br />
torrente Centa e del Mandola, dove si colloca un importante sistema di giacimenti<br />
all’interno del territorio fra Caldonazzo e Calceranica (PASSARDI,<br />
ZAMMATTEO 2004). E anche qui è possibile localizzare un’area interessante,<br />
in quanto reca segni di scavo a rapina del tutto analoghi a quelli riscontrati alla<br />
Foresta Paroletti sul versante di Vetriolo in un impianto certamente destinato<br />
alla coltivazione preistorica dei minerali rameici (ZAMMATTEO 2000): inoltre<br />
c’è memoria di un forno fusorio rinvenuto alla metà del Novecento esattamente<br />
in quel sito.<br />
E non a caso, probabilmente, la località nel passato veniva chiamata Andreole,<br />
un toponimo di chiara influenza veneta, unico nel suo genere nel panorama<br />
trentino (che piuttosto utilizza termini di importazione tedesca per le miniere<br />
medievali) e che in genere indicava piccole grotte artificiali, limitati lavori<br />
di miniera.
68<br />
Paolo Zammatteo<br />
Il prima. Qualche cenno all’edilizia medievale in materiale deperibile<br />
Molte considerazioni fatte in passato sulla storicità delle architetture sugli<br />
Altipiani e sul loro carattere autoctono vanno escluse da subito. Piuttosto gli<br />
elementi radicali vanno cercati nelle operazioni di bonifica delle zone prative<br />
tramite l’asporto del materiale sterile frantumato, che caratterizzava la superficie<br />
degli altipiani prima dell’intervento umano. Dolomie, massi erratici provenienti<br />
dalla Piattaforma Atesina più a nord e calcari erosi dall’ultima glaciazione<br />
si trovano tuttora a pochi centimetri dalla cotica erbosa. Chi intervenne per primo<br />
con i villaggi di cacciatori mesolitici o con la fusione del rame qualche<br />
millennio dopo dovette farsi spazio, liberando piccole piazzole dal pietrame<br />
che le occupava. Da qui dobbiamo partire per comprendere l’assenza di fondazioni<br />
e di legante che troviamo all’interno degli edifici storici, i quali<br />
nell’aspetto delle strutture in elevazione sono esemplari della più radicata tradizione<br />
romanica alpino-bavarese.<br />
C’è un equivoco nel quale si incorre ancora, e lo dimostrano varie pubblicazioni<br />
divulgative sulle case tradizionali, diffuse soprattutto nell’ambito tedesco.<br />
Prima di avere contatti con i Romani e di conoscerne le tecniche, le popolazioni<br />
retiche ignoravano la malta: i materiali maggiormente usati erano la pietra<br />
poco lavorata e soprattutto i legnami di qualità. Ma questo da solo non giustifica<br />
la continuità di una tradizione millenaria, soprattutto in una zona di frequentazione<br />
rarefatta e confinaria. Occorrerà quindi analizzare l’approccio dei primi<br />
cronisti a questi luoghi e i rapporti che esistevano fra l’abbondante disponibilità<br />
di pietra e l’uso di sovrastrutture in materiale deperibile.<br />
Accennare ad una storia degli studi sui materiali deperibili in edilizia, in particolare<br />
per quanto concerne tentativi di sintesi, significa soprattutto prendere<br />
in considerazione le produzioni tedesche, francesi ed inglesi. La Francia si segnala<br />
per un interesse particolare e contributi di valore indiscutibile che raggiungono<br />
l’attualità; in essi convergono stimoli provenienti dalla ricerca archeologica,<br />
antropologica ed etnografica, nonché uno stretto legame con l'analisi dei<br />
numerosissimi documenti d'archivio. Un discorso a parte richiederebbero gli<br />
studi britannici; da un lato si sono concentrati sul periodo anglo-sassone e dall'altro,<br />
come spesso accade in Inghilterra, si sono confrontati con i problemi<br />
metodologici dello scavo e della ricostruzione giungendo ad elaborare tecniche<br />
d'avanguardia. La stagione degli scavi anglo-sassoni e scandinavi si apre nel dopoguerra<br />
e si infittisce negli anni Sessanta e Settanta con una serie di iniziative<br />
interessanti.<br />
Pur motivate da un carattere nazionalistico sono soprattutto le indagini effettuate<br />
in ambito germanico a rappresentare, per qualità e quantità, i veri punti<br />
di riferimento nello studio dell'edilizia altomedievale in materiale deperibile.<br />
Assistiamo così a due distinti periodi di ricerca, posti a cavallo della seconda<br />
guerra mondiale, accomunati dal notevole sforzo profuso in scavi programma-
L’architettura di <strong>Luserna</strong> dalle origini al 1800 69<br />
tici di grande estensione spaziale. Il primo, in epoca nazista. Nell’immediato<br />
dopoguerra, sarà lo scavo di Warendorf a dare il via alla più recente comprensione<br />
dell'edilizia rurale e dell'organizzazione dei villaggi altomedievali, aprendo<br />
una stagione di studi che si presenterà fertilissima almeno fino alla metà degli<br />
anni Settanta.<br />
La germanistica si era già occupata di storia dell'insediamento altomedievale,<br />
presentando spesso una caratteristica di interdisciplinarità fra storia del diritto,<br />
archeologia ed etnologia, volta a ricostruire le origini della nazione germanica.<br />
Il confine di <strong>Luserna</strong> ebbe in sorte di attirare studiosi tedeschi già nel XIX secolo.<br />
E all’interno di quella curiosità occorre rievocare Aristide Baragiola, che,<br />
occupandosi delle minoranze tedescofone a sud delle Alpi, redasse una considerevole<br />
testimonianza di viaggio sul sistema costruito della località ed annotò<br />
anche vari tipi di murature a secco, quelle stesse che venivano realizzate a indicare<br />
limiti e percorsi fin dall’antichità.<br />
Se spesso non si è fatto sufficientemente caso all’interesse dimostrato da<br />
Baragiola per le costruzioni minori, agli antipodi con quella tradizione Tomaso<br />
Franco ne prende spunti per una ricerca originale e molto recente. La “città”,<br />
fatta più di lastre poste in verticale, del suo itinerario quasi fantastico assomiglia<br />
straordinariamente a quello che per altra strada sarà il risultato della nostra indagine.<br />
Quando si parla di case di legno, bisogna distinguere varie scuole di lunghissima<br />
tradizione: Stutzenkonstruktion, Fachwerk, Blockbau, Standerbau, Flechtwerk<br />
2 .<br />
Due sono i sistemi principali, usati per la realizzazione di pareti lignee portanti:<br />
il Fachwerk e il Blockbau. Il primo (dal tedesco “costruzione a scomparti”)<br />
viene definito anche sistema “a ossatura” o “a telaio”, ed è costituito da<br />
un’armatura di pali verticali, posti a breve distanza fra loro, con gli spazi tamponati<br />
con rami, ciottoli, oppure con mattoni o tavole (e in questo caso prende<br />
il nome di Standerbau), legate da argilla o malta. In ragione dei sistemi di chiusura<br />
degli spazi fra i pali verticali, della disposizione di questi ultimi, della presenza<br />
o meno di uno zoccolo in muratura o di elementi lignei posti in diagonale<br />
negli specchi di riempimento, si conoscono numerose varianti, caratteristiche<br />
di particolari regioni o periodi storici. In area mediterranea era ampiamente utilizzato<br />
in epoca romana, come provano numerosi esempi perfettamente conservati,<br />
rinvenuti a Ercolano e Pompei. In queste città le murature ad ossatura<br />
di pali erano rinforzate da travi orizzontali, posti parallelamente fra loro, che<br />
2 VARENE P. 1974, Sur la taille de pierre antique, médiévale et moderne, Digione. Per il<br />
legno non vanno dimenticate le tradizioni mediterranee, ricordate anche da Vitruvio (LA-<br />
SFARGUES J. 1985, Architectures de terre e de bois, Parigi).
70<br />
Paolo Zammatteo<br />
dividevano la parete in pannelli grosso modo quadrati. Strutture di questo tipo<br />
(tamponate per lo più con murature di pietrame e calce) erano destinate ai muri<br />
divisori o ai perimetrali dei piani superiori, essendo piuttosto leggere.<br />
Queste pareti possono essere identificate con l’opus craticium, che Vitruvio<br />
descrive come un sistema veloce da realizzarsi, ma assai rischioso per il pericolo<br />
di incendi (De Architectura, II, 1, 3, 8). Durante l’Alto Medioevo dovette essere<br />
piuttosto diffuso, anche se, considerata la notevole deperibilità del materiale,<br />
le testimonianze archeologiche sono assai scarse. In epoca bassomedievale<br />
le costruzioni ad ossatura si diffusero ampiamente in tutta Europa; in Francia<br />
tale tecnica viene definita pan de bois o colombage (da columba, alterazione di<br />
columna, termine usato per indicare i pali portanti), in Inghilterra prende il nome<br />
di half timber work.<br />
Il sistema del Blockbau (dal tedesco = costruzione a blocchi) è invece caratterizzato<br />
dall’uso di tronchi sovrapposti orizzontalmente e incastrati agli angoli.<br />
Necessita pertanto di alberi a fusto altissimo e diritto e per tale motivo è stato<br />
usato nelle regioni ricche di conifere.<br />
Anch’esso doveva essere diffuso nell’Antichità, benché le prove archeologiche<br />
siano assai scarse. Vitruvio ricorda l’esistenza presso alcuni popoli dell’Asia<br />
minore nord-occidentale di case formate da tavole disposte orizzontalmente<br />
(De Architectura, II, 1). Un esempio di notevole interesse è costituito dal<br />
ritrovamento in val di Ledro (Trentino Alto Adige) dei resti di un edificio<br />
databile al VI-VII secolo d.C., costituito da tronchi del diametro di circa 30<br />
centimetri, disposti l’uno sull’altro e incastrati in prossimità delle testate.<br />
Questo tipo di tecnica si è conservato a lungo nell’area alpina e in molte regioni<br />
montuose dell’Europa centro-orientale. Negli affreschi della torre dell’Aquila<br />
del castello del Buonconsiglio di Trento (XV secolo), ad esempio, sono<br />
rappresentati con notevole realismo e ricchezza di particolari diversi edifici<br />
realizzati nella tecnica del Blockbau.<br />
Nelle architetture del Nord Europa e nella regione alpina le case in tronchi<br />
sovrapposti sono sempre sostenute (almeno parzialmente) da funghi o da uno<br />
zoccolo di muratura in pietra.<br />
Anche nelle coperture è sempre stato fatto un ampio uso del legno; se per<br />
gli elementi che costituiscono l’orditura del tetto questo materiale è praticamente<br />
insostituibile, nelle zone di alta montagna viene utilizzato anche per le<br />
coperture, costituite da “scandole” prodotte a spacco e messe in opera imbricate,<br />
analogamente alle tegole.<br />
La possibilità di resistere a lungo in acqua ha fatto del legno un materiale assai<br />
adatto anche alle strutture di fondazione; la loro realizzazione è attestata<br />
almeno dal secondo millennio a.C., come provano numerosi rinvenimenti di<br />
abitati palafitticoli. Un caso piuttosto eccezionale, per le condizioni di conservazione<br />
in cui è pervenuto, è costituito dall’insediamento di Fiavé (Trentino Al-
L’architettura di <strong>Luserna</strong> dalle origini al 1800 71<br />
to Adige) dove in un’area di quasi 500 metri quadrati (un tempo lacustre) si sono<br />
rinvenuti oltre 800 pali, destinati a sorreggere un impalcato ligneo per il sostegno<br />
delle abitazioni. I pali erano lunghi circa nove metri, ed erano stati conficcati<br />
nel limo per oltre quattro. Erano ottenuti da conifere (abeti rossi e larici,<br />
e in misura minore abeti bianchi e pini silvestri) e in un solo caso da olmo. La<br />
maggior parte veniva semplicemente scortecciata, prima di essere conficcata sul<br />
fondo, ma non mancano esempi di pali squadrati con asce, riconoscibili dalle<br />
tracce di piccoli colpi continui e regolari.<br />
La costruzione di palificazioni lignee in acqua fu molto usata anche in epoca<br />
romana, in particolare per realizzare strutture di fondazione per ponti.<br />
Sono rari gli esempi, in cui si è riusciti ad identificare l'intera pianta dell'edificio<br />
o comunque a proporre una interpretazione attendibile. È però il caso di<br />
Trento a palazzo Tabarelli, di Ledro nella località Volta de Besta, di Cavalese al<br />
dosso di S. Valerio. Perciò in Trentino è stato possibile individuare varie tracce<br />
di edifici a Blockbau: “Nei primi anni Sessanta l’apertura di alcune trincee alla<br />
periferia orientale di Castello di Fiemme per la posa di fondazioni edili esposero<br />
delle sezioni, esaminate da Piero Leonardi che rilevò la presenza di uno strato<br />
di “...terra grigia-bruna che in alcuni punti diventa nerastra, carboniosa, con<br />
cocci fittili, scorie di fusione di materiali ferrosi e molti grumi di argilla con impronte<br />
di ramaglie...” interposto tra la copertura agraria e lo sterile di fondo.<br />
Constatata la differenza esistente con le situazioni strutturali del vicino Doss<br />
Zelor, dove si parla generalmente del reimpiego di elementi di epoca romana e<br />
antiche fondazioni diventano (con riempimenti e altro) basamento per strutture<br />
di elevazione a pali e a Blockbau, quanto rinvenuto venne interpretato come il<br />
piano d’uso di capanne interamente in legno, direttamente appoggiate sul terreno<br />
e affiancate da pozzetti per lo scarico di rifiuti.<br />
La conferma della presenza nelle valli alpine di questa tipologia di costruzioni<br />
nel periodo alto-medievale viene dal ritrovamento dell’edificio in val di<br />
Ledro. L’area è l’insenatura semicircolare che conclude l’omonimo lago verso<br />
Nord/Est (detta “Volta di Besta”) e l’occasione della scoperta la stessa che<br />
portò all’identificazione della più celebre palafitta dell’Età del Bronzo. Nel<br />
1958, dopo alcuni saggi, la Soprintendenza alle Antichità delle Venezie vi condusse<br />
un limitato scavo che rilevò l’esistenza di un regolare intreccio di pali<br />
perfettamente conservati grazie alle favorevoli condizioni offerte dall’ambiente<br />
umido in cui erano collocati. Ciò che maggiormente qui interessa è la disposizione,<br />
uno sull’altro, di alcuni tronchi del diametro di circa 30 cm, incastrati in<br />
prossimità delle teste a formare la pianta rettangolare di una costruzione di metri<br />
4 x 5 circa, pavimentata da un acciottolato e da un battuto d’argilla. Un ulteriore<br />
saggio, condotto nella primavera del 1983 in corrispondenza del rinveni-
Struttura portante<br />
L’architettura di <strong>Luserna</strong> dalle origini al 1800 73<br />
a due pali contrapposti: sistema tipico per costruzioni di modeste<br />
dimensioni, dove i due pali possono essere legati oppure no alle pareti<br />
che restano comunque indipendenti e sopportano scarse o nulle sollecitazioni<br />
statiche due pali disposti lungo il perimetro o poco distante da<br />
esso. I pali si dispongono al centro dei lati corti in caso di pianta rettangolare,<br />
al centro di due lati contrapposti in caso di pianta quadrata;<br />
per le piante ellittiche, circolari , irregolari e poligonali si trovano solitamente<br />
leggermente rientrati rispetto al perimetro, lungo l'asse maggiore<br />
o il diametro. Reggono il trave di colmo del tetto, implicitamente<br />
di tipo Rofendach: il Rofendach presenta un trave di colmo, che attraversa<br />
centralmente l'intera lunghezza della struttura e sul quale si imposta<br />
il telaio del tetto.<br />
a pali angolari: quattro pali ai vertici reggono un tetto di tipo Sparrendach:<br />
lo Sparrendach, senza trave di colmo, è costituito da travi singoli,<br />
che collegano coppie di pali perimetrali contrapposti sul lato lungo e su<br />
di essi si innesta il telaio del tetto. Anche questa struttura portante riguarda<br />
perlopiù edifici di dimensioni modeste con pianta quadrata o<br />
rettangolare. Eccezionalmente si trovano anche strutture a pali angolari<br />
con piante poligonali, ellittiche, circolari o irregolari: in questi casi solitamente<br />
i pali sono messi a formare un quadrangolo, leggermente rientrato<br />
rispetto al perimetro.<br />
a pali perimetrali: armatura di pali (minimo sei) disposti lungo il perimetro;<br />
si tratta di una struttura portante che implica un copertura di tipo<br />
Sparrendach ed è adattabile a qualsiasi tipo di pianta. Il tipo è molto<br />
diffuso per edifici di dimensioni piccole o medie, nel qual caso ritroviamo<br />
perlopiù sei o otto pali: non è tuttavia infrequente per strutture<br />
di grandi dimensioni, soprattutto a partire dall’Ottavo secolo (eccezionalmente,<br />
soprattutto in ambito inglese, si ritrovano strutture a navata<br />
unica di dimensioni grandi e medio grandi, fino dal Quinto), quando<br />
comincia lo sviluppo della tipica Hallenhaus contadina di ambito germanico,<br />
compiutamente realizzata verso la fine del Dodicesimo secolo<br />
e ampiamente diffusa durante tutto il medioevo e parte dell’età moderna.<br />
Si tratta di una evoluzione nelle tecniche costruttive che ha permesso<br />
la costruzione di strutture di notevoli dimensioni a navata unica,<br />
contrariamente a quanto accadeva per le Wohnstallhaus precedenti,<br />
quasi sempre a due o tre navate.<br />
a palo centrale: struttura portante caratterizzata dalla presenza di un<br />
grosso palo centrale, eventualmente circondato da una o più corone di<br />
pali; è tipico per le strutture a pianta perfettamente simmetrica (circola-
74<br />
Paolo Zammatteo<br />
re, quadrata e poligonale regolare) e di dimensioni piccole o medie. Raramente<br />
si trova anche con piante rettangolari ed ellittiche.<br />
a tecnica mista: sovrapposizione, nella stessa capanna, di più tipi di<br />
strutture portanti.<br />
a due, a tre o più navate: si tratta di strutture portanti caratterizzate<br />
dalla divisione in navate attraverso uno o più allineamenti di pali portanti<br />
centrali. Questo tipo di strutture portanti implica una copertura di<br />
tipo Rofendach e sono tipiche per le longhouse o gli edifici rettangolari<br />
di dimensioni medio – grandi.<br />
con pavimento sopraelevato oppure senza pavimento sopraelevato:<br />
non si tratta di vere e proprie strutture portanti ma di elementi caratterizzanti<br />
due diversi tipi di Blockbau.<br />
su palafitta: ebbe scarsa diffusione a livello europeo durante il periodo<br />
altomedievale.<br />
senza pali: indica una struttura portante senza l'utilizzo di pali, tipica<br />
per le case con basamento in pietra, le case in terra e le capanne semiscavate<br />
con tetto direttamente infisso nel terreno.<br />
a Fachwerk: non rientra in nessuno dei tipi suddetti.<br />
Tecnica degli elevati<br />
a struttura aperta o senza elevati: si tratta di fienili o magazzini in<br />
armatura di pali, oppure di strutture semiscavate con il tetto direttamente<br />
infisso nel terreno e perciò senza elevati.<br />
a tavolato ligneo orizzontale: consta di assi o paletti di legno disposti<br />
orizzontalmente, spesso ad incastro e fissati ad un'armatura di pali verticali,<br />
oppure ad un trave dormiente scanalato (tecnica tipica per le<br />
strutture a canaletta perimetrale).<br />
a Stabbau: si tratta di pareti realizzate con assi o paletti verticali, infissi<br />
direttamente nel terreno oppure innestati su di un trave dormiente scanalato.<br />
ad intreccio: tecnica tipica per le costruzioni ad armatura di pali, consistente<br />
in frasche, vimini e paglia intrecciati orizzontalmente sull'armatura<br />
di pali portanti per strutture di modeste dimensioni o su un sistema<br />
di paletti perimetrali non portanti; gli elevati ad intreccio sono spesso<br />
ricoperti da intonaco di capanna in argilla.<br />
in materiale deperibile pressato: si riferisce a diverse tecniche degli<br />
elevati quali il pisè, le Sodenwand in torba pressata, le case in blocchi di<br />
terra, gli elevati del Fachwerk, ecc.
L’architettura di <strong>Luserna</strong> dalle origini al 1800 75<br />
in materiale deperibile generico: nella maggioranza dei casi non è<br />
possibile, a causa dello stato di conservazione, identificare la tecnica<br />
degli elevati.<br />
in tecnica mista: sovrapposizione nella stessa struttura di diverse tecniche<br />
degli elevati.<br />
a Blockbau.<br />
a Palisadenbau: si tratta di elevati molto robusti costituiti da un triplo<br />
allineamento di pali perimetrali messi a tenda (il centrale diritto e i due<br />
laterali inclinati a formare un angolo molto acuto), e riempito da argilla.<br />
Veniva utilizzato soprattutto per le palizzate fortificatorie: il suo utilizzo<br />
in strutture edilizie potrebbe quindi avere una connotazione signorile,<br />
o comunque un significato importante a livello collettivo.<br />
I tipi<br />
Strutture a livello del suolo: capanne con la struttura portante, e in<br />
genere anche il battuto di vita, a livello del suolo.<br />
Strutture semiscavate: capanne con la struttura portante all'interno di<br />
una escavazione; eccezionalmente, capanne con il battuto seminterrato<br />
e la struttura portante a livello del suolo 5 .<br />
ad armatura di pali: è caratterizzato dalla presenza di un'armatura di<br />
pali, distribuiti in pianta secondo vari criteri determinanti la struttura<br />
portante; si tratta del tipo più diffuso e con la più ampia eterogeneità di<br />
dimensioni, piante, strutture portanti e tecnica degli elevati: con pavimento<br />
semiscavato la struttura portante all'interno dell'escavazione. Si<br />
ritrova in tutta Europa, particolarmente nella parte occidentale e in<br />
Gran Bretagna.<br />
a Blockbau: costruzione massiccia a travi orizzontali sovrapposti e incastrati,<br />
con ampi confronti etnografici soprattutto in ambito alpino,<br />
dove gran parte dei Blockbauen conservati ai giorni nostri hanno un<br />
basamento in pietra, ma in origine era una struttura senza basamento,<br />
in presenza del quale è preferibile parlare del tipo “a tecnica mista”. Si<br />
tratta di strutture, che Raramente hanno lunghezza superiore ai 10 m;<br />
di solito sono 5-8 x 3-6 m se rettangolari o di 4-7 m di lato se quadrate.<br />
di modeste dimensioni diffuse in età altomedievale soprattutto in ambito<br />
slavo o comunque europeo orientale. Si distinguono in due sottotipi<br />
5 Esistono casi di strutture con pavimento seminterrato e armatura di pali a livello del suolo,<br />
generalmente con funzioni precise, ad esempio di tessitoio. Le strutture con basamento<br />
in pietra a livello del suolo e pavimento seminterrato vanno sempre considerate come<br />
capanne a livello del suolo con basamento in pietra.
76<br />
Paolo Zammatteo<br />
principali, con o senza il pavimento su piattaforma sopraelevata; nel<br />
primo caso è un tavolato ligneo poggiante su travi dormienti orizzontali,<br />
oppure su bassi paletti verticali infissi nel terreno, nel secondo è un<br />
semplice battuto in terra. Le travi del Blockbau possono trovarsi nell'escavazione<br />
oppure ai bordi della stessa, a partire quindi dal livello del<br />
suolo: è da notare che all'interno di questo tipo trova maggiore diffusione<br />
la variante con piattaforma poggiante su pali verticali infissi nel<br />
terreno, spesso piuttosto alti, onde creare sotto il pavimento uno spazio<br />
adibito a cantina o magazzino per derrate alimentari.<br />
a canaletta: è caratterizzato dalla struttura portante in armatura di pali<br />
posti dentro una canaletta perimetrale. Si tratta di un tipo abbastanza<br />
diffuso nell'Europa continentale occidentale e in Gran Bretagna. Si<br />
hanno di solito piante a longhouse di medie dimensioni o, più raramente,<br />
piccole abitazioni o annessi funzionali.<br />
a pali inclinati: struttura ad armatura di pali caratterizzata dalla presenza<br />
di pali esterni inclinati verso l'interno a sostegno dei pali perimetrali,<br />
ai quali si legano od appoggiano le pareti. Si tratta di un tipo con<br />
pianta esclusivamente a longhouse, diffuso in ambito germanico continentale<br />
e, raramente, in Gran Bretagna; i pali esterni inclinati con funzione<br />
statica sono dovuti all'incertezza delle tecniche costruttive, viste<br />
le notevole dimensioni di tali strutture. Lo spazio fra le pareti ed i pali<br />
esterni era spesso coperto ed utilizzato come magazzino/ripostiglio.<br />
con basamento in pietra: casa con un basamento in pietra, solitamente<br />
a secco, ed elevati in materiale deperibile, quali il Blockbau, il tavolato<br />
ligneo, la terra pressata, lo Stabbau. Il tipo si ritrova in tutto l'ambito<br />
europeo ma con scarsa diffusione a partire dall'Ottavo secolo: aumenta<br />
fra XI e XIII. Nel tipo non rientrano le strutture che presentano il riuso<br />
delle murature di edifici più antichi; queste appartengono infatti al<br />
tipo a tecnica mista, visto che il tratto caratterizzante è costituito dal<br />
riuso piuttosto che dalla volontà di costruire una casa con basamento in<br />
pietra. Con il basamento in pietra interno all'escavazione, che supera<br />
leggermente il livello del suolo ed elevati in materiale deperibile, solitamente<br />
lignei, si tratta di un modello costruttivo tipicamente retico, diffuso<br />
nell'alta valle dell’Adige anche in età tardo-antica ed altomedievale.<br />
Per quanto riguarda l'Italia peninsulare, un unicum sembrano essere le<br />
capanne di Cosa.<br />
con basamento in legno o altro: struttura con trave dormiente perimetrale<br />
scanalato sul quale si innestano gli elevati in Stabbau o in tavolato<br />
orizzontale. Si tratta di un tipo piuttosto tardo, diffusosi a partire<br />
dal Decimo secolo, soprattutto in ambito slavo (Germania orientale e
L’architettura di <strong>Luserna</strong> dalle origini al 1800 77<br />
Polonia). Un altra variante dello stesso tipo prevede l'incastro sui travi<br />
dormienti per l'alloggio di pali portanti verticali.<br />
a tecnica mista: comprende tutte le strutture, anche con pavimento<br />
semiscavato, nelle quali si presenta in modo significativo una commistione<br />
fra tipi; presenta ovviamente una diffusione spaziale e cronologica<br />
molto eterogenea. Sono considerate a tecnica mista le strutture dove<br />
si trovano insieme l'utilizzo della pietra e dell'armatura di pali: capanne<br />
con basamento in pietra e pali centrali a sostegno del tetto; capanne<br />
addossate a precedenti strutture in pietra 6 ; capanne con la funzione<br />
portante divisa fra un’armatura di pali in canaletta perimetrale e un allineamento<br />
di pali centrali a sostegno del tetto; Blockbau con basamento<br />
in pietra. Non vanno considerati i rari esempi di Blockbau a due navate<br />
visto che i pali centrali sono perlopiù aggiunte posteriori e non caratterizzanti.<br />
Le strutture a tecnica mista potranno rivelarsi estremamente<br />
interessanti quali punti di cesura per una futura indagine analitica sulla<br />
diffusione geografica dei tipi edilizi in materiale deperibile.<br />
casa in terra: si tratta di strutture costituite da blocchi di terra pressata<br />
e messi in opera; la copertura può essere in materiale deperibile quale<br />
paglia, frasche e letame, oppure in laterizi. Il tipo è diffuso solamente in<br />
Italia, specialmente nel centro, mentre in Europa finora non è stato rintracciato<br />
nessun esempio.<br />
Fachwerk: tipo edilizio tipicamente germanico, anche con pavimento<br />
semiscavato, costituito da un basamento in pietra e una intelaiatura di<br />
travi verticali e oblique a formare lo scheletro della casa. Gli interstizi<br />
fra il telaio sono chiusi da pareti in materiale deperibile pressato (terra,<br />
paglia, argilla, letame), lasciando in vista le travi. Il tipo ha una diffusione<br />
molto limitata nell'altomedioevo, a partire dal Nono secolo, mentre<br />
trova un ampio utilizzo nei secoli finali del medioevo e per tutta l'età<br />
moderna.<br />
È possibile, infine, proporre le ragioni che appaiono ormai come le più logiche<br />
per ricostruire l’evoluzione delle costruzioni più antiche sugli Altipiani.<br />
Utilizzando la pietra presente dovunque in superficie, si recuperavano spazi<br />
al terreno fertile e le murature a secco poste ai margini di strade e pascoli divennero<br />
col tempo elementi caratteristici di una scacchiera irregolare. Costruzioni<br />
significative di quella tradizione sono le recinzioni degli ovili, segnalati da<br />
Tomaso Franco, che sono da collocare sicuramente in epoca almeno medievale.<br />
6 È un caso abbastanza diffuso in Italia, tanto che ha indotto Brogiolo a coniare il termine<br />
“edilizia mista di riutilizzo” o “a tecnica mista”.
78<br />
Paolo Zammatteo<br />
Se la realizzazione di murature a secco appartiene a tutta la tradizione non<br />
romana, dai Greci ai Celti, non di meno è chiaro che qui alcune strutture litiche<br />
di grandi dimensioni erano utilizzate per segnalare percorsi e opere di interesse<br />
pubblico, le strade.<br />
La frequenza di queste opere e la loro varietà sono molto maggiori rispetto<br />
alle altre consuetudini masali alpine.<br />
All’interno di questa categoria si riconoscono vari tipi di paramento murario,<br />
che a seconda della apparente semplicità o per la maestria nell’esecuzione<br />
possono essere più o meno antichi e il prodotto di maestranze locali come di<br />
importazione.<br />
Occorre però trovare un riferimento storico per quanto è avvenuto in modo<br />
tanto estensivo fra la Lessinia e la Cymbria. E la chiarificazione sta tutta nel valore<br />
assegnato alle Viezene. Non come terreno di pascolo, in quanto il prativo<br />
dei terreni prevalentemente calcarei rende molto meno che sulle altre alpi: piuttosto<br />
erano essenziali come snodi per la monticazione, risorsa irrinunciabile<br />
degli armenti, che qui giungevano dalla pianura veneta.<br />
Perciò l’occupazione stagionale dovette essere prevalente a lungo. Tutto orbitava<br />
intorno ai pascoli, anche i ricoveri per gli uomini, con la realizzazione di<br />
semplici sovrastrutture temporanee in pali di legno, come quelle che Aristide<br />
Baragiola documentava ancora alla fine dell’Ottocento per protezione di pastori<br />
e carbonai.<br />
Successivamente, ma ormai con una tecnica mista (basamento in pietrame,<br />
elevato in legno), sorsero le prime malghe ed i masi per la fienagione. A questo<br />
punto poco conta se si usavano il Blockbau o strutture a pali verticali e incrociati<br />
e a tavolato; è anzi probabile che fossero presenti indifferentemente, magari<br />
giustapposti nella combinazione di unità edilizie sotto lo stesso tetto.<br />
Certo è che la presenza del pietrame in loco e l’assenza di fondazione (o anche<br />
di piani totalmente interrati) e calce indicano l’esistenza di edifici - impostati<br />
sul terreno o seminterrati - con larga prevalenza degli elevati in legno, ma soprattutto<br />
un convincimento radicato verso un tipo di capanna rettangolare,<br />
che originariamente nulla aveva a che vedere con una eredità romana: ad oggi<br />
non risulta nessun elemento costruttivo, magari riutilizzato, che si colleghi a<br />
tanta antichità o all’ipotesi minima di un riuso su strutture complesse e definite<br />
in una tecnica muraria vera e propria.<br />
Piuttosto ad una precisa cognizione sia territoriale, sia delle tecniche murarie<br />
rimandano per primi gli impianti di matrice romanico romanza della Valsugana,<br />
forti, militari, emblematici: la Bastia di Calceranica, il vallo di Carbonare, il castello<br />
di Vignola e Castelnuovo sul Dosso Castellare, a monte del paese omonimo<br />
in Valsugana Inferiore. In tutti questi siti un esteso lavoro di bonifica ed<br />
un audace sistema di riempimenti e murature di contenimento hanno consentito<br />
la realizzazione di un esteso impianto di murature defilate e l’utilizzo di
L’architettura di <strong>Luserna</strong> dalle origini al 1800 79<br />
un’area gravosa, dove certamente avveniva anche un controllo militare, alta sulle<br />
strade di collegamento fra il Principato Vescovile di Trento e il Veneto.<br />
Gli insediamenti sul Monte di <strong>Luserna</strong> nel XV secolo<br />
A pochi anni dall’espansione veneziana in terraferma gli assetti erano mutati<br />
nuovamente in favore dell’Impero e nel 1442 due massari sleghesi abbandonavano<br />
la montagna di <strong>Luserna</strong> (ZAMMATTEO 1999-a). La vendita impegnò<br />
direttamente i signori del Tirolo: avviata da Federico Tascavuota, fu conclusa<br />
tre anni dopo la sua morte da Sigismondo d’Asburgo.<br />
Dei due venditori, “Bregente seu Helfle habitabat in Valle Astigi” e “Blasius,<br />
filius quondam Ser Brigenti di <strong>Luserna</strong>, - era - habitator in Asiago”. Per lunga<br />
tradizione ancora nel XIX secolo una parte significativa del paese era di “comunisti<br />
sleghesi”.<br />
Il prenome “da <strong>Luserna</strong>” è documentato nel Seicento: all’inizio del secolo<br />
nelle Anagrafi dei nati di Brancafora compaiono per la prima volta gli abitanti<br />
stanziali, fra cui Angela e Barbera, figlie di Zanin, che compaiono come testimoni<br />
di un battesimo.<br />
Sullo sfondo delle vicende quattrocentesche è possibile riconoscere i motivi<br />
che portarono alla costituzione dell’insediamento e le sue caratteristiche. Come<br />
si vedrà in dettaglio più avanti, la casa tradizionale si articolava sullo stesso<br />
modello delle malghe provvisorie e delle casàre, che l’hanno preceduta.<br />
I primi nuclei stanziali risalgono al XVII secolo. La scelta dei terrazzamenti, su<br />
cui sorgono <strong>Luserna</strong> e Tezze, è dovuto alla loro posizione invidiabile, che nel<br />
Seicento attrasse famiglie da Asiago, Lavarone, Roncegno e Terragnolo, ma<br />
che già da tempo aveva convinto i fruitori del pascolo a realizzare lì i primi edifici<br />
destinati all’alpeggio.<br />
“In un ambiente ostile per condizionamenti naturali come la montagna alpina la formazione<br />
di un primordiale habitat permanente non poteva che essere opera collettiva di gruppo.<br />
Mai per iniziativa di un singolo, ma solamente nella unione delle forze di più individui<br />
era possibile vincere le avversità e perdurare attraverso lunghi inverni spesso in completo<br />
isolamento. Del resto le strutture insediative di popolazioni primitive sono sempre e dappertutto<br />
di forma aggregata. Le organizzazioni comunitarie agro-pastorali, legate a sedi annucleate,<br />
presenti quasi ovunque nella nostra montagna, non dovrebbero avere altra origine ”<br />
(GELLNER 1988, pp. 73-75).<br />
Oggetto della vendita del 1442 erano stati quattro “mansi”; Campo Rosà, il<br />
Bisele e i due, che costituirono la premessa al paese. Non si trattava delle “abitazioni<br />
stanziali a insediamento sparso di tipo tedesco”, quelle che rispondono<br />
ad una classificazione piuttosto fragile in voga fino a un decennio fa. Varie attestazioni<br />
fra le costruzioni di montagna riguardano invece le stallefienile, una
80<br />
Paolo Zammatteo<br />
evoluzione degli antichi ovili consortili, come quelli che ancora punteggiano gli<br />
altipiani.<br />
Le stallefienile si rinvengono in altre aree colonizzate dai Bavaresi, come il<br />
Cantone dei Grigioni e il Ticinese. Ad Agordo il “mas” è un rustico stanziale,<br />
dotato di stalle, magazzini, pascoli e annessi sufficienti all’autosostentamento,<br />
che serviva come riferimento sulle quote per il bestiame delle piccole comunità<br />
rurali stanziate in valle. Si tratta di quella matrice insediativa prossimale (FO-<br />
RENZA, ZAMMATTEO 1997), aggregato minimo delle funzioni di malga e<br />
pagliaio, che i tedeschi accomunano nel termine Alme e si può tradurre con<br />
“alpe”.<br />
L’atto del 1442 simboleggia idealmente il sopraggiungere di tempi nuovi:<br />
grazie ai massari lavaronesi, che furono anche testi alla stesura dell’atto,<br />
l’assetto del monte si sarebbe rafforzato notevolmente.<br />
Il primo era Pietro Osell del fu ser Bertoldo di Lavarone. A Tezze la tradizione<br />
riporta che la prima abitazione fu Maso Hoseli. Probabilmente si trovava<br />
al Pletz del Motze (Tezze), un sito sfruttato già in preistoria, ricchissimo di scorie<br />
di fusione, che per questi motivi doveva costituire un pianoro di grande interesse.<br />
Inoltre la scoria garantiva la salubrità e uno straordinario drenaggio “innaturale”<br />
del suolo. L’ultimo atto ufficiale in cui compaiono gli Hoseli è del<br />
1710 (Aggiustamento et aggregazione rispettivamente dell’honoranda comunità di Lavarone<br />
con li vicini di <strong>Luserna</strong>). Il documento, che riguarda il tentativo di separarsi da Lavarone,<br />
viene sottoscritto da “Sebastian e Cristian q.[uondam] GB. Huesele”.<br />
Un altro testimone fu Nicolusso del fu Bertoldo di Lavarone: per tradizione<br />
<strong>Luserna</strong> (frazione) sarebbe nata proprio dal Maso dei Nicolussi (fra i tanti tratti<br />
opacizzati da una storiografia parziale ed approssimativa ci sono proprio le attestazioni<br />
delle famiglie. Una prova evidente della “elasticità” nell’uso dei nomi<br />
personali è il caso della famiglia Pedrazza).<br />
Vari atti, successivi al 1442 e ricompresi in mezzo secolo, documentano<br />
l’espansione delle “Almen”.<br />
Nel 1454: alcuni uomini di Lavarone giungevano a <strong>Luserna</strong> come livellari<br />
della Curazia di Brancafora; nel 1469: il doge di Venezia, Cristoforo Moro, inviava<br />
una ducale a Giacomo Trapp (insediatosi a Caldonazzo nel 1461), chiedendogli<br />
di intervenire a favore del Rettore - beneficiario di Brancafora in merito<br />
all’affitto dei pascoli di <strong>Luserna</strong>, che i malgari di <strong>Luserna</strong> si ostinavano a<br />
non corrispondere malgrado una sentenza già emessa contro di loro; nel 1471:<br />
il dinasta di Caldonazzo, allo scopo di risolvere la questione del confine, interrogò<br />
vari testimoni della zona (illi in et super dictis mansibus et in valle Astigi):<br />
Liserna comparirà in quattro deposizioni; nel 1480: l’atto di insediamento del<br />
nuovo curato di Pedemonte recita: “Licenza di esercitare la cura d’anime, se<br />
pur ve ne sono…”; nel 1487: durante la guerra veneta gli altipiani vennero occupati<br />
dalla Serenissima. Dopo la pace i massari di origine lavaronese, che fino
L’architettura di <strong>Luserna</strong> dalle origini al 1800 81<br />
ad allora avevano ottenuto a livello poderi sulla montagna di <strong>Luserna</strong>, supplicarono<br />
di poterne ancora fruire, pagando ogni anno 36 lire. La concessione giunse<br />
con una ducale (REICH, 1970, p. 211-216); nel 1488: negli Atti Visitali di<br />
Padova risulta che “i redditi di questa chiesa (Brancafora) … provengono<br />
dall’affitto di un monte che tengono quelli di Lavarone e in tre masi posti sul<br />
monte che affittano per trentasei troni e in ottanta stari di milio secondo la misura<br />
di Trento che vengono raccolti nella zona di Levico …”; nel 1492: già da<br />
venticinque anni la montagna di <strong>Luserna</strong> era data in locazione al nob. Giovanni<br />
da Porto di Vicenza.<br />
Alla metà del Cinquecento l’Urbario di Corte di Caldonazzo si opponeva<br />
apertamente agli antichi diritti della Curazia di Brancafora, e nel 1633<br />
li Niclussi e Gaspari da <strong>Luserna</strong> possedono due masi sopra il d.o monte, uno d.o il maso<br />
di Niclussi e l’altro d. dei Hoseli, delli quali pagano la decima omnium nascentium et colligientum.<br />
Li malgheri del Bisele pagano annualmente formaggio L 33. Et questo mi viene<br />
impedito contro ogni ragione dal sig. Barone. Il Sig. D.o Giov. Cristoforo dall’Echo paga<br />
livello per il campo di <strong>Luserna</strong> annualmente (ARCHIVIO VESCOVILE DI PA-<br />
DOVA, Atti Visitali, 1633).<br />
La differenza fra le malghe e i masi era nella maggiore complessità delle<br />
funzioni ospitate: ma il termine maso, da solo, non basta a definire l’esistenza<br />
di un insediamento stanziale.<br />
Verso il paese di <strong>Luserna</strong><br />
Brancafora era una “villa”, un paese, già nel 1385.<br />
Nei villaggi alle singole unità edilizie veniva impedito di crescere in rapporto<br />
all’incremento numerico delle famiglie. Il signore fondiario, per garantirsi la<br />
redditività derivante dall’incameramento della sovrapproduzione rispetto al<br />
consumo interno, dirottava in altre iniziative colonizzatrici l’eccesso di carico<br />
demografico e quest’ultimo veniva controllato attentamente a difesa<br />
dell’equilibrio tra risorse primarie vegetali del territorio di pertinenza e carico<br />
insediativo stesso.<br />
Anche nel regime «regoliero» di autogestione delle comunità agro-pastorali<br />
compare il divieto di formare nuove unità poderali con l’istituzione del numero<br />
chiuso dei «consortes» e vari usi consuetudinari tendevano a contenere anche il<br />
numero delle nascite.<br />
La proliferazione dei fuochi poteva infrangere il delicato equilibrio con le risorse<br />
dei pascoli, base fondamentale di sussistenza. Ii laudi (piccoli codici rurali)<br />
disciplinavano rigorosamente il rapporto tra numero di uomini, numero del bestiame<br />
e risorse dei pascoli.
82<br />
Paolo Zammatteo<br />
I masi erano nati a servizio di tutto questo ed erano fondamentali soprattutto<br />
perché incettavano le scorte di foraggio: ovvio quindi che si trovassero ai<br />
margini dell’alpe, più vicini alle “ville”, che dovevano fruirne anche nelle condizioni<br />
più critiche per l’accessibilità, quelle invernali.<br />
A <strong>Luserna</strong> tutto questo avveniva in sostanziale equilibrio con il territorio già<br />
quando era ancora esclusivamente pascolo di Brancafora. La ragione prevalente<br />
della sopravvivenza in un ambiente non facile aveva fatto emergere la dimensione<br />
radicale dell’abitazione e del ricovero, per il foraggio come per gli animali.<br />
I caratteri delle costruzioni erano vincolati solo all’esperienza e alla funzionalità.<br />
Osservando le tracce residue negli edifici attuali, emerge che la forma della<br />
casa tradizionale rispecchia le malghe e i masi. Essi erano recinti esclusivamente<br />
a “Blockbau” (le mandre e i capanni dei pastori), oppure a tecnica mista con<br />
la fondazione e parte dell’elevato in muratura per una collocazione stabile (gli<br />
stabi, i Tablat), e infine, molto più recentemente, in pietra, appoggiati praticamente<br />
sul prato o su un terrapieno che rimediasse alla pendenza del terreno. La<br />
copertura era a due falde o a capanna, in tronchi scortecciati e incrociati. Il<br />
manto del tetto era di paglia, poiché il legno entrò in uso successivamente.<br />
Una variante sfruttava lo scavo del pendio, essendo interrata per la maggior<br />
parte. Sopra l’avvolto c’era la “tézza”, una soffitta a cui si accedeva da monte, e<br />
vi si ricettava lo strame. La scelta della tezza rispetto al tipo in linea dipendeva<br />
essenzialmente dai luoghi: ma “tézza”, o tiézo, era anche il nome dato a un’erba<br />
che cresce su terreni instabili e paludosi, e non c’è dubbio che in origine quel<br />
particolare tipo di edificio avesse funzione di fienile, in quanto meglio praticabile.<br />
Altrove ben documentato divenne modello intuitivo per la successiva evoluzione<br />
delle case. Inoltre del monte di <strong>Luserna</strong> Tezze è la frazione più vicina a<br />
Pedemonte e la prima raggiunta dal sentiero; il luogo ideale per una stallafienile,<br />
appunto.<br />
L’uso della pietra come materiale di costruzione comportò dapprima<br />
l’opportunità di affiancare le funzioni di stalla e fienile (tezza, tiezo, Tetch) intorno<br />
a una sorgente, permettendo l’evoluzione di quei nuclei aggregati, chiamati<br />
masi, che sono documentati dalla metà del Quattrocento.<br />
In seguito l’uso prevalente della pietra e degli avvolti, dove il legname scortecciato<br />
si limita al tetto, dimostra una indubbia eredità delle tecniche murarie<br />
romaniche, come è ben evidente negli esempi di malga che ancora esistono nel<br />
Ticinese e nei Grigioni, sorprendentemente simili a quelli residui delle stalle e<br />
delle case di <strong>Luserna</strong>.<br />
A un certo punto nell’aggregato d’alpeggio compaiono sempre l’abitazione<br />
(il fuoco), il fienile, la lavorazione casearia: la posizione centrale della pozza o<br />
della fontana focalizza la corte, lo spazio aperto delimitato dagli edifici.<br />
Fra XVI e XVII secolo la corte, la Hof, rappresentava il genius loci dei nuovi<br />
paleo-villaggi. Al posto delle Hofen “Niclussi” e “Trogher” entrarono in uso i
L’architettura di <strong>Luserna</strong> dalle origini al 1800 83<br />
nomi di <strong>Luserna</strong> (1626), Sotto di <strong>Luserna</strong> (1629) e Tezze (1631). Mentre i caratteri<br />
tipologici degli edifici restavano quelli delle costruzioni di malga, il senso<br />
dell’abitazione cambiava, essendo ormai stanziale per tutto l’anno.<br />
Le costruzioni erano molto simili tra loro: presentavano il fronte principale<br />
verso il sole, erano a un solo piano e di dimensioni modeste, spesso con la stalla<br />
e l’abitazione distinti ma sotto uno stesso tetto. Avevano sistematicamente<br />
da uno a quattro vani e una o due porte verso l’esterno: tutte le aperture erano<br />
piccole e rigorosamente sul fronte principale, i soffitti, molto bassi, erano ad<br />
avvolto in tutti i locali. Considerando che l’insediamento di Brentonico, sul<br />
Monte Baldo, è di origine analoga a quella di <strong>Luserna</strong>, e che lì si ricorda una<br />
tecnica costruttiva degli avvolti piuttosto curiosa, possiamo ipotizzare che lo<br />
stesso metodo venisse utilizzato anche qui. La realizzazione di queste cellule<br />
sfruttava un principio semplice e geniale. I ricoveri venivano realizzati<br />
d’inverno e soprattutto per l’inverno: altrimenti, la vita e tutti i suoi rituali si<br />
svolgevano di consuetudine all’aperto. Il fronte del pendio veniva scavato dalla<br />
parte avversa al vento di monte, che qui a <strong>Luserna</strong> scende da settentrione ed è<br />
particolarmente freddo. Poi si raccoglieva la neve circostante all’interno dello<br />
scavo, che era di circa tre metri per quattro di profondità, le si dava la forma<br />
dell’avvolto e si faceva congelare, gettando acqua sopra lo stampo così ottenuto.<br />
Su questa centina fornita dalla natura si impostava la volta a secco, utilizzando<br />
il pietrame emerso durante lo scavo: infine, sopra l’avvolto si rigettava il<br />
terreno di risulta, che di solito era argilloso. La primavera ed il disgelo collaboravano<br />
alla realizzazione di questo piccolo tunnel.<br />
L’intonaco non c’era: la calce, poca, serviva solo per appoggiare sul terreno<br />
una fondazione precaria: come legante si usava la terra argillosa del posto.<br />
L’assenza di fondazioni e malta è sopravvissuta fino all’inizio del secolo scorso,<br />
mentre l’uso del legno non sbozzato per le travi del tetto trova una corrispondenza<br />
sorprendente con le abitazioni protostoriche di Castelletto di Rotzo.<br />
<strong>Luserna</strong> è anche il confine. L’occupazione lavaronese inizialmente si era limitata<br />
all’affitto dei pascoli da Brancafora. Ma in un arco di tempo circoscritto<br />
in un secolo, il XVI, l’insediamento divenne stabile e agli albori del 1600 gli atti<br />
ecclesiastici registrano le prime nascite, seppure ancora rare.<br />
Un nuovo flusso migratorio in entrata doveva farsi sentire di lì a poco, probabilmente<br />
nel contesto della grande piaga, la peste del 1628-31. Pochi anni più in<br />
là i nuovi abitanti avrebbero chiesto una chiesa propria e l’indipendenza da Lavarone.<br />
A contorno della nascita di <strong>Luserna</strong> vanno considerate la contemporaneità e<br />
la coincidenza di due grandi questioni:<br />
nel 1508-1509 la guerra cambraica aveva già portato con sé la peste, che<br />
risulta avesse decimato la popolazione delle contrade soggette a livello<br />
di Brancafora, imponendo senz’altro la necessità di un nuovo assetto
84<br />
Paolo Zammatteo<br />
nell’equilibrio fra popolazione e quadro ambientale, quindi nuove affittanze;<br />
il “livello perpetuo”, registrato ancora nella Carta di Regola di <strong>Luserna</strong><br />
del 1780, dimostra l’esistenza di una situazione “patrimoniale”<br />
vantaggiosa.<br />
Inoltre durante l’analisi degli stili di insediamento, all’interno del paese<br />
si sono rilevate altre due condizioni:<br />
i sistemi ambientali sono dati dalla coincidenza fra case, corte interna<br />
(la Hof), pozzo e fontana;<br />
la datazione dell’insediamento stanziale al XVI secolo trova motivi di<br />
riferimento in un assetto più generale, con la diffusione di una tipologia<br />
costruttiva analoga anche nelle sue forme evolutive.<br />
Occorre negare l’infallibilità della tradizione orale, che ribadirebbe una originalità<br />
culturale di <strong>Luserna</strong> “paese di pietra”. Il paesaggio tradizionale non si<br />
giustifica in una particolare maestria nei vecchi paramenti murari (la cui tecnica<br />
è qui particolarmente discutibile), ma trova ragion d’essere in una matrice culturale<br />
europea comune, “romanica” e diffusa sull’alpe.<br />
L’Ottocento<br />
Necessariamente, con la crescita in relazione ravvicinata fra casa e rustico<br />
sarebbe anche cambiata la concezione dell’unità abitativa e del “fuoco”, che<br />
non poteva più corrispondere al singolo gruppo famigliare. La pianta del piano<br />
terreno si sdoppiava. Talvolta sopra ne veniva aggiunto un altro del tutto uguale<br />
o, per influsso veneto, un vano diventava corridoio centrale di distribuzione.<br />
Prendendo spunto dalle usanze di alpeggio, sotto uno stesso tetto potevano<br />
stare più persone, raccolte in gruppi familiari estesi, quindi in ragione di rapporti<br />
parentali non particolarmente stretti. Conseguenza immediata, la cucina<br />
era in comune.<br />
Ormai il tetto, che conservava due falde o i timpani obliqui, era ricoperto<br />
con assicelle di legno, quasi esclusivamente larice, secondo un uso di importazione<br />
tirolese. Nei documenti di compravendita l’indicazione dei tetti in scandole<br />
compare alla metà del Settecento e questo sì conobbe sviluppi originali: infatti<br />
la gente degli Altipiani proteggeva le sue case tipiche, a due piani, con un manto<br />
di stéle, tavole, poste in opera a due strati anziché a tre e più grandi di quelle<br />
normali.<br />
Gli abbaini a due falde come anche la scelta di staccare dall’abitazione il rustico<br />
(stalla e aia) si resero necessari poi, a causa di una nuova concentrazione<br />
edilizia ottocentesca. Allora le abitazioni sono cresciute per numero, locali,<br />
spesso hanno guadagnato un altro piano, generalmente tamponato con murature<br />
leggere in calce e nòcciolo intrecciato.
L’architettura di <strong>Luserna</strong> dalle origini al 1800 85<br />
Al Bivio. <strong>Luserna</strong> fra il 1866 e il 1912<br />
In un ambiente ostile per condizionamenti naturali come la montagna alpina la formazione<br />
di un primordiale habitat permanente non poteva che essere opera collettiva di gruppo.<br />
Mai per iniziativa di un singolo, ma solamente nella unione delle forze di più individui era<br />
possibile vincere le avversità e perdurare attraverso lunghi inverni spesso in completo isolamento.<br />
Del resto le strutture insediative di popolazioni primitive sono sempre e dappertutto<br />
di forma aggregata. Le organizzazioni comunitarie agro-pastorali, legate a sedi annucleate,<br />
presenti quasi ovunque nella nostra montagna, non dovrebbero avere altra origine (GEL-<br />
LNER 1988, pp. 73-75).<br />
<strong>Luserna</strong>, per le sue particolari condizioni, poté recepire questi precetti solo<br />
molto tardi, dopo lunghe trattative per l’autonomia della comunità, che si risolsero<br />
nel 1780. Malgrado ciò la realtà insediativa di <strong>Luserna</strong> è un caso emblematico<br />
della relazione stretta tra gruppo e ambiente orografico alpino e di quanto<br />
poi le culture nazionali ottocentesche abbiano modificato la concezione e la<br />
struttura stessa del territorio. Su tutta la montagna l’effetto di queste posizioni<br />
si legge nella qualità architettonica delle costruzioni, nelle strade, ma anche nelle<br />
interpretazioni storiche dell’insediamento.<br />
Ma la particolarità del dialetto in uso e la collocazione puntuale in un contesto<br />
ormai italianizzato si sovrappongono ad uno stato di marginalità originaria,<br />
con motivi ulteriori rispetto a quello già forte del confine. Vi si legge<br />
l’accettazione, probabilmente volontaria, del “confine come spazio del malinteso”.<br />
Il malinteso è, nella definizione che ne dà V. Jankélévitch, quel che permette<br />
agli uomini di continuare a non capirsi. È quel che ci permette di dire<br />
che “noi” non siamo proprio uguali “agli altri”. ... Più il tempo passa e più il malinteso si<br />
consolida, si radica nell’uso e diventa difficile se non pericoloso cercare di risolverlo e di<br />
chiarirlo (ZANINI 1997).<br />
Se si guarda alla storia del Monte di <strong>Luserna</strong> e dei suoi abitanti - e non basta<br />
riferirsi alla sopravvivenza del dialetto originario – si ha una prova formidabile<br />
della solidità di quella affermazione.<br />
Per tutto quanto attiene la progettazione, nella seconda metà dell’Ottocento<br />
si diffuse una concezione propriamente occidentale, che in architettura è vincolata<br />
alle geometrie e ai modelli teorici: a <strong>Luserna</strong> apparve assieme a nuove funzioni,<br />
come le scuole e gli alberghi, quando giunsero le ideologie risorgimentali<br />
e pangermaniste, un’ultima guerra di indipendenza, la prima di dimensioni<br />
mondiali e l’emigrazione coatta degli optanti: ma l’imprinting dell’alpe rimane<br />
ed è impresso nel palinsesto dei muri, delle scale esterne e delle case in pietra.
72<br />
Paolo Zammatteo<br />
mento, evidenziò come le travature fossero direttamente appoggiate sulle sabbie<br />
della riva, talvolta su delle pietre piane 3 ”.<br />
In Italia lo studio dell'edilizia altomedievale in materiale deperibile non è ancora<br />
stato affrontato sistematicamente: nonostante questi limiti ed in quanto lo<br />
studio dell’edilizia altomedievale in materiale deperibile non conosce, a livello<br />
europeo, una tipologia omnicomprensiva, all’interno della tradizione italiana<br />
sono osservabili alcune tendenze di massima geograficamente riconoscibili.<br />
Capanne costruite esclusivamente in legno sono rintracciabili solo nel cuore<br />
della pianura padana e nelle zone prealpine o alpine 4 , in aree e luoghi lontani da<br />
cave e da resti emergenti di età romana da cui recuperare materiali edilizi. In<br />
ambito urbano la situazione muta sensibilmente, la tecnica costruttiva più diffusa<br />
è quella mista, consistente nell'uso di legno-fibre vegetali assieme a materiali<br />
di reimpiego (quali pietra e laterizio, spesso ruderi di murature sulle quali si<br />
impostano le capanne stesse).<br />
L'applicazione della tecnica mista è caratteristica della situazione italiana, infatti<br />
non si trova nel resto dell'Europa un solo confronto per edifici di questo<br />
tipo. Lo stesso vale per le costruzioni in terra, finora attestate solo in Abruzzo<br />
e in Toscana.<br />
Diventa necessario, oltre che interessante, ricostruire quante tipologie sono<br />
riscontrabili in Europa e come si presentano in edifici risalenti al medioevo e<br />
realizzati parzialmente o del tutto in legno.<br />
Si è scelto di distinguere le singole partiture delle costruzioni per categorie, in<br />
modo da rendere più agevole la comprensione di un ipotetico nuovo reperto<br />
Pianta<br />
rettangolare<br />
quadrata<br />
trapezoidale<br />
esagonale<br />
ellittica<br />
circolare<br />
irregolare<br />
longhouse rettangolare<br />
longhouse a barca<br />
3 Liberamente tratto da BASSI C., CAVADA E. 1994, Aspetti dell’edilizia residenziale alpina<br />
tra l’età classica e il medioevo, Trento.<br />
4 Ibidem.
86<br />
Paolo Zammatteo<br />
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI E DI ARCHIVIO<br />
ARCHIVIO VESCOVILE DI PADOVA, Atti Visitali, 1633.<br />
BACHER J. 1905, Die deutsche Sprachinsel Lusern, Wagner’sche Universitäts-<br />
Buchhandlung, Innsbruck.<br />
BELLINTANI P. s. d., Un pugnale dell’età del bronzo dal Monte Civerone, Ufficio<br />
Beni Archeologici della Provincia Autonoma di Trento.<br />
BIBLIOTECA COMUNALE DI TRENTO, ms. 2405, n. 28.<br />
BIBLIOTECA COMUNALE DI TRENTO, ms. 2890.<br />
CENTRO DOCUMENTAZIONE LUSERNA (a cura di) 1998, M. Nicolussi Raut,<br />
Die Vergessenen von Lusern, Athesia, Bolzano.<br />
FORENZA S., ZAMMATTEO P. 1997, Cimbri e Mocheni – I segni della storia, mostra,<br />
Trento 12-23 dicembre.<br />
GELLNER E. 1988, Architettura rurale nelle Dolomiti venete, Edizioni Dolomiti,<br />
Cortina d’Ampezzo.<br />
GORFER A. 1980, Il Castello di Beseno nel Trentino, Assessorato alle attività culturali<br />
della Provincia Autonoma di Trento.<br />
LANZINGER M., MARZATICO F., PEDROTTI A. (a cura di) 2001, Storia del<br />
Trentino, Vol. I – La Preistoria e la Protostoria, Il Mulino, Bologna, p. 456.<br />
PASSARDI P., ZAMMATTEO P. 2004, Le miniere del Mandola in Valsugana, Museo<br />
Tridentino di Scienze Naturali, Monografie 1, Trento.<br />
REICH D. 1973, Notizie e documenti su Lavarone e dintorni, Seiser, Trento.<br />
SELLAN G. 1979, Costituzione di una famiglia mòchena e della proprietà fondiaria<br />
nel tempo, in “La Valle del Fèrsina e le isole linguistiche di origine tedesca<br />
nel Trentino. Atti del Convegno a cura di G. B. Pellegrini e M. Gretter. S.<br />
Orsola (Trento) 1 – 3 settembre 1978”, Museo degli Usi e Costumi della<br />
Gente Trentina, San Michele all’Adige.<br />
ZAMMATTEO P. 1999, <strong>Luserna</strong>. Introduzione storica, in “<strong>Luserna</strong>. Emigrazione”,<br />
Convegno, <strong>Centro</strong> <strong>Documentazione</strong> <strong>Luserna</strong>, <strong>Luserna</strong> 10 giugno 1999.<br />
ZAMMATTEO P. 2000, La metallurgia preindustriale a Levico, in FORENZA N.,<br />
LIBARDI M. (a cura di) 2000, Levico: i segni della storia, Cassa Rurale di<br />
Levico, Levico Terme.<br />
ZAMMATTEO P. 2001, La “pianura” vista dagli altipiani, in “L’Aquilone”, n. 23-24,<br />
dicembre 2001.<br />
ZANINI P. 1997, I significati del confine – i limiti naturali, storici, mentali, Laterza,<br />
Bari.
ARCHEOLOGIA DI FRONTIERA: IL PROGETTO “AD METALLA”<br />
Armando De Guio<br />
1. Premessa<br />
Il flusso critico di questo contributo procede da una delineazione del particolare<br />
contenitore (Progetto “Ad Metalla”) in cui si struttura la nostra ricerca<br />
per poi procedere all’illustrazione di alcuni casi di studio.<br />
Il titolo del progetto individua uno dei filoni centrali di indagine (archeometallurgia),<br />
evocando, con enfatica auto-ironia, l’espressione giuridica romana di<br />
condanna ai lavori forzati nelle miniere e rimandando al contempo all’apporto<br />
cruciale del mondo romano nell’implementazione della prima fondamentale<br />
“rivoluzione industriale” di settore (cfr. l’impiego di scala di risorse umane e di<br />
macchine ellenistiche dedicate alle tecnologie estrattivo-fusorie/siderurgiche) e<br />
alla valenza stessa del latino quale “lingua franca” del sapere antico sui processi<br />
metallurgici (cfr. il phylum genetico ideale dalla Naturalis Historia di Plinio al De<br />
Re Metallica del 1556 dell’Agricola ossia del sassone Geoge Bauer). Il concetto<br />
stesso, portante e ricorrente, di “via dei metalli”, applicato in modo emblematico<br />
proprio al territorio degli Altipiani (cfr. oltre), è assunto sia nella sua più diretta<br />
accezione (rete di percorsi strutturati dedicati, di varia tipologia, epoca,<br />
funzione e risoluzione, dal locale al transregionale), che come metafora di tutta<br />
una serie di “percorsi critici” del circuito minerario-metallurgico, da quelli, a<br />
grana fine, delle singole “catene operative” dei vari metalli, a quello sociotecnico<br />
di vettore portante dell’intero sistema di civilizzazione europea dalla prima<br />
età del rame all’epoca contemporanea.<br />
2. Il progetto “Ad Metalla”<br />
Denominazione del progetto:<br />
“Ad Metalla”.<br />
Soggetti proponenti:<br />
Università di Padova;<br />
Università di Nottingham;
88<br />
Armando De Guio<br />
Soprintendenza per i Beni Archeologici (TN) 1 ;<br />
Amministrazione delle risorse culturali e linee generali di indirizzo:<br />
Soprintendenza per i Beni Archeologici (TN).<br />
Coordinamento tecnico-logistico:<br />
C.I.S.A.S. (<strong>Centro</strong> Internazionale di Studi di Archeologia di Superficie) 2<br />
Partnership amministrativa mirata:<br />
Regione Trentino-Alto Adige;<br />
Regione Veneto;<br />
Provincia di Vicenza;<br />
Provincia Autonoma di Trento;<br />
Amministrazione comunale di <strong>Luserna</strong>;<br />
Amministrazione comunale di Borgo Valsugana;<br />
Amministrazione comunale di Calceranica;<br />
Amministrazione comunale di Lavarone;<br />
Amministrazione comunale di Levico;<br />
Amministrazione comunale di Rotzo.<br />
Patti d’area transregionali di cornice:<br />
Programma transregionale “GRANDI ALTIPIANI”: Regione Veneto,<br />
Provincia Autonoma di Trento, Comunità Montana – Spettabile Reggenza dei<br />
Sette Comuni, Comune di Rotzo, Consorzio usi Civici Rotzo – S. Pietro – Pedescala,<br />
Comune di Roana, Comune di <strong>Luserna</strong>, Comune di Lavarone, Comune<br />
di Levico Terme. Tale contesto geografico e amministrativo vale a costituire<br />
uno specifico dominio spaziale “allargato” di applicazione di questo progetto,<br />
con riferimento mirato alla realizzazione di una rete integrata di monitoraggio/valorizzazione<br />
e amministrazione delle risorse imperniata su di un tessuto<br />
di “percorsi tematici” connettivi (cfr. infra).<br />
1 Denominazione attuale (in precedenza “Servizio Beni Culturali - Ufficio Beni Archeologici”)<br />
2 Il <strong>Centro</strong> è una struttura di ricerca del Dipartimento di Scienze dell’Antichità-Univ. Padova,<br />
che opera in cooperazione con vari soggetti istituzionali (in particolare: Università di Londra,<br />
Nottingham, Napoli, Boston e ACCORDIA Research Centre-Londra) e nella cornice<br />
di una collaborazione organica con la Soprintendenza Archeologica per il Veneto e la Soprintendenza<br />
per i Beni Archeologici (TN).
Archeologia di frontiera: il progetto “Ad Metalla” 89<br />
Obiettivo principale di fondo perseguito:<br />
Massivo e qualificato rilancio del territorio degli altopiani in quanto eccezionale<br />
(ma ancora precariamente “attualizzato” e “valorizzato”) contenitore di<br />
risorse.<br />
La finalità in oggetto viene perseguita attraverso un progetto articolato di<br />
acquisizione conoscitiva, valorizzazione, tutela, presentazione e offerta di modelli<br />
di fruizione, aperto alle suggestioni sperimentali d’avanguardia (in particolare<br />
utilizzo dei veicoli di informazione multi-ipermediale) ora dischiuse alle<br />
nuove classi di consumo di un’emergente “società post-industriale”. Un tratto<br />
ubiquitariamente emergente, al riguardo, è offerto dalla progressiva ed epidemica<br />
affermazione di un modello di turismo culturale sempre più attento ad un<br />
impatto diretto – fisico ed emozionale – con un arco crescente di risorse e, al<br />
contempo, sempre più esigente e selettivo sulla gamma di infrastrutture informative<br />
e promozionali di supporto (sia remote che localizzate in situ).<br />
Ambito spaziale di applicazione (figs. 1-2):<br />
Altipiani di Vezzena-Lavarone-<strong>Luserna</strong>, con estensione per la delineazione<br />
di percorsi tematici connettivi (cfr. oltre) ai territori contigui interessati e con<br />
particolare riferimento al programma transregionale “GRANDI ALTIPIANI”<br />
succitato.<br />
Ambito tematico di applicazione:<br />
Analisi, valutazione, valorizzazione (Public Archaeology, Turismo Culturale ed<br />
Ambientale), monitoraggio (Risk Assessment) e amministrazione delle risorse<br />
culturali (CRM: Cultural Resource Management) ed eco-clulturali (“ECRM”= Eco-<br />
Cultural Resource Management) del territorio. Dominio centrale mirato di interesse:<br />
Archeologia ed Etnoarcheologia. Topica centrale: Metallurgia del ramebronzo.<br />
Parole - chiave:<br />
archeologia;<br />
etnoarcheologia;<br />
etnografia;<br />
tradizioni popolari;<br />
archeometallurgia;<br />
chaînes opératiores;<br />
landscape ecology & archaeology;
90<br />
Armando De Guio<br />
longue durée;<br />
fossil landscapes;<br />
cognitivismo & “archaeology of the mind”;<br />
public archaeology;<br />
crm (cultural resource management);<br />
ecrm(eco cultural resource management);<br />
economia dei beni eco-culturali & heritage industry ;<br />
turismo eco-culturale;<br />
recupero della “marginalità”;<br />
vulnerabilità;<br />
abbandono;<br />
sviluppo sostenibile;<br />
sistemi informativi territoriali.<br />
Domini di competenza ed expertise:<br />
Scienze Geologiche, Geografiche (in particolare G.I.S.), Ecologiche, Archeologia<br />
(Preistorica, Classica, Medioevale, Postmedioevale, Industriale, “Attualistica”,<br />
Sperimentale, Etnoarcheologia, Rescue Archaeology, Public Archaeology, Eco-<br />
Cultural Resource Management, Landscape Archaeology), Storia (“evenemenziale”,<br />
“congiunturale” e – soprattutto – di “lunga durata”, “Local vs Global History”,<br />
“Oral History”…), Antropologia Culturale, Etnografia, Studi di Folklore e<br />
Tradizioni Popolari, Toponomastica, “Material Culture Studies”, Sociologia (ad<br />
es. “Social Action”, “Sociologia della Produzione”), Scienze Economiche<br />
(“Micro vs Macro Economy”), Scienze Turistiche, Storia dell’Arte, Scienze della<br />
Pianificazione Territoriale (Planning, Studi d’Impatto Ambientale…), Scienze<br />
Architettoniche (es. Progettazione Parchi).<br />
Topiche di dettaglio:<br />
“Archeologia” in genere:<br />
Siti e ritrovamenti preistorici, protostorici, storici e contemporanei di diretto<br />
interesse etno-archeologico o archeo-sperimentale, col loro corredo di manufatti<br />
ed eco-fatti pertinenti. Topica centrale: la catena metallurgica del rame.
Archeologia di frontiera: il progetto “Ad Metalla” 91<br />
“Archeologia della guerra” (cfr. oltre).<br />
“Altre Archeologie” e “Storie”.<br />
La “archeologia della guerra” fa parte di un pacchetto esteso di “altre archeologie”<br />
di estrazione prevalentemente etno-archeologica e etno-storica che in<br />
questi ultimi anni si stanno attivamente applicando proprio con riferimento<br />
privilegiato agli altipiani in oggetto (cfr. bibliografia allegata), ad es.:<br />
archeologia dell’abbandono o archeologia ruderale;<br />
ergologia e mestieri tradizionali;<br />
Strutture e infrastrutture produttive tradizionali;<br />
Strutture e infrastrutture non-produttive (simbolico – proiettive –<br />
cultuali…)<br />
archeologia della connettività o delle comunicazioni;<br />
archeologia dei confini;<br />
archeologia delle “masiere” (terrazzamenti);<br />
archeologia delle calcare;<br />
archeologia delle carbonare;<br />
archeologia dell’acqua (water management, infrastrutture idrauliche)<br />
archeologia del pastoralismo;<br />
archeologia dell’uccellagione (“roccoli”);<br />
archeologia del management boschivo;<br />
archeologia del contrabbando;<br />
archeologia del linguaggio (lingua viva, residuale e toponomastica);<br />
“archeologia della mente” (“cognitive maps” / tradizioni popolari e affini);<br />
Risorse “ambientali” e “paleo-ambientali”:<br />
specie vegetali;<br />
specie animali;<br />
risorse morfologiche;<br />
risorse geologiche;<br />
risorse mineralogiche e minerarie;<br />
eco-zone, fasce ecotonali e nicchie ecologiche: ambienti di particolare interesse<br />
naturalistico, per fito o bio-cenosi o morfologie, con riferimento privilegiato<br />
ad aree a rischio, soggette a diverse fonti di impatto;<br />
paleoambiente (paleoclima, paleomorfologia, paleontologia, paleoetnobotanica<br />
…).
92<br />
Armando De Guio<br />
Risorse “eco-culturali” e reti connettive:<br />
All’etichetta “eco-culturale” vorremmo innanzitutto attribuire, in<br />
un’accezione semantica iperspecifica, tutte quelle situazioni in cui una precisa<br />
constestualità spaziale fra “risorse culturali” e “risorse ambientali” costituisce<br />
un nesso tangibile, inscindibile e strutturale (pensiamo, ad esempio, alla fenomenologia<br />
ricorrente di formazioni naturali emergenti che fanno da catalizzatori<br />
emblematici dell’immaginario collettivo locale), oppure una critica contiguità<br />
topografica si presta ergonomicamente ad un percorso critico (non solo astratto-cognitivo,<br />
ma anche, più concretamente, turistico) che catturi un interesse<br />
composito, di tipo, appunto, “culturale” e naturalistico. La maggior parte dei<br />
“percorsi tematici” di valorizzazione del territorio che verranno proposti (cfr.<br />
infra) saranno specificamente indirizzati a nodi critici di tali reticolo di risorse.<br />
Lo stesso tematismo succitato della connettività assolve, in merito, ad una<br />
funzione strumentalmente virtuosa di supporto. Il percorsi proposti si snodano<br />
infatti in modo progettualmente mirato lungo una “rete” che costituisce già di<br />
per sé un’ulteriore risorsa “rinnovabile” (in virtuosa simmetria con la rete telematica/virtuale<br />
di supporto, continuamente upgradabile), in quanto ribadisce o<br />
riattiva in larga parte il tessuto di una importante percorrenza storica e tradizionale<br />
(sentieri, mulattiere, tratturi e strade) ora in buona parte disattivata, residuale<br />
o derubricata di rango e pertinente in modo privilegiato proprio al territorio<br />
di competenza mirato del Programma transregionale “GRANDI ALTI-<br />
PIANI” (dominio spaziale allargato di applicazione di questo progetto: cfr. sopra)<br />
. Tale connettività è recuperabile in loco sulla scorta, oltre che delle emergenze<br />
residue, di un’abbondante documentazione cartografica ed archivistica<br />
che restituisce, contestualmente, un’ulteriore risorsa di valore aggiunto: la toponomastica,<br />
di altissimo interesse per il marcato dinamismo sul piano diacronico-evolutivo<br />
(ad es. marginalizzazione della componente “cimbra” locale) e<br />
sincronico-spaziale (cfr. ad es. la conflittualità, tuttora diagnosticabile, fra toponimi<br />
concorrenti). Percorrere, per chi può, “a piedi” e non solo virtualmente o<br />
con mezzi meccanici questi “sentieri del nonno” è il modo migliore per scoprire,<br />
con la giusta dose di fatica, lo “scenario archeologico” e tutto lo straordinario<br />
universo di risorse eco-culturali di contesto succitate.<br />
Topiche connesse:<br />
Altre metallurgie<br />
(in particolare: catena metallurgica del ferro), supporti infrastrutturali (impianti<br />
produttivi el metallo e del carbone di legna, rete connettiva) e flussi della
Archeologia di frontiera: il progetto “Ad Metalla” 93<br />
materia prima, prodotti semifiniti e finiti, artigianato metallurgico preprotostorico,<br />
storico e tradizionale.<br />
Metodologie/tecnologie -base adottate:<br />
remote sensing & image processing;<br />
digital imagery;<br />
object/pattern/scenery recognition;<br />
prospezioni geofisiche;<br />
analytical field survey;<br />
scavo archeologico;<br />
archeometria;<br />
archeologia sperimentale;<br />
3d photo-realistic modelling;<br />
modelli simulativi e predittivi;<br />
modelli di monitoraggio delle risorse e risk-assessment;<br />
gis (geographic information system: raster/vettoriali, action - based…);<br />
virtual reality;<br />
hypermedia;<br />
internet;<br />
Principali prodotti finiti mirati e ricadute operative:<br />
rilievo e catalogazione analitica delle risorse indirizzate;<br />
pubblicazioni cartacee;<br />
pubblicazioni ipemediali e siti internet ;<br />
mostre, convegni, seminari e affini;<br />
ecrm: produzione di modelli di amministrazione delle risorse eco-culturali;<br />
public archaeology: pianificazioni di parco (“archeometallurgico”) e percorsi<br />
mono e pluri-tematici (cfr. topiche di ricerca indirizzate);<br />
monitoraggio delle risorse: (risk assessment, impact studies e simili);<br />
recupero della “marginalita”: pianificazione di interventi di recupero, restauro<br />
e riconversione in chiave di turismo eco-culturale;<br />
rilancio e/o valorizzazione di produzioni tipiche.<br />
Articolazione progettuale:<br />
a) FASE D’ISTRUZIONE (condivisione di un lessico critico concettuale, di<br />
categorie analitiche, linee progettuali ed operazionali …);
94<br />
Armando De Guio<br />
b) FASE DI IMPLEMENTAZIONE OPERATIVA:<br />
Individuazione di “Case Study Areas” (aree campione), con distribuzione<br />
ponderata nel territorio di riferimento;<br />
Analisi delle fonti: archeologiche, etnoarcheologiche, etnografiche, etnostoriche,<br />
storiche, documentarie, archivistiche, cartografiche, iconografiche,<br />
tradizioni popolari, “oral history”…;<br />
Analisi sul campo di siti noti e siti indiziati da analisi teleosservative: survey,<br />
prospezioni, décapages superficiali, saggi di scavo, scavo (ricerca “in terra<br />
cognita”) e in aree non indiziate (ricerca “in terra incognita”);<br />
Analisi sincroniche (spazio-funzionali) delle catene operative e dei flussi<br />
critici dell’organizzazione del lavoro. Ad es., per la metallurgia preprotostorica<br />
del rame: prospezione, estrazione del minerale, frantumazione,<br />
cernita-arricchimento, arrostimento, scorificazione, produzione di<br />
“pani” di metallo grezzo (“rame nero”), fusione; per la metallurgia protostorica<br />
del ferro: prospezione, estrazione del minerale, frantumazione,<br />
cernita-arricchimento, arrostimento, scorificazione, produzione di “blumo”,<br />
martellatura, fucinatura/forgiatura, carburazione, tempra…;<br />
Analisi diacronico-evolutive sulle trasformazioni nel tempo dei processi;<br />
Individuazione di cerchie produttive e tradizioni artigianali;<br />
Analisi delle modalita’ di scambio di risorse: materie prime, prodotti<br />
semifiniti e finiti, conoscenze tecniche (know-how) e non (ad es. la c.d.<br />
secret knowledge e sfera cognitiva connessa);<br />
Valutazione e catalogazione delle fonti (d-base ipermediale georeferenziato,<br />
accessibile ed aggiornabile interattivamente in rete WWW);<br />
Analisi archeometriche;<br />
Verifiche archeosperimentali sui processi produttivi;<br />
Predisposizione di modelli locali di valorizzazione delle risorse, in particolare:<br />
archeoparchi metallurgici (dall’archeologia preistorica<br />
all’archeologia industriale), percorsi tematici attrezzati (ad es. varie “vie<br />
del rame” o “vie del ferro”, “vie del contrabbando”, “vie della guerra”,<br />
“vie della calcare/carbonare”… locali e, soprattutto, ultralocalitransregionali<br />
), il più possibile ribaditi su di una rete connettiva storica<br />
(da recuperare e riattivare contestualmente), musealizzazioni (all’aperto e<br />
al chiuso: ad es. dai forni fusori dell’Età del Bronzo ai magli di epoca<br />
contemporanea, alle malghe abbandonate, ai ripari per pastori…), interventi<br />
di recupero e restauro su strutture/infrastrutture di cornice (ad es.<br />
viabilità storica, dedicata o meno, terrazzamenti, confinazioni e partizioni
Archeologia di frontiera: il progetto “Ad Metalla” 95<br />
territoriali, drenaggi e canalizzazioni), produzioni e veicolazioni multiipermediali;<br />
Predisposizione di un modello integrato di rete di valorizzazione delle<br />
risorse (su base telematica, con un’interfaccia di immediata accessibilità a<br />
diverse tipologie di amministratori e utenti finali);<br />
Predisposizione di modelli di monitoraggio (Risk Assessment, Impact Studies<br />
e simili) sullo stato delle risorse;<br />
Fase di verifica interna e cross-validazione fra case-studies;<br />
Pubblicizzazione e veicolazione multi-iper-mediale.<br />
Risorse umane:<br />
N. 20 operatori attivi remotamente e/o sul campo con competenza nelle aree<br />
di specializzazione succitate e afferenti ( o comunque proposti da) agli Entipartners<br />
succitati (in particolare: Università di Padova, Università di Nottingham,<br />
Boston University, Soprintendenza per i Beni Archeologici-TN).<br />
Risorse tecnico-strumentali e Know-How:<br />
In particolare: attrezzatura di rilievo, informatica, software di analisi teleosservativa<br />
ed archeometrica: in larga parte già in possesso agli Enti promotori e<br />
partners scientifici succitati.<br />
Articolazione/schedulazione temporale:<br />
Progetto pluriennale (2002-2010) con meta-regola di riferimento: ogni anno<br />
rappresenta un’unità produttiva conchiusa e autosufficiente in merito alle quattro<br />
macro-aree di attività su delineate: 1) ricerca remota; 2) ricerca sul campo;<br />
3) attività promozionale (mostre/convegni, pubblicazioni cartacee e multiipermediali);<br />
4) Archeologia Pubblica ed ECRM (progettazione di percorsi tematici<br />
e di modelli di monitoraggio e valorizzazione delle risorse e di monitoraggio).<br />
I punti 1-4 vedranno un crescendo di attività culminante, nell’anno finale<br />
2010, di un progetto organico ed integrato di rete di valorizzazione delle risorse<br />
in oggetto e delle infrastrutture di supporto.<br />
I 20 operatori medi stimati allocheranno, nell’arco cronologico in oggetto,<br />
un tempo-medio stimato di 60 giorni lavorativi l’anno.
96<br />
Armando De Guio<br />
3. Archeologia del nonno<br />
L’etnoarcheologia, specie nelle sue formulazioni più recenti e robuste (cfr.<br />
ad es. DAVID, KRAMER 2001), rappresenta una disciplina nodale per<br />
l’avanzamento della teoria e del metodo dell’archeologia tout-court. La sua particolare<br />
prospettiva epistemologica e operazionale di connetività-ponte fra la<br />
dinamicità dei sistemi socioculturali e la statica del record archeologico consente<br />
“applicazioni” ad alta risoluzione su processi formativi di diversa escursione<br />
temporale, spaziale e funzionale (dalla longue durée, al congiunturale,<br />
all’evenemenziale), illuminando interi scenari di restituzione “visitabili” ed esplorabili<br />
a loro volta in chiave euristica da altre “stutture di riferimento” e “visioni”<br />
pertinenti a comparti disciplinari contigui e felicemente “contaminabili”,<br />
dalla “Archeologia Cognitiva”, alla “Archeologia Attoriale” (Social Action<br />
Theory), ai “Material Culture Studies” e fino ai più sofisticati “programmi” di<br />
“Action-Based GIS” e di “Artificial Societies”(cfr. DE GUIO 2000).<br />
Nell’ambito del nostro progetto si è proceduto ad allocare al comparto etnoarcheologico<br />
una articolata strategia di indagine, dal Remote Sensing, al Field<br />
Survey, al microrilievo, alle prospezioni, allo scavo, per approdare poi, sulla base<br />
di un articolato d-base georeferenziato, ad un fitto tessuto di modelli di visitazione-esplorazione<br />
“euristica” da “Virtual Archeaology” e di analisi GIS (Geographic<br />
Information Systems) sia sicroniche (ad es. slope, aspect, distance, visibility,<br />
cost-path) che diacroniche (time series analysis). Fra le varie stutture/infrastrutture<br />
offerte dal territorio (cfr. sopra) si sono isolati, in particolare, tre principali domini<br />
specifici di indagine selettiva, cui applicare altrettanti sotto-progetti: carbonare,<br />
calcare, alpeggio.<br />
L’ultimo tema sta in particolare assorbendo il maggior investimento energetico,<br />
con un articolato piano di interventi mirati sull’intero territorio in oggetto<br />
e su di un’area-pilota (loc. “Croiere”) ad alta intensità di copertura (cfr. anche la<br />
tesi di laurea dedicata di VICARI 2002-3, qui utilizzata proprio come fonte<br />
primaria di informazione).<br />
L’alpeggio ha certamente origini molto antiche ed una vastissima distribuzione<br />
spaziale: a livello locale (regionale) ritrovamenti come quelli di Storo -<br />
malga Vacil attestano già con sicurezza a partire dal Bronzo Medio la presenza<br />
nelle praterie in quota (1.700 m s.l.m) di resti pollinici di piantaggine (Plantago<br />
lanceolata) associati a resti strutturali (buche da palo) ed arte-ecofattuali (LAN-<br />
ZINGER, MARZATICO, PEDROTTI 2001), ma appare molto verosimile<br />
che già la cultura neolitica dei VBQ (Vasi a Bocca Quadrata) praticasse, ad es.<br />
nel contiguo comparto lessino, un regime articolato di transumanza, funzionalmente<br />
connesso all’esplorazione stagionale e successiva veicolazione ultraregionale<br />
della selce (cfr. BIAGI 1990 e in particolare BARFIELD 1990).<br />
Sul piano etnoarcheologico/etnostorico locale è di particolare interesse la<br />
struttura “tradizionale” delle “malghe” (fig. 3-4):
Archeologia di frontiera: il progetto “Ad Metalla” 97<br />
Il termine malga presenta un’accezione ambivalente, potendo indicare sia il<br />
pascolo alpino nel suo complesso (più propriamente “alpe”), come insieme dei<br />
prati e degli edifici di ricovero e di trasformazione del latte, sia il solo edificio<br />
rustico ivi presente.<br />
Malgrado la notevole variabilità delle malghe in oggetto, connessa alla marcata<br />
escursione (spazio/temporale/funzionale) in gioco, possiamo isolare (talora<br />
con il supporto di specifica dicitura differenziata in italiano, cimbro, valsuganotto<br />
e vicentino) il seguente quadro informativo (cfr. VICARI 2002-2003).<br />
A) Unità strutturali ricorrenti.<br />
L’alpe può iscrivere una varietà si costruzioni varianti per numero e forma e<br />
separate l’una dall’altra oppure riunite in un unico blocco:<br />
La malga: cim. di Khésar (-n) (F.O, N.V.C); khèzara (-arn) (D.L.C.S.C.Vic.);<br />
vals. caşèra, caşèra da fogo (D.V); cašàra (S.E.A.V.); vic. cašara (V.T.D.T.Vic.,<br />
L.C., V.D.Vic., D.Vic.I.I.Vic.); bàito del fogo (L.C.); barco da fogo (L.C.).<br />
La cella del latte: cim. di milchkhesar (-n) (F.O); vals. caşarìn dal late (D.V.);<br />
vic. caşélo (L.C.); caşarìn (L.C.); caşélo dela late (L.C.); latarólo (L.C.).<br />
La caciaia: cim. di kheskhesar (-n) (F.O.); vals. casarìn (D.V.); vic. caşara<br />
(L.C.); caşarìn (L.C.); caşerìn (L.C.); caşélo (L.C.).<br />
La stalla: cim. la stalla – dar stal (di stèl) (N.V.C.); stall (D.L.C.S.C.Vic.); lo<br />
stallone – da stalú (F.O); vals. la stalla – stala (D.V., S.E.A.V.); lo stallone<br />
stalón (D.V.); barco (D.V.); vic. la stalla – stala (V.T.D.T.Vic., V.D.Vic.,<br />
D.Vic.I.I.Vic.); lo stallone – stalón (V.T.D.T.Vic., L.C., V.D.Vic.); il ricovero-<br />
pendana (F.O., L.C.).<br />
Il porcile: cim. dar stalot (di stalöt) (F.O.); dar sbàinstall (D.L.C.S.C.Vic.); vals.<br />
stalòto (S.E.A.V.); vic. stalòto del màs-cio (V.T.D.T.Vic., L.C., V.D.Vic.); porzile<br />
(V.T.D.T.Vic.); porzilòtò (V.T.D.T.Vic.); scòto (V.T.D.T.Vic.); stia del màscio<br />
(V.T.D.T.Vic., L.C.); staloto da mas-ci (D.Vic.I.I.Vic.).<br />
B) Unità infrastrutturali ricorrenti:<br />
Connettività e flusso: cim. la strada - dar bege (ben’g) (F.O., N.V.C.); il sentiero<br />
- dar staige (F.O., N.V.C.); vals. il sentiero - trodo (F.O.), strodo (F.O.);<br />
vic. la strada - caredà (V.T.D.T.Vic., V.D.Vic.); caresà (V.D.Vic.,<br />
D.Vic.I.I.Vic.); il sentiero - stròso (V.T.D.T.Vic., V.D.Vic., D.Vic.I.I.Vic.);<br />
stròzo (V.D.Vic.); stròdo (V.D.Vic.); tròdo (V.T.D.T.Vic., V.D.Vic.); tròso<br />
(V.D.Vic.); trozo (V.D.A.Vic.).
98<br />
Armando De Guio<br />
Le recinzioni: cim. i muretti - di maürla (F.O.); il reticolato – da zou (di zöi)<br />
(F.O.); vals. stropaia (F.O.); vic. il muretto – mureto (D.Vic.I.I.Vic.); il reticolato<br />
- reticolati (V.T.D.T.Vic., V.D.Vic.).<br />
Le pozze: cim. di hülbe (hülm) (F.O., N.V.C.); di laaba (-en) (D.L.C.S.C.Vic.);<br />
vals. pozza (D.V.); borbe (F.O.); vic. póssa (V.T.D.T.Vic., V.D.Vic.,<br />
D.Vic.I.I.Vic.); posa (L.C.).<br />
I ricoveri e le riserve<br />
Il prato della malga: cim. di bis (-an) (F.O., N.V.C.); vals. pra (D.V.); vic. prà<br />
dela malga (V.T.D.T.Vic.); prà (V.D.Vic., D.Vic.I.I.Vic., V.D.A.Vic.).<br />
C) Cultura materiale<br />
La cultura materiale delle malghe costituisce un eccezionale repertorio di<br />
manufatti, con una larghissima prevalenza, nel repertorio tradizionale, di strumenti<br />
in legno (o vegetali, a fronte di pochi in metallo o ceramica), la cui conservazione,<br />
dunque, a medio – lungo termine, stante una pluralità di processi<br />
post-deposizionali di norma iper-attivi, appare legata solo ad eventi eccezionali<br />
(in genere combustione). Fra i più ricorrenti:<br />
campane per mucche (metallo);<br />
sgabelli per mungitore (legno);<br />
secchio da latte/legno e/o metallo);<br />
acroncello con secchi (legno e metallo);<br />
colini (legno o metallo);<br />
bacinelle per l’affioramento della panna colini (legno o metallo);<br />
scopino (grano saraceno);<br />
spannarole (legno o metallo);<br />
zangola fissa (legno e metallo);<br />
zangola a botte colini (legno e metallo);<br />
zangola rotatoria colini (legno e metallo);<br />
zangola “a barchetta” (legno e metallo);<br />
battiburro (legno);<br />
spatola per decorare la superficie del burro (legno);<br />
stampo per burro (legno);<br />
caldaia (metallo);<br />
sostegno per la caldaia (legno);<br />
frangicagliata (legno o metallo);<br />
spersola (gocciolatoio: legno);<br />
stampo per formaggio (legno);<br />
fascia per formaggio (legno);
Archeologia di frontiera: il progetto “Ad Metalla” 99<br />
tavole per stagionatura (legno);<br />
mastello (legno);<br />
tavolo per la ricotta (legno);<br />
D) Ruoli attoriali.<br />
I ruoli di una malga tradizionale (con numerose varianti locali, ad esempio<br />
in termini di fusione o specializzazione ulteriore di funzioni) appaiono riducibili<br />
essenzialmente al prospetto seguente:<br />
il casaro: cim. dar khésrar (-n) (F.O., N.V.C.); khèzar (D.L.C.S. C.Vic.); vals.<br />
caşèro (D.V.); cašàro (S.E.A.V.); vic. caşaro (V.T.D.T.Vic., L.C., V.D.Vic.,<br />
D.Vic.I.I. Vic.).<br />
il sottocasaro: vic. soto caşaro (L.C.);<br />
l’aiuto-casaro: cim. dar skotú (F.O.); vals. scotón (D.V.); vic. scotón<br />
(V.T.D.T.Vic.; L.C.).<br />
il secondo aiuto-casaro: vic. legnarólo (L.C.).<br />
il capo-pastore: vals. malghèro (F.O.); vic. capo vacaro (L.C.).<br />
i pastori: cim. dar khüdjrar (-n) (F.O.); dar khüjar (-n) (N.V.C., D.L.<br />
C.S.C.Vic.); vals. pastór (D.V.); vic. vacaro (V.T.D.T.Vic., L.C., V.D.Vic.,<br />
D.Vic.I.I.Vic.); boàro (V.D.Vic.).<br />
il custode di manze e vitelli: vals. mandèro (F.O.); vic. vacaréto (L.C.);<br />
vedelaro (V.T.D.T.Vic., L.C.).<br />
il capraio e il pecoraio: cim. il capraio - dar goasar (-n) (F.O.; D.L.C.<br />
S.C.Vic.); il pecoraio - dar schavar (-n) (F.O., N.V.C.); vals. caorèro (D.V.); caoràro<br />
(S.E.A.V.) e piegorèro (D.V.); vic. cavraro (V.T.D.T.Vic., L.C.,<br />
D.Vic.I.I.Vic.) e piegoraro (V.T.D.T.Vic., L.C., D.Vic.I.I.Vic.); pegoraro<br />
(V.T.D.T.Vic.); piegorar (V.D.A.Vic.).<br />
E) Tratti di evoluzione tipologica (fig. 5)<br />
I tratti principali di un (presuntivo) phylum evolutivo tipologico sono presentati<br />
dal Baragiola (1908) nei termini seguenti:<br />
a) casotto trasportabile (kasún) consistente inizialmente in una barella coperta<br />
di pelli o di cortecce di abete o di scandole in cui il mandriano, che portava il<br />
bestiame alle alte quote, poteva trovare rifugio per la notte.
100<br />
Armando De Guio<br />
b) struttura a cassone ligneo di tavole ben connesse fra loro e con porticina<br />
d’ingresso. Questa soluzione permetteva al pastore di sorvegliare gli animali,<br />
rinchiusi entro steccati mobili, le mandre (Mandern).<br />
c) struttura di base a capanna trasportabile in block-bau, costruita su un terrazzamento<br />
artificiale, con uno zoccolo di fondazione in pietra, l’alzato in travi<br />
orizzontali sovrapposte che si connettono ad incastro negli angoli, il tetto a due<br />
spioventi ricoperto di corteccia o di scandole. La pianta di una malga tradizionale<br />
doveva essere costituita da varie strutture in block-bau adibite a diverse funzioni,<br />
comunicanti tra loro a due a due e formanti due corpi distinti, smontabili<br />
e trasportabili. I due corpi solitamente si affacciano su una corte che spesso è<br />
cintata. La planimetria globale (cfr. schizzo e legenda di G. Rebeschini, in BA-<br />
RAGIOLA 1989, p. 13, fig. 6), doveva risultare così composta:<br />
Vöerkésera o Casera del fuoco. Cucina e fabbrica del cacio...................................... Mq. 6x6<br />
Gang und Lagnér. Passaggio e legnaia ........................................................................... Mq. 4x6<br />
Bioden vor de Manne. Cabine a stiva per gli uomini o vaccari................................ Mq. 0,95x2<br />
Milchkésera. Riparto per il latte ..................................................................................... Mq. 6x6<br />
Kasél ’me Keser. Casello pel casaro, con soffitto .......................................................... Mq. 4x4<br />
Kasél ’me Kese. Casello per cacio e burro, con soffitto ............................................... Mq. 6x6<br />
Pendana. Rifugio per le manze...................................................................................... Mq. 5x6<br />
Stéllele vor de sichen Kü. Stalletta per le manze ammalate............................................. Mq. 5x3<br />
Stall. Stalla....................................................................................................................... Mq. 6x6<br />
Gertle. Orticello chiuso a steccato................................................................................ Mq. 3x5<br />
Hof o Curte. Corte chiusa da muro alto un metro.................................................. Mq. 10x15<br />
d) costruzione in muratura con layout identico alla struttura precedente.<br />
Nell’ambito del progetto “ad Metalla” il programma operativo relativo al<br />
tematismo dell’alpeggio prevede la seguente sequenza di interventi:<br />
analisi delle fonti (storico-documentarie e archeologiche);<br />
analisi delle tradizioni popolari (patrimonio favolistico-narrativo locale);<br />
interviste a (ex)pastori ;<br />
remote sensing;<br />
field survey;<br />
micro-rilievo;<br />
scavo di una struttura semisepolta (“Ex Malga Croiere 2”);<br />
campionamenti vari (incluse analisi micromorfologiche e fosfatiche);<br />
restituzione per la fruizione turistica.
Archeologia di frontiera: il progetto “Ad Metalla” 101<br />
Sul piano analitico, in particolare, si è attivata una nutrita batteria di modelli<br />
GIS (cfr. ad es. figs 6-7), mentre si è iniziato ad approntare un’elaborata “Time<br />
Series Analysis” (fig. 8) dell’intero universo campionario in oggetto (sulla base<br />
di un corposo d-base georeferenziato delle 75 malghe del territorio indagato).<br />
Si sono, in merito, analizzati cinque distinti stadi evolutivi (1856: 33 malghe;<br />
1886: 33 malghe; 1918: 33 malghe; 1969: 29 malghe; oggi (2004): solo 17 unità<br />
attive: cfr. VICARI 2002-2003), corrispondenti ad altrettanti supporti cartografici<br />
e aerofotografici esaminati:<br />
Catasto 1856 ( Archivio di Stato di Trento);<br />
IGM Carta d’Italia alla scala di 1:25.000 F. 36 I N.E MONTE VERENA<br />
(levata 1886, ediz. 1918) e F. 36 I N.O. CALDONAZZO (levata 1886, ediz.<br />
1918);<br />
Carta Topografica militare dell’Esercito Francese: Biblioteca Bertoliana di<br />
Vicenza (“Album topographique offert à la Bibliothèque de Vicence”),<br />
1918;<br />
IGM Carta d’Italia alla scala di 1:25.000 F. 36 I N.E MONTE VERENA<br />
(rilievo aerofgm.1959, agg. 1969) e F. 36 I N.O. CALDONAZZO (rilievo<br />
aerofgm. 1958).<br />
ortofoto digitale, sez. CTR 082110: CGR-Parma, 2000 (Comunità Montana-<br />
Asiago).<br />
In termini di attività sul campo si prevede, poi, nell’ambito della zona-target<br />
di ricerca intensiva (Croiere), la sperimentazione di particolari tecniche di rilevo<br />
(in particolare GPS differenziale, Laserscanner, foto zenitali con aquilone) e di<br />
restituzione-visitazione fotorealistica e “virtuale”.<br />
Lo scavo della “Ex Malga Croiere 2”(coordinato dal dr. Gasare De Angeli),<br />
nello specifico, viene condotto con una peculiare tecnica (figs. 9-10) ottimizzata<br />
per la successiva fruizione (in termini di “Archeologia Pubblica”, all’interno<br />
di un percorso pluri-tematico attrezzato: cfr. sopra), denominata “then/now”o<br />
“emiscavo”. Con tali lemmi si intende connotare una procedura sperimentale<br />
di scavo che si pone come targets privilegiati proprio casi di studio di etnoarcheologia<br />
ed archeologia della guerra ad es.: malghe, calcare, carbonare, roccoli,<br />
baraccamenti, trincee, postazioni militari, con attenzione privilegiata, dunque,<br />
non solo alle emergenze monumentali, ma anche e più alle strutture/infrastrutture<br />
“quotidiane”, dell’every-day life sia civile che militare. Tale procedura,<br />
sulla scorta delle tendenze teoretico-metodologiche più recenti (ad es.:<br />
Landscape Ecology, Off-site Archaeology, Abandonment and Post-abandonment Archaeology,<br />
Public Archaeology, ECRM…), mira a restituire all’utenza non solo specialistica,<br />
ma al più vasto pubblico, dei modelli di sito archeologico più efficacemente<br />
illustrativi sul suo percorso formativo e de-formativo (processi deposi-
102<br />
Armando De Guio<br />
zionali e post-deposizionali). Un buon risultato, in merito, viene ottenuto con<br />
la tecnica in oggetto che, in modo semplificato e derubricativo, potremmo appunto<br />
definire come “scavo then and now” o anche “emiscavo”. Si tratta,<br />
semplicemente, di risparmiare, lasciando al suo presente stato di abbandono,<br />
una parte del deposito (ad esempio e indicativamente metà) in modo tale da restituire<br />
al pubblico tre distinte e spettacolari “superfici informative”: la parte<br />
scavata (fino a rimettere in luce piani funzionali originali ed elevati residui), la<br />
parte non scavata (abbandono) e l’interfaccia di collegamento fra le due, ossia<br />
la stratigrafia, adeguatamente visualizzata e didascalizzata in situ. Ciò consente<br />
di assumere la dicotomia informativa “ora/allora” (cfr. ad es. BRANGIAN<br />
2000) su di un nuovo, esaltante piano percettivo e sinottico. Pannelli esplicativi<br />
e restituzioni in scala fanno da cornice allo scavo e consentono al visitatore, in<br />
termini di mirata ergonomia conoscitiva, di integrare sul posto una robusta<br />
mappa cognitiva del sito.<br />
Le indagini preliminari della “Ex Malga Croiere 2” stanno restituendo una<br />
struttura di tipologia “canonica”con due corpi principali (A e B) affacciati su di<br />
una corte e una struttura annessa a sud (corpo B). Un transetto, largo un metro<br />
e lungo trentasei, è mirato ad intercettare i tre corpi di fabbrica e si pone due<br />
obiettivi: a) verificare la consistenza del deposito archeologico nell’intera area<br />
di scavo indagandone un’eventuale articolazione interna dei corpi di fabbrica e<br />
i rapporti tra di essi; b) un’indagine sulla natura del deposito chiamato corpo C<br />
(possibile “porcilaia”).<br />
4. Archaeology of the War vs Archaeology through the War 3<br />
Particolarmente affascinante si presenta la più recente prospettiva di ricerca<br />
da “Archeologia della Guerra” (guerra del 1915-18 di cui gli Altipiani sono stati<br />
uno dei principali teatri: cfr. fig. 11).<br />
La voce “archeologia della guerra” (con i suoi omologhi e succedanei definizionali<br />
e i suoi generici o specifici domini di applicazione, ad es.. 1° o 2°<br />
guerra mondiale) sta assumendo, a livello internazionale, una locazione sempre<br />
più alta nell’agenda dei problemi di rilevanza della moderna archeologia, come<br />
è ben attestato da una cospicua letteratura specialistica (cfr. ad es. DOBIN-<br />
SON, LAKE, SCHOFIELD 1977; ENGLISH HERITAGE 1998, 2000;<br />
HILL, WILEMAN 2002; DE GUIO 2002, 2003; DE GUIO, BETTO c.s.),<br />
vari editoriali degli ultimi 15 anni di riviste di riferimento (quali “Antiquity”),<br />
convegni, congressi e ora anche insegnamenti dedicati a vari livelli (in particolare<br />
corsi-master MFA di ambito anglosassone) e da numerosi siti web dedicati (<br />
cfr. ad es: www.britarch.ac.uk/projects.dob ).<br />
3 Cfr. DE GUIO 2003.
Archeologia di frontiera: il progetto “Ad Metalla” 103<br />
Le guerre, soprattutto quelle di epoca moderna e contemporanea, costituiscono<br />
una fonte di impatto di un ordine di magnitudo criticamente variabile,<br />
talora così ubiquitaria e incisiva da conferire, sul piano della “ecologia del paesaggio”<br />
(“Landscape Ecology”: cfr. FORMAN 1995) una “impronta paesaggistica”<br />
di lunga durata (“Fossil Warscapes”).<br />
Gli Altipiani di Asiago e Vezzena-Lavarone, ad esempio, costituiscono un<br />
caso di studio paradigmatico al riguardo. Si tratta di un geosistema morfocarsico<br />
(“tectocarsico” e “fluviocsarsico”) particolarmente vulnerabile ed esposto<br />
alle modificazioni antropiche (cfr. SAURO, BONDESAN, MENEGHEL<br />
1991; SAURO, MARTELLO, FRIGO 1991; SAURO 1993, SAURO, LAN-<br />
ZINGER 1993), la cui ampia escursione altimetrica iscrive una ben caratterizzata<br />
sequenza geologica (Triassico: Dolomia Principale; Giurassico: Calcari<br />
Grigi -con vari “membri” interni-, Lumachella a Posidonia Alpina e Rosso<br />
Ammonitico; Cretacico: Biancone, “Orizzonte Bonarelli”, Scaglia Rossa; Terziario:<br />
arenarie eoceniche: cfr. BARBIERI 1993) e un composito ecomosaico<br />
geomorfologico e di uso del suolo.<br />
L’impatto ambientale della Grande Guerra sugli Altipiani (cfr. in particolare:<br />
APOLLONI 1991-92, 1993a,b; SAURO, MARTELLO, FRIGO 1993) fu di<br />
una straordinaria magnitudo:<br />
molti degli abitati oggetto di distruzione massive;<br />
deforestazione estensiva;<br />
fra 200.000 e 4.000.000 militari di stanza;<br />
centinaia di chilometri di strade (circa 400 km) e trincee (circa 200 Km) e<br />
gallerie costruite;<br />
una rete impressionante di altre infrastrutture logistiche (baraccamenti, ricoveri,<br />
postazioni, recinti, opere idrauliche, teleferiche....) realizzate;<br />
1500 cannoni attivi, con milioni di esplosioni cumulative nei quattro anni<br />
di guerra.<br />
Tra le altre maggiori fonti di impatto ambientale, talora in interferenza critica<br />
con l’impatto bellico (cfr. sopt.: SAURO 1977, 1993; APOLLONI 1991-92,<br />
1993a,b; SAURO, MARTELLO, FRIGO 1993), vanno enucleate, almeno, le<br />
seguenti (fig. 12):<br />
disboscamento, connesso ad un fascio cruciale di attività di lunga durata<br />
quali la radurazione da pascolo, differenti forme di sfruttamento per finalità<br />
diverse, da quella edilizia, al riscaldamento, alla produzione di carbonella<br />
e di calce (cfr. APOLLONI 1991-92, 1993a,b; SAURO, MARTELLO,<br />
FRIGO 1993; CASTI MORESCHI, ZOLLI 1988; CACCIAVILLANI<br />
1984, 1991);
104<br />
Armando De Guio<br />
pastoralismo e allevamento (stanziali e stagionali), con fenomeni di iperpascolamento<br />
(overgrazing) e sentieramento (cross-trampling, sentiérage) inducenti<br />
riduzione di copertura pedologica, erosione accelerata e pressione selettiva<br />
sulla biodiversità delle specie vegetali (cfr. SAURO 1977, 1993; APOL-<br />
LONI 1991-92, 1993a,b; SAURO, MARTELLO, FRIGO 1993) distribuiti<br />
lungo un trend di longue durée alquanto articolato (cfr. MIGLIAVACCA<br />
1985, MIGLIAVACCA, VANZETTI 1988; APOLLONI 1991-92,<br />
1993a,b; A.A.V.V. 1994; BONETTO 1997);<br />
processi metallurgici nella Tarda Età del Bronzo, con una straordinaria<br />
concentrazione locale (altipiani di Vezzena-<strong>Luserna</strong>-Lavarone) di uno specifico<br />
segmento della “catena metallurgica” (arrostimento e riduzione primaria:<br />
cfr: oltre ).<br />
I processi citati operarono a diverse scale spaziali, temporali e di intensità.<br />
La fenomenologia di arrivo composita/cumulativa si è tradotta in un complicato<br />
palinsesto, affetto da ulteriori fenomeni di alterazione post-deposizionale –<br />
in primis erosiva – e di norma di alquanto difficile maneggiamento analitico.<br />
Uno degli aspetti più critici, al riguardo, è dato dalla circostanza che impatto<br />
da bombe (CIELI 1991), specifiche tecniche di deforestazione (sradicamento<br />
stadiale da trous avec monticules: attestato con sicurezza almeno nel vicino comparto<br />
lessineo: cfr. SAURO 1997; BERNI, SAURO, VARANINI 1991) e infrastrutturazione<br />
metallurgica (micro-terrazzamenti per batterie di forni fusori:<br />
cfr. SEBESTA 1992; MARZATICO 1997) possono prodursi in esiti micromorfologici<br />
equi-finali (o almeno simili), mentre il sentieramento da pascolo<br />
(cross-trampling, sentiérage) può localmente perversamente coincidere e in parte<br />
alterare od obliterare percorsi antichi e lo stesso menzionato inquinamento<br />
chimico di origine bellica può essere interferito da quello precedente di origine<br />
metallurgica protostorica.<br />
In fase post-bellica, poi, i processi specifici di bonifica del teatro bellico, la<br />
pratica dei “recuperanti”, e più recentemente, l’urbanizzazione ed il turismo di<br />
massa hanno progressivamente prodotto un impatto, talora a scala e magnitudo<br />
considerevoli, sul complesso e iper-fragile scenario evolutivo ambientale<br />
(cfr. SAURO, MARTELLO, FRIGO 1993).<br />
L’impatto bellico si presta ad essere analizzato con due distinti prospettive<br />
euristiche:<br />
Archeologia della guerra;<br />
Archeologia attraverso la guerra.<br />
Con “Archeologia della Guerra” intendiamo una ricerca propositivamente<br />
mirata allo specifico scenario bellico (warscape), con l’esplicito scopo di una re-
Archeologia di frontiera: il progetto “Ad Metalla” 105<br />
stituzione virtuale o fisica (restauro/archeoricostruzioni in situ /riproduzioni in<br />
scala...) del teatro bellico per mezzo di ogni procedura analitica ed operazionale<br />
praticabile e sulla scorta di ogni classe di informazione utile (dallo stesso record<br />
archeologico residuo alle varie fonti documentarie/iconografiche disponibili). I<br />
nostri esperimenti con Panoramiche VR (esplorabili interattivamente in ambiente<br />
da Virtual Reality) 4 o di visibilità/intervisibilità dei forti Vicentini e trentini<br />
possono essere correttamente ridotti sotto la suddetta copertura definizionale.<br />
La disponibilità, d’altronde, di un importantissimo repertorio di foto (verticali<br />
ed oblique) di relativamente alta definizione scattate dalle varie aeronautiche<br />
(italiana, francese, inglese, austriaca) costituisce una risorsa di altissimo valore<br />
documentario, ora in corso di elaborazione con tecniche avanzate di image<br />
processing, DTM, renderizzazione e G.I.S. Si tratta di un corposo comparto di<br />
foto aeree di varia qualità e risoluzione (talora eccellente), che presentano, in<br />
ogni caso, una situazione cumulativa di eccezionale e irripetibile esposizione<br />
informativa con quella che fu, probabilmente, la massima de-forestazione postglaciale,<br />
e il minimo recenziore di urbanizzazione. La “Archeologia della<br />
Guerra” (specie nella sua semiologia meno eclatante ma più invasiva e pervasiva<br />
del paesaggio, fatta di strutture e infrastrutture, quali strade, camminamenti,<br />
baraccamenti, e apprestamenti logistici vari, impianti idraulici, drenaggi, recinzioni,<br />
scarichi...) vi appare con una nitidezza inequivocabile, laddove oggi i suoi<br />
segni, entrati diffusamente nel record archeologico sub-superficale, la rendono<br />
spesso difficilmente enucleabile da altre evidenze più propriamente archeologiche<br />
o etnografiche. Lo scenario di guerra (warscape) è dunque innanzitutto e positivamente<br />
una fonte primaria di informazione per la ricerca storica ed archeologica:<br />
l’idea-chiave, in merito, è quella di restituire il fenomeno-guerra come<br />
un critico vettore di cambiamento del paesaggio geografico in termini di “impronte”<br />
antropiche localmente pervasive e profonde. I “segni” della guerra, alquanto<br />
articolati nella loro estesa tipologia ed escursione di stadi di conservazione,<br />
sono, al contempo, “oggetti” del più alto interesse archeologico, sia sul<br />
piano processuale-teoretico (“formazione del record archeologico”, dinamiche<br />
belliche, confinarie e di frontiera, invasionistiche, etniche..), che sul versante<br />
operazionale-applicativo (problemi di recupero, conservazione, tutela, valorizzazione).<br />
Questo orientamento problematico presenta una felice contiguità con<br />
quella prospettiva da “allora ed ora” che è crescentemente presente, talora con<br />
prodotti di eccellenza ed un accattivante repertorio iconografico (cfr. ad es.<br />
BRANGIAN 2000), nella letteratura bellica ed archeoturistica.<br />
4 Come quella sul Monte Confinale (cfr. PASSARIN, VIAZZI 1998).
106<br />
Armando De Guio<br />
L’altro approccio (Archeologia attraverso la Guerra) utilizza invece ogni<br />
possibile fonte di informazione bellica (a partire dalla cartografia e<br />
dall’iconografia delle foto o riprese filmate di guerra) come un medium per accedere<br />
ad altre classi di informazione-target, specificamente archeologiche o etnoarcheologiche<br />
o paleoambientali. In effetti, se consideriamo operativamente il<br />
layer tematico (strato informativo) bellico, come noise, fonte di “rumore” per ricerche<br />
orientate verso archeologie più canoniche, il “filtro”, ugualmente prezioso,<br />
dell’immagine bellica, ci consente di scremare la suddetta fonte di rumore,<br />
e di isolare l’informazione mirata, nella forma, ad esempio, che si sta proprio<br />
ora proprio ora concretamente profilando sotto i nostri occhi, di tracce di<br />
una serie di paesaggi già relitti nella Prima Guerra Mondiale (in particolari reti<br />
diffuse di infrastrutture produttive e residenziali, land divisions, confini, terrazzamenti<br />
e recinti), di grandissimo, potenziale interesse (alcuni appartengono sicuramente<br />
ad epoca medievale-moderna, altri, già oggetto di prime ricognizioni<br />
preliminari e controlli a terra , sono più antichi, ad esempio quelli pertinenti al<br />
ciclo metallurgico citato, della fine dell’Età del Bronzo). L’analisi diacronica<br />
(time series analysis) di foto (specialmente aeree) e di cartografia di guerra consente<br />
allora di estrapolare facilmente il “rumore” bellico (in prima evidenza sul<br />
supporto mirato) e quindi di accedere in modo agevolato alla lettura sottrattiva<br />
delle tracce appartenenti allo scenario archeologico indagato. Queste ultime, in<br />
aggiunta, compaiono sui supporti aerofotogarfici bellici con una frequenza e<br />
una nitidezza talora impressionanti e per varie ragioni (fenomeni obliterativi<br />
post-deposizionali, riforestazione, impatto urbano...) spesso non più accessibili<br />
anche alle più recenti e sofisticate coperture remote aeree o satellitari (cfr. DE<br />
GUIO c.s.).<br />
Il disboscamento bellico, in particolare, è stato certamente il più estensivo<br />
prodotto nell’intera escursione della storia dell’impatto umano nell’ambiente<br />
locale: le foto aere belliche offrono dunque un’eccezionale e forse irripetibile<br />
“esposizione informativa” per gli specialisti archeologi di Remote Sensing (per cui<br />
le aree boschive sono certamente di drammaticamente minore utilità). Dalla fine<br />
della guerra, in effetti, altri processi modificativi, dalla massiccia riforestazione,<br />
all’opposta e localmente sensitiva urbanizzazione, hanno limitato la succitata<br />
“superficie informativa” utilmente praticabile di un ordine stimabile fino<br />
al 30% dell’interro scenario.<br />
In questa prospettiva da “Archeologia attraverso la Guerra”, sembrano<br />
dunque riproporsi localmente almeno le avvisaglie, bene auguranti, dell’epopea<br />
di progetti pilota di “archeologia di montagna”, entrati a pieno diritto negli annali<br />
della storia della ricerca, come quelli di Fleming (1988; 1992) nei “Datmoor<br />
Reaves”: qui uno spesso palinsesto di analoghe strutture/infrastrutture di endemico<br />
e grandioso sviluppo spaziale è stato, dopo molti anni di ricerca, de-
Archeologia di frontiera: il progetto “Ad Metalla” 107<br />
stratificato, distribuito su di un arco temporale di ampia estensione (dall’Età del<br />
Bronzo ad oggi) e restituito, con ineccepibili apparati esplanatori, ad una comunità<br />
scientifica prima alquanto scettica.<br />
L’analisi delle serie temporali condotta sul pacchetto di coperture aeree del<br />
1918 e degli anni successivi (particolarmente rilevanti quelle relative ad un ulteriore<br />
strato tematico bellico, questa volta della Seconda Guerra Mondiale, attinte<br />
dall’impressionante archivio dell’Università di Keele-GB) agilmente georeferenziabili,<br />
consente di cogliere la drammatica dinamica di impatto della Guerra<br />
e di quella, non meno devastante delle successive fonti di impatto associate ad<br />
esempio all’urbanizzazione, al management agro-silvestre ed al turismo di massa.<br />
Nella cornice del progetto “ad Metalla” il piano operativo relativo al tematismo<br />
della “Archeologia di Guerra” (che annovera anche una specifica tesi di<br />
laurea: BETTO 2003-2004) è articolato nei seguenti passi:<br />
analisi delle fonti (in particolaree cartografiche ed aerofotografiche);<br />
interviste agli ultimi “recuperanti”;<br />
remote sensing;<br />
field survey;<br />
micro-rilievo (in particolare in loc. “Fortino Basson”);<br />
scavo di una struttura semisepolta (“fortino” in loc. Lammarn);<br />
campionamenti vari;<br />
restituzione per la fruizione turistica.<br />
Sul piano teleosservativo-ricognitivo, in particolare, particolare sono state<br />
enucleate 5 zone-target (cfr. figs 13-21):<br />
T1: “Malga Fratte”;<br />
T2: “Vezzena” (incrocio);<br />
T3: “Malga Millegrobe”;<br />
T4: “Malga Campo - Malga Croiere”;<br />
T5: “<strong>Luserna</strong>”.<br />
Su tali aree mirate sono state condotte una serie di operazioni riducibili ai<br />
punti seguenti:
108<br />
Strati tematici (textures) principali:<br />
Armando De Guio<br />
a) FOTO AEREE E IMMAGINI SATELLITARI: Foto aeree: Museo Storico<br />
Italiano della Guerra- Rovereto, 1915-1918; Foto aeree: Museo Caproni –<br />
Trento: “Fondo Costantino Cattoi”,1915-1918), Foto aeree: Air Photo Library-<br />
Dept. of Geography – Univ. of Keele-UK, 3085, 306, 397 del 23/8/1944; Foto<br />
aeree: IGM , 999 e 001, 6/9/1986, h 11.35; Ortofoto digitale alla scala<br />
1:10.000: Provincia Autonoma di Trento, 1996; Immagine satellitare Landsat 7<br />
ETM: Telespazio, 8/10/1999; Ortofoto digitale, sez.CTR<br />
081040,081080,082010: CGR-Parma, 2000.<br />
b) CARTOGRAFIA: Carta corografica del territorio Vicentino- perito Molino<br />
Giovanni: Biblioteca Bertoliana di Vicenza: già raccolta mappe n. 106,<br />
1608; Catasto ottocentesco: Archivio di Stato-Trento; Carta topografica<br />
dall’Archivio di Stato di Vienna, 1805; Carta topografica del Regno Lombardo-<br />
Veneto, 1833; IGM Carta d’Italia alla scala di 1:25.000 F. 36 I N.E MONTE<br />
VERENA (levata 1886, ediz. 1918). e F. 36 I N.O. CALDONAZZO (levata<br />
1886, ediz. 1908); Carta Topografica militare dell’Esercito Francese: Biblioteca<br />
Bertoliana di Vicenza, 1918; IGM Carta d’Italia alla scala di 1:25.000 F. 36 I<br />
N.E MONTE VERENA (rilievo aerofgm.1959, agg. 1969). e F. 36 I N.O.<br />
CALDONAZZO (rilievo aerofgm.1958); Regione Del Veneto CTR alla scala<br />
1:10.000 sezioni 081080 PEDEMONTE, 082010 CIMA MANDERIO-<br />
LO,082050 CASCINA DI CAMPOVECCHIO (rilievo aerofgm. 1982); Provincia<br />
Autonoma di Trento CT alla scala 1:10.000, sez. 62090, 62050, 63060<br />
(1996).<br />
Trattamenti analitici principali:<br />
Remote Sensing, georeferenziazione, analisi delle serie temporali, modellazione<br />
solida e renderizzazione fotorealistica, image enhancing e fotointerpretazione 5 ,<br />
GIS (moduli vari).<br />
Rilievi emergenti (con riferimenti specifici alle aree-target T1-T5 succitate):<br />
— Tipologia di tracce e simbologia: vegetation marks (T1-T5), shadow marks (T1-<br />
T5), snow marks (T4), damp marks (tracce da umidità: T1-T5). Simbologia<br />
5 BETTO 2003-2004.
Archeologia di frontiera: il progetto “Ad Metalla” 109<br />
denotativa: giallo = tracce chiare (strutture/infrastrutture drenanti); rosso<br />
= tracce scure (strutture/infrastrutture a drenaggio frenato/inibito); blu<br />
= tracce della Grande Guerra (su supporti aerofotografici post-bellici).<br />
— Tracce di guerra (sulla serie di foto aere post-belliche): diffuse, ma diacronicamente<br />
sempre più evanescenti, già a partire dalle foto del 1944 (cfr., a<br />
titolo di riscontro sinottico, la carta top. militare francese del 1918). Lo<br />
stesso impatto bellico, di una magnitudo e variabilità eccezionali (cfr. la<br />
letteratura di guerra succitata e l’iconografia qui prodotta) presenta una<br />
progressione interna impressionante, analiticamente esaminabile sulla<br />
scorta della organizzazione “stratigrafica” della serie temporale delle foto<br />
da noi esaminate (nell’intervallo ‘15 - ‘17): esemplare, al riguardo, l’areatarget<br />
T2 (incrocio di Vezzena) che, dalla modesta connotazione con cui<br />
F. Weber 1965 la descrive nella primavera del ‘15, passa, dall’estate del<br />
16, anno della Strafexpedition, ad assumere un alto impatto di infrastrutture<br />
logistiche (baraccamenti, strade... cfr., al riguardo il caratteristico triangolo<br />
di strade che da allora costituisce un caratteristico marcatore territoriale<br />
teleosservativo dell’area)<br />
— Impatto ambientale e copertura boschiva post-bellici:<br />
a) “impatto edilizio” (infrastrutture turistiche); b) diffuso rimboschimento<br />
e relativa “chiusura” di finestre osservazionali teleosservative (cfr. sopra).<br />
Entrambe le fenomenologie sono facilmente enucleabili con semplici<br />
operatori analitici di “differenza” sulla serie georeferenziata delle foto<br />
aeree e della cartografia.<br />
— Tracce di interesse archeologico o etnoarcheologico:<br />
a) tracce chiare lineari attribuibili a land divisions e/o infrastrutture connettive<br />
e/o terrazzamenti: ubiquitarie (T1-T5), con addensamenti (clusters)<br />
locali (T1, T5), taluni criticamente coincidenti o prossimali ad aree fusorie<br />
ricognite a terra (T1);<br />
b) tracce specifiche confinarie (riscontrate a terra, in ricognizione): T1<br />
(tratto a 300m a W di Malga Fratte e a S della strada per Trento esteso<br />
per circa 200 m con laste poste ad intervalli irregolari di 10-20 m in risalita<br />
sul pendio, in direzione di Bisele, lungo un itinerario connettivo dismesso<br />
di provata storicità: cfr. la cartografia storica qui prodotta e<br />
REICH 1910; BRIDA 1989, 2000);
110<br />
Armando De Guio<br />
c) tracce attribuibili ad apparati fusori: ubiquitarie (T1-T5: cfr. la mappa<br />
cumulativa dei siti rinvenuti da E. Preuschen e G. Sebesta -solo in parte<br />
riscontati analiticamente a terra- e dal nostro team di ricerca), con specifiche<br />
relazioni spaziali (coincidenza, contiguità...) con: 1) acqua in forma<br />
di: 1a) acqua corrente (torrente Assa: T1, T2), ristagno palustre (T3),<br />
pozze d’alpeggio attive o relitte (T1, T3); 2) con malghe attuali e/ dismesse<br />
(T1, T3, T4); 3) con vie di comunicazioni “naturali” e/o strutture<br />
connettive tradizionali/storiche (T1-T5).<br />
d) tracce specifiche di apparati fusori rispondenti al “modello Redebus”<br />
(piattaforma terrazzata su pendio e scarico prossimale a valle di scorie:<br />
cfr. sopra), riscontrate a terra con ricognizioni (T1,T2) e prospezioni preliminari<br />
elettriche, magnetometriche, micromorflogia strumentale (stazione<br />
totale) e micromeodellazione, carotaggi meccanici e ripresa da balloon,<br />
isolamento e delimitazione di clusters di scorie e di vegetation marks<br />
relativi, panoramiche VR (T1: campagna 2001).<br />
In termini di una più canonica “Archeologia della Guerra” da campo è stata<br />
individuata una zona pilota (Lammarn) di alta intensità di interventi.<br />
L’emergenza principale, al, riguardo è costituita da una struttura della I Guerra<br />
Mondiale identificata come “Fortino” (fig. 22-25; cfr. BETTO 2003-2004). Si<br />
tratta di una struttura assolutamente straordinaria, posta esattamente sulla<br />
sommità della località Lammarn/Marogne, il cui toponimo riporta alle profonde<br />
evidenze carsiche (“campi carreggiati”) che caratterizzano la zona. Il Fortino<br />
militare ha una pianta trapezioidale (lato lungo ca. 30 m, larghezza ca. 11 m)<br />
con tre muretti divisori interni, paralleli ai lati lunghi (cfr. piante). Un terrapieno<br />
esterno cinge l’intera struttura, arrivando a coprire le creste dei muri<br />
perimetrali. Tutte le unità stratigrafiche murarie (USM) sono realizzate a secco<br />
con quattro/cinque corsi di pietre sbozzate quadrangolari di varie dimensioni,<br />
per un’altezza di ca. 50-60 cm. L’ingresso si trova alla metà del lato lungo: un<br />
survey preliminare della zona circostante ha portato all’identificazione di ca. 25<br />
strutture militari (baraccamenti, trincee, postazioni da cecchino, avamposti di<br />
vedetta) in diverso grado di conservazione, tutte gravitanti attorno al fortino. Il<br />
tutto individua una fascia ipercritica coincidente con il massimo stato di<br />
avanzamento delle truppe italiane in territorio austriaco verso il Forte Campo<br />
di <strong>Luserna</strong>, destinata ad essere travolta dalla Strafexpedition, nella primavera<br />
1916.
Archeologia di frontiera: il progetto “Ad Metalla” 111<br />
5. La catena metallurgica<br />
La tematica paleometallurgica (figs. 26-28), come detto, rappresenta una topica<br />
centrale nel nostro circuito analitico. Essa si indirizza, innanzitutto ad un<br />
(apparente) paradosso di base: un’impressionante “concentrazione spazio/temporale”<br />
di attività metallurgica del rame in un area priva di risorse minerali<br />
cuprifere.<br />
Lo spazio è riducibile agli Altipiani di Vezzena - <strong>Luserna</strong> - Lavarone (mentre<br />
il distretto minerario cuprifero più vicino è localizzato in Valsugana, soprattutto<br />
il suo versante nord opposto rispetto agli altipiani e a quote medio-alte:<br />
cfr. oltre).<br />
Il tempo (stretta “finestra temporale”) è rappresentato da una congiuntura<br />
di poche generazioni (forse non più di un secolo) fra Bronzo Recente e Bronzo<br />
Finale (XII-XI a.C. circa). Tale finestra individua una fase cruciale di sviluppo<br />
della complessità sociale delle popolazioni (non solo) padane (in particolare<br />
l’ambito terramaricolo e la sua periferia) che precede un drammatico ed ubiquitario<br />
collasso, la cui speciale “topologia” (locazione critica spazio/temporale) è<br />
stata da noi investigata con procedure in larga parte inedite di pattern recognition<br />
seriale (cfr. DE GUIO 2001b). Vale subito qui la pena di notare, per inciso,<br />
come nella composita eziologia avanzata per spiegare il collasso (da cause esogene<br />
ad endogene, dall’ecodeterminismo, all’antropogenismo da “ingegneria<br />
sociale”: cfr. BERNABÒ BREA CARDARELLI, CREMASCHI 1997; DE<br />
GUIO 1997a, 2000a) sia iscritta anche la chiave paleometallurgica (destrutturazione<br />
delle reti flusso e di scambio ultraregionali del metallo conseguente alla<br />
caduta di formazioni statali Micenee e post-Micenee del Mediterraneo orientale).<br />
Il concetto centrale di riferimento è quello di “catena metallurgica”. Al cuore<br />
dalla nostra particolare applicazione di “Archeologia attraverso la Guerra”<br />
sta, in effetti, la restituzione di un particolare “paesaggio fossile” del Tardo<br />
Bronzo connesso ad uno specifico segmento della “catena metallurgica”.<br />
La catena metallurgica, ovvero il ciclo di lavorazione del minerale di rame<br />
fino alla realizzazione di oggetti metallici finiti, attività produttiva principale durante<br />
l’età del Bronzo, si compone di cinque processi fondamentali 6 : 1) estrazione;<br />
2) arricchimento; 3) arrostimento e fusione (riduzione primaria con produzione<br />
finale di lingotti di rame); 4) fusione di leghe di bronzo; 5) getto di fusione<br />
e produzione di oggetti finiti.<br />
Con riferimento all’universo locale e alla critica finestra temporale in oggetto<br />
i segmenti succitati della catena metallurgica si articolano secondo un modello<br />
di de-localizzazione areale (a scala dal micro al macro-regionale) e di flusso<br />
6 Per un orientamento sulla complessa materia cfr. ad es. FRANCOVICH 1991, SEBESTA<br />
1992; GIANNICHEDDA 1996; CIERNY 1998; GIARDINO 1998.
112<br />
Armando De Guio<br />
critico riducibili ai termini seguenti, da noi proposti sulla base della copiosa e<br />
spesso divergente letteratura specifica di settore (cfr. in particolare: PREU-<br />
SCHEN 1973, PERINI 1989, VIDALE, EHRENREICH, MICHIELI VAN-<br />
ZETTI 1989, SEBESTA 1992; DE GUIO 1994a; MARZATICO 1997;<br />
CIERNY 1988; PEARCE, DE GUIO 1999) e delle dirette risultanze della nostra<br />
ricerca remota e sul campo:<br />
Alta Valsugana (Calceranica e versante sinistro con Fersina – Vignola –<br />
Vetriolo – Cinque Valli – Roncegno –Val di Cavè – Bieno – Tesino):<br />
presenza di giacimenti a solfuri misti su quote di norma medio-elevate; processi:<br />
estrazione; arricchimento arrostimento/ fusione (riduzione primaria);<br />
Alta-Valsugana – altipiani di Vezzena, <strong>Luserna</strong>, Lavarone:<br />
percorrenza connettiva, coniugata al flusso transumante, in risalita lungo i<br />
ripidi versanti della sinistra idrografica della Valsugana con trasporto sugli altopiani<br />
di pani di rame e farina di rame (minerali frantumati ed arricchiti di rame<br />
ancora da ridurre).<br />
Altipiani di Vezzena – <strong>Luserna</strong> – Lavarone: assenza di minerali di rame;<br />
processi: arrostimento, arricchimento e riduzione primaria (una delle più<br />
impressionanti concentrazioni di tutta la pre-protostoria europea) localizzati<br />
lungo corsi d’acqua o pozze d’alpeggio con produzione finale di pani di rame<br />
(si tratta di un’impresa stagionale di decine di operatori, stimata - sulla base di<br />
standard di epoca medievale/moderna - in un range di 20-100 unità per apparato<br />
fusorio, fra trasportatori, carbonari, taglialegna, “malghesi”, arrostitori e fonditori...).<br />
Motivazioni per la specifica selezione areale:<br />
1) disponibilità elevata di legname (particolarmente il faggio) per l’uso diretto<br />
e per produzione di carbonella (un profilo palinologico ancora inedito del<br />
dr. Vittorio Martello da Vezzena sembra offrire una straordinaria conferma<br />
dell’impatto vegetazionale della paleometallurgia e attività connesse,<br />
mostrando una rarefazione delle specie arboree e un parallelo incremento<br />
critico di quelle erbacee proprio nella stretta finestra temporale in esame);<br />
2) presenza di fondenti (in particolare selce largamente diffusa nelle locali<br />
formazioni di Biancone);<br />
3) ampia estensione di pascoli (indispensabili ad una solida “economia di<br />
malga” di supporto della specialistica “impresa metallurgica”);
Archeologia di frontiera: il progetto “Ad Metalla” 113<br />
4) connettività: l’area è localizzata al cuore di un sistema di comunicazioni<br />
“naturali” (e tradizionali) di connessione fra l’ambito (pre)alpino e la Pianura<br />
Padana (cfr., per il ciclo storico: REICH 1910; BRIDA 1989, 2000;<br />
CAROTTA 1997);<br />
5) localizzazione confinaria (cfr. in particolare la piana di Vezzena, interessata<br />
da processi di confinazione di lunga data: cfr., per l’epoca storica: REICH<br />
1910; CACCIAVILLANI 1991; BRIDA 1989, 2000; CAROTTA 1997) ottimale<br />
per l’interazione di scambio con comunità di diversa estrazione etno-politica<br />
(in strumentale e brutale semplificazione “proto-reti” e “protoveneti”)<br />
e in controllo di segmenti specifici della catena metallurgica e di<br />
relativi territori di pertinenza ma localmente partecipi della stessa “economia<br />
di malga”. Scambio di prodotti: pani di rame contro prodotti agricoli,<br />
sale, prodotti finiti utilitari e di prestigio.<br />
Nodi collettori su scarpate dell’altipiano di Asiago:<br />
localizzazione critica di siti (permanenti o semi-permanenti) di supporto logistico<br />
alla catena metallurgica e per il controllo dei flussi, in areali nodali di esteso<br />
controllo visivo del territorio, lungo o sul ciglio delle scarpate di raccordo<br />
alla pianura e alla confluenza di percorsi critici della transumanza situati in<br />
un’escursione di quota e in specifici micro-ambienti in cui, accanto ad una pratica<br />
di elezione della pastorizia e dell’allevamento stanziale, appare ancora praticabile<br />
una più articolata “agricoltura di montagna”. M. Corgnon di Lusiana e<br />
Rotzo appartengono a questa categoria, da cui probabilmente, in un ristretto<br />
arco stagionale, si proiettava sui pascoli a più alta quota una pratica<br />
dell’alpeggio in malga in parte, almeno, direzionata a drenare il metallo trentino<br />
nell’areale di interazione “confinaria” succitato, con percorsi ascendentidiscendenti<br />
essenzialmente intramontani. In entrambi i siti è significativamente<br />
attestata (essenzialmente da scorie) un’attività fusoria in situ delle leghe di<br />
bronzo e, per il Corgnon, anche una gamma piuttosto estesa di tipi di prodotti<br />
finiti (cfr. DE GUIO 1994a, 2001a).<br />
Sbocchi vallivi in pianura:<br />
ubicazione strategica di villaggi a controllo delle principali arterie ascendenti/discendenti<br />
del flusso transumante e metallurgico, con funzione, forse, di siti<br />
“centrali”/dominanti all’interno di un “territorio esteso” inclusivo delle tipologie<br />
succitate dei siti logistici intermedi e di quelli di malga. Angarano (presso<br />
Bassano), S. Lucia di Breganze e, forse, Caltrano potrebbero rientrare in questa<br />
tipologia, strutturata in un tessuto funzionale di flussi interni controllati di risorse,<br />
a partire, in primis da quelle umane (cfr. ad es. il concetto di “stagionalità<br />
del potere”/DE GUIO 1998a.b; 2000), con spostamenti postulati -appunto-
114<br />
Armando De Guio<br />
“stagionali” di più o meno estesi segmenti demografici anche dai “siti centrali”<br />
al seguito di “persone centrali” (“capi”), lungo il reticolo metallurgico e transumante.<br />
Bassa pianura veronese e rodigina:<br />
localizzazione nodale di siti centrali produttivi, mercantili e concentratori di<br />
potere politico (ad es., con ruoli, tempi e intensità diverse, Fondo Paviani, Castello<br />
del Tartaro e Fabbrica dei Soci nella Bassa Veronese, Mariconda e Frattesina<br />
nel Rodigino, Montagnana nella bassa pianura atesina) con intercetto selettivo,<br />
in primis, proprio dei pani di bronzo succitati provenienti dalla catena qui<br />
esaminata (e da altre, ivi confluenti, ad es. emananti dalle Alpi orientali o dalla<br />
Toscana) in un reticolo dendriforme (“sistema dendritico a località centrali”)<br />
mirato innanzitutto al drenaggio ottimale di tali risorse. A valle, ma anche a<br />
monte di tale sistema, con un percorso quindi a ritroso lungo la catena metallurgica<br />
viene strumentalmente veicolata (quale mezzo e volano degli scambi)<br />
un’estesa gamma di beni di prestigio (quali, ad es. ad es. ambra e pasta vitrea<br />
che ritroviamo al Corgnon). Il tutto si iscrive in un intricato sistema di relazioni<br />
(economico, politico e cognitivo) di lunga distanza e di sorprendente livello di<br />
integrazione operazionale che connette il Nord e <strong>Centro</strong>-Europa (attraverso ad<br />
esempio, molteplici “vie dell’ambra” e “vie e dello stagno”) alle civiltà complesse<br />
del Mediterraneo orientale.<br />
Nel quadro del progetto “ad Metalla” il piano operativo relativo al tematismo<br />
archeometallurgico (supportato anche da due mirate tesi di laurea: O-<br />
GNIBEN 2002-2003 e SARTOR 2002-2003) prevede la seguente sequenza di<br />
interventi:<br />
analisi delle fonti;<br />
remote sensing;<br />
field survey;<br />
micro-rilievo;<br />
scavo di infrastrutture fusorie;<br />
campionamenti vari (incluse innovative procedure analitiche micromorfologiche,<br />
geochimiche e geobotaniche);<br />
restituzione per la fruizione turistica.<br />
La rispondenza in dettaglio ai modelli d’attesa succitati appare assolutamente<br />
convincente ed estensiva.<br />
Il dato forse più straordinario, ma pienamente atteso (cfr. sopra), è offerto<br />
dalla critica localizzazione confinaria dei forni fusori che sembrano attestarsi su
Archeologia di frontiera: il progetto “Ad Metalla” 115<br />
di una linea (o fascia di attrito) evidentemente di longue durée. Sarebbe ancora<br />
più straordinario poter dimostrare come alcune delle tracce rilevate attorno<br />
all’area-target T1 (Malga Fratte: cfr. figs. 29-30) o addirittura quella riscontrata<br />
a terra (cfr. allineamenti residui di laste in direzione di Bisele, lungo un itinerario<br />
connettivo di provata storicità) fossero altrettanto antiche: l’unica sicura<br />
diagnostica potrà in merito venire da scavi mirati. Se la linea di ricerca programmata<br />
riuscirà a consolidare queste prime suggestioni saremo certamente di<br />
fronte ad una delle più importanti istanze di “confine” da lunga durata della storia<br />
(e pre-protostoria) europea, situata lungo un’ipercritica fascia ecotonale di<br />
cerniera fra un mondo “continentale” e uno “mediterraneo”: storie di confine<br />
ai confini con la storia…<br />
ARMANDO DE GUIO<br />
Università di Padova Dipartimento di Scienze dell’Antichità<br />
P.zza Capitaniato 7<br />
35139 Padova<br />
E-Mail: deguio@interplanet.it<br />
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Tavole