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marted 1 - Centro Sperimentale di Cinematografia

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2-6 gennaio Non solo attore Omaggio a Vittorio Caprioli<br />

8-13 gennaio Alessandro Blasetti, il primo Maestro del cinema italiano seconda<br />

parte<br />

15 gennaio (In)visibile italiano. Le metropoli del crimine<br />

16 gennaio Presentazione del Cofanetto Totò (Minerva Rarovideo)<br />

17-18 gennaio Controcorrente: Lo sguardo crudele <strong>di</strong> Alberto Cavallone<br />

19 gennaio Novant’anni <strong>di</strong> cinema. Luciano Emmer al lavoro<br />

20 gennaio Monsieur Tati nel caos della modernità<br />

22 gennaio L’altro Visconti seconda parte<br />

23 gennaio Non solo voce. Il mito <strong>di</strong> Maria Callas<br />

24 gennaio L’alchimia delle immagini. Il cinema <strong>di</strong> Luca Verdone<br />

25 gennaio Cinema, storie e passioni<br />

26-31 gennaio Kill Baby Kill! Il cinema <strong>di</strong> Mario Bava<br />

<strong>marted</strong>ì 1<br />

chiuso<br />

2-6 gennaio<br />

Non solo attore Omaggio a Vittorio Caprioli<br />

Parigi. Roma. Milano. Napoli. Quattro città fondamentali per un artista e un<br />

intellettuale a tutto tondo come Vittorio Caprioli. Nasce infatti a Napoli il 15 agosto<br />

1921. Dopo essersi <strong>di</strong>plomato presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica,<br />

debutta in teatro inizialmente con la Compagnia Carli-Rocca, successivamente con<br />

Sergio Tofano e la Compagnia De Sica-Besozzi-Gioi. Contestualmente al teatro<br />

(reciterà in <strong>di</strong>versi spettacoli <strong>di</strong>retti anche da Giorgio Strehler) si fa le ossa lavorando<br />

nel varietà accanto ad artisti del calibro <strong>di</strong> Totò e Alberto Sor<strong>di</strong>. All’inizio degli anni<br />

cinquanta va a Parigi con Luciano Salce ed Alberto Bonucci, sperimentando “un<br />

teatro da camera” incentrato sulla satira <strong>di</strong> costume e accompagnato da una comicità<br />

cinica e caustica. Insieme a Bonucci e a Franca Valeri fonda il Teatro dei Gobbi. A<br />

Roma, accanto all’attività teatrale, lavora nel cinema e nella televisione con registi<br />

del calibro <strong>di</strong> Fellini, Gentilomo, Emmer, Blasetti, Rossellini, Monicelli, ma anche<br />

Malle, Godard. Come attore ha attraversato il cinema d’autore (è nel cast del film <strong>di</strong><br />

Bernardo Bertolucci La trage<strong>di</strong>a <strong>di</strong> un uomo ri<strong>di</strong>colo) così come quello <strong>di</strong> genere,<br />

spesso relegato in ruoli da caratterista, riuscendo sempre e comunque a regalare dei<br />

ritratti, dei personaggi in<strong>di</strong>menticabili attraverso una sfumatura nel tono della voce,<br />

un tic, un semplice gesto (straor<strong>di</strong>narie le sue interpretazioni nei film <strong>di</strong> Fernando Di<br />

Leo). Ma Vittorio Caprioli, da grande uomo dello spettacolo, non è stato solamente<br />

un ottimo attore dalla versatilità inarrivabile, ma anche un grande regista. Un libro<br />

esemplare, Vittorio Caprioli regista (Falsopiano, Alessandria, 2003), a cura <strong>di</strong> Fabio<br />

Francione e Lorenzo Pellizzari, pubblicato in occasione della quinta e<strong>di</strong>zione del<br />

Lo<strong>di</strong> Città Film Festival 13-20 ottobre 2003, all’interno del quale è stata organizzata<br />

una pionieristica retrospettiva de<strong>di</strong>cata all’attore-regista, gli ha reso finalmente<br />

giustizia, come scrivono i curatori del volume: «le notizie biografiche basterebbero


da sole a confermare la centralità <strong>di</strong> Vittorio Caprioli nel panorama artistico ed in<br />

particolare teatrale e cinematografico italiano <strong>di</strong> almeno tre decenni del ’900 (1950 -<br />

1980). Al contrario l’eclettismo dell’artista, totale e rigoroso, mai <strong>di</strong>spersivo (o<br />

cinema o teatro o televisione, mai tutto insieme), ha relegato per pregiu<strong>di</strong>zi ideologici<br />

e formali ai margini della critica le sue regie cinematografiche». Tutte le citazioni<br />

sono state tratte dal presente volume. L’omaggio a Caprioli proseguirà nella<br />

retrospettiva Alessandro Blasetti, il primo Maestro del cinema italiano, avendo<br />

l’attore ha recitato in ben quattro film <strong>di</strong> Blasetti: Altri tempi, Tempi nostri, Io, io,<br />

io... e gli altri e La ragazza del bersagliere, proposti nel corso della retrospettiva. Nel<br />

corso della tavola rotonda <strong>di</strong> mercoledì 9 gennaio, de<strong>di</strong>cata a Blasetti, il figlio Carlo<br />

traccerà un ricordo del padre.<br />

Un ringraziamento particolare va a Rai Direzione Teche, Broadme<strong>di</strong>a Service e a<br />

Fabio Francione e Carlo Caprioli.<br />

mercoledì 2<br />

ore 17.45<br />

O sole mio (1946)<br />

Regia: Giacomo Gentilomo; soggetto: Mario Amendola, Vincenzo Rovi;<br />

sceneggiatura: Akos von Tolnay, Mario Sequi; <strong>di</strong>aloghi: Gaspare Cataldo; fotografia:<br />

Anchise Brizzi, Tonino Delli Colli; musica: Ezio Carabella; montaggio: Guido<br />

Bertoli; interpreti: Tito Gobbi, Adriana Benetti, Vera Carmi, Ernesto Almirante,<br />

Vittorio Caprioli, Salvatore Cuffaro; origine: Italia; produzione: Rinascimento Film;<br />

durata: 109’<br />

«Eccellente film. Mai Giacomo Gentilomo mi era parso regista così sicuro ed abile;<br />

mai egli ci aveva dato un film nel quale la drammatica sostanza narrativa era tanto<br />

egregiamente padroneggiata ed altrettanto vigorosamente messa in immagini. L’idea<br />

<strong>di</strong> portare sullo schermo una delle pagine più vive della nostra storia – le quattro<br />

giornate <strong>di</strong> Napoli – è stata svolta nel film con piena comprensione dell’importanza<br />

dell’evento e con giusta e non sforzata eloquenza rappresentativa, cioè ripresa<br />

attraverso episo<strong>di</strong> e dettagli ricchi insieme <strong>di</strong> potenza e verità. L’azione è ideata e<br />

sceneggiata con scaltrezza e, anche se non priva <strong>di</strong> sforzature e <strong>di</strong> inverosimiglianze,<br />

sa rendere queste accettabili attraverso la spe<strong>di</strong>tezza del racconto, sempre fatto<br />

procedere con mezzi visivi» (Valdata). O sole mio rappresenta l’esor<strong>di</strong>o<br />

cinematografico <strong>di</strong> Vittorio Caprioli.<br />

Il cinema del CSC<br />

Questo mese sono stati selezionati quattro cortometraggi, esercitazioni del primo<br />

anno degli allievi della Scuola Nazionale <strong>di</strong> Cinema. Si tratta <strong>di</strong> shorts muti, girati in<br />

35mm, della durata <strong>di</strong> circa 10’. Gli allievi, come sempre, compongono gran parte del<br />

cast artistico.<br />

ore 19.45<br />

Il cinema del Csc<br />

L’arma<strong>di</strong>o (2004)


Regia: Francesco Costabile; soggetto e sceneggiatura: Daniela Gambaro, Francesco<br />

Apice, F. Costabile; fotografia: Fabio Amedei; montaggio: Chiara Griziotti; suono:<br />

Alessandro Castiglione; costumi e scenografia: Luca Filaci; interpreti: Manuela<br />

Spartà, Roberto Negri; organizzatore: Anna Fran<strong>di</strong>no; origine: Italia; produzione:<br />

Csc; durata: 10’<br />

Storia <strong>di</strong> una ragazza, della camera in cui è obbligata a vivere e del suo arma<strong>di</strong>o.<br />

a seguire<br />

Leoni al sole (1961)<br />

Regia: Vittorio Caprioli; soggetto e sceneggiatura: V. Caprioli, Raffaele La Capria,<br />

Franca Valeri [non accre<strong>di</strong>tata]; fotografia: Carlo Di Palma: musica: Fiorenzo Carpi;<br />

montaggio: Nino Baragli; interpreti: Vittorio Caprioli, Franca Valeri, Philippe Leroy,<br />

Serena Vergano, Halina Zalewska, Francesco Morante; origine: Italia; produzione:<br />

Ajace Cinematografica ed Euro International Films; durata: 105’<br />

«Il mondo ritratto in Leoni al sole è quello già visto nel film francese Saint-Tropez<br />

Blues [<strong>di</strong> Marcel Moussy] e in quello americano La spiaggia del desiderio [<strong>di</strong> Henry<br />

Levin], tanto per citare gli ultimi esempi: la vita, insomma, <strong>di</strong> una spiaggia alla<br />

moda, che nella fattispecie è Positano. Ma la novità del presente film non sono i soliti<br />

ragazzacci avi<strong>di</strong> <strong>di</strong> vita, <strong>di</strong> avventure amorose e <strong>di</strong> sol<strong>di</strong> altrui, bensì dei vecchi<br />

giovanotti, delle persone <strong>di</strong> mezza età che continuano a comportarsi come quando<br />

avevano vent’anni <strong>di</strong> meno, e cioè proprio a scroccare, a tessere flirts, a bere<br />

avidamente la vita giorno per giorno. [...]. Il film [...] è molto <strong>di</strong>vertente e ben<br />

giocato, attraverso un mosaico fitto fitto <strong>di</strong> situazioni, <strong>di</strong> battute, <strong>di</strong> gesti: alcuni<br />

momenti hanno l’efficacia sintetica <strong>di</strong> certe stoccate satiriche da “Teatro dei<br />

Gobbi”. E c’è una recitazione saporosissima, entusiasta, <strong>di</strong> un gruppo <strong>di</strong> autentici<br />

“leoni” amici <strong>di</strong> Caprioli. [...] Non manca neppure il virtuosismo da consumato<br />

autore cinematografico: ci riferiamo alla curiosa sequenza che descrive la pigra<br />

atmosfera della siesta <strong>di</strong> mezzogiorno, guardata dal punto <strong>di</strong> vista <strong>di</strong> un insetto che<br />

svolazza dentro e fuori le case <strong>di</strong> Positano» (Comuzio).<br />

ore 22.00<br />

Il generale Della Rovere (1959)<br />

Regia: Roberto Rossellini; soggetto: da un racconto <strong>di</strong> Indro Montanelli;<br />

sceneggiatura: Sergio Amidei, Diego Fabbri, I. Montanelli; fotografia: Carlo Carlini;<br />

musica: Renzo Rossellini; montaggio: Cesare Cavagna; interpreti: Vittorio De Sica,<br />

Hannes Messemer, Vittorio Caprioli, Nando Angelini, Herbert Fischer, Mary Greco;<br />

origine: Italia/Francia; produzione: Zebra Film, S.N.E. Gaumont; durata: 133’<br />

Grande ruolo drammatico per Vittorio Caprioli nella parte <strong>di</strong> Aristide Banchelli,<br />

compagno <strong>di</strong> prigionia <strong>di</strong> Giovanni Bertone, il falso generale Della Rovere (Vittorio<br />

De Sica), che accetta eroicamente <strong>di</strong> sacrificare la propria vita pur <strong>di</strong> non rivelare<br />

nulla <strong>di</strong> compromettente ai nazisti. «Il personaggio del film (G. Bertone) visse<br />

realmente, ma pare che quanto abbia narrato Rossellini si <strong>di</strong>scostasse <strong>di</strong> molto dalla<br />

“verità storica”: i familiari del signore in questione, infatti, intentarono una causa al<br />

produttore per “<strong>di</strong>ffamazione”. Il film fu girato tutto in interni (stupendamente


icostruiti dall’architetto [Piero] Zuffi, qui al suo esor<strong>di</strong>o nel cinema). Premio Leone<br />

d’oro (ex-aequo con La grande guerra) e premio O.C.I.C. alla XX Mostra del Cinema<br />

<strong>di</strong> Venezia. Premi al film, al regista, al protagonista (De Sica), a Messemer e al<br />

soggetto al III Festival <strong>di</strong> San Francisco (1959). Nastro d’argento per la migliore<br />

regia. David <strong>di</strong> Donatello alla Zebra Film (1960)» (Chiti/Poppi).<br />

giovedì 3<br />

ore 18.00<br />

Carosello napoletano (1953)<br />

Regia: Ettore Giannini; soggetto: dalla rivista omonima <strong>di</strong> E. Giannini; sceneggiatura<br />

e <strong>di</strong>aloghi: E. Giannini, Giuseppe Marotta, Remigio Del Grosso; fotografia: Piero<br />

Portalupi; musica: Raffaele Gervasio; montaggio: Nicolò Lazzari; interpreti: Léonide<br />

Massine, Achille Millo, Agostino Salvietti, Clelia Matania, Paolo Stoppa, Vittorio<br />

Caprioli; origine: Italia; produzione: Lux Film; durata: 129’<br />

«Un insolito – per l’Italia – film-rivista, che ripercorre la storia <strong>di</strong> Napoli dalle<br />

scorrerie dei mori al dopoguerra, con un gioco <strong>di</strong> specchi tra le varie epoche che<br />

mette a confronto psicologie e classi sociali in una specie <strong>di</strong> limbo della Storia (e<br />

para<strong>di</strong>so della fantasia) dove anche la morte <strong>di</strong>venta una figura vivente [...].<br />

Folcloristico ma non dozzinale, aiutato da proce<strong>di</strong>menti stilistici piuttosto originali<br />

per il cinema italiano <strong>di</strong> quegli anni (soprattutto nei mo<strong>di</strong> con cui le vicende si<br />

animano per introdurre i singoli numeri musicali), dalle ricche e fantasiose<br />

scenografie <strong>di</strong> Mario Chiari (ogni inquadratura è “gremita come un pinnacolo<br />

barocco”), dalla fotografia <strong>di</strong> Giorgio Sommer che fonde l’ere<strong>di</strong>tà colta del<br />

vedutismo con l’ingenuità surreale degli ex voto, e naturalmente dalla musica <strong>di</strong><br />

Raffaele Gervasio» (Mereghetti). Vittorio Caprioli è tra i protagonisti del film<br />

(insieme ad Alberto Bonucci interpreta un paroliere). Secondo Francione e Pellizzari<br />

l’attore risulta co-sceneggiatore del film.<br />

ore 20.20<br />

Il cinema del Csc<br />

Autoritratto (2003)<br />

Regia: Francesco Amato; soggetto e sceneggiatura: Andrea Agnello, F. Amato,<br />

Matteo Ber<strong>di</strong>ni, Chiara Boschiero, Francesco Lo Dico; fotografia: Agostino Vertucci;<br />

scenografia e costumi: Marinella Perrotta; suono: Francesco Tumminello; montaggio:<br />

Luigi Meareli; organizzazione: Francesco Startari; interpreti: Franco Barbero, Silvia<br />

Morganti, Stefano Berera, Giancarlo Concetti, Francesco Lo Dico, Francesco Startari;<br />

origine: Italia; produzione: Csc; durata 10’<br />

La vita or<strong>di</strong>naria <strong>di</strong> Franco, un impiegato <strong>di</strong> mezz’età, è scossa dall’installazione,<br />

davanti al suo ufficio, <strong>di</strong> una macchina per foto-tessere. L’uomo non tarda a<br />

provarla. Ma la macchina, come un oracolo, gli rivela una dolorosa verità.<br />

a seguire<br />

Parigi o cara (1962)


Regia: Vittorio Caprioli; soggetto: V. Caprioli; sceneggiatura: V. Caprioli, Franca<br />

Valeri, Renato Mainar<strong>di</strong>, Silvana Ottieri; fotografia: Carlo Di Palma; musica:<br />

Fiorenzo Carpi; montaggio: Nino Baragli; interpreti: Franca Valeri, Vittorio Caprioli,<br />

Fiorenzo Fiorentini, Margherita Girelli, Antonio Battistella, Michel Bar<strong>di</strong>net; origine:<br />

Italia; produzione: Ajace Cinematografica; durata: 100’<br />

«Caprioli è un regista assai più complesso <strong>di</strong> quanto sembri: i suoi film hanno una<br />

vernice <strong>di</strong> comicità sotto la quale l’amarezza e la malinconia, forse, più della satira,<br />

con<strong>di</strong>zionano i personaggi. La satira, infatti, esige a nostro modo <strong>di</strong> vedere un<br />

impegno <strong>di</strong>verso, un rigore <strong>di</strong> analisi e una forza d’immagini che Caprioli non ha. Il<br />

suo stile è più delicato, si affida ai mezzi toni, è l’ironia soprattutto che lo stuzzica e<br />

lo porta ai risultati più convincenti. Il suo modo <strong>di</strong> mostrarci Roma e Parigi, due<br />

città-mito, con gli occhi e il cervello <strong>di</strong> una mondana, è una trovata. Se Mida<br />

trasformava in oro tutto ciò che toccava, questa Delia restituisce invece alla realtà i<br />

suoi colori più squalli<strong>di</strong>. La riuscita, dal lato spettacolare, è questa forse più<br />

convincente: l’aneddotica dei Leoni al sole non eliminava il sospetto della<br />

frammentarietà; l’aneddotica <strong>di</strong> Parigi o cara non lascia dubbi, invece, sulla volontà<br />

<strong>di</strong> Caprioli <strong>di</strong> rifiutare i mo<strong>di</strong> tra<strong>di</strong>zionali del racconto, <strong>di</strong> aprirsi una strada<br />

personale nella folla <strong>di</strong> stili cinematografici» (Terzi).<br />

ore 22.30<br />

Zazie dans le métro (Zazie nel metrò, 1959)<br />

Regia: Louis Malle; soggetto: dal romanzo omonimo <strong>di</strong> Raymond Queneau;<br />

sceneggiatura: L. Malle, Jean-Paul Rappeneau; fotografia: Henri Raichi; musica:<br />

Andrè Pontin, Fiorenzo Carpi; montaggio: Kenout Peltier; interpreti: Catherine<br />

Demongeot, Philippe Noiret, Vittorio Caprioli, Carla Marlier, Annie Fratellini,<br />

Jacques Dufilho; origine: Francia; produzione: Nouvelles E<strong>di</strong>tions de Films; durata<br />

88’<br />

«Bimbetta <strong>di</strong> 10 anni arriva dalla provincia a Parigi e scopre la città, i suoi strani<br />

abitanti, il suo traffico folle. Ma il suo sogno è un viaggio in metropolitana. Nello<br />

spericolato tentativo <strong>di</strong> trasformare la comicità verbale del romanzo (1959) <strong>di</strong><br />

Raymond Queneau in buffoneria visiva, Malle casca in pie<strong>di</strong>. Da godere a frammenti,<br />

in mezzo a un <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ne preme<strong>di</strong>tato e a molte invenzioni» (Moran<strong>di</strong>ni). Louis Malle<br />

utilizza il corpo e la voce <strong>di</strong> Vittorio Caprioli per le sue originali soluzioni visive.<br />

venerdì 4<br />

ore 17.45<br />

Le voci bianche (1964)<br />

Regia: Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa; soggetto e sceneggiatura: P.<br />

Festa Campanile, M. Franciosa, Luigi Magni; fotografia: Ennio Guarnieri; musica:<br />

Gino Marinuzzi Jr.; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Paolo Ferrari,<br />

Anouk Aimée, Vittorio Caprioli, Graziella Granata, Clau<strong>di</strong>o Gora, Philippe Leroy;<br />

origine: Italia/Francia; produzione: Cinematografica Federiz, Franca Film, Francoriz<br />

Production; durata: 109’


«Nella Roma del Settecento, quand’erano in voga i cantori evirati, un giovane<br />

popolano finge <strong>di</strong> farsi castrare e fa carriera anche perché spopola, non solo con la<br />

voce, tra le belle aristocratiche. Una delle più impertinenti e spregiu<strong>di</strong>cate tra le<br />

farse in costume degli anni ’60. La sceneggiatura (cui collaborò anche Luigi Magni)<br />

funziona, gli attori sono in forma, la cornice storica ha una sua fantasiosa eleganza.<br />

Sullo stesso tema, ma in tutt’altra chiave, fu fatto Farinelli - Voce regina (1994)»<br />

(Moran<strong>di</strong>ni). Una delle migliori interpretazioni <strong>di</strong> Vittorio Caprioli.<br />

ore 19.45<br />

Il cinema del Csc<br />

Fragile (2005)<br />

Regia: Andrea Lodovichetti; soggetto e sceneggiatura: A. Lodovichetti, Mariano Di<br />

Nardo, Enrico Vannucci; fotografia: Alessandro Mezzani; montaggio: Beatrice Corti;<br />

scenografia: Marinella Perrotta; costumi: Virginia Gentili; suono: Andrea Sileo;<br />

musiche: Francesco Montesi; organizzatore: Enrico Finocchiaro: interpreti Luigi<br />

Diberti, Emanuela Mascherini; origine: Italia; produzione: Csc; durata 8’<br />

Un trasloco improvviso, una casa vuota, un pianoforte. Un vecchio metronomo<br />

scan<strong>di</strong>sce il tempo <strong>di</strong> un <strong>di</strong>fficile rapporto tra un padre e una figlia ormai adulta.<br />

“Non posso fare a meno <strong>di</strong> detestare i miei genitori. È così triste dover sopportare<br />

chi ha i vostri stessi <strong>di</strong>fetti” (Oscar Wilde).<br />

a seguire<br />

La manina <strong>di</strong> Fatma (ep. de I cuori infranti, 1963)<br />

Regia: Vittorio Caprioli; soggetto e sceneggiatura: V. Caprioli, Giuseppe Patroni<br />

Griffi; fotografia: Marcello Gatti, musica: Fiorenzo Carpi; montaggio: Nino Baragli;<br />

interpreti: Franca Valeri, Aldo Giuffrè, Paola Quattrini, Linda Sini, Dany Paris, Tino<br />

Buazzelli; origine: Italia; produzione: Ima film, Incei Film; durata: 45’<br />

«La manina <strong>di</strong> Fatma è una bella piccola storia, che onora i primi anni ’60 per<br />

inventività, gusto e caratterizzazioni [...]. La storia appartiene a una sorta <strong>di</strong> “teatro<br />

dell’assurdo”, ovvero i fantasiosi e perfi<strong>di</strong> accorgimenti messi in atto da una<br />

manager <strong>di</strong> origine lombarda (poteva essere <strong>di</strong>versamente?), per <strong>di</strong> più autoritaria e<br />

supervigile intestataria <strong>di</strong> una se<strong>di</strong>cente “Organizzazione lunaparks viaggianti”, per<br />

impe<strong>di</strong>re al suo compagno <strong>di</strong> lunga data <strong>di</strong> convolare a nozze con una ragazza (la<br />

volutamente svampita e insipida Paola Quattrini). [...]. Da notare la comparsata <strong>di</strong><br />

Caprioli cui è affidata una sola folgorante battuta (“Cosa è successo? Non so,<br />

vogliono ammazzare una donna...”), sottolineata da tono un po’ effeminato. Il<br />

me<strong>di</strong>ometraggio [...] abbonda <strong>di</strong> piccole invenzioni <strong>di</strong> sceneggiatura e <strong>di</strong> messa in<br />

scena, ha uno stile sciolto e una sicurezza <strong>di</strong> tenuta del set» (Pellizzari).<br />

a seguire<br />

Scusi, facciamo l’amore? (1968)<br />

Regia: Vittorio Caprioli; soggetto: V. Caprioli; sceneggiatura: V. Caprioli, Enrico<br />

Me<strong>di</strong>oli, Franca Valeri; fotografia: Pasqualino De Santis; musica: Ennio Morricone;<br />

montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Pierre Clementi, Clau<strong>di</strong>ne Augier, Beba


Loncar, Tanya Lopert, Martine Malle, Massimo Girotti; origine: Italia/Francia;<br />

produzione: Pea, Les Productions Artistes Associés; durata: 92’<br />

«Il film è <strong>di</strong>retto in modo tutt’altro che banale, con tocchi e tagli visivi rapi<strong>di</strong> e<br />

sapienti, con tecnica modernissima e senza fronzoli: il risultato è senz’altro positivo<br />

sul piano della cornice (una Milano intima e segreta, cui si contrappone una Cortina<br />

grigia e noiosa, antinaturalistica) e in complesso raggiunge gli effetti voluti come<br />

comme<strong>di</strong>a satirico-sociale [...]. La società milanese bersagliata dal regista ha<br />

naturalmente i tratti paradossali <strong>di</strong> tutti i quadri satirici e non pretende quin<strong>di</strong> <strong>di</strong><br />

offrirci una realtà se non me<strong>di</strong>ata; ma Caprioli ne ha avvicinato l’essenza con<br />

singolare intuito e, anche nel linguaggio (i “che bene!” e altri mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> <strong>di</strong>re), c’è un<br />

senso <strong>di</strong> genuina e originale interpretazione» (Solmi).<br />

ore 22.30<br />

Splendori e miserie <strong>di</strong> Madame Royale (1970)<br />

Regia: Vittorio Caprioli; soggetto: da un’idea <strong>di</strong> V. Caprioli; sceneggiatura: V.<br />

Caprioli, Enrico Me<strong>di</strong>oli, Bernar<strong>di</strong>no Zapponi; fotografia: Giuseppe Rotunno;<br />

musica: Fiorenzo Carpi; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Ugo Tognazzi,<br />

Maurice Ronet, V. Caprioli, Jenny Tamburi, Maurizio Bonuglia, Felice Musazzi,<br />

Toni Barlocco; origine: Italia/Francia; produzione: Mega Film, Société Nouvelle de<br />

Cinématographie; durata: 103’<br />

«Il film <strong>di</strong> Caprioli è il primo film “satirico <strong>di</strong> costume” della stagione ’70-’71.<br />

Satirico perché colpisce un vizio sociale; <strong>di</strong> costume perché allarga l’indagine a tutta<br />

una frangia <strong>di</strong> mondo che vive attorno o accanto a un certo vizio. Siamo infatti nei<br />

bassifon<strong>di</strong> dell’omosessualità romana, che celebra, tra le penombre delle auguste<br />

rovine, i suoi squalli<strong>di</strong> riti notturni in carnevaleschi travestimenti. Al centro, un<br />

personaggio, miserevole come gli altri, illuminato soltanto dalla fievole luce <strong>di</strong> una<br />

posticcia paternità, per servire la quale tra<strong>di</strong>rà la conventicola <strong>di</strong> falsari e prosseneti<br />

in cui vive. La loro mafia lo eliminerà. [...] Splendori e miserie <strong>di</strong> Madame Royale è<br />

un “satirico <strong>di</strong> costume” in cui, per la prima volta, la satira non è facezia e il<br />

costume non è pagliacciata. È un film, per chi lo intende, malinconico e amaro; nel<br />

finale quel povero fagotto <strong>di</strong> stracci colorati che fu Madame Royale e che i<br />

sommozzatori depongono sul pontile è <strong>di</strong> un’in<strong>di</strong>cibile tragicità» (Sacchi).<br />

sabato 5<br />

ore 18.00<br />

L’insegnante (1975)<br />

Regia: Nando Cicero; soggetto: Tito Carpi; sceneggiatura: T. Carpi, Francesco<br />

Milizia; fotografia: Giancarlo Ferrando; musica. Piero Umiliani; montaggio: Daniele<br />

Alabiso; interpreti: Edwige Fenech, Vittorio Caprioli, Alfredo Pea, Mario Carotenuto,<br />

Carlo Delle Piane, Alvaro Vitali; origine: Italia; produzione: Devon Film, Medusa<br />

Distribuzione; durata: 95’<br />

«Primo, storico film della serie delle insegnanti, girato da Nando Cicero al suo<br />

meglio e scritto da Francesco Milizia. [...]. La situazione base è quella <strong>di</strong> Malizia,<br />

cioè la provincia siciliana, un padre arrapato, qui Caprioli, un ragazzino svogliato


pronto all’amore, Alfredo Pea nel ruolo della sua vita, figlio <strong>di</strong> onorevole, una bella<br />

ragazza arrivata da fuori, appunto Edwige Fenech, che sconvolge la quiete familiare<br />

e citta<strong>di</strong>na. Da Malizia proviene pure Stefano Amato, amico grasso del protagonista<br />

samperiano Alessandro Momo. [...]. Ma si legano astutamente altri temi. La Fenech<br />

si porta <strong>di</strong>etro il successo delle prime comme<strong>di</strong>e sporcaccione come l’Ubalda, ma<br />

soprattutto Giovannona Coscialunga. Infatti si chiama ancora Giovanna ed è<br />

presente Vittorio Caprioli come nel film precedente. Poi c’è la scuola, tema appena<br />

trattato da Federico Fellini in Amarcord. È da quel film che proviene Alvaro Vitali e<br />

tutto il vitalume successivo» (Giusti).<br />

ore 19.45<br />

Cinema del Csc<br />

Soap opera (2004)<br />

Regia: Ulrik Brüel Gerber; soggetto e sceneggiatura; Serena Cervoni, Federico Fava,<br />

U. Brüel Gerber; fotografia: Andrea Spalletti; montaggio: Emily Greene; scenografia:<br />

Giovanna Cirianni; costumi: Alessandra Stella; suono: Nicola Sobieski; musica:<br />

Giovanni Cernicchiaro; organizzatore: Valerio Alessio Stati; interpreti: Paolo<br />

Baroni, Bruno Pavoncello; origine: Italia; produzione: Csc; durata: 11’<br />

Giacomino si <strong>di</strong>vide tra il lavoro in un saponificio e la <strong>di</strong>sastrosa convivenza con un<br />

pescivendolo rozzo e volgare. L’unica ragione <strong>di</strong> vita è un canarino a cui de<strong>di</strong>ca tutte<br />

le sue attenzioni.<br />

a seguire<br />

Vieni, vieni, amore mio (1974)<br />

Regia: Vittorio Caprioli; soggetto e sceneggiatura: V. Caprioli, Massimo Franciosa,<br />

Luisa Montagnana; <strong>di</strong>aloghi: Franca Valeri; fotografia: Silvano Ippoliti; musica: Riz<br />

Ortolani; montaggio: Otello Colangeli; interpreti: Imma Piro, Ciro Ippolito, Max<br />

Delys, Nina De Padova, Giancarlo Maestri, Rita Di Lernia; origine: Italia;<br />

produzione: Coralta Cinematografica; durata: 95’<br />

«Vittorio Caprioli è nel nostro cinema un personaggio curioso, un artista intelligente<br />

che probabilmente è frenato dalla varietà dei suoi doni. È attore, regista e uomo<br />

spiritoso. Il suo nuovo film fa omaggio alla tra<strong>di</strong>zione godereccia dell’Occidente e<br />

nel medesimo tempo tiene conto della sottile lezione appresa da Louis Malle quando<br />

interpretò il delizioso Zazie nel metrò, che non per nulla è una trascrizione del<br />

romanzo omonimo <strong>di</strong> Raymond Queneau. Caprioli gioca nel film tra umorismo nero<br />

e grassa risata, intenerendosi anche un po’ [...] sui casi <strong>di</strong> due sposini infelici in<br />

amore. [...] Una situazione come quella <strong>di</strong> Vieni, vieni, amore mio la si incontra in<br />

uno dei Contes drôlatiques <strong>di</strong> Honoré de Balzac. Anche stavolta l’effrazione avviene<br />

con sod<strong>di</strong>sfazione dei tre interessati. Si tratta <strong>di</strong> storie ciniche, come si sa. Caprioli<br />

svolge la sua, <strong>di</strong> storia, senza eccedere nel cattivo gusto. L’ambiente <strong>di</strong> Napoli e<br />

<strong>di</strong>ntorni, davvero splendente, aiuta al sorriso» (Bianchi). La camminata provocante<br />

<strong>di</strong> Imma Piro anticipa la ben più celebre passeggiata <strong>di</strong> Monica Bellucci,<br />

in<strong>di</strong>menticabile protagonista <strong>di</strong> Malena.<br />

Copia proveniente da Broadme<strong>di</strong>a Service - Ingresso gratuito


ore 21.45<br />

Diamanti sporchi <strong>di</strong> sangue (1978)<br />

Regia: Fernando Di Leo; soggetto e sceneggiatura: F. Di Leo; fotografia: Roberto<br />

Gerar<strong>di</strong>; musica: Luis Enriquez Bacalov; montaggio: Amedeo Giomini; interpreti:<br />

Clau<strong>di</strong>o Cassinelli, Martin Balsam, Barbara Bouchet, Pier Paolo Capponi, Vittorio<br />

Caprioli; origine: Italia; produzione: Teleuropa International Film; durata: 110’<br />

Arrestato per una rapina a causa <strong>di</strong> una soffiata, Guido Mauri trascorre cinque anni<br />

in prigione, me<strong>di</strong>tando la vendetta contro il suo capo, che il giorno successivo alla<br />

rapina avrebbe dovuto consegnarli 40 milioni. Ma la verità ha mille facce. Film poco<br />

conosciuto <strong>di</strong> Di Leo, anche per la sua “invisibilità”, è invece una delle sue opere<br />

migliori: il regista pugliese <strong>di</strong>segna perfettamente i caratteri dei personaggi,<br />

descrivendo, come ne I padroni della città, il sottobosco della mala, con una<br />

sceneggiatura congegnata sulla tensione determinata da un imminente rendez-vous<br />

con la morte. Il tutto con<strong>di</strong>to dalla consueta ironia e dalle superbe interpretazioni <strong>di</strong><br />

Vittorio Caprioli e <strong>di</strong> uno straor<strong>di</strong>nario Pier Paolo Capponi, in una delle migliori<br />

caratterizzazioni del cinema italiano. Cassinelli presta il suo volto cupo e<br />

malinconico al protagonista.<br />

domenica 6<br />

ore 18.00<br />

L’ultima scena (1988)<br />

Regia: Nino Russo; soggetto e sceneggiatura: N. Russo; fotografia: Giorgio Tonti;<br />

musica: Germano Mozzocchetti; collaborazione musicale: Francesco Marini;<br />

montaggio: Amedeo Giomini; interpreti: Marina Suma, Vittorio Caprioli, Aldo<br />

Giuffré, Bruno Colella, Sergio Solli, Giovanni Attanasio; origine: Italia; produzione:<br />

Luna Film, Istituto Luce - Italnoleggio Cinematografico, Rai; durata: 107’<br />

«L’ultima scena, ovvero l’ultima sceneggiata, non è soltanto un elegiaco omaggio al<br />

teatro. Necessità, cioè basso costo, fa virtù per Nino Russo, che ha un’idea precisa <strong>di</strong><br />

cinema. Ha ideato un’azione che, rispettando le classiche unità aristoteliche, si<br />

svolge in un teatro <strong>di</strong> Napoli, dove un anziano capocomico sta curando la prova<br />

generale <strong>di</strong> una sceneggiata. Arriva un anziano impiegato comunale <strong>di</strong> Acerra che<br />

vorrebbe proporre al regista un suo copione e, con un espe<strong>di</strong>ente antico come il<br />

teatro, è scambiato dall’altro per un famoso critico in incognito. A mo’ <strong>di</strong> tormentone<br />

quell’equivoco regge quasi tutta l’azione, che si svolge in platea e che s’alterna con<br />

quella che si recita sul palcoscenico. Il duetto malinconico Caprioli - Giuffrè è tutto<br />

go<strong>di</strong>bile. Questo continuo scambio tra platea e palcoscenico, verità e finzione, realtà<br />

e illusione è governato da Russo con soffice sagacia e sfocia in un geniale colpo <strong>di</strong><br />

scena» (Moran<strong>di</strong>ni). Uno dei tristemente famosi articoli 28, rifiutati dal mercato, ma<br />

in questo caso meritevole <strong>di</strong> ben altra fortuna. Un film da riscoprire. Nino Russo è un<br />

regista e autore teatrale che ha esor<strong>di</strong>to al cinema con Il giorno dell’Assunta.<br />

ore 20.00<br />

L’automobile (1971)


Regia: Alfredo Giannetti; soggetto e sceneggiatura: A. Giannetti; fotografia:<br />

Pasqualino De Santis; musica: Ennio Morricone; montaggio: Renato Cinquini;<br />

interpreti: Anna Magnani, Vittorio Caprioli, Christian Hay, Donato Castellaneta,<br />

Renato Malavasi, Pupo De Luca; origine: Italia; produzione: Garden<br />

Cinematografica, Excelsior, Rai; durata: 89’<br />

«Il sogno <strong>di</strong> Anna, una prostituta non giovanissima, è possedere un’automobile.<br />

Quando finalmente, patente in tasca, riesce ad averla, decide <strong>di</strong> inaugurarla con un<br />

breve viaggio ad Ostia. Là conosce un giovanotto, a cui decide <strong>di</strong> dare un passaggio<br />

per il ritorno, affidandogli la guida. Un banale incidente <strong>di</strong>struggerà l’auto e con lei<br />

i sogni della donna» (Poppi/Pecorari). «Girato per la Rai, terzo titolo della serie Tre<br />

donne (dopo La sciantosa e 1943: un incontro). La Magnani è capace <strong>di</strong> infondere<br />

vita e verità umana in un semplice bozzetto, e si avverte un <strong>di</strong>vertimento genuino nei<br />

duetti con Caprioli» (Mereghetti).<br />

Materiale gentilmente concesso da Rai Direzione Teche - Ingresso gratuito<br />

ore 21.45<br />

Stangata napoletana (La trastola) (1983)<br />

Regia: Vittorio Caprioli; soggetto: V. Caprioli, Augusto Caminito; sceneggiatura: V.<br />

Caprioli, A. Caminito, Elvio Porta; fotografia: Giulio Albonico; musica: Antonio<br />

Sinagra; montaggio: Eugenio Alabiso; interpreti: Treat Williams, Margaret Lee,<br />

Geoffrey Copleston, Regina Bianchi, Gigi Reder, Nando Murolo; origine: Italia;<br />

produzione: Rta, Rai; durata: 129’<br />

«A Brooklyn, per vizio car<strong>di</strong>aco, defunge il barone Vincenzo de Fonseca. La salma<br />

viene trasferita a Napoli, accompagnata dalla sua giovane vedova e attesa<br />

dall’aitante figlio, che poi si rivela essere un illegittimo. La vecchia villa <strong>di</strong> famiglia,<br />

oggetto dell’ere<strong>di</strong>tà (che, secondo testamento, toccherebbe alla donna, ma che in<br />

realtà – in pessime con<strong>di</strong>zioni – è già proprietà del Comune <strong>di</strong> Castellamare), viene<br />

sontuosamente allestita per l’occasione ovvero per turlupinare la erede. [...]. Un po’<br />

<strong>di</strong>stratto nella <strong>di</strong>rezione degli attori, un po’ stanco nel tenere le fila, un po’ troppo<br />

immerso nella luce e nel sapore me<strong>di</strong>terranei, il regista regge comunque lo sforzo e<br />

fa anche un po’ <strong>di</strong> giusta tenerezza, specie laddove al consueto cinismo subentra una<br />

giocosità non trattenuta» (Pellizzari). Treat Williams è doppiato da Stefano Satta<br />

Flores. Vittorio Caprioli si riserva un cameo: quello del travestito da vecchia bizzosa<br />

e svanita, che si finge la prima moglie del barone.<br />

lunedì 7<br />

chiuso<br />

8-13 gennaio<br />

Alessandro Blasetti, il primo Maestro del cinema italiano<br />

Seconda parte<br />

Seconda parte della retrospettiva de<strong>di</strong>cata ad Alessandro Blasetti nel ventennale dalla<br />

morte. Dopo aver proposto, a settembre, i film e i documentari <strong>di</strong>retti dal regista dal<br />

1929 al 1945, periodo contrassegnato da una varietà <strong>di</strong> temi e <strong>di</strong> stili, che Blasetti


iuscì sempre a infondere anche in opere realizzate in con<strong>di</strong>zioni sfavorevoli, nella<br />

seconda parte pren<strong>di</strong>amo in considerazione il periodo successivo alla fine della<br />

seconda guerra mon<strong>di</strong>ale. Il periodo del neorealismo e della comme<strong>di</strong>a all’italiana,<br />

ma anche dei film ad episo<strong>di</strong>, dei mondo-movie, delle maggiorate, del <strong>di</strong>vismo e del<br />

boom, l’ultima grande stagione del cinema italiano, nella quale Blasetti si pose<br />

sempre come un innovatore, lanciando attori, generi, perfino mode. È il Blasetti meno<br />

conosciuto, ma che con grande determinazione porta avanti una sua idea <strong>di</strong> cinema,<br />

mettendo la sua arte e la sua esperienza al servizio delle nuove leve, come fece per<br />

anni sui banchi del <strong>Centro</strong> <strong>Sperimentale</strong> <strong>di</strong> <strong>Cinematografia</strong>. Blasetti, soprattutto,<br />

sperimenta, osando, spesso, l’impossibile (para<strong>di</strong>gmatica fu la vicenda <strong>di</strong> Europa <strong>di</strong><br />

notte, rifiutato da tutti i produttori) e destrutturando il plot narrativo con un<br />

linguaggio del tutto innovativo (la straor<strong>di</strong>naria modernità <strong>di</strong> Io, io, io… e gli altri),<br />

che pochi gli riconoscono.<br />

La retrospettiva, organizzata dalla Cineteca Nazionale, doveroso omaggio a uno dei<br />

padri fondatori del Csc, offre l’occasione per una riflessione sull’opera complessiva<br />

del regista, troppo presto <strong>di</strong>menticato. Forse per la sua personalità <strong>di</strong>rompente che ha<br />

lasciato nel cinema italiano un segno inconfon<strong>di</strong>bile, tracciando traiettorie e in<strong>di</strong>rizzi,<br />

poi seguiti e imitati da tutti, ma <strong>di</strong> cui, evidentemente, non è facile ammettere la<br />

paternità. In realtà Blasetti non solo è stato il primo grande Maestro del cinema<br />

italiano, ma ne è stato anche uno dei padri fondatori, a partire dal film-spartiacque<br />

Sole, fino alle ultime prove degli anni Sessanta, sempre orientate dal desiderio <strong>di</strong><br />

trovare nuovi orizzonti. La figura <strong>di</strong> Blasetti sarà approfon<strong>di</strong>to nella tavola rotonda<br />

del 9 gennaio, alla presenza della figlia Mara e <strong>di</strong> critici e uomini <strong>di</strong> cinema che lo<br />

hanno conosciuto e apprezzato.<br />

<strong>marted</strong>ì 8<br />

ore 18.00<br />

Un giorno nella vita (1945)<br />

Regia: Alessandro Blasetti; soggetto: A. Blasetti, Cesare Zavattini; sceneggiatura: A.<br />

Blasetti, Cesare Zavattini, Mario Chiari, Anton Giulio Majano, Diego Fabbri;<br />

fotografia: Mario Craveri; musica: Enzo Masetti; montaggio: Mario Serandrei;<br />

interpreti: Amedeo Nazzari, Massimo Girotti, Elisa Cegani, Arnoldo Foà, Mariella<br />

Lotti, Dina Sassoli; origine: Italia; produzione: Orbis Film; durata: 117’<br />

Un gruppo <strong>di</strong> partigiani per sfuggire ai tedeschi si rifugia in un convento. Dapprima<br />

le suore evitano qualsiasi contatto con loro, poi la necessità <strong>di</strong> soccorrere un ferito<br />

crea l’occasione per una maggiore comprensione. Il neorealismo secondo Blasetti<br />

che non rinuncia ad attori famosi e non scende per strada, chiudendo la macchina da<br />

presa all’interno <strong>di</strong> un convento, ma riesce a restituire e a riaffermare l’umanità che<br />

sopravvive a qualsiasi guerra. «Si osservi anche la perspicacia con cui il regista<br />

controlla e restringe il potenziale melodrammatico <strong>di</strong> Un giorno nella vita […] a<br />

beneficio <strong>di</strong> un’osservazione sfumata e minuziosa delle suore che sfilano davanti alla<br />

macchina da presa. Si apprezzi, inoltre, l’insolita curiosità che lo induce a scovare,<br />

sotto i panni severi e uniformanti <strong>di</strong> un or<strong>di</strong>ne religioso, una soggettività e una<br />

femminilità non sopite, a <strong>di</strong>spetto degli esercizi adottati per il conseguimento <strong>di</strong> un


assoluto <strong>di</strong>stacco dai piaceri e dalle tribolazioni mondane» (Moran<strong>di</strong>ni). Il film fu<br />

prodotto dalla casa <strong>di</strong> produzione cattolica Orbis e costituisce uno dei casi <strong>di</strong><br />

neorealismo <strong>di</strong> ispirazione religiosa, corrente che andrebbe approfon<strong>di</strong>ta.<br />

ore 20.00<br />

Castel S. Angelo (1947)<br />

Regia: Alessandro Blasetti; fotografia: Ubaldo Marelli; musica: Alessandro<br />

Cicognini; origine: Italia; produzione: Universalia; durata: 9’<br />

a seguire<br />

Il duomo <strong>di</strong> Milano (1947)<br />

Regia: Alessandro Blasetti; fotografia: Mario Craveri; musica: Enzo Masetti; origine:<br />

Italia; produzione: Universalia; durata: 12’<br />

a seguire<br />

La gemma orientale dei Papi (1947)<br />

Regia: Alessandro Blasetti; fotografia: Mario Craveri; musica: Enzo Masetti; origine:<br />

Italia; produzione: Universalia; durata: 14’<br />

a seguire<br />

Ippodromi all’alba (1950)<br />

Regia: Alessandro Blasetti; fotografia: Giovanni Ventimiglia jr.; origine: Italia;<br />

produzione: Cofic; durata: 10’<br />

a seguire<br />

Quelli che soffrono per voi… (1951)<br />

Regia: Alessandro Blasetti; commento: A. Blasetti; fotografia: Mario Damicelli;<br />

musica: Gino Marinucci jr.; montaggio: Mario Serandrei; origine: Italia; produzione:<br />

Quadrifoglio-Farmitalia; durata: 12’<br />

a seguire<br />

Miracolo a Ferrara (1953)<br />

Regia: Alessandro Blasetti; origine: Italia; durata: 9’<br />

ore 21.15<br />

Fabiola (1948)<br />

Regia: Alessandro Blasetti; soggetto: dal romanzo Fabiola o la chiesa delle<br />

catacombe <strong>di</strong> Nicholas Wiseman; sceneggiatura: A. Blasetti, Jean-Georges Auriol,<br />

Antonio Pietrangeli, Diego Fabbri, Cesare Zavattini, Emilio Cecchi, Vitaliano<br />

Brancati, Corrado Pavolini, Suso Cecchi d’Amico, Umberto Barbaro, Mario Chiari,<br />

Lionello De Felice, Alberto Vecchietti; fotografia: Mario Craveri, Ubaldo Marelli;<br />

musica: Enzo Masetti; montaggio: Mario Serandrei; interpreti: Michèle Morgan,<br />

Henri Vidal, Elisa Cegani, Michel Simon, Gino Cervi, Massimo Girotti; origine:<br />

Italia; produzione: Universalia; durata: 164’


La storia <strong>di</strong> Fabiola, figlia <strong>di</strong> un senatore romano che viene assassinato perché<br />

intenzionato a dare la libertà ai suoi servi. Della sua morte vengono ingiustamente<br />

accusati e sottoposti a persecuzioni i cristiani, ma Fabiola si convince che non sono<br />

stati loro. Film de<strong>di</strong>cato, come recita un cartello nei titoli <strong>di</strong> testa, «agli offesi ai<br />

perseguitati alle vittime <strong>di</strong> ogni violenza», tratto dal celebre romanzo del car<strong>di</strong>nale<br />

Wiseman e sceneggiato da uno stuolo <strong>di</strong> sceneggiatori che coprivano l’intero “arco<br />

costituzionale”. Si pensava così <strong>di</strong> ovviare al forte “marchio” impresso dalla casa <strong>di</strong><br />

produzione cattolica Universalia, guidata dal geniale Salvo D’Angelo, il quale mise<br />

in pie<strong>di</strong> la prima coproduzione italo-francese (poi non formalmente non ratificata<br />

anche se le quote nel cast sono rispettate e compaiono molto attori francesi). Una<br />

parte dei sol<strong>di</strong> devoluti per il film furono utilizzati da D’Angelo, con il consenso <strong>di</strong><br />

Blasetti, per portare a termine La terra trema <strong>di</strong> Visconti, mentre per l’occasione fu<br />

restaurato i due teatro <strong>di</strong> posa del <strong>Centro</strong> <strong>Sperimentale</strong> <strong>di</strong> <strong>Cinematografia</strong>, dopo i<br />

bombardamenti della guerra, e uno fu costruito ex novo. Del resto, si trattava della<br />

prima superproduzione del dopoguerra ed ebbe un notevole successo al botteghino<br />

(primo posto negli incassi). Il film venne venduto a scatola chiusa in trenta Paesi<br />

prima che fosse terminato grazie ai nome delle persone coinvolte, la gran<strong>di</strong>osità<br />

dell’assunto e la qualità fotografica. Mario Verdone su «Bianco e Nero» <strong>di</strong>fese il film<br />

dalle accuse (dovute, secondo Blasetti, all’eccessiva pubblicità attorno al film, agli<br />

elevati costi <strong>di</strong> produzione, al pregiu<strong>di</strong>zio verso i film in costume e, non per ultimo,<br />

alla connotazione politica dell’operazione, dalla casa <strong>di</strong> produzione al contenuto<br />

stesso del film, fattori che impe<strong>di</strong>vano un giu<strong>di</strong>zio sereno sull’opera): «Ingiusta,<br />

inoltre, ci pare l’accusa <strong>di</strong> falsi e cartapeste che sarebbero molto evidenti in Fabiola:<br />

dove cuoi e metalli, vesti e armamenti, sono spesso autentici, tanto che proprio in tali<br />

voci è da ricercare una delle ragioni dell’alto costo del film. La tenacia e lo sforzo<br />

che hanno portato a termine questa complessa fatica non sono comuni e fuor <strong>di</strong><br />

luogo ci appare qualunque immotivata svalutazione».<br />

mercoledì 9<br />

ore 17.00<br />

Tempi nostri (Zibaldone n. 2) (1954)<br />

Regia: Alessandro Blasetti; soggetto: da vari racconti del Novecento scelti da A.<br />

Blasetti e Suso Cecchi d’Amico; sceneggiatura: Ennio Flaiano, S. Cecchi d’Amico,<br />

Vasco Pratolini, A. Blasetti, Alessandro Continenza, Giorgio Bassani, Giuseppe<br />

Marotta, Eduardo De Filippo, Age & Scarpelli; fotografia: Gabor Pogany; musica:<br />

Alessandro Cicognini, G. C. Sonzogno, Gorni Kramer; montaggio: Mario Serandrei;<br />

interpreti: Vittorio De Sica, Marcello Mastroianni, Yves Montand, Totò, Sophia<br />

Loren, Vittorio Caprioli; origine: Italia/France; produzione: Cines, Lux Film, Lux<br />

C.C.F.; durata: 110’<br />

Film ad episo<strong>di</strong> sulla scia <strong>di</strong> Altri tempi, ispirato però a racconti contemporanei.<br />

«L’originalità e la ricchezza dell’operazione condotta da Blasetti possono essere<br />

adeguatamente apprezzate solo considerando i due zibaldoni nella loro integrità,<br />

cioè valutando la scelta del regista <strong>di</strong> presentare brevi, e talora brevissimi, racconti<br />

cinematografici in modo da far coesistere opzioni stilistiche e tonalità narrative


assolutamente inconciliabili in un film dalla struttura tra<strong>di</strong>zionale. […] Gli<br />

zibaldoni, insomma, appaiono un vero e proprio laboratorio <strong>di</strong> ricerca,<br />

estremamente ricco <strong>di</strong> sollecitazioni e anche un po’ caotico, in cui si incrociano e<br />

interagiscono modelli eterogenei <strong>di</strong> racconto, spunti tematici variegati, ine<strong>di</strong>te<br />

combinazioni <strong>di</strong> attori, registri stilistici <strong>di</strong>versificati, tutti elementi destinati a essere<br />

riproposti da Blasetti nei suoi film successivi, o, ad<strong>di</strong>rittura, a <strong>di</strong>venire autentici<br />

motivi conduttori per il cinema italiano nel suo complesso» (David Bruni).<br />

Viene qui presentato senza l’episo<strong>di</strong>o Scusi, ma…, <strong>di</strong>sconosciuto da Blasetti.<br />

ore 19.00<br />

Incontro moderato da Alfredo Bal<strong>di</strong> con Mara Blasetti, Carlo Caprioli, Callisto<br />

Cosulich, Brando Giordani, Luigi Di Gianni, Citto Maselli, Giuliano Montaldo,<br />

Gian Luigi Ron<strong>di</strong>, Piero Tosi, Tonino Valerii, Luca Verdone<br />

ore 21.00<br />

Altri tempi (Zibaldone n. 1) (1952)<br />

Regia: Alessandro Blasetti; soggetto: da vari racconti dell’Ottocento scelti da A.<br />

Blasetti e Suso Cecchi d’Amico; sceneggiatura: Oreste Biancoli, A. Blasetti,<br />

Vitaliano Brancati, Gaetano Carancini, S. Cecchi d’Amico, Alessandro Continenza,<br />

Italo Dragosei, Brunello Ron<strong>di</strong>, Vincenzo Marinucci, Augusto Mazzetti, Filippo<br />

Mercati [Luigi Filippo D’Amico], Turi Vasile, Giuseppe Zucca; fotografia: Carlo<br />

Montuori, Gabor Pogany; musica: Alessandro Cicognini; montaggio: Mario<br />

Serandrei; interpreti: Aldo Fabrizi, Pina Renzi, Elisa Cegani, Amedeo Nazzari,<br />

Vittorio De Sica, Gina Lollobrigida, Vittorio Caprioli; origine: Italia; produzione:<br />

Cines; durata: 126’<br />

Film epocale per il cinema italiano. In un colpo solo Blasetti lancia la formula del<br />

film a episo<strong>di</strong> e inaugura il fenomeno delle maggiorate con l’episo<strong>di</strong>o Il processo <strong>di</strong><br />

Frine, interpretato da Gina Lollobrigida (accanto a uno splen<strong>di</strong>do Vittorio De Sica).<br />

Ma, a detta della figlia Mara, Blasetti ha altri meriti. Nessun produttore credeva nel<br />

progetto <strong>di</strong> un film strutturato su tante piccole storie. Solo Carlo Civallero della<br />

Cines accettò <strong>di</strong> produrre il film, imponendo però come con<strong>di</strong>zione che Blasetti<br />

girasse anche La fiammata. Blasetti pretese in cambio la presenza <strong>di</strong> De Sica, che<br />

rilanciò dopo un periodo <strong>di</strong>fficile. Come <strong>di</strong>chiarato dallo stesso autore ne<br />

L’avventurosa storia del cinema italiano <strong>di</strong> Fofi-Fal<strong>di</strong>ni: «La verità è che il mio nome<br />

<strong>di</strong> attore non valeva più gran che prima che Blasetti mi offrisse quella parte <strong>di</strong><br />

avvocatucolo napoletano, forse ad<strong>di</strong>rittura non valeva più nulla. Non so bene perché,<br />

forse mi si giu<strong>di</strong>cava vecchio, forse la campagna scatenata contro <strong>di</strong> me quale autore<br />

<strong>di</strong> film neorealista produceva i suoi effetti proprio là, nel terreno della recitazione».<br />

Per le storie Blasetti si ispirò a vari racconti dell’Ottocento, <strong>di</strong>mostrando che dalle<br />

fonti letterarie anche il cinema italiano uscito dal dopoguerra poteva trarre ottimi<br />

spunti per film “moderni” (<strong>di</strong> lì a poco Visconti girerà Senso tratto dalla novella <strong>di</strong><br />

Boito). E soprattutto risvegliando l’interesse per il cinema da parte degli scrittori.<br />

Inoltre, nell’idea <strong>di</strong> cinema <strong>di</strong> Blasetti il film a episo<strong>di</strong> permetteva ai produttori <strong>di</strong><br />

lanciare senza rischi giovani registi, ai quali affidare un episo<strong>di</strong>o accanto a quelli


girati da gran<strong>di</strong> maestri. Una linea che, purtroppo, non fu seguita. «Altri tempi<br />

(1952) e Tempi nostri (1954) nascono da un consapevole progetto <strong>di</strong> politica<br />

culturale e scaturiscono entrambi dalla proposta <strong>di</strong> offrire originali soluzioni –<br />

narrative e produttive – al nostro sistema cinematografico» (David Bruni).<br />

Ingresso gratuito<br />

giovedì 10<br />

ore 18.00<br />

La fiammata (1952)<br />

Regia: Alessandro Blasetti; soggetto: dal dramma omonimo <strong>di</strong> Henry Kistemaekers;<br />

sceneggiatura: Vitaliano Brancati, Leonardo Benvenuti, Filippo Mercati, A. Blasetti;<br />

fotografia: Carlo Montuori; musica: Alessandro Cicognini; montaggio: Mauro<br />

Serandrei; interpreti: Eleonora Rossi Drago, Amedeo Nazzari, Elisa Cegani, Carlo<br />

Ninchi, Rolf Tasna, Roldano Lupi; origine: Italia; produzione: Cines; durata: 83’<br />

Nel secolo scorso, in Francia, una donna si batte per <strong>di</strong>mostrare l’innocenza del<br />

marito, accusato <strong>di</strong> omici<strong>di</strong>o. Film poco amato da Blasetti («Con La fiammata avrei<br />

<strong>di</strong>mostrato che nemmeno una sufficiente regia può sollevare il livello <strong>di</strong> un testo<br />

me<strong>di</strong>ocre), che lo accettò in cambio della possibilità <strong>di</strong> avere De Sica in Altri tempi,<br />

ma che si fa apprezzare per le scenografie <strong>di</strong> Mario Chiari e i costumi <strong>di</strong> Maria De<br />

Matteis e per l’energica interpretazione <strong>di</strong> Eleonora Rossi Drago. Nel film<br />

compaiono Mario Scaccia, Sergio Tofano, Delia Scala e Gustavo Serena, grande<br />

regista del muto.<br />

ore 19.30<br />

La lepre e la tartaruga (ep. de Le quattro verità, 1962)<br />

Regia: Alessandro Blasetti; soggetto: dalla favola omonima <strong>di</strong> Jean de La Fontaine;<br />

sceneggiatura: A. Blasetti, Suso Cecchi d’Amico; fotografia: Carlo Di Palma;<br />

musica: Carlo Savina; montaggio: Giuliana Tauger; interpreti: Monica Vitti, Sylva<br />

Koscina, Rossano Brazzi, Gianrico Tedeschi, Mario Passante; origine:<br />

Italia/Francia/Spagna; produzione: Ajace Cinematografica, Euro International Films,<br />

Franco London Film, Madeleine Films, Hispaner Film; durata: 34’<br />

Una moglie tra<strong>di</strong>ta cerca <strong>di</strong> riconquistare il marito. Blasetti adatta la favola <strong>di</strong> La<br />

Fontaine in sentimentale giocando sul tema della seduzione e sui tempi dell’amore.<br />

Grande prova <strong>di</strong> Monica Vitti, lanciata in un ruolo brillante da Blasetti dopo le<br />

esperienze da attrice drammatica con Antonioni. Gli altri episo<strong>di</strong> sono <strong>di</strong>retti da Luis<br />

Garcia Berlanga, Hervé Bromberger e René Clair.<br />

a seguire<br />

Prima comunione (1950)<br />

Regia: Alessandro Blasetti; soggetto: Cesare Zavattini; sceneggiatura: A. Blasetti, C.<br />

Zavattini, Suso Cecchi d’Amico; fotografia: Mario Craveri; musica: Alessandro<br />

Cicognini; montaggio: Mario Serandrei; interpreti: Aldo Fabrizi, Gaby Morlay,<br />

Ludmilla Dudarova, Lucien Baroux, Enrico Viarisio, Andreina Mazzotti; origine:<br />

Italia/Francia; produzione: Universalia, Franco London Film; durata: 90’


Il giorno della prima comunione della figlia si trasforma per il commendator Carloni<br />

in una serie interminabile <strong>di</strong> incidenti e imprevisti. Cameo <strong>di</strong> Louis De Funès nella<br />

parte <strong>di</strong> un prete. «Con Prima comunione, ennesimo appello alla bontà e alla<br />

comprensione tra gli uomini, Blasetti si misura con la comme<strong>di</strong>a. Ma tratta il genere<br />

i modo affatto <strong>di</strong>verso dai “neorealisti rosa” che <strong>di</strong> lì a poco si sarebbero imposti<br />

con Due sol<strong>di</strong> <strong>di</strong> speranza (1952) e i vari Pane, amore… La vicenda, girata quasi in<br />

tempo reale, è estremamente stilizzata e procede a ritmo <strong>di</strong> balletto, in una sorta <strong>di</strong><br />

frenetica corsa contro il tempo scan<strong>di</strong>ta da tutta una serie <strong>di</strong> gag – non a caso si è<br />

fatto il nome <strong>di</strong> René Clair. Inoltre Blasetti […] sottopone ad una satira corrosiva gli<br />

egoismi, le meschinità, la necessità <strong>di</strong> apparire ma non <strong>di</strong> essere, che sono tipici del<br />

mondo borghese, personificato dal perfetto parvenu commendator Carloni, fino a<br />

mettere sotto accusa il cattolicesimo ipocrita e <strong>di</strong> facciata <strong>di</strong> tutto il popolo» (Gori).<br />

Blasetti, dopo aver impiegato attori presi dalla strada in tempi non sospetti (Sole e<br />

1860), in antitesi al neorealismo chiama a interpretare Prima comunione tutti attori<br />

professionisti e il film segna il passaggio dal neorealismo alla comme<strong>di</strong>a all’italiana.<br />

Copia proveniente dalla Cineteca <strong>di</strong> Bologna<br />

ore 22.00<br />

Amore e chiacchiere (Salviamo il panorama) (1957)<br />

Regia: Alessandro Blasetti; soggetto: Cesare Zavattini; sceneggiatura: C. Zavattini,<br />

Alessandro Blasetti, Isa Bartalini; fotografia: Gabor Pogany; musica: Mario<br />

Nascimbene; montaggio: Mario Serandrei; interpreti: Vittorio De Sica, Gino Cervi,<br />

Carla Gravina, Geronimo Meyner, Elisa Cegani, Alessandra Panaro; origine:<br />

Italia/Spagna; produzione: Electra Compagnia Cinematografica, Ariel Film; durata:<br />

92’<br />

Un ricco industriale si oppone alla costruzione <strong>di</strong> un ospizio che deturperebbe il<br />

panorama ammirabile dalla sua villa, cercando <strong>di</strong> vincere la resistenza del<br />

vicesindaco. Altra comme<strong>di</strong>a <strong>di</strong> caratteri <strong>di</strong> Blasetti, «percorsa da una vena <strong>di</strong> satira<br />

politica in<strong>di</strong>rizzata contro le “chiacchiere” dei vecchi, contro la vuota retorica delle<br />

molte parole e dei pochi fatti della generazione più anziana. […] Per contro, si<br />

avverte una partecipazione piena <strong>di</strong> affetto ai problemi delle nuove generazioni»<br />

(Gori). Per Blasetti è il suo film che «meglio riflette i <strong>di</strong>fetti degli italiani».<br />

venerdì 11<br />

ore 18.00<br />

Liolà (1963)<br />

Regia: Alessandro Blasetti; soggetto: dalla comme<strong>di</strong>a omonima <strong>di</strong> Luigi Pirandello;<br />

sceneggiatura: Sergio Amidei, Elio Bartolini, Adriano Bolzoni, Carlo Romano, A.<br />

Blasetti; fotografia: Leonida Barboni, Tonino Delli Colli, Carlo Di Palma; musica:<br />

Carlo Savina; origine: Italia/Francia; produzione: Film Napoleon, Federiz, Francinex,<br />

Franco London Film; durata: 101’<br />

Il seduttore siciliano Liolà passa <strong>di</strong> conquista in conquista, trovandosi coinvolto in<br />

situazioni intricate e portando a casa il frutto dei suoi amori (cinque figli da donne


<strong>di</strong>verse). Il cremonese Tognazzi nella parte <strong>di</strong> un siciliano è fuori ruolo e la<br />

trasposizione della comme<strong>di</strong>a <strong>di</strong> Pirandello non decolla.<br />

ore 20.00<br />

Peccato che sia una canaglia (1954)<br />

Regia: Alessandro Blasetti; soggetto: dal racconto Il fanatico <strong>di</strong> Alberto Moravia;<br />

sceneggiatura: Suso Cecchi D’Amico, Ennio Flaiano, Alessandro Continenza;<br />

fotografia: Aldo Giordani; musica: Alessandro Cicognini; montaggio: Mario<br />

Serandrei; interpreti: Sophia Loren, Marcello Mastroianni, Vittorio De Sica, Umberto<br />

Melnati, Margherita Bagni, Walter Bartoletti; origine: Italia; produzione: Documento<br />

Film; durata: 95’<br />

Un tassista conosce una ragazza, figlia <strong>di</strong> un ladro <strong>di</strong> valigie e de<strong>di</strong>ta anche lei al<br />

furto, insieme a due compari. I tre orchestrano un colpo ai danni del tassista<br />

sfruttando la bellezza e le doti <strong>di</strong> seduzione della ragazza, ma il tassista s’invaghisce<br />

veramente <strong>di</strong> lei. Blasetti lancia la coppia per eccellenza del cinema italiano, Loren-<br />

Mastroianni, optando per la comme<strong>di</strong>a <strong>di</strong> caratteri: «Prima crea dei personaggi con<br />

un loro carattere, poi da questi caratteri fa <strong>di</strong>pendere l’azione; quin<strong>di</strong> stabilisce che<br />

a prendere l’iniziativa sia il personaggio femminile […]; infine sceglie l’happy end<br />

programmatico. È questo, detto in maniera assai schematica, il modello blasettiano<br />

<strong>di</strong> comme<strong>di</strong>a» (Gori). «Il film si articola su un ritmo vivacissimo in cui l’assoluta<br />

pulizia formale, il gusto <strong>di</strong> molte situazioni narrative e la perizia della<br />

interpretazione concorrono a creare un equilibrio e una spigliatezza non comuni»<br />

(Ghelli).<br />

ore 22.00<br />

La fortuna <strong>di</strong> essere donna (1955)<br />

Regia: Alessandro Blasetti; soggetto: Suso Cecchi d’Amico, Ennio Flaiano,<br />

Alessandro Continenza; sceneggiatura: S. Cecchi d’Amico, E. Flaiano, Alessandro<br />

Continenza, A. Blasetti; fotografia: Otello Martelli; musica: Alessandro Cicognini;<br />

montaggio: Mario Serandrei; interpreti: Sophia Loren, Marcello Mastroianni, Charles<br />

Boyer, Elisa Cegani, Nino Besozzi, Titina De Filippo; origine: Italia/Francia;<br />

produzione: Documenti Film, Le Louvre Film; durata: 100’<br />

Una ragazza è <strong>di</strong>sposta a tutto pur <strong>di</strong> entrare nel mondo del cinema. A tal fine si lega<br />

a un fotografo, non meno cinico e spregiu<strong>di</strong>cato, finché fra <strong>di</strong> loro scatta la scintilla<br />

che cambia i loro piani. Dopo Peccato che sia una canaglia, altra grande occasione<br />

per la coppia nascente Loren-Mastroianni. «Con La fortuna <strong>di</strong> essere donna<br />

Alessandro Blasetti ha ritentato la via del successo me<strong>di</strong>ante la comme<strong>di</strong>a <strong>di</strong> costume<br />

che aveva già trovato in lui un efficace illustratore in Peccato che sia una canaglia e,<br />

prima ancora, in Prima comunione. Non è una novità il <strong>di</strong>re che Blasetti è uno dei<br />

nostri registi più sicuri, un attento osservatore della società contemporanea, un<br />

interprete estroso e spesso geniale <strong>di</strong> tutti quei fermenti <strong>di</strong> vita suscettibili <strong>di</strong> essere<br />

rivelati al fuoco della macchina da presa» (Solmi).<br />

sabato 12


ore 16.15<br />

Europa <strong>di</strong> notte (1959)<br />

Regia: Alessandro Blasetti; soggetto e sceneggiatura: Gualtiero Jacopetti, Ennio De<br />

Concini; interpreti: Coro D’Ucraina, Danzatori ucraini “Orly”, Croq Messieurs, Le<br />

Carousel Quintero, The Platters, Domenico Modugno; fotografia: Gabor Pogany;<br />

musica: Carlo Savina; montaggio: Mario Serandrei; voce: Corrado Mantoni (non<br />

accre<strong>di</strong>tato); origine: Italia; produzione: Aversa Film, Avers Film; durata: 98’<br />

«Nel mettere il cinema al servizio <strong>di</strong> altre forme <strong>di</strong> spettacolo per conservarne la<br />

memoria, Blasetti da una parte <strong>di</strong>mostra una perfetta coscienza dell’incipiente<br />

tecnica televisiva (il film è costruito come una <strong>di</strong>retta tv, non più opera unitaria,<br />

bensì assemblaggio <strong>di</strong> frammenti) e dall’altra coglie con perfetto tempismo gli umori<br />

dell’Italia del boom: i primi sussulti del rock and roll, ma soprattutto i primi brivi<strong>di</strong><br />

del sesso come svago collettivo notturno. Nonostante la censura, saranno proprio le<br />

sequenze degli spogliarelli, soprattutto quelli del Crazy Horse, acme del binomio<br />

erotismo-esotismo, a dare origine al filone cinematografico sexy che cominciò a<br />

imperversare nelle sale negli anni Sessanta. Dal punto <strong>di</strong> vista del costume, Europa<br />

<strong>di</strong> notte contribuì all’“allineamento dell’Italia con gli altri paesi dell’Occidente<br />

sviluppato”, dal punto <strong>di</strong> vista tecnico, vanno sottolineate l’elaborazione<br />

dell’inquadratura, la ricerca sul colore (<strong>di</strong>rettore della fotografia è Gabor Pogany) e<br />

il lavoro sul ritmo frutto del montaggio <strong>di</strong> Mario Serandrei» (Mereghetti).<br />

Come già accaduto per Altri tempi, anche Europa <strong>di</strong> notte fu un progetto osteggiato<br />

dai produttori, che non colsero le potenzialità del film, salvo poi lanciarsi, dopo il<br />

successo clamoroso al botteghino, in una serie infinita <strong>di</strong> prodotti <strong>di</strong> imitazione. A<br />

produrre il film fu Fabio Jegher, uno dei fondatore della Sisal, che voleva investire<br />

dei sol<strong>di</strong> nel cinema e realizzò così, dopo il lancio del Totocalcio, un secondo grande<br />

fenomeno popolare, tipicamente italico.<br />

ore 18.00<br />

Io amo, tu ami… (1961)<br />

Regia: Alessandro Blasetti; soggetto: A. Blasetti; sceneggiatura: Luigi Chiarini, Carlo<br />

Romano, Antonio Savignano, A. Blasetti; fotografia: Aldo Tonti; musica: Carlo<br />

Savina; montaggio: Tatiana Casini; origine: Italia/Francia; produzione: Dino De<br />

Laurentiis, Orsay Film; durata: 105’<br />

Panoramica degli spettacoli incentrati sul tema dell’amore da Parigi a Mosca.<br />

Ideale prosecuzione <strong>di</strong> Europa <strong>di</strong> notte, con una struttura più articolata e qualche<br />

episo<strong>di</strong>o della vita reale (compare anche Giuliano Gemma). «Blasetti è uno dei pochi<br />

cineasti italiani capaci <strong>di</strong> allestire uno spettacolo che sia nel contempo piacevole e<br />

stimolante. […] «Quanto ci viene presentato appartiene a una selezione sorretta da<br />

un gusto coltivato […] da un umorismo cor<strong>di</strong>ale e sanguigno, e da una sapienza<br />

cinematografica, la quale tocca punte <strong>di</strong> intima vibrazione in quella serie <strong>di</strong> ritratti<br />

<strong>di</strong> volti femminili» (Argentieri). Primo film italiano girato in Russia.<br />

ore 20.00<br />

Io, io, io… e gli altri (Conferenza con proiezione) (1966)


Regia: Alessandro Blasetti; soggetto: A. Blasetti; sceneggiatura: A. Blasetti, Carlo<br />

Romano, Age & Scarpelli, Adriano Baracco, Leo Benvenuti, Piero De Bernar<strong>di</strong>,<br />

Lianella Carell, Suso Cecchi d’Amico, Ennio Flaiano, Giorgio Rossi, Libero Solaroli,<br />

Vincenzo Talarico; fotografia: Aldo Giordani; musica: Carlo Rustichelli; montaggio:<br />

Tatiana Casini; interpreti: Walter Chiari, Gina Lollobrigida, Vittorio De Sica,<br />

Marcello Mastroianni, Silvana Mangano, Nino Manfre<strong>di</strong>; origine: Italia; produzione:<br />

Cineluxor, Rizzoli Film; durata: 112’<br />

Un giornalista decide <strong>di</strong> condurre un’inchiesta sull’egoismo umano, però man mano<br />

che l’inchiesta procede l’atto d’accusa si trasforma in una presa <strong>di</strong> coscienza e in<br />

una confessione. «Ho voluto fare un film che fosse una specie <strong>di</strong> lezione conclusiva<br />

sui danni e sui guasti dell’egoismo, che è all’origine dell’intolleranza e dell’o<strong>di</strong>o»<br />

(Blasetti). Film <strong>di</strong> grande (post) modernità in cui Blasetti rinnova il linguaggio<br />

cinematografico, sostenuto da un intonato Walter Chiari in una delle sue migliori<br />

interpretazioni.<br />

ore 22.00<br />

La ragazza del bersagliere (1967)<br />

Regia: Alessandro Blasetti; soggetto: dalla comme<strong>di</strong>a La fidanzata del bersagliere <strong>di</strong><br />

Edoardo Anton; sceneggiatura: Leo Benvenuti, Piero De Bernar<strong>di</strong>, Carlo Romano, A.<br />

Blasetti; fotografia: Armando Nannuzzi; montaggio: Tatiana Casini; interpreti:<br />

Graziella Granata, Antonio Casagrande, Vittorio Caprioli, Rossano Brazzi, Leopoldo<br />

Trieste, Tony Renis; origine: Italia; produzione: Rizzoli Film; durata: 107’<br />

Una ragazza s’innamora <strong>di</strong> un bersagliere, il quale, però, perde la vita. Dall’alto<br />

continuerà a vegliare su <strong>di</strong> lei. «Blasetti è un regista tanto sicuro <strong>di</strong> sé che può<br />

permettersi il lusso <strong>di</strong> fare quello che vuole quando si trova <strong>di</strong>etro la macchina da<br />

presa […]. Guardate come ha messo sotto torchio i suoi interpreti: dalla splen<strong>di</strong>da<br />

Graziella Granata, spontanea, imme<strong>di</strong>ata, convincente, ad Antonio Casagrande,<br />

verosimile, spavaldo, quasi sempre cre<strong>di</strong>bile […]. Accanto a loro sono da ricordare,<br />

e da lodare senza riserve, un ottimo Caprioli, un’efficace Franca Valeri, un colorito<br />

Rossano Brazzi» (Talarico). Piccolissima parte per Gigi Proietti, in una delle sue<br />

prime interpretazioni.<br />

Copia proveniente dalla Cineteca <strong>di</strong> Bologna<br />

domenica 13<br />

Blasetti e la tv<br />

ore 17.00-23.00<br />

Una giornata de<strong>di</strong>cata al Blasetti televisivo con proiezioni <strong>di</strong> programmi realizzati dal<br />

Maestro.<br />

«Blasetti è stato se non il primo, uno dei primi registi italiani <strong>di</strong> cinema a lavorare per<br />

la televisione. Debuttò nel 1962 con La lunga strada del ritorno. Ma nel suo lavoro la<br />

presenza del nuovo me<strong>di</strong>um era avvertibile, almeno a livello sintomatico, sin dalle<br />

antologie documentaristiche e con ogni probabilità ancor prima, con i film ad episo<strong>di</strong>.<br />

Fisicamente, inoltre, la televisione appariva già all’inizio <strong>di</strong> Tempi nostri, poi in<br />

Amore e chiacchiere e Europa <strong>di</strong> notte. Così sembra abbastanza logico, quasi


naturale, che Blasetti si cimenti precocemente – come <strong>di</strong> lì a poco farà un altro grande<br />

del cinema italiano, Rossellini – col nuovo me<strong>di</strong>um. C’è anche un’altra ragione a<br />

spingerlo: se il cinema è per lui essenzialmente uno spettacolo “destinato alla grande<br />

folla” ancor <strong>di</strong> più lo è la televisione. “Milioni <strong>di</strong> italiani – <strong>di</strong>ce Blasetti – ogni sera<br />

sono “visitati” dalla televisione: e questi sono la grande massa”. Ad informare questa<br />

massa dovrà essere <strong>di</strong>retto il lavoro del regista. Le premesse <strong>di</strong> Blasetti hanno<br />

qualche analogia con quelle <strong>di</strong> Rossellini, ma ne <strong>di</strong>vergono in fase realizzativa.<br />

Entrambi scelgono il campo dell’informazione come terreno privilegiato, ma<br />

Rossellini lavora nella fiction mentre Blasetti opta per il documentario e il film <strong>di</strong><br />

montaggio, sconfinando solo due volte nel campo della finzione, con Racconti <strong>di</strong><br />

fantascienza (1978) e Napoli 1860: La fine dei Borboni (1970), un ritorno alle<br />

tematiche <strong>di</strong> 1860 che vuol essere anche una sorta <strong>di</strong> “controstoria”, tesa a<br />

ri<strong>di</strong>mensionare i luoghi comuni storici sui Borboni. Storie sull’emigrazione (1972),<br />

invece, è un film <strong>di</strong> montaggio estremamente interessante che mescola documento e<br />

fiction; il resto è solo “documento”: dal ben riuscito La lunga strada del ritorno, che<br />

incrocia brani documentari sulla guerra a interviste coi combattenti che vi avevano<br />

preso parte, al piuttosto agiografico Gli italiani del cinema italiano (1964), a<br />

Venezia: una mostra per il cinema (1981)» (Gori).<br />

Materiale gentilmente concesso da Rai Direzione Teche - Ingresso gratuito<br />

ore 16.30<br />

Storie sull'emigrazione - 1^ puntata (1972, 60')<br />

ore 17.30<br />

La lunga strada del ritorno (1962, 134')<br />

ore 20.00<br />

Racconti <strong>di</strong> fantascienza - 1^ puntata (1978, 52')<br />

ore 21.00<br />

Il mio amico Pietro Germi (1980, 99')<br />

ore 22.45<br />

Gli italiani del cinema italiano - 1^ puntata (1964, 64')<br />

lunedì 14<br />

chiuso<br />

<strong>marted</strong>ì 15<br />

(In)visibile italiano. Le metropoli del crimine<br />

Nuovo appuntamento con (In)visibile italiano e la riscoperta <strong>di</strong> film del cinema<br />

italiano meno conosciuti, ma meritevoli <strong>di</strong> essere (ri)visti. Questo mese proponiamo<br />

tre film dell’anno <strong>di</strong> grazia (per il cinema italiano) 1976, in pieno boom del poliziesco<br />

all’italiana, quando il <strong>di</strong>sagio sociale trova imme<strong>di</strong>ata espressione in pellicole crude


ed efferate, ma spesso venate da una malinconia e da un’ironia, meritevoli <strong>di</strong><br />

maggiore considerazione. Com’è il caso dei film proposti in quest’occasione, in cui<br />

giungono gli echi del cinema d’oltreoceano (la Cia in Genova a mano armata, la<br />

mafia americana in Con la rabbia negli occhi), modello <strong>di</strong> riferimento per storie <strong>di</strong><br />

pura azione. E il segno del cinema americano è ancor più presente nel cast dei film,<br />

interpretati da star hollywoo<strong>di</strong>ane come Yul Brinner o da vecchie glorie come Mel<br />

Ferrer e Martin Balsam o giovani rampanti come Tony Lo Bianco, e nell’occhio della<br />

macchina da presa che ritrae le metropoli del crimine, Genova, Roma e Napoli, in<br />

mo<strong>di</strong> completamente <strong>di</strong>fferenti da quelli abituali. Le tre città svelano i loro angoli più<br />

recon<strong>di</strong>ti al servizio <strong>di</strong> storie avvincenti, dense <strong>di</strong> colpi <strong>di</strong> scene: ultimi fuochi <strong>di</strong> un<br />

cinema italiano che stava perdendo la capacità <strong>di</strong> tenere lo spettatore con il fiato<br />

sospeso.<br />

ore 18.00<br />

Genova a mano armata (1976)<br />

Regia: Mario Lanfranchi; soggetto e sceneggiatura: M. Lanfranchi; fotografia:<br />

Federico Zanni; musica: Franco Micalizzi; montaggio: Daniele Alabiso; interpreti:<br />

Tony Lo Bianco, Adolfo Celi, Maud Adams, Howard Ross [Renato Rossini], Fiona<br />

Florence [Luisa Alcini], Yanti Somer; origine: Italia; produzione: Intervision; durata:<br />

93’<br />

Un agente ra<strong>di</strong>ato dalla Cia apre a Genova un’agenzia investigativa e viene<br />

incaricato <strong>di</strong> indagare sulla morte <strong>di</strong> un armatore. La sua vita è appesa a un filo.<br />

Secondo Marco Giusti «il più fine dei poliziotteschi girati a Genova». Gran<strong>di</strong> duetti<br />

fra Tony Lo Bianco e Adolfo Celi in un film che restituisce interamente il fascino<br />

cinematografico <strong>di</strong> Genova. Lanfranchi, grande regista <strong>di</strong> opere liriche, lasciò un<br />

segno anche nel cinema con questo film e con il western Sentenza <strong>di</strong> morte.<br />

ore 20.00<br />

Con la rabbia agli occhi (1976)<br />

Regia: Anthony M. Dawson [Antonio Margheriti]; soggetto: Pier Luigi Andreani,<br />

Leila Bongiorno; sceneggiatura: Guido Castaldo, Giacomo Furia; fotografia: Sergio<br />

D’Offizi; musica: Guido e Maurizio De Angelis; montaggio: Mario Morra; interpreti:<br />

Yul Brinner, Massimo Ranieri, Barbara Bouchet, Martin Balsam, Giancarlo Sbragia,<br />

Giacomo Furia; origine: Italia; produzione: Giovine Cinematografica; durata: 98’<br />

Un killer della mafia viene mandato dall’America a Napoli per eliminare un boss. Un<br />

giovane che vive <strong>di</strong> espe<strong>di</strong>enti fa <strong>di</strong> tutto per lavorare con lui. «L’idea <strong>di</strong> inserire Y.<br />

Brinner e M. Ranieri in una storia <strong>di</strong> mafia sembra azzardata, ma funziona. Il<br />

mestiere <strong>di</strong> A. Dawson (all’anagrafe Antonio Margheriti) tiene in pie<strong>di</strong> il film»<br />

(Moran<strong>di</strong>ni). «Antonio aveva un ottimo ricordo <strong>di</strong> questo film, <strong>di</strong> cui teneva un<br />

manifesto 140 x 70 incorniciato nel suo stu<strong>di</strong>o. Un manifesto con il titolo inglese<br />

“Death Rage”, perché una sola cosa non gli era mai piaciuta e non gli andava giù,<br />

la scelta del titolo da parte del <strong>di</strong>stributore italiano: “Un titolo privo <strong>di</strong> senso,<br />

deviante e completamente fuori film...” <strong>di</strong>ceva, e scherzosamente, quando ne parlava,<br />

aggiungeva: “Con la rabbia agli occhi, la puzza al naso, e le pezze al cu....”, ma


Antonio amava questo suo figliolo, ed era orgoglioso <strong>di</strong> averlo fatto, anche se per la<br />

sua natura modesta e scherzosamente denigratoria del suo lavoro, lo prendeva in<br />

giro» (Edoardo Margheriti dal sito www.antoniomargheriti.com).<br />

ore 21.45<br />

L’avvocato della mala (1976)<br />

Regia: Alberto Marras; soggetto: A. Marras; sceneggiatura: A. Marras, Vittorio<br />

Vighi, Clau<strong>di</strong>o Fragasso, Antonio Cucca; fotografia: Angelo Bevilacqua; musica:<br />

Ubaldo Continiello; montaggio: Amedeo Giomini; interprete: Ray Lovelock, Mel<br />

Ferrer, Lilli Carati, John Steiner, Umberto Orsini, Gabriele Tinti; origine: Italia;<br />

produzione: T.D.L. Film, Angry Film; durata: 95’<br />

A Roma un giovane avvocato, costretto a lavorare per un boss, si trova implicato in<br />

loschi affari. Alberto Marras, al suo esor<strong>di</strong>o come regista, era un <strong>di</strong>rettore <strong>di</strong><br />

produzione, molto attivo nel cinema <strong>di</strong> genere (Il poliziotto è marcio <strong>di</strong> Di Leo,<br />

Uomini si nasce, poliziotti si muore <strong>di</strong> Deodato, <strong>di</strong> cui è coautore del soggetto).<br />

«Unico, interessantissimo (per noi) film <strong>di</strong> Alberto Marras. […] Da trovare. In<br />

lavorazione come L’avvocaticchio (sarebbe stato un gran<strong>di</strong>ssimo titolo)» (Giusti).<br />

mercoledì 16<br />

Presentazione del Cofanetto Totò (Minerva Rarovideo)<br />

Altra occasione per riparlare e rivedere un comico unico come Totò. Il pretesto è la<br />

presentazione <strong>di</strong> un cofanetto contenente tre film con Totò per la regia del mai troppo<br />

compianto Fernando Cerchio. Studente dell’Accademia <strong>di</strong> Belle Arti, s’interessa <strong>di</strong><br />

cinema partecipando a ben quattro e<strong>di</strong>zioni dei Littoriali con film sperimentali<br />

realizzati a passo ridotto. Nel 1936 Cerchio realizza un breve film a <strong>di</strong>segni animati:<br />

Notturno. S’iscrive al <strong>Centro</strong> <strong>Sperimentale</strong> <strong>di</strong> <strong>Cinematografia</strong>, frequentando i corsi <strong>di</strong><br />

regia tenuti da Alessandro Blasetti e contemporaneamente collabora a riviste<br />

specializzate (fra cui «Cinema»). Dal 1938 al 1943 lavora come montatore presso<br />

l’Istituto Luce e <strong>di</strong>rige alcuni documentari. Il suo primo lungometraggio lo realizza<br />

durante il periodo <strong>di</strong> Salò (La buona fortuna). Nell’imme<strong>di</strong>ato dopoguerra alterna<br />

l’attività <strong>di</strong> documentarista (suo è Aldo <strong>di</strong>ce 26 x 1, documentario sulla vita<br />

partigiana) a lungometraggi a soggetto <strong>di</strong> svariati genere: da Gente così (1949), in cui<br />

tra gli sceneggiatori appare anche Giovanni Guareschi, che anticipa per estetica e<br />

contenuti la saga <strong>di</strong> Don Camillo, e Il bivio (1950), uno dei primi polizieschi italiani.<br />

I tre film interpretati da Totò contengono un’inconsueta ambientazione, estranea al<br />

mondo del grande comico napoletano. In Totò e Cleopatra (1963), Totonno (Totò), a<br />

causa della sua incre<strong>di</strong>bile somiglianza con Marco Antonio, si trova incastrato tra<br />

Cleopatra e le mille peripezie dell’Impero Romano. Il dvd contiene come extra<br />

l’intervista a Fernando Cerchio. Totò contro Maciste (1962) è invece una paro<strong>di</strong>a del<br />

genere peplum allora molto in voga e vede duettare il grande comico napoletano con<br />

un altro attore brillante partenopeo, Nino Taranto, già suo partner in altre occasioni. Il<br />

film, <strong>di</strong>retto da Fernando Cerchio, che del peplum fu uno dei principali artefici,<br />

racconta la storia della sfida tra Totenkamen e Maciste che sta invadendo la città <strong>di</strong><br />

Tebe. Irresistibili alcuni momenti del film in cui Totò, alla corte del faraone, deve


<strong>di</strong>mostrare <strong>di</strong> essere l’uomo più forte del mondo. Totò contro il pirata nero (1964) è<br />

una paro<strong>di</strong>a del film d’avventura, pieno <strong>di</strong> gag surreali, e ottimo pretesto per<br />

consentire a Totò <strong>di</strong> scatenarsi con la sua verve e la sua gestualità irrefrenabile. Oltre<br />

all’imponente Mario Petri nei panni del cattivo pirata, <strong>di</strong> contorno c’è una schiera <strong>di</strong><br />

collaudate spalle <strong>di</strong> Totò: Giacomo Furia, Aldo Giuffré e il fido Mario Castellani. Per<br />

Totò contro Maciste e Totò contro il pirata nero ci sono come extra due interviste ad<br />

Aldo Giuffré.<br />

Oltre alla presentazione del cofanetto con i due stu<strong>di</strong>osi, esperti <strong>di</strong> Totò, Goffredo<br />

Fofi e Tatti Sanguinetti, è prevista una proiezione <strong>di</strong> un film particolare come La<br />

mandragola (1965) <strong>di</strong> Alberto Lattuada con un ine<strong>di</strong>to Totò, <strong>di</strong> provenienza della<br />

Cineteca Nazionale, e, a sorpresa, del dvd <strong>di</strong> uno dei tre film del cofanetto targato<br />

Minerva Raro Video.<br />

ore 17.30<br />

La mandragola (1965)<br />

Regia: Alberto Lattuada; soggetto: dalla comme<strong>di</strong>a omonima <strong>di</strong> Niccolò Machiavelli;<br />

sceneggiatura: Luigi Magni, Stefano Strucchi, A. Lattuada; fotografia: Tonino Delli<br />

Colli; musica: Gino Marinuzzi jr.; montaggio: Nino Baragli; interpreti: Rosanna<br />

Schiaffino, Philippe Leroy, Jean-Claude Brialy, Romolo Valli, Armando Ban<strong>di</strong>ni,<br />

Totò; origine: Italia/Francia; produzione: Arco Film, Lux C.C.F.; durata: 102’<br />

«Dalla comme<strong>di</strong>a in 5 atti (1518) <strong>di</strong> Niccolò Machiavelli: per ottenere l’amore della<br />

bella Lucrezia, l’astuto Callimaco si fa passare, con l’aiuto del mezzano Ligurio, per<br />

un famoso dottore e convince messer Nicia, suo marito, che avrà un figlio se berrà<br />

una pozione <strong>di</strong> mandragola (o mandragora, pianta delle Solanacee), ma che avrà<br />

morte certa se giacerà con lei subito dopo: bisogna trovare un poveraccio (che sarà<br />

egli stesso, travestito) che si presti all’opera. Con un occhio alla moda<br />

“boccacesca”, quella del film in costume un po’ sporcaccione, degli anni ’60 e<br />

l’altro (quadrato) alla razionalità <strong>di</strong> Machiavelli, Alberto Lattuada ha fatto un<br />

lavoro <strong>di</strong> <strong>di</strong>screta eleganza e <strong>di</strong> raffinato erotismo. Spiccano tra i personaggi il Nicia<br />

<strong>di</strong> Romolo Valli cui il regista e i suoi sceneggiatori prestano un’ambigua<br />

consapevolezza, inesistente nel testo originale, e un ine<strong>di</strong>to Totò come fra’ Timoteo»<br />

(Moran<strong>di</strong>ni).<br />

ore 19.00<br />

Proiezione a sorpresa <strong>di</strong> uno dei tre film del Cofanetto Totò (Minerva Rarovideo)<br />

Ingresso gratuito<br />

ore 21.00<br />

Presentazione del Cofanetto Totò con Goffredo Fofi e Tatti Sanguinetti<br />

17-18 gennaio<br />

Controcorrente: Lo sguardo crudele <strong>di</strong> Alberto Cavallone<br />

Se attualmente esiste una rivista cinematografica che è riuscita a far riemergere, con<br />

pignola attenzione filologica, un certo cinema italiano ingiustamente sommerso, il


suo nome è «Nocturno Cinema». Uno dei suoi cavalli <strong>di</strong> battaglia è stata la riscoperta<br />

<strong>di</strong> un cineasta molto particolare ed eccentrico come Alberto Cavallone, fino ad allora<br />

ingiustamente sottovalutato o nel peggiore dei casi <strong>di</strong>menticato. A riassumere la sua<br />

estetica cinematografica e a finalmente rendere giustizia al suo cinema sono stati i<br />

fondatori <strong>di</strong> «Nocturno Cinema», Manlio Gomarasca e Davide Pulici: «Per Alberto<br />

Cavallone lo sguardo è crudele, che significa essere spietati nel mettere in scena le<br />

contrad<strong>di</strong>zioni della realtà, nell’accettare in maniera totale gli stimoli feroci <strong>di</strong> ciò che<br />

ci circonda adeguando ad essi un linguaggio cinematografico che si fa omogeneo a<br />

quel che racconta: crudo, provocatorio, esasperato, ma capace altresì <strong>di</strong> recuperare la<br />

limpida purezza <strong>di</strong> sguardo del fanciullo che per Cavallone coincide sempre con la<br />

<strong>di</strong>mensione altra, e sacra, della realtà». Da qui il titolo <strong>di</strong> questo breve omaggio<br />

attraverso la proiezione delle sue pellicole più rare (ma quasi tutto il suo cinema è<br />

pressoché invisibile) e una tavola rotonda per far tornare alla luce, nell’antica<br />

accezione “cinetecaria”, opere cinematografiche complesse e indefinibili. La rassegna<br />

Controcorrente: Lo sguardo crudele <strong>di</strong> Alberto Cavallone, curata dalla Cineteca<br />

Nazionale insieme a Manlio Gomarasca e Davide Pulici («Nocturno Cinema»), vuole<br />

essere l’inizio <strong>di</strong> una serie <strong>di</strong> appuntamenti de<strong>di</strong>cati a cineasti dallo sguardo<br />

cinematografico eccentrico, che «hanno vissuto nello stesso periodo, che significa<br />

essere parte culturale e sociale del cinema italiano degli anni ’70 e ’80, anni in cui il<br />

cinema era ancora un mezzo <strong>di</strong> comunicazione <strong>di</strong> massa, capace <strong>di</strong> incidere nella<br />

realtà, <strong>di</strong> far sognare e <strong>di</strong>vertire». Alla tavola rotonda del 17 gennaio parteciperanno<br />

Maria Pia Luzi alias Jane Avril, compagna per molti anni <strong>di</strong> Alberto Cavallone<br />

nonché protagonista <strong>di</strong> Afrika, Zelda e Spell, Maurizio Centini, <strong>di</strong>rettore della<br />

fotografia <strong>di</strong> gran parte dei film <strong>di</strong> Alberto, da Le salamandre a Blue Movie, Pier<br />

Latino Guidotti, produttore <strong>di</strong> Afrika e amico <strong>di</strong> Cavallone, e per finire Danilo<br />

Micheli, l’interprete <strong>di</strong> Blow Job. Quasi tutte le citazioni sono state tratte da Nocturno<br />

dossier. Controcorrente: Il cinema milanese <strong>di</strong> Eriprando Visconti, Cesare Canevari,<br />

Alberto Cavallone, tranne la scheda del film Blow Job, tratta dal numero 65 <strong>di</strong><br />

«Nocturno Cinema», <strong>di</strong>cembre 2007.<br />

giovedì 17<br />

ore 17.30<br />

Blue Movie (1978)<br />

Regia: Alberto Cavallone; soggetto e sceneggiatura: A. Cavallone; fotografia:<br />

Maurizio Centini; montaggio: A. Cavallone; interpreti: Danielle Dugas, Claude<br />

Maran, Dirce Funari, Leda Simonetti, Giovanni Brusatori; origine: Italia; produzione:<br />

Anna Cinematografica; durata: 90’<br />

«Clau<strong>di</strong>o è un fotografo la cui mente è rimasta segnata dagli orrori cui ha assistito<br />

durante la guerra, vive in una <strong>di</strong>mensione allucinata dove realtà e fantasia convivono<br />

senza soluzione <strong>di</strong> continuità. [...] Blue Movie, fin dal titolo, esplicita i suoi<br />

riferimenti: da una parte Blue Movie <strong>di</strong> Andy Warhol [...], dall’altro Sweet Movie <strong>di</strong><br />

Dusan Makavejev. Il sesso, anzi il porno nell’epoca della riproducibilità tecnica e in<br />

quella del consumismo. [...]. Sui titoli <strong>di</strong> testa, viene enunciata l’equivalenza tra<br />

scatti della macchina fotografica e spari <strong>di</strong> pistola: la violenza della visione, del


sesso, della società capitalista. Neanche Blow-up e Zabriskie Point sono passati<br />

invano. È un soggetto più interessante, si chiede il protagonista, una lattina <strong>di</strong> Coca-<br />

Cola o una donna nuda?» (Pezzotta).<br />

Versione in lingua inglese<br />

ore 19.10<br />

Spell (Dolce mattatoio, 1977)<br />

Regia: Alberto Cavallone; soggetto e sceneggiatura: A. Cavallone; fotografia:<br />

Giovanni Bonicelli; musica: Clau<strong>di</strong>o Tallino; montaggio: A. Cavallone; interpreti:<br />

Jane Avril, Martial Boschero, Angela Doria, Emanuele Guarino, Macha Magall, Aldo<br />

Massasso; origine: Italia; produzione: Stefano Film; durata: 98’<br />

«Spell rappresenta la “summa” dell’opus <strong>di</strong> Cavallone, il suo lancinante punto <strong>di</strong><br />

non ritorno: Spell (Dolce mattatoio) come Salò o le 120 giornate <strong>di</strong> Sodoma. Si sa<br />

dell’amore del regista per Isidore Ducasse, il conte <strong>di</strong> Lautréamont, autore de I canti<br />

<strong>di</strong> Maldoror, l’opera dalle cui nere pagine è nato il Surrealismo: ecco, ad un primo<br />

acchito (<strong>di</strong>stratto) la visione <strong>di</strong> Spell può provocare quella sensazione <strong>di</strong> stor<strong>di</strong>mento<br />

che si prova sfogliando il suddetto libro. [...] Ma lo spettatore che già conosce il suo<br />

modus operan<strong>di</strong> troverà sempre un punto d’appoggio, una guida che lo condurrà fra<br />

le macerie, perché Cavallone è regista austero e luci<strong>di</strong>ssimo. [...] Il <strong>di</strong>sincanto <strong>di</strong><br />

Marcuse, l’occhio <strong>di</strong> Bataille, la fisicità ra<strong>di</strong>cale della body art: tutte frecce nell’arco<br />

<strong>di</strong> Alberto Cavallone, entomologo <strong>di</strong> una brulicante società che ha scelto un modesto<br />

declino da Basso Impero come proprio mortuario vessillo. A commento <strong>di</strong> questa<br />

“piccola apocalisse” il vitreo sguardo <strong>di</strong> un gallo (un rimando al silenzio della<br />

giraffa che chiude Il fantasma della libertà <strong>di</strong> Buñuel?) costretto ogni mattina a dare<br />

inizio alle danze» (Bruni).<br />

ore 21.00<br />

Tavola rotonda moderata da Manlio Gomarasca e Davide Pulici con Jane Avril,<br />

Maurizio Centini, Pier Latino Guidotti, Danilo Micheli<br />

Nel corso della tavola rotonda verrano presentati il nuovo numero della rivista<br />

«Nocturno cinema» e il dvd della Next Video <strong>di</strong> Spell (Dolce mattatoio).<br />

ore 22.00<br />

Blow-Job - Soffio erotico (1980)<br />

Regia: Alberto Cavallone; soggetto e sceneggiatura: A. Cavallone; fotografia:<br />

Maurizio Centini; musica: Ubaldo Continiello; montaggio: A. Cavallone; interpreti:<br />

Danilo Micheli, Anna Massarelli, Anna Bruna Cazzato, Mirella Venturini, Valerio<br />

Isidori, Antonio Mea; origine: Italia; produzione: Anna Cinematografica; durata: 78’<br />

«Quante aspettative, quante curiosità attorno a Blow Job nei pomeriggi consumati in<br />

casa a bere liquori scadenti con Alberto Cavallone. [...] Certo, la locan<strong>di</strong>na pittorica<br />

era allucinante: due grosse labbra rosse e carnose dentro le quali, stilizzate, le figure<br />

<strong>di</strong> un uomo e una donna impegnati nella pratica sessuale evocata nel titolo. Alberto<br />

ci <strong>di</strong>sse che il film era poverissimo, che aveva avuto dei problemi produttivi e aveva


cambiato <strong>di</strong>rezione durante le riprese [...] ma che fonte <strong>di</strong> ispirazione era stato<br />

nientemeno che Carlos Castaneda e che il titolo pensato in origine era La strega<br />

nuda. [...] Finalmente grazie alla Cineteca Nazionale [...] abbiamo toccato con mano<br />

la vera consistenza <strong>di</strong> Blow Job [...]. Consistenza un po’ spugnosa che rende <strong>di</strong>fficile<br />

vedere e seguire il film <strong>di</strong> Alberto [...]. Ovviamente la copia censura depositata in<br />

Cineteca è la versione soft del film epurata dalle scene <strong>di</strong> sesso esplicito. [...] Perché<br />

se anche è vero che il film <strong>di</strong> Alberto è sicuramente un gra<strong>di</strong>no sotto alle sue<br />

precedenti opere [...], regala alcuni momenti <strong>di</strong> emozione» (Gomarasca).<br />

Ingresso gratuito<br />

venerdì 18<br />

ore 18.00<br />

Le salamandre (1969)<br />

Regia: Alberto Cavallone; soggetto e sceneggiatura: A. Cavallone; fotografia:<br />

Massimo Centini; musica: Franco Potenza; montaggio: A. Cavallone; interpreti: Erna<br />

Schurer [Emma Costantino], Beryl Cunningham, Anthony Vernon [Nino Casale],<br />

Tony Carrel, Michelle Stamp, Alain Kalsj; origine: Italia; produzione: Vega<br />

Cinematografica, Star Film; durata: 91’<br />

«Tre vite alla deriva: la fotografa svedese Ursula, la fotomodella brasiliana Uta<br />

Juarez, il me<strong>di</strong>co francese Jon Duval. [...] È il 14 febbraio 1968 quando il regista<br />

Alberto Cavallone (soggettista-sceneggiatore-regista <strong>di</strong> tutti i suoi film), precursore<br />

<strong>di</strong> almeno <strong>di</strong>eci anni per temi e tecniche <strong>di</strong> ripresa, avvia un’opera ambiziosa,<br />

innovativa per linguaggio e immagine cinematografica. La storia, d’urto e scabrosa<br />

per quegli anni, affronta problemi d’etnia e sesso, argomenti allora <strong>di</strong>fficili da far<br />

<strong>di</strong>gerire. Il primo ciak de Le salamandre si batte a Si<strong>di</strong> Bousaid (Tunisia, terra a<br />

Cavallone particolarmente cara). Titolo provvisorio C’era una bionda, troupe<br />

ridotta, macchina a mano, come sempre. Attraverso una vicenda sottilmente ambigua<br />

nei rapporti fra i sessi, Cavallone visualizza nel <strong>di</strong>scorso e nella psiche dei<br />

protagonisti il contrasto tra <strong>di</strong>fferenti mon<strong>di</strong> e culture» (Luzi).<br />

ore 20.40<br />

Afrika (1973)<br />

Regia: Alberto Cavallone; soggetto e sceneggiatura: A. Cavallone; fotografia:<br />

Massimo Centini; musica: Franco Potenza; montaggio: Anita Cacciolati; interpreti:<br />

Ivano Staccioli, Andrea Traglia, Jane Avril,Andrea Truglio, Kara Donati, Debete<br />

Eshepeto; origine: Italia; produzione: Castle Film; durata: 89’<br />

«Cavallone si destreggia molto bene nello sfondo esotico, mostrando l’incidenza<br />

“afrikana” decisiva sul comportamento psicologico dei protagonisti. Un certo alone<br />

misterioso circonda, volutamente, il protagonista. Ciò che si ottiene nella sfera del<br />

“magico quoti<strong>di</strong>ano” va tuttavia a scapito della chiarezza» (Bianchi). «Eppure il<br />

modo più corretto <strong>di</strong> guardare il film è forse quello <strong>di</strong> inserirlo nel contesto <strong>di</strong><br />

sguardo dell’intera filmografia <strong>di</strong> Cavallone [...]. Allora sì che Afrika pone in luce<br />

aspetti curiosi e vettori autoriali tutt’altro che convenzionali. Il regista <strong>di</strong> Spell si<br />

trova ai quasi albori <strong>di</strong> un’epoca che proviene da una turbolenza – anche


cinematografica – irresistibile e si affaccia su anni ancora più infiammati e<br />

infiammanti. E sa che non è possibile prescindere né dall’una né dagli altri. Fa i<br />

conti dunque con il mondo movie e la libertà sessuale <strong>di</strong> parola [...], incluso anche il<br />

relativo esibizionismo esclamativo, e gira un drammone mélo che sta a metà strada<br />

tra il trauma e la “pena”. Però non si adagia su nessuno dei binari prestabiliti»<br />

(Bocchi).<br />

ore 22.30<br />

Zelda (1974)<br />

Regia: Alberto Cavallone; soggetto e sceneggiatura: A. Cavallone; fotografia:<br />

Maurizio Centini; musica: Marcello Giombini; montaggio: A. Cavallone, Clau<strong>di</strong>o<br />

Orecchia; interpreti: Jane Avril, James Harris [Giuseppe Mattei], Franco Gonella,<br />

Margareth Keil, Halina Kim, Debebe Eshetu; origine: Italia; produzione: G.I.T.<br />

International Film; durata: 85’<br />

«Stretto com’è tra due film fondamentali come Afrika e Spell, Zelda è l’ennesimo<br />

tassello <strong>di</strong> un cinema che non assomiglia a nessun altro, ma testimonia anche <strong>di</strong> un<br />

cineasta sempre meno interessato a racchiudere le proprie esigenze creative in un<br />

formato narrativo ragionevolmente commerciale. La struttura è ancora legata agli<br />

stilemi dell’erotico morboso, ma la tentazione <strong>di</strong> rompere gli schemi è palpabile,<br />

ancora più che in Afrika. Dal film precedente, Zelda ripropone la struttura<br />

narrativa: un evento delittuoso iniziale (l’ex pilota automobilistico James Harris,<br />

ridotto su una se<strong>di</strong>a a rotelle dopo un tentativo <strong>di</strong> suici<strong>di</strong>o, viene trovato morto<br />

assieme all’amante Halina Kim), e una serie <strong>di</strong> flashback, a mostrare un passato<br />

fatto <strong>di</strong> molteplici e cangianti alleanze sessuali che fanno capo al defunto e alla<br />

moglie Zelda (Jane Avril), “allo stesso tempo colomba, serpe e puttana”. [...]. Zelda<br />

è girato con una certa eleganza, e contrassegnato dal tipico montaggio nervoso e<br />

sincopato dell’autore, mentre il passato da documentarista <strong>di</strong> Cavallone viene fuori<br />

nelle sequenze delle gare» (Curti).<br />

sabato 19<br />

Novant’anni <strong>di</strong> cinema. Luciano Emmer al lavoro<br />

Auguri a Luciano Emmer, che proprio in questo giorno festeggia un compleanno<br />

importante e ha deciso <strong>di</strong> farlo in compagnia nostra e <strong>di</strong> altri amici.<br />

Il modo più vero per rallegrarsi con lui è quello <strong>di</strong> confrontarsi con i suoi ultimi<br />

lavori, La musa pensosa e Le pecore <strong>di</strong> Cheyenne, ulteriori esempi <strong>di</strong> curiosità e<br />

vitalità, che sono poi due delle con<strong>di</strong>zioni fondanti del suo “fare cinema”. Tra le<br />

innumerevoli cose che si potrebbero <strong>di</strong>re del cinema <strong>di</strong> Emmer (e che potremo<br />

<strong>di</strong>scutere <strong>di</strong>rettamente con lui...) vogliamo solamente ricordare la sua voglia e la sua<br />

capacità <strong>di</strong> raccontare delle storie, sempre e comunque e dovunque: i suoi<br />

primi cortometraggi sono del 1938 (e ama chiamarli “storie <strong>di</strong>pinte”); il documentario<br />

(d’arte e <strong>di</strong> costume, <strong>di</strong> cui <strong>di</strong>venta uno dei massimi esponenti in Italia) è un pretesto<br />

per l’osservazione <strong>di</strong> una “con<strong>di</strong>zione umana” sempre più complessa; i suoi Carosello<br />

(<strong>di</strong> cui è praticamente l’inventore...) sono essenze <strong>di</strong> cinema <strong>di</strong> genere, “storielle”<br />

essenziali; i suoi film a lungometraggio (e qui sono permesse gran<strong>di</strong> storie, corali,


affollate...) sono sempre in bilico tra un cinema classico assimilato con naturalezza<br />

<strong>di</strong>sarmante ed uno spirito <strong>di</strong> innovazione anarchicamente indomabile e non<br />

riconciliato.<br />

L’omaggio è stato curato dalla Cineteca Nazionale insieme a Officina Filmclub,<br />

Fuori Orario e Il vento del cinema.<br />

ore 17.30<br />

Con aura... Senz’aura. Viaggio ai confini dell’arte (2003)<br />

Regia: Luciano Emmer, Enrico Ghezzi; fotografia: Ugo Lo Pinto; musica: Stelvio<br />

Cipriani; montaggio: Francesca Bracci; voci: Giancarlo Giannini (per i versi<br />

dell’inferno <strong>di</strong> Dante), Tomoko Tanaka (per gli Haiku giapponesi); montaggio:<br />

Francesca Bracci; origine: Italia; produzione: Fuori Orario; durata: 58’<br />

«Percorso in soggettiva per una riflessione sul significato dell’arte nell’esistenza<br />

dell’in<strong>di</strong>viduo. Sprofonda nel buio delle grotte <strong>di</strong> Pastena, dove la realtà è lontana ed<br />

è più forte la suggestione delle opere d’arte che incontra nel suo viaggio: le sequenze<br />

dei film che ha realizzato nel corso della sua vita si intervallano a nuove riflessioni<br />

che nascono dalle opere <strong>di</strong> altri artisti, tra cui Monet, Degas, Rembrandt, Hokusai<br />

Sonia Delaunay. Quale sia il significato dell’arte, la sua verità, rimane una domanda<br />

aperta, che non può avere un’unica risposta» (De Facen<strong>di</strong>s).<br />

Ingresso gratuito<br />

ore 18.45<br />

Provino Mastroianni e Bosé (1948)<br />

Regia: Luciano Emmer; origine: Italia; produzione: Csc; durata: 7’<br />

Provino con Marcello Mastroianni e Lucia Bosè girato al <strong>Centro</strong> <strong>Sperimentale</strong> <strong>di</strong><br />

<strong>Cinematografia</strong> da Luciano Emmer per un film mai realizzato, che avrebbe dovuto<br />

avere come titolo La madre, tratto dal romanzo <strong>di</strong> Grazia Deledda. Il provino fu<br />

girato presso il <strong>Centro</strong> <strong>Sperimentale</strong> <strong>di</strong> <strong>Cinematografia</strong>, con Giulio Macchi al ciak. Il<br />

trattamento del film era stato pre<strong>di</strong>sposto a cura <strong>di</strong> Luciano Emmer e Sergio Amidei<br />

per la produzione Colonna Film (nel 1948), ma non ottenne l’approvazione in sede <strong>di</strong><br />

censura preventiva.<br />

a seguire<br />

La ragazza in vetrina (1961)<br />

Regia: Luciano Emmer; soggetto: Rodolfo Sonego; sceneggiatura: L. Emmer, Vinicio<br />

Marinucci, Luciano Martino, Pier Paolo Pasolini; fotografia: Otello Martelli; musica:<br />

Roman Vlad; montaggio: Emma Le Chanois, Jolanda Benvenuti; origine:<br />

Italia/Francia; produzione: Nepi Film, Sofite<strong>di</strong>p, Zo<strong>di</strong>aque Productions; durata: 92’<br />

«La ragazza in vetrina reca i segni <strong>di</strong> una me<strong>di</strong>tazione, <strong>di</strong> una ispirazione non<br />

occasionale, <strong>di</strong> un irrobustimento della vena narrativa. [...] Il prologo del film, nella<br />

miniera, è dotato <strong>di</strong> un vigore drammatico, <strong>di</strong> un vigore realistico insoliti per Emmer,<br />

e costituisce forse quanto <strong>di</strong> più intenso il cinema abbia dato sull’aspro lavoro dei<br />

minatori e sulla presenza incombente, assidua della morte nei cunicoli del sottosuolo.<br />

[...] Nella pittura della celebre strada delle vetrine – <strong>di</strong>etro le quali le prostitute


stanno in offerta come una merce –, nello scorcio <strong>di</strong> certi locali (come quelli per<br />

uomini soli), nell’introduzione <strong>di</strong> talune antitesi (l’Esercito della Salvezza), nella<br />

definizione delle psicologie Emmer ha spiegato una luci<strong>di</strong>tà <strong>di</strong> linguaggio resa più<br />

accattivante dalla <strong>di</strong>screzione, dal pudore <strong>di</strong> cui egli ha dato prova» (Castello).<br />

ore 20.30<br />

Bella <strong>di</strong> notte (1997)<br />

Regia: Luciano Emmer; testo e voce: L. Emmer; fotografia: Elio Bisignani; musica:<br />

Canto della Terra <strong>di</strong> Gustav Mahler, eseguito dall’Orchestra dell’Istituzione G.P. da<br />

Palestrina <strong>di</strong> Cagliari, <strong>di</strong>retta dal Maestro Nino Bonavolontà; origine: Italia;<br />

produzione: Rai 2/Film 7 International; durata: 28’<br />

«Film realizzato in occasione dell’apertura al pubblico della Galleria Borghese,<br />

dopo il restauro. Emmer si introduce <strong>di</strong> notte nella Galleria, e con la fioca luce <strong>di</strong><br />

una torcia illumina le opere d’arte che incontra. È un viaggio notturno,<br />

accompagnato dalla sua voce e dai suoi commenti spontanei che dall’osservazione<br />

dell’opera traggono sempre suggestioni personali. Piuttosto che ricercare o aprire la<br />

strada a significati lontani, Emmer sembra ricercare un contatto <strong>di</strong>retto con le opere<br />

d’arte, entrando in <strong>di</strong>alogo con esse, interrogando il passato. Scipione Borghese fa<br />

da tramite a questa rêverie nocturne: è a lui che si rivolge per comprendere il<br />

segreto delle opere d’arte che emergono dal buio, suo interlocutore privilegiato nelle<br />

riflessioni suggerite dalle opere del museo» (De Facen<strong>di</strong>s).<br />

Ingresso gratuito<br />

ore 21.00<br />

Incontro con Luciano Emmer ed Enrico Ghezzi<br />

ore 22.00<br />

Racconto <strong>di</strong> un affresco (1938)<br />

Regia: Luciano Emmer, Enrico Gras; soggetto e sceneggiatura: E. Gras; musica: L.<br />

Emmer, Tatiana Grau<strong>di</strong>ng, rie<strong>di</strong>tato con musiche originali <strong>di</strong> Roman Vlad nel 1946;<br />

origine: Italia; produzione: Dolomiti Film; durata: 11’<br />

«La storia <strong>di</strong> Cristo, dalla nascita alla resurrezione, narrata attraverso le fotografie<br />

Alinari degli affreschi <strong>di</strong> Giotto nella Cappella degli Scrovegni» (De Facen<strong>di</strong>s).<br />

«Forse perché in quelle figure ho trovato non soltanto me stesso, ma soprattutto i<br />

fatti umani che ci circondano, i lineamenti spirituali del mio popolo, quello che è il<br />

suo tragico destino. Sono gli stessi volti, le stesse emozioni che ho tentato <strong>di</strong><br />

in<strong>di</strong>viduare e fissare girando sulla spiaggia <strong>di</strong> Ostia la vicenda apparentemente<br />

spensierata <strong>di</strong> una Domenica d’agosto: sono quei fantasmi che sempre si muovono<br />

tra la mente e l’animo, e che determinano ancora la mia “scelta”, ciò che guiderà il<br />

mio occhio alla ricerca dei vasti campi da esplorare nel mio prossimo film»<br />

(Emmer).<br />

Ingresso gratuito<br />

a seguire


La musa pensosa (2007)<br />

Regia: Luciano Emmer; montaggio e voce narrante: L. Emmer; fotografia: Ugo Lo<br />

Pinto; origine: Italia; durata: 20’<br />

Emmer gira nel Museo Montemartini <strong>di</strong> Roma l’ideale prosecuzione del suo<br />

precedente Bella <strong>di</strong> notte; attraverso “l’incantamento” rappresentato dalla visione<br />

della statua <strong>di</strong> Polimnia, si realizza un viaggio notturno nel pensiero, scan<strong>di</strong>to dalle<br />

riflessioni sulla vita e sulla morte dei gran<strong>di</strong> pensatori classici.<br />

Ingresso gratuito<br />

a seguire<br />

Le pecore <strong>di</strong> Cheyenne (2007)<br />

Regia: Luciano Emmer; soggetto, sceneggiatura e montaggio: L. Emmer; durata: 70’<br />

Compressione dei costi, agilità <strong>di</strong> movimento, possibilità <strong>di</strong> controllo ancora più<br />

“totale”dell’intera lavorazione; questi sono i principali motivi che hanno portato<br />

Luciano Emmer a misurarsi negli ultimi anni con il supporto (e le possibilità offerte<br />

dal) <strong>di</strong>gitale. Ma l’approccio al cinema (e alle storie) resta immutato: ecco quin<strong>di</strong><br />

l'ennesima, straor<strong>di</strong>naria figura femminile del suo cinema: la pastora Cheyenne<br />

Daprà, seguita nel suo lavoro quoti<strong>di</strong>ano, quattro giorni, un giorno per stagione.<br />

Ingresso gratuito<br />

domenica 20<br />

Monsieur Tati nel caos della modernità<br />

Jacques Tatischeff nasce in una famiglia d’origine russa a Le-Pecq (Seine-et-Oise), il<br />

9 ottobre 1907. Della sua infanzia nulla da eccepire o da raccontare se non una<br />

precoce tendenza all’altezza. Pratica svariati sport (gioca nella squadra <strong>di</strong> rugby <strong>di</strong><br />

serie A nel campionato francese) ed è proprio attraverso l’attività sportiva che scopre<br />

il grande valore della comicità: intrattiene i compagni <strong>di</strong> gioco con gag e pantomime.<br />

Il successo è assicurato tanto che il giovane Jacques si trasferisce a Parigi, lavorando<br />

nei cabaret e specializzandosi in mimica e varie acrobazie. Il motivo ispiratore <strong>di</strong><br />

tante gag è la vita quoti<strong>di</strong>ana con i suoi ritmi nevrotici, che sarà la base<br />

programmatica <strong>di</strong> tutti i suoi film: «Non sono nemico della modernità, figuriamoci.<br />

Sono nemico dei programmatori della modernità. Quello che non mi va bene, quello<br />

che stona, è il rapporto uomo-ambiente. Io <strong>di</strong>co che l’uomo non è al passo dei tempi,<br />

non è ancora preparato a vivere il futuro che gli stanno facendo vivere. Dico che<br />

esiste una frattura tra quello che siamo realmente e quello che vogliono farci essere.<br />

Allora l’uomo ha un solo mezzo per reagire: interrompere il contatto tra progresso<br />

tecnico e umori spontanei. Il risultato è <strong>di</strong> una ineffabile comicità. Liberando questa<br />

comicità, l’uomo finisce per prevalere sulle cose». Da qui la nascita del personaggio<br />

stralunato e impassibile <strong>di</strong> Monsieur Hulot, che, come scrive giustamente Alessandro<br />

Melis, rappresenta una «maschera tragicomica <strong>di</strong> magra essenzialità: impermeabile,<br />

cappello, pantaloni un po’ corti e immancabili pipa e ombrello. Hulot è “straniero”<br />

nella macchina del mondo, borbotta senza parlare, cammina senza capire, il suo<br />

sguardo incredulo davanti al meccanismo incomprensibile della modernità è un punto<br />

<strong>di</strong> domanda lasciato senza risposta. Il bersaglio della sua satira, mai crudele, sempre


un po’ amara, è la Francia del dopoguerra, ossessionata dalla modernizzazione».<br />

Senza contare i cortometraggi, “monsieur Tati” ha realizzato, nell’arco <strong>di</strong> circa<br />

trent’anni, “solamente” sei film. Il motivo? «Non posso fabbricare film come panini.<br />

Non sono un fornaio. Se girassi spesso, dovrei senz’altro lamentarmi anch’io <strong>di</strong> un<br />

attore, <strong>di</strong> una storia, <strong>di</strong> un budget che mi sarebbero imposti» (<strong>di</strong>chiarazioni tratte da<br />

Roberto Nepoti, Tati, Il Castoro Cinema, La Nuova Italia, Firenze, 1979). Jacques<br />

Tati: un comico ma anche un autore.<br />

ore 18.00<br />

Jour de fête (Giorno <strong>di</strong> festa, 1949)<br />

Regia: Jacques Tati; soggetto, sceneggiatura e <strong>di</strong>aloghi: J. Tati e Henri Marquet con<br />

la collaborazione <strong>di</strong> René Wheeler; fotografia: Jacques Marcanton e Marcel Franchi;<br />

musica: Jean Yatove; montaggio: Marcel Moreau; interpreti: J. Tati, Guy Decomble,<br />

Paul Frankeur, Santa Relli, Maine Vallée, Delcassan; origine: Francia; produzione:<br />

Cady-Films; durata: 90’<br />

«Tati, alla fine degli anni Quaranta, riesce a resuscitare il film comico, non solo in<br />

Francia ma anche in Europa. Dopo L’arroseur arrosé e le esperienze francesi <strong>di</strong> Max<br />

Linder, il burlesque aveva attraversato l’oceano e sembrava non volesse più tornare<br />

nel vecchio continente. In Giorno <strong>di</strong> festa, invece, il gag visivo torna prepotentemente<br />

in primo piano: i giochi <strong>di</strong> gambe del portalettere Francois sono degni dell’agilità<br />

corporea <strong>di</strong> un Chaplin, la sua faccia impassibile e velata <strong>di</strong> tristezza non è lontana<br />

da quella <strong>di</strong> Buster Keaton (Hulot, il successivo protagonista dei film <strong>di</strong> Tati, gli<br />

assomiglierà ancora <strong>di</strong> più). [...] È una comme<strong>di</strong>a nuova, realistica, che non tende<br />

soltanto a far ridere lo spettatore, ma si burla dei piccoli “tic” del francese dopo la<br />

Seconda Guerra Mon<strong>di</strong>ale» (Emiliani). Premio internazionale alla sceneggiatura<br />

alla Mostra del Cinema <strong>di</strong> Venezia del 1949.<br />

ore 20.00<br />

Playtime (Playtime - Tempo <strong>di</strong> <strong>di</strong>vertimento, 1967)<br />

Regia: Jacques Tati; soggetto, sceneggiatura e <strong>di</strong>aloghi: J. Tati, con la collaborazione<br />

<strong>di</strong> Jacques Lagrange; <strong>di</strong>aloghi inglesi: Art Buchwald; fotografia: Jean Badal; musica:<br />

Francis Lemarque; montaggio: Gérard Pollicand; interpreti: J. Tati, Barbara Dennek,<br />

Jacqueline Lecomte, Georges Montant, Reinhart Kolldehoff, John Abbey; origine:<br />

Francia/Italia; produzione: Specta-Films, Jolly Film; durata: 115’<br />

«Monsieur Hulot alle prese con un gruppo <strong>di</strong> turisti americani in visita a Parigi. Una<br />

serie <strong>di</strong> incidenti trasforma la serata dell’inaugurazione <strong>di</strong> un locale nella<br />

demolizione <strong>di</strong> un cantiere. È, anche per l’alto costo, il film più ambizioso <strong>di</strong> Jacques<br />

Tati [...], quello in cui spinge alle estreme conseguenze la sua comicità <strong>di</strong><br />

osservazione e la capacità <strong>di</strong> chiudere in una sola inquadratura una grande<br />

molteplicità <strong>di</strong> informazioni. È il film – girato in 70 mm – in cui Tati ha più<br />

sopravvalutato l’intelligenza del pubblico e la capacità <strong>di</strong> attenzione dello spettatore.<br />

Una sconfitta che gli fa onore, ma che gli tribolò gli ultimi 15 anni. Inadatto al<br />

piccolo schermo. [...] Rivisto con il senno <strong>di</strong> poi, acquista un valore profetico come<br />

satira della globalizzazione a tutti i livelli: Tati ha messo in immagini la crisi


spirituale del suo secolo» (Moran<strong>di</strong>ni). Truffaut parlò <strong>di</strong> «un film che viene da un<br />

altro pianeta... l’Europa del 1968 filmata da un Lumière marziano». «Tati volle<br />

costruire un’autentica città del futuro, Tativille, da trasformare in seguito in un<br />

centro (mai realizzato) <strong>di</strong> produzione cinematografica. Altissimi i costi (tra l’altro il<br />

regista volle girare in 70mm con un sonoro multipiste), scarsi gli incassi»<br />

(Mereghetti).<br />

ore 22.00<br />

Trafic (Monsieur Hulot nel caos del traffico, 1971)<br />

Regia: Jacques Tati; soggetto, sceneggiatura e <strong>di</strong>aloghi: J. Tati, con la collaborazione<br />

<strong>di</strong> Jacques Lagrange; fotografia: Edward Van Den Enden, Marcel Weiss; musica:<br />

Charles Dumont; montaggio: Maurice Laumain, Sophie Tatischeff; interpreti: J. Tati,<br />

Maria Kimberly, Marcel Fraval, Honoré Rostel, Tony Knepper; origine:<br />

Francia/Italia; produzione: Films Corona, Films Gibé, Selenia Cinematografica;<br />

durata: 97’<br />

«Neppure la precaria con<strong>di</strong>zione finanziaria ere<strong>di</strong>tata da Playtime indusse Tati a<br />

rinunciare al principio del cinema d’autore. [...] Gli incassi dell’ultima opera non<br />

deponevano comunque a favore del regista e rafforzavano le abituali <strong>di</strong>ffidenze dei<br />

<strong>di</strong>stributori. Perciò, il creatore <strong>di</strong> Monsieur Hulot dovette rassegnarsi a più <strong>di</strong> un<br />

rifiuto, prima <strong>di</strong> trovare la produzione che gli consentisse <strong>di</strong> realizzare un nuovo<br />

film: Trafic. [...] Il contenuto aneddotico è comunque analogo. Il quinto<br />

lungometraggio <strong>di</strong> tati si configura come un nuovo apologo fantatecnologico <strong>di</strong><br />

sapore dolce-amaro sulla “civiltà industriale” e sui rapporti con l’uomo. Già ben<br />

presente in Playtime, il motivo del traffico automobilistico inteso come espressione <strong>di</strong><br />

caos, <strong>di</strong>venta ora il tema principale del film» (Nepoti). Per il critico Bernard Cohn<br />

Trafic «racconta la vita e la morte dell’automobile. I titoli compaiono sulle immagini<br />

<strong>di</strong> una catena <strong>di</strong> montaggio e noi ve<strong>di</strong>amo parecchie volte cimiteri <strong>di</strong> macchine».<br />

lunedì 21<br />

chiuso<br />

<strong>marted</strong>ì 22<br />

L’altro Visconti<br />

Seconda parte<br />

Domenica 4 giugno 2006 la Cineteca Nazionale realizzò un breve ma sentito<br />

omaggio all’opera <strong>di</strong> Eriprando, nipote <strong>di</strong> Luchino. Ingiustamente <strong>di</strong>menticato, i suoi<br />

film hanno rappresentato una zona <strong>di</strong> equilibrio tra il cinema d’autore e cinema <strong>di</strong><br />

genere. Dallo zio apprese l’arte e l’eleganza della messa in scena. Discendente <strong>di</strong> una<br />

grande famiglia (i Visconti <strong>di</strong> Moldrone, ma anche Carlo Erba, il fondatore della<br />

prima <strong>di</strong>tta farmaceutica italiana, suo bisnonno), non ancora ventenne si trasferisce da<br />

Milano a Roma per lavorare nel cinema. È assistente al montaggio <strong>di</strong> Mario<br />

Serandrei, attore in Terza liceo <strong>di</strong> Emmer e in Senso dello zio Luchino. Dalla seconda<br />

metà degli anni cinquanta è assistente alla regia per Antonioni e Visconti. Scrive il<br />

soggetto de Gli sbandati insieme con Francesco Maselli e collabora a Il brigante <strong>di</strong>


Castellani. Lavora molto per il teatro e la televisione ma la sua “magnifica<br />

ossessione” è la regia cinematografica. In questa seconda parte de L’altro Visconti,<br />

attraverso la proiezione <strong>di</strong> altri suoi tre film, si vuole <strong>di</strong>mostrare e sottolineare la sua<br />

personale estetica cinematografica. A proposito <strong>di</strong> “sguar<strong>di</strong> cinematografici”,<br />

Corrado Colombo, Manlio Gomarasca e Davide Pulici hanno scritto in quel<br />

pionieristico Nocturno dossier. Controcorrente: Il cinema milanese <strong>di</strong> Eriprando<br />

Visconti, Alberto Cavallone, Cesare Canevari: «Per Eriprando Visconti si parla <strong>di</strong><br />

uno sguardo negato, dove la negazione del vedere è esplicata in una filmografia tutta<br />

all’insegna del “non è quello che sembra”, e il suo sguardo, coraggiosamente, si<br />

posiziona dove è negato guardare, dove non è bello guardare, dove non è rassicurante<br />

guardare, dove forse è impossibile guardare... perché significa guardare dentro <strong>di</strong> sé».<br />

Le ultime parole spettano all’assistente alla regia <strong>di</strong> Eriprando, Corrado Colombo,<br />

che, a proposito del suo ultimo film Malamore, vede nella <strong>di</strong>struttiva storia d’amore<br />

tra una prostituta <strong>di</strong> un bordello e un nano una metafora sulla passione che il regista<br />

ha sempre nutrito per il cinema: «Lui è il nano e il bordello è l’ambiente del cinema,<br />

apparentemente luogo <strong>di</strong> piacere ma in realtà teatro <strong>di</strong> tra<strong>di</strong>menti, insi<strong>di</strong>e, raggiri,<br />

furti, popolato da donne avide e <strong>di</strong> facili costumi, falsi amici e approfittatori senza<br />

scrupoli».<br />

ore 18.00<br />

Strogoff (1969)<br />

Regia: Eriprando Visconti; soggetto: dal romanzo omonimo <strong>di</strong> Jules Verne;<br />

sceneggiatura: Giampiero Bona, E. Visconti, Stefano Strucchi; fotografia: Luigi<br />

Kuveiller; musica: Teo Usuelli; montaggio: Franco Arcalli; interpreti: John Philip<br />

Law, Mismy Farmer, Hiram Keller, Delia Boccardo, Christian Marin, Donato<br />

Castellaneta; origine: Italia/Francia/Germania Occidentale; produzione: Sancrosiap,<br />

Films Corona, CCC Filmkunst, Stu<strong>di</strong>ja Za Igralni Filmi; durata: 106’<br />

«Dal Turkestan le orde tartariche si stanno riversando impetuosamente contro i<br />

presi<strong>di</strong> militari dello Zar <strong>di</strong> tutte le Russie; Michele Strogoff, romantico ufficiale <strong>di</strong><br />

Pietrogrado, viene incaricato <strong>di</strong> un viaggio, nella avventurosa missione <strong>di</strong> avvertire<br />

dell’imminente attacco il granduca <strong>di</strong> Irkuysk che governa le selvagge lande della<br />

steppa siberiana. [...] Spostando dal primo al secondo Ottocento la scena temporale<br />

del racconto scritto da Jules Verne sulla scia del folclore popolare russo rivisitato da<br />

Gogo’l in Taras Bulba, Visconti compie un’ulteriore effrazione letteraria tesa a un<br />

avvicinamento ideologico dell’immaginaria trama del “Corriere dello Zar” allo<br />

spirito contemporaneo. [...] Ed è chiaro che al regista interessa misurarsi con il<br />

romanzo non tanto per una semplice trasposizione, ma per trasformare il potenziale<br />

letterario <strong>di</strong> un romanzo ottocentesco con quello filmico in cui le idee sull’uomo, i<br />

rapporti, la società si sono profondamente mo<strong>di</strong>ficate e un ritorno all’infanzia<br />

dell’esperienza è puramente illusoria se non nella mistificazione» (Guastella).<br />

ore 20.00<br />

Oe<strong>di</strong>pus Orca (1977)


Regia: Eriprando Visconti; soggetto e sceneggiatura: E. Visconti, Roberto Gandus;<br />

fotografia: Blasco Giurato; musica: James Dashow; montaggio: Kim Arcalli;<br />

interpreti: Rene Niehaus, Piero Faggioni, Miguel Bosè, Gabriele Ferzetti, Michele<br />

Placido, Carmen Scarpitta; origine: Italia; produzione: Serena Film 75; durata: 97’<br />

Dopo l’esperienza del sequestro, Alice stenta a ritrovare il proprio equilibrio in<br />

famiglia. La situazione precipita quando la ragazza scopre che sua madre l’ha avuta<br />

da una relazione clandestina. Alice parte così alla ricerca del vero padre. Seguito del<br />

fortunato La orca (1976), costato 40 milioni <strong>di</strong> lire (20.000 euro!), incassa più <strong>di</strong> un<br />

miliardo e mezzo (750.000 euro). Per Eriprando Visconti «è un riscatto personale e<br />

non fa fatica a montare il seguito. Prende le parti <strong>di</strong> storia tagliate, aggiunge e<br />

riscrive alcune scene, e così nasce Oe<strong>di</strong>pus orca. Il proposito del secondo film<br />

consiste nel creare una parte complementare dove Alice vive un’esperienza<br />

altrettanto drammatica all’interno della famiglia. Tra i due film c’è uno strano<br />

rapporto. [...] Da un film fenomenologico che proponeva un’analisi della vicenda <strong>di</strong><br />

tipo marxista, Visconti passa a un film psicoanalistico dove il nume <strong>di</strong>venta Freud<br />

[...]. Il senso del tempo nei due film è fondamentale. In La orca tutto vive e si<br />

consuma nel presente, è una storia che non ha passato e tanto meno futuro. Mentre<br />

Oe<strong>di</strong>pus Orca, già dal titolo in latino, è un film sul passato e sul ricordo, <strong>di</strong> gusto<br />

archeologico, che scava nell’inconscio <strong>di</strong> Alice fino a far emergere l’origine del suo<br />

malessere» (Colombo).<br />

ore 22.00<br />

Malamore (1982)<br />

Regia: Eriprando Visconti; soggetto e sceneggiatura: Roberto Gandus, E. Visconti;<br />

fotografia: Luigi Kuveiller; montaggio: Nino Baragli; interpreti: Nathalie Nell,<br />

Jimmy Briscoe, Antonio Marsina, Remo Girone, Serena Gran<strong>di</strong>, Monica Scattini;<br />

origine: Italia; produzione: Arcana Film Produzione; durata: 98’<br />

«“Siamo tutti nani... È che ci vuole coraggio <strong>di</strong> ammetterlo!”. Su questa riflessione<br />

Pran<strong>di</strong>no costruisce quello che sarà il suo ultimo film, e non si può che leggerlo<br />

come il testamento amaro e pessimista <strong>di</strong> un intellettuale che ha perso il feeling con il<br />

resto del mondo. [...] Pran<strong>di</strong>no mette in scena la sua personale “recherche”, che<br />

coincide con un tuffo nel passato, negli anni della guerra 15/18, in una villa<br />

dell’Oltrepo Pavese (quella stessa che lo ospitò, ragazzo sfollato da Milano nel ’44).<br />

La storia tra il nano e la puttana <strong>di</strong>venta la metafora <strong>di</strong> un fallimento esistenziale,<br />

dove si mischiano l’incapacità <strong>di</strong> equilibrare i propri desideri con quelli altrui e il<br />

<strong>di</strong>sagio <strong>di</strong> relazione e accettazione <strong>di</strong> sé. [...] Il nanismo è uno stato più mentale che<br />

fisico, e l’umanità crede <strong>di</strong> sopperire alle proprie mancanze con quello che possiede:<br />

il nano è ricco e usa i sol<strong>di</strong> per farsi accettare, la donna è bella e usa il sesso per<br />

vivere, il magnaccia è simpatico e usa l’amicizia per arricchirsi. Questo è Malamore,<br />

dove c’è sempre il rovescio della medaglia, dove la parola amore si mischia con il<br />

male e la malattia, dove la passione pura degenera in possessione perversa»<br />

(Colombo).<br />

mercoledì 23


Non solo voce. Il mito <strong>di</strong> Maria Callas<br />

Una giornata de<strong>di</strong>cata a Maria Callas, <strong>di</strong> cui nel 2007 ricorrevano i trent’anni dalla<br />

morte, ennesima occasione per confrontarsi con una leggenda della musica e, più in<br />

generale, della storia del costume del Novecento. Accostarsi al mito della grande<br />

cantante lirica significa infatti abbracciare una storia epica: la Callas eroina <strong>di</strong> una<br />

trage<strong>di</strong>a moderna che ha inizio nella natia Grecia e la porta, come tanti emigranti, in<br />

America e poi, finalmente, in Italia, nella patria della lirica, ormai famosa, ma senza<br />

<strong>di</strong>menticare le umili origini e i vuoti che la vita ogni giorno le ha riservato. Una storia<br />

emblematica e, nel contempo, misteriosa che, a <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> un film a lieto fine, non<br />

si conclude con la meritata conquista della celebrità, ma porta con sé un sottofondo<br />

malinconico, il segno <strong>di</strong> un’estraneità che si palesa sempre più drammatica. Non è un<br />

caso che Pasolini le abbia affidato la parte <strong>di</strong> Medea, nella trasposizione<br />

cinematografica della trage<strong>di</strong>a <strong>di</strong> Euripide: c’è un destino nella vita della Callas che<br />

la spinge inesorabilmente verso un triste epilogo.<br />

Italo Moscati, nel documentario che presentiamo in questo breve omaggio, ha<br />

indagato il mistero Callas partendo dalle origini e ha scavato a fondo per penetrare<br />

negli spazi concessi da un mito invadente, che obbliga qualsiasi cronista ad eccedere<br />

in grandeur per stare al passo con una vita sfumata nei fasti effimeri del jet-set.<br />

Moscati, invece, si lascia guidare dalle emozioni che la voce della Callas suscita e dal<br />

vento, il meltemi, che l’ha portata lontana dalla sua casa e dalla sua famiglia. Apolide<br />

per scelta, ma soprattutto per destino.<br />

Nel corso dell’omaggio saranno proiettati i film Callas Forever <strong>di</strong> Zeffirelli, che<br />

immagina, più che ricostruire fedelmente, gli ultimi mesi <strong>di</strong> vita della cantante, e il<br />

citato Medea <strong>di</strong> Pasolini, altra testimonianza della sua arte, che non era racchiusa<br />

solamente nella voce ineguagliabile, ma nelle espressioni, nelle modulazioni del suo<br />

viso. Infine sarà proposto lo straor<strong>di</strong>nario backstage <strong>di</strong> Medea con immagini ine<strong>di</strong>te<br />

della Callas sul set del film.<br />

ore 18.00<br />

Callas Forever (2002)<br />

Regia: Franco Zeffirelli; soggetto e sceneggiatura: Martin Sherman, F. Zeffirelli;<br />

fotografia: Ennio Guarnieri; musica: Alessio Vlad; montaggio: Sean Barton;<br />

interprete: Fanny Ardant, Jeremy Irons, Joan Plowright, Gabriel Garko, Jean Dalric,<br />

Ignacio Paurici; origine: Italia/Gran Bretagna/Francia/Romania/Spagna; produzione:<br />

Medusa, Cattleya, Film & General Productions, Business Affair Production Ltd.,<br />

France 2 Cinema, Galfin, Me<strong>di</strong>apro Pictures, Alquimia Cinema; durata: 107’<br />

Gli ultimi tre mesi <strong>di</strong> vita <strong>di</strong> Maria Callas. Un impresario le propone un clamoroso<br />

rientro, lei sembra tentata, ma il vuoto attorno a lei è sempre più incombente.<br />

«Fondamentale lasciare a casa i pregiu<strong>di</strong>zi. Zeffirelli è l’unico cineasta su questa<br />

terra che poteva tentare un film sulla Callas. Zeffirelli è anche l’autore unico del<br />

cosiddetto “zeffirellismo”, che si ama o si o<strong>di</strong>a. Intensamente alimentato dal marchio<br />

spettacolare dell’allievo scenografo <strong>di</strong> Visconti, ma in questo caso così scoperto che<br />

appare teneramente “necessario”, il film <strong>di</strong>ce alcune cose importanti<br />

sull’impermanenza della musica, la variabilità dell’ascolto, la riproducibilità


dell’arte, l’evanescenza della voce, la decadenza della cultura del melodramma e,<br />

forse, su Maria Callas, <strong>di</strong> cui si afferra non la cronaca, ma lapilli dell’arte, del<br />

carattere, della potenza tenebrosa e greca. Fanny Ardant scrive se stessa sul corpo<br />

fotografico della Callas, accettando la sfida (immensa) del primo piano doppiato.<br />

Non è un santino. Inventando un episo<strong>di</strong>o della sua vita a un anno dalla morte, nel<br />

“bicchiere mezzo pieno” Zeffirelli trova una via possibile all’impossibile» (Danese).<br />

ore 20.00<br />

Backstage <strong>di</strong> Medea (1969, 23’)<br />

ore 20.30<br />

Incontro con Italo Moscati<br />

a seguire<br />

Non solo voce. Trent’anni dalla morte <strong>di</strong> Maria Callas (2007)<br />

Regia: Italo Moscati; testi: I. Moscati; montaggio: Lorenzo Ciccinato; origine: Italia;<br />

produzione: Rai - Speciali del Tg1; durata: 70’<br />

Un racconto e un’inchiesta su Maria Callas, morta il 16 settembre 1977 nella sua<br />

casa <strong>di</strong> Parigi. Sono trascorsi trent’anni da una scomparsa ancora avvolta dal<br />

mistero, le circostanze non sono mai state ben chiarite: una fine improvvisa dovuta a<br />

un inesorabile malore o un suici<strong>di</strong>o, come molti giornali continuano a ricordare?<br />

Lo special <strong>di</strong> Italo Moscati parte dalla morte della Callas, e in particolare dal lancio<br />

delle ceneri della cantante nel Mare Egeo secondo la precisa <strong>di</strong>sposizione della<br />

cantante, per riesaminare una biografia sempre colma d’interesse e per cercare oggi<br />

il senso dell’esistenza della Callas a tanta <strong>di</strong>stanza <strong>di</strong> tempo dalla sua scomparsa.<br />

«Mentre Maria prende parte alle riprese <strong>di</strong> Medea <strong>di</strong> Pier Paolo Pasolini, a un<br />

giornalista che le domanda come sarà la “sua” Medea lei risponde come se fosse<br />

stupita <strong>di</strong> sentirsi porre la domanda: “Ma come Medea”; intende <strong>di</strong>re che non<br />

tra<strong>di</strong>rà il personaggio della trage<strong>di</strong>a <strong>di</strong> Euripide, gran greco come lei. Poi, il<br />

giornalista continua l’intervista e le chiede: “Sarà una Medea perfetta?”. Maria lo<br />

guarda ancora più stupita e risponde con un sorriso: “Io non sono mai perfetta”.<br />

[…] “Perfetta”, una parola che mi ha stimolato a cercare. Non volevo fare un film<br />

doc che ripetesse fino allo sfinimento il piacere e l’emozione che la voce <strong>di</strong> Maria<br />

continua a dare a tutti, me compreso. Non volevo neppure fermarmi troppo,<br />

prigioniero del gusto del gossip, su certe parti della sua biografia e soprattutto dei<br />

suoi amori. Non volevo infine <strong>di</strong>ventare prigioniero del clima che si crea intorno a un<br />

grande personaggio quando, a <strong>di</strong>stanza <strong>di</strong> tempo (trent’anni nel caso <strong>di</strong> Maria),<br />

l’obbligo dei me<strong>di</strong>a <strong>di</strong> ricordare un idolo del pubblico può contribuire a una caccia<br />

al romanzesco, al particolare ine<strong>di</strong>to non sempre davvero ine<strong>di</strong>to, al gioco della<br />

scoperta o della riscoperta. Volevo raccontare e interpretare Maria secondo i venti<br />

che spirano nella sua terra <strong>di</strong> origine» (Moscati).<br />

Ingresso gratuito<br />

a seguire


Medea (1969)<br />

Regia: Pier Paolo Pasolini; soggetto e sceneggiatura: P. P. Pasolini; fotografia: Ennio<br />

Guarnieri; musiche: scelte da Pasolini con la collaborazione <strong>di</strong> Elsa Morante;<br />

montaggio: Nino Baragli; interpreti: Maria Callas, Giuseppe Gentile, Massimo<br />

Girotti, Laurent Terzieff, Margaret Clementi, Sergio Tramonti; origine:<br />

Italia/Francia/Germania; produzione: San Marco Film, Les Films Number One, Janus<br />

Film und Fernsehen; durata: 110’<br />

La trage<strong>di</strong>a <strong>di</strong> Euripide rivista da Pasolini: Medea aiuta Giasone a conquistare il<br />

vello d’oro e fugge con lui. Si sposano e hanno due figli, ma Giasone l’abbandona<br />

per unirsi alla figlia del re <strong>di</strong> Corinto. «Grazie a una presenza magnetica come la<br />

Callas, che si cala anima e corpo in un personaggio che aveva già ispirato l’opera <strong>di</strong><br />

Cherubini, riesce ad afferrare il senso <strong>di</strong> fatalità e <strong>di</strong> orrore del mito greco. Costumi<br />

e scenografie (Pisa, Grado, Aleppo in Siria, la Cappadocia) suggeriscono, come in<br />

E<strong>di</strong>po re, una <strong>di</strong>mensione temporale leggendaria, ben lontana dalla classicità <strong>di</strong><br />

cartapesta cui ci ha abituato il cinema (Mereghetti).<br />

Ingresso gratuito<br />

giovedì 24<br />

L’alchimia delle immagini. Il cinema <strong>di</strong> Luca Verdone<br />

Pochi registi italiani contemporanei possono vantare una varietà <strong>di</strong> interessi e una<br />

poliedricità pari a quelle mostrate da Luca Verdone. Impossibile nel suo caso<br />

fermarsi alla scarna filmografia: tre film in vent’anni <strong>di</strong> attività, e un quarta <strong>di</strong><br />

imminente uscita nella sale, l’attesissimo Viva Franconi!, interpretato da Massimo<br />

Ranieri, omaggio al mondo del circo (che dai tempi <strong>di</strong> Fellini e Tati attendeva un<br />

degno cantore della sua gesta). Accanto infatti all’opera cinematografica, Verdone,<br />

fin dalla laurea in Lettere moderne con una tesi sul pittore Vincenzo Camuccini, si è<br />

interessato <strong>di</strong> arte, realizzando numerosi documentari <strong>di</strong> pregevole valore (Paolo<br />

Uccello: genesi e sviluppo <strong>di</strong> un linguaggio pittorico, La scuola ferrarese del ’400,<br />

Gli Uffizi: storia <strong>di</strong> una galleria, La pittura senese del Trecento, I bamboccianti,<br />

Ottone Rosai). I suoi interessi spaziano dall’arte alla letteratura (il documentario Un<br />

ingegnere del linguaggio: Carlo Emilio Gadda, i programmi ra<strong>di</strong>ofonici Il segretario<br />

fiorentino su Machiavelli e Carlo Goldoni, un viaggio a Roma), passando attraverso<br />

le regie <strong>di</strong> opere liriche (L’impresario, I due baroni <strong>di</strong> Roccazzurra, Torvaldo e<br />

Dorliska, Il barbiere <strong>di</strong> Siviglia): un universo culturale che tocca tutti i campi<br />

dell’arte e che si materializza, nell’opera del regista, in un costante confronto con<br />

l’immagine, nella quale Verdone riversa le sue profonde riflessioni e le sue passioni.<br />

Anche sul cinema ha realizzato numerosi documentari nei quali ricostruisce la storia<br />

del cinema italiano, focalizzando la sua attenzione sui movimenti e sui maestri che lo<br />

hanno maggiormente caratterizzato, ma prestando attenzione anche ai caratteristi,<br />

come Tina Pina e Titina De Filippo (Antologia del neorealismo, La comme<strong>di</strong>a<br />

all’italiana, Pichissima, In cerca <strong>di</strong> Titina, Sergio Leone, La scenografia nello<br />

spettacolo cinematografico, Le immagini e il tempo: Michelangelo Antonioni,<br />

Luchino Visconti, Alessandro Blasetti: l’estro <strong>di</strong> un regista, questi ultimi due


presentati al Cinema Trevi in occasione delle retrospettive de<strong>di</strong>cati ai due gran<strong>di</strong><br />

registi).<br />

La retrospettiva, organizzata dalla Cineteca Nazionale, si concentra sulle regie<br />

cinematografiche <strong>di</strong> Luca Verdone, dall’esor<strong>di</strong>o con il <strong>di</strong>vertente Sette chili in sette<br />

giorni al personale La bocca, opera raffinata nella quale l’autore riversa la sua<br />

passione per l’arte, fino all’ine<strong>di</strong>to Il piacere <strong>di</strong> piacere, film <strong>di</strong> straor<strong>di</strong>naria attualità,<br />

che indaga, fra comme<strong>di</strong>a e melodramma, sui mali della società effimera<br />

contemporanea, nella quale solo ciò che è riflesso dalle mille luci della televisione<br />

attrae e seduce i giovani, come la protagonista del film, il più delle volte illudendoli.<br />

Un film controcorrente con il quale Verdone penetra nel mondo ovattato del jet-set e<br />

a colpi <strong>di</strong> fioretto infilza ad uno ad uno i falsi miti <strong>di</strong> questi anni. Questa retrospettiva<br />

è l’occasione per vederlo finalmente sul grande schermo.<br />

ore 17.00<br />

Sette chili in sette giorni (1986)<br />

Regia: Luca Verdone; soggetto e sceneggiatura: Leo Benvenuti, Piero De Bernar<strong>di</strong>,<br />

L. Verdone; fotografia: Danilo Desideri; musica: Pino Donaggio; montaggio:<br />

Antonio Siciliano; interpreti: Renato Pozzetto, Carlo Verdone, Tiziana Pini, Silvia<br />

Annichiarico, Elena Fabrizi, Franco Diogene; origine: Cecchi Gori Silver Film;<br />

durata: 105’<br />

Due laureati in me<strong>di</strong>cina cercano <strong>di</strong> sbarcare il lunario aprendo una clinica per<br />

persone obese, nelle quali ben presto si ritrovano personaggi sopra le righe, pronti a<br />

tutto pur <strong>di</strong> sod<strong>di</strong>sfare il loro appetito. Film d’esor<strong>di</strong>o <strong>di</strong> Luca Verdone che ironizza<br />

sui miti della società televisiva (il corpo, la bellezza, la salute…) con esiti esilaranti.<br />

«Mi sembrava che ci fossero anche altre strade per proporre la comme<strong>di</strong>a<br />

all'italiana, così convinsi mio fratello Carlo a misurare la sua comicità su contenuti<br />

surreali e grotteschi, abbandonando la via maestra del realismo. I risultati toccavano<br />

anche la tipologia figurativa dell'assurdo. Infatti scelsi tutti attori “eccessivi” non<br />

solo per il peso ma anche per la fisionomia eccentrica dei loro volti» (Luca<br />

Verdone).<br />

ore 19.00<br />

La bocca (1991)<br />

Regia: Luca Verdone; soggetto: Gianfilippo Ascione, L. Verdone; sceneggiatura: G.<br />

Ascione, L. Verdone, Dacia Maraini; fotografia: Alfio Contini; musica: Alessio Vlad,<br />

Clau<strong>di</strong>o Capponi; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Tahnee Welch,<br />

Rodney Harvey, Clau<strong>di</strong>ne Auger, Massimo Bonetti, Monica Scattini, Valeria Cavalli;<br />

origine: Italia; produzione: Penta Film, Silvio Berlusconi Communications, Azzurra<br />

Film, durata: 104’<br />

Una giovane restauratrice del Ministero dei Beni Culturali riceve l’incarico <strong>di</strong><br />

restaurare un affresco nella villa <strong>di</strong> una nobile famiglia. Mentre lavora, osserva<br />

incuriosita i proprietari e le persone che gravitano attorno alla villa. Centesimo film<br />

<strong>di</strong> Alida Valli, nei panni dell’anziana contessa, data per moribonda dalla nuora<br />

desiderosa <strong>di</strong> impadronirsi del patrimonio, che invece si trasforma nel “deus ex


machina” della situazione. Tra Ingmar Bergman e Arne Mattsson, in una preziosa<br />

cornice <strong>di</strong> scuola zeffirelliana, una storia in bilico tra comme<strong>di</strong>a e (melo)dramma.<br />

«Ero molto interessato a descrivere con immagini stu<strong>di</strong>ate, e colori vicini alla<br />

pittura, il mondo rurale toscano, che ho conosciuto bene sin dall’infanzia. Il tema<br />

sentimentale del film, una storia d’amore tra una restauratice d’arte e il giovane<br />

<strong>di</strong>scendente <strong>di</strong> una famiglia aristocratica in declino, mi suggerì <strong>di</strong> approfon<strong>di</strong>re la<br />

ricerca sulle corrispondenze tra immagini e suoni, in un contesto in cui la recitazione<br />

degli attori doveva misurarsi con le emozioni. Il modo giusto per ottenere questi<br />

risultati mi fu in<strong>di</strong>cato da Alida Valli» (Luca Verdone).<br />

ore 21.00<br />

Incontro moderato da Alfredo Bal<strong>di</strong> con Luca Verdone, Gaetano Carotenuto,<br />

Callisto Cosulich, Antonia Liskova, Clau<strong>di</strong>o Strinati, Alessio Vlad<br />

a seguire<br />

Il piacere <strong>di</strong> piacere (2002)<br />

Regia: Luca Verdone; soggetto e sceneggiatura: L. Verdone, Alessandra D’Annibale;<br />

fotografia: Giulio Pietromarchi; musica: Alessio Vlad; interpreti: Antonia Liskova,<br />

Gaetano Carotenuto, Verushka Proshina, Marco Vivio, Mirko Petrini; origine: Italia;<br />

produzione: Cinemart; durata: 90’<br />

Daniela, una ragazza <strong>di</strong> provincia, grazie all’amicizia con una famosa giornalista,<br />

riesce a entrare in un mondo dorato dove apparentemente le persone sono più belle e<br />

interessanti, ma in realtà si celano rancori e frustrazioni. Attraverso dolorose<br />

esperienze si compie l’educazione sentimentale della ragazza, la quale, alla fine,<br />

sarà costretta a guardare dentro <strong>di</strong> sé e a confrontarsi con una realtà meno<br />

incantata. Riuscita descrizione <strong>di</strong> un universo effimero e velleitario, alimentato da<br />

ambizioni smodate e fragili sicurezze, in cui il candore <strong>di</strong> una debuttante contribuisce<br />

a spezzare la monotonia e a ridare vitalità a figure ormai grottesche. «Ho osservato<br />

in questi ultimi anni il mondo della televisione e della pubblicità, la corsa allo<br />

sfrenato appagamento della voglia <strong>di</strong> “apparire” dei giovani che hanno avuto cattivi<br />

maestri. Questo film voleva mostrare i <strong>di</strong>fetti del “consumismo” e del narcisismo <strong>di</strong><br />

una certa parte dei giovani <strong>di</strong> oggi, vittime <strong>di</strong> modelli sbagliati. Valori come<br />

l'amicizia e l’amore sono privati delle implicazioni etiche e mi sono proposto <strong>di</strong><br />

raccontare questi temi in una vicenda che vede l’incontro tra una ragazza giovane e<br />

una più matura trasformarsi da amicizia in rivalità. A tratti l’ho risolto con i toni<br />

della comme<strong>di</strong>a, in altri momenti con quelli del melodramma» (Luca Verdone).<br />

Ingresso gratuito<br />

venerdì 25<br />

Cinema, storie e passioni<br />

Dopo La presa <strong>di</strong> Roma <strong>di</strong> Filoteo Alberini, restaurato nel 2005, la Cineteca ha<br />

compiuto nel 2007 un altro significativo passo del progetto <strong>di</strong> riscoperta e restauro<br />

del cinema muto sul Risorgimento: Il piccolo garibal<strong>di</strong>no, realizzato dalla Cines<br />

(erede della Alberini-Santoni) nel 1909.


Entrambi i restauri fanno parte <strong>di</strong> un più complessivo progetto <strong>di</strong> ricerca sul<br />

Risorgimento nel cinema, varato in collaborazione con il Servizio Biblioteca del<br />

Grande Oriente d’Italia, che, in occasione del Bicentenario <strong>di</strong> Garibal<strong>di</strong>, ha incluso la<br />

realizzazione <strong>di</strong> un libro in e<strong>di</strong>zione bilingue (italiana/inglese), Da La presa <strong>di</strong> Roma<br />

a Il piccolo garibal<strong>di</strong>no. Risorgimento, Massoneria e Istituzioni: l’immagine della<br />

Nazione nel cinema muto (1905-1909), a cura <strong>di</strong> Mario Musumeci e Sergio Toffetti,<br />

Gangemi E<strong>di</strong>tore, Roma, 2007, a cui è allegato un dvd con le e<strong>di</strong>zioni restaurate <strong>di</strong><br />

entrambi i film. Il volume, oltre a dar conto del restauro delle due opere, ne analizza<br />

il senso nell’ambito del contesto culturale italiano della prima decade del secolo,<br />

anche attraverso i contributi <strong>di</strong> storici come Lucio Villari, Roberto Balzani, Giovanni<br />

Lasi, questo ultimo, già autore <strong>di</strong> un interessante stu<strong>di</strong>o sulle ra<strong>di</strong>ci massoniche <strong>di</strong> La<br />

presa <strong>di</strong> Roma.<br />

ore 18.00<br />

La presa <strong>di</strong> Roma (1905) e Il piccolo garibal<strong>di</strong>no (1909)<br />

ore 18.30<br />

Presentazione del libro Da La presa <strong>di</strong> Roma a Il piccolo garibal<strong>di</strong>no. Risorgimento,<br />

Massoneria e Istituzioni: l’immagine della Nazione nel cinema muto (1905-1909), a<br />

cura <strong>di</strong> Mario Musumeci e Sergio Toffetti, Gangemi E<strong>di</strong>tore, Roma, 2007.<br />

Incontro con Gustavo Raffi, Bernar<strong>di</strong>no Fioravanti, Roberto Balzani, Lucio<br />

Villari, Giovanni Lasi, Irela Nuñez<br />

a seguire<br />

La presa <strong>di</strong> Roma (1905) e Il piccolo garibal<strong>di</strong>no (1909)<br />

ore 20.30<br />

Viva l’Italia (1961)<br />

Regia: Roberto Rossellini; soggetto: Antonio Petrucci, Luigi Chiarini, Sergio<br />

Amidei, Carlo Alianello; sceneggiatura: Antonello Trombadori, R. Rossellini, A.<br />

Petrucci, Diego Fabbri, S. Amidei; origine: Italia/Francia; interpreti: Renzo Ricci,<br />

Paolo Stoppa, Franco Interlenghi, Giovanna Ralli; durata: 128’<br />

La spe<strong>di</strong>zione dei Mille rievocata a cento anni <strong>di</strong> <strong>di</strong>stanza. «Pur con alti e bassi <strong>di</strong><br />

stile e <strong>di</strong> tono, nonostante i compromessi storici-ideologici <strong>di</strong> sceneggiatura, il film<br />

raggiunge i suoi scopi: togliere l’epopea garibal<strong>di</strong>na dal mito e dall’oleografia [...]<br />

e dare alla rievocazione storica la spoglia concretezza <strong>di</strong> una cronaca»<br />

(Moran<strong>di</strong>ni).<br />

Proiezioni a ingresso gratuito<br />

26-31 gennaio<br />

Kill Baby Kill! Il cinema <strong>di</strong> Mario Bava<br />

Un regista sempre più amato, conosciuto, stu<strong>di</strong>ato e, inevitabilmente, imitato. È il<br />

destino postumo <strong>di</strong> Mario Bava (1914-1980), stimato in vita più come grande<br />

<strong>di</strong>rettore della fotografia e come straor<strong>di</strong>nario creatore <strong>di</strong> effetti speciali (l’uomo dei


trucchi…) che come abilissimo regista capace <strong>di</strong> spaziare nei generi e <strong>di</strong> lasciare<br />

un’impronta decisiva nel “cinema <strong>di</strong> paura”, nelle sue innumerevoli varianti. In<br />

realtà, come ben sottolineato dalla critica francese che ha avuto il merito <strong>di</strong> adottarlo<br />

fin dal suo magistrale esor<strong>di</strong>o nel 1960 con La maschera del demonio, Bava è stato<br />

un innovatore, oltre che un maestro della luce (e delle ombre che ben si sposavano<br />

alla sua idea <strong>di</strong> cinema): ha creato generi, filoni, effetti, modellini, inquadrature, ha<br />

creato cinema, spesso dal nulla, sulle ali <strong>di</strong> una fantasia pari solo all’ingegno e a una<br />

tecnica pro<strong>di</strong>giosa. La mano <strong>di</strong> Bava si vede sempre, anche nei film girati da altri<br />

registi e ai quali ha collaborato, a volte anonimamente, perché Bava era come il Wolf<br />

<strong>di</strong> Pulp Fiction: «Sono il signor Bava, risolvo problemi», parafrasando la battuta del<br />

film <strong>di</strong> Tarantino. Si vede nei suoi film meno personali, come i western, più<br />

genialmente fantasiosi, come i film <strong>di</strong> fantascienza, nelle sue incursioni nel filone<br />

sexy (Quante volte… quella notte) o nel poliziesco (Cani arrabbiati): è una questione<br />

<strong>di</strong> luci, <strong>di</strong> esplosioni pop, <strong>di</strong> stile. Come scrive Joe Dante: «La grande influenza <strong>di</strong><br />

Bava sui registi contemporanei è sottovalutata. Non sono sicuro che questo valga<br />

l’Europa, ma in America ci sono molti filmaker che hanno assimilato le immagini e<br />

lo stile <strong>di</strong> Bava trasferendoli in altri generi. Ovunque sia, Mario può essere contento<br />

della sua ere<strong>di</strong>tà». Questa e quasi tutte le citazioni contenute nelle schede sono tratte<br />

dal bel volume Kill Bill Kill! Il cinema <strong>di</strong> Mario Bava, curato da Gabriele Acerbo e<br />

Roberto Pisoni (e<strong>di</strong>zione un mondo a parte), che verrà presentato in occasione della<br />

tavola rotonda, alla presenza del figlio <strong>di</strong> Bava, Lamberto.<br />

Si ringraziano per la collaborazione, oltre agli autori del volume, Stefano Finesi e<br />

Massimiliano Rossi (La farfalla sul mirino), il Museo Nazionale del Cinema <strong>di</strong><br />

Torino, la Cineteca Griffith <strong>di</strong> Genova, Rai Direzione Teche.<br />

«Era un maestro dei movimenti <strong>di</strong> macchina, il modo <strong>di</strong> rendere emotiva una sequenza solo<br />

spostando la macchina da presa o abbassandola era geniale. Come Hitchcock, usava la camera e i<br />

movimenti, dolly e carrelli, in modo espressivo e non fini a se stessi. Il movimento <strong>di</strong> macchina<br />

buono è solo quando porta a un risultato. In questo era magistrale».<br />

Dario Argento<br />

sabato 26<br />

ore 17.00<br />

La maschera del demonio (1960)<br />

Regia: Mario Bava; soggetto: da Il Vij <strong>di</strong> Nikolaj Gogol’; sceneggiatura: Ennio de<br />

Concini, Mario Serandrei; fotografia: M. Bava; musica: Roberto Nicolosi;<br />

montaggio: Mario Serandrei; interpreti: Barbara Steele, John Richardson, Andrea<br />

Checchi, Ivo Garrani, Arturo Dominici, Enrico Olivieri; origine: Italia; produzione:<br />

Galatea, Jolly Film; durata: 88’<br />

Due viaggiatori nelle steppe russe fanno resuscitare la strega Asa, che ha il volto<br />

identico alla sua <strong>di</strong>scendente Katia. La strega vampirizzerà quasi tutti i componenti<br />

della famiglia, cercando d’impadronirsi del corpo del pronipote. «Gli spettatori e i<br />

critici italiani dell’epoca furono ingannati dal genere, ma La maschera del demonio<br />

è un film <strong>di</strong> ambizioni alte, quanto poteva esserlo Il bacio della pantera <strong>di</strong> Tourneur.<br />

Bava rende significativamente omaggio a Nosferatu <strong>di</strong> Murnau nella sequenza della


carrozza <strong>di</strong> Iavutich che attraversa il bosco. Ma girando in ralenti (al contrario <strong>di</strong><br />

Murnau, che accelerava), Bava sottolinea anche la propria originalità nel momento<br />

in cui cita un’iconografia preesistente. Più che I vampiri, dove l’elemento orrorifico<br />

era ancora timido e necessitava per <strong>di</strong> più <strong>di</strong> una spiegazione naturalista, La<br />

maschera del demonio è il film che fa nascere l’horror italiano: un genere che durò<br />

fino al 1966 circa, mai destinato a gran<strong>di</strong> incassi, ma seguito (con maggiore<br />

entusiasmo) anche fuori dal nostro paese» (Pezzotta). «Io regista non lo volevo fare,<br />

perché secondo me il regista deve essere veramente un genio e poi stavo bene a fare<br />

il <strong>di</strong>rettore della fotografia, guadagnavo un sacco <strong>di</strong> sol<strong>di</strong>. Anni prima avevo letto Il<br />

Vij <strong>di</strong> Gogol. Lo lessi ai miei figli a Silvi Marina, erano ancora piccoli e non c’era<br />

ancora la televisione. I due, poveretti, dalla paura dormirono in mezzo al letto.<br />

Siccome in quel periodo era uscito Dracula, pensai <strong>di</strong> fare un film del terrore. Venne<br />

fuori La maschera del demonio, de Il Vij era rimasto solo il nome del protagonista,<br />

era tutta un’altra storia. Cinque miliar<strong>di</strong> incassi in America e ho fatto il regista»<br />

(Bava).<br />

ore 18.45<br />

La frusta e il corpo (1963)<br />

Regia: John M. Old [Mario Bava]; sceneggiatura: Julian Berry [Ernesto Gastal<strong>di</strong>],<br />

Robert Hugo [Ugo Guerra], Martin Hardy [Luciano Martino]; fotografia: David<br />

Hamilton [Ubaldo Terzano]; montaggio: Rob King [Roberto Cinquini]; interpreti:<br />

Daliah Levi, Christopher Lee, Tony Kendall [Luciano Stella], Isli Oberon [Ida Galli],<br />

Harriet White, Alan Collins [Luciano Pigozzi]; origine: Italia/Francia; produzione:<br />

Vox Film, Leone Film, Francinor-Paris International Productions; durata: 86’<br />

Il gotico secondo Bava. Kurt, il figlio del conte Menliff, viene ucciso dopo il suo<br />

ritorno nel maniero <strong>di</strong> famiglia. Il suo spirito ossessiona la cognata, un tempo sua<br />

amante, creando un clima <strong>di</strong> terrore. Il film ebbe problemi con la censura: «Me lo<br />

hanno sequestrato perché si vedeva Christopher Lee che frusta Daliah Levi tutta<br />

compiaciuta e gaudente» (Bava). Sergio Martino, ispettore <strong>di</strong> produzione del film,<br />

ricorda che Bava «era un regista che aveva un gran<strong>di</strong>ssimo rispetto per il denaro e<br />

la pellicola, girava ad<strong>di</strong>rittura con il cronometro. Per esempio gli ho visto fare una<br />

cosa che io non ho mai fatto: strappare le pagine del copione <strong>di</strong>cendo: “Siamo<br />

abbastanza lunghi, questa scena non la giriamo». Ed è una cosa molto sana, tagliare<br />

prima invece <strong>di</strong> tagliare dopo». La protagonista, Daliah Levi, era reduce<br />

dall’in<strong>di</strong>menticabile prova ne Il demonio <strong>di</strong> Brunello Ron<strong>di</strong>.<br />

ore 20.30<br />

Mario Bava: Operazione paura (2004)<br />

Regia: Gabriele Acerbo, Roberto Pisoni; fotografia: Luca Brovelli; montaggio:<br />

Carlotta Giorgi, Davide Sanson; origine: Italia; produzione: Sky Cinema; durata: 53’<br />

Il documentario, con la guida <strong>di</strong> Joe Dante e le testimonianze <strong>di</strong> molti registi<br />

hollywoo<strong>di</strong>ani, ripercorre la carriera <strong>di</strong> Mario Bava, il regista italiano che con il suo<br />

talento onirico e visivo, la sua enorme capacità <strong>di</strong> inventare soluzioni tecniche <strong>di</strong><br />

incre<strong>di</strong>bile efficacia con budget irrisori, ha creato horror, thriller e film fantastici


dallo stile ineguagliabile. Testimonianze <strong>di</strong> Dario Argento, Fabrizio Bava, Lamberto<br />

Bava, Mario Bava, Alberto Bevilacqua, Tim Burton, Roman Coppola, Roger<br />

Corman, Callisto Cosulich, Luigi Cozzi, Joe Dante, Dino De Laurentiis, Stefano<br />

Della Casa, Massimo De Rita, John Lan<strong>di</strong>s, John Phillip Law, Alfredo Leone, Tim<br />

Lucas, Fulvio Lucisano, Mario Monicelli, Ennio Morricone, Daria Nicolo<strong>di</strong>, Carlo<br />

Rambal<strong>di</strong>, Elke Sommer, Barbara Steele, Sergio Stivaletti, Quentin Tarantino.<br />

a seguire<br />

I tre volti della paura (1963)<br />

Regia: Mario Bava; soggetto: da racconti <strong>di</strong> Anton Cechov, Aleksej Tolstoj, Guy De<br />

Maupassant; sceneggiatura: Marcello Fondato, con la collaborazione <strong>di</strong> Alberto<br />

Bevilacqua, M. Bava, [non accre<strong>di</strong>tato Ugo Guerra]; fotografia: Ubaldo Terzano;<br />

musica: Roberto Nicolosi; montaggio: Mario Serandrei; interpreti: Michèle Mercier,<br />

Ly<strong>di</strong>a Alfonsi, Boris Karloff, Suzy Anderson, Mark Damon, Jacqueline Pierreux;<br />

origine: Italia/Francia; produzione: Emmepi Cinematografica, Galatea, Société<br />

Cinématographique Lyre; durata: 99’<br />

Tre racconti del terrore, introdotti da Boris Karloff. «Film singolarissimo, quasi<br />

unico nella sua struttura <strong>di</strong> trilogia <strong>di</strong> novella del brivido; tre variazioni e tre stili<br />

baviani. Nella prima novella, “da camera” troviamo un Bava attento al dettaglio<br />

psicologico, all’evoluzione ambigua dei due personaggi, senza trucchi o fantasie<br />

visuali. Nella seconda, un piccolo capolavoro in se stessa, il tema del vampirismo<br />

affiora evocato con richiami letterari e si impernia tutto sulla poderosa figura,<br />

miticamente gigantesca, <strong>di</strong> Boris Karloff. Nella terza, tutto è atmosfera e gioco <strong>di</strong><br />

ombre e luci, rumori e mosconi, un Bava libero <strong>di</strong> materializzare le sue vicende<br />

paurose. Che <strong>di</strong>re dell’introduzione ai film detta da Karloff su uno sfondo magicospaziale?<br />

Che è surclassato in bellezza, in poesia e in genialità pura dal finale<br />

autoironico» (Codelli). «Se il lungometraggio che mi ha spaventato <strong>di</strong> più è un<br />

classico <strong>di</strong> Robert Wise, Gli invasati (The Haunting, 1963), il cortometraggio che più<br />

mi ha inquietato è firmato da Mario Bava. I tre volti della paura contiene un episo<strong>di</strong>o<br />

basato su un racconto <strong>di</strong> Cechov: La goccia d’acqua. È il frammento <strong>di</strong> cinema più<br />

pauroso che abbia mai visto in vita mia […] Mario Bava è il mio preferito, perché ti<br />

penetra sotto la pelle, nell’inconscio, creando immagini brillanti che ti terrorizzano.<br />

È un maestro, e io non ho mai visto film come i suoi. Li scoprii nei drive-in quando<br />

frequentavo il college negli anni settanta e, anche se poi non li ho più rivisti per circa<br />

vent’anni, ricordo che mi colpirono molto. E mi spaventarono per quanto erano<br />

belli» (Sam Raimi).<br />

Copia proveniente dalla Cineteca Griffith <strong>di</strong> Genova - Ingresso gratuito<br />

domenica 27<br />

Jean Cayrol. Dalla notte e dalla nebbia<br />

Convegno internazionale in occasione della Giornata della Memoria<br />

Poeta, romanziere, cineasta, e<strong>di</strong>tore, Jean Cayrol (1911-2005), prossimo al<br />

surrealismo, legato ai temi della Resistenza e dell’impegno, assertore <strong>di</strong> una nuova<br />

forma <strong>di</strong> arte ispirata alla sua esperienza <strong>di</strong> deportato (l’«art lazaréen»), riconosciuto


come uno dei precursori del Nouveau roman: i suoi principi troveranno espressione<br />

nelle sue fictions e nella sua scrittura poetica e cinematografica; attraverso <strong>di</strong> essi, si<br />

annunciano e si leggono le questioni cruciali dell’universo concentrazionario.<br />

Il Dipartimento <strong>di</strong> Comunicazione e Spettacolo dell'Università degli Stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> Roma<br />

Tre, in collaborazione con il Dipartimento <strong>di</strong> Letterature comparate ed il <strong>Centro</strong> Stu<strong>di</strong><br />

italo-francesi, con il sostegno del Rettorato della stessa Università e dell’Ambasciata<br />

<strong>di</strong> Francia a Roma - BCLA, organizza il Convegno internazionale Jean Cayrol. Dalla<br />

notte e dalla Nebbia, in occasione della giornata della Memoria, che avrà luogo in<br />

varie se<strong>di</strong> dell’Università degli Stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> Roma Tre il 25 e 26 gennaio 2008.<br />

A conclusione del convegno questa rassegna, curata da Eleonora Costanza<br />

(Università Roma Tre) e Stephane Solier (Ambassade de France - BCLA) in<br />

collaborazione con il <strong>Centro</strong> <strong>Sperimentale</strong> <strong>di</strong> <strong>Cinematografia</strong> - Cineteca Nazionale e<br />

con il sostegno dell’Ambasciata <strong>di</strong> Francia in Italia, vuole essere un ulteriore<br />

omaggio all’attività intellettuale <strong>di</strong> Jean Cayrol che in Italia continua a essere, a torto,<br />

una figura ignorata dall’e<strong>di</strong>toria e sconosciuta alla maggior parte del pubblico.<br />

Proiezioni a ingresso gratuito<br />

ore 16.30<br />

Incontro con Giorgio de Vincenti (Università degli Stu<strong>di</strong> Roma Tre) e Gianfranco<br />

Rubino (Università degli Stu<strong>di</strong> Roma “La Sapienza”)<br />

ore 17.30<br />

On vous parle (1960)<br />

Regia: Jean Cayrol, Claude Durand; soggetto e sceneggiatura: J. Cayrol, C. Durand;<br />

interprete: Daniel Sorano; origine: Francia; durata: 16’; v.o.; sott. it.<br />

Estratto da un testo omonimo, questo cortometraggio sembra un lento monologo <strong>di</strong><br />

un personaggio miserevole a proposito dell’esperienza concentrazionaria. Questo<br />

personaggio non identificato ricorda un allontanamento misterioso dalla propria<br />

casa, durante la guerra, l’arrivo in un campo <strong>di</strong> concentramento, la sensazione <strong>di</strong><br />

essere spiato, la paura <strong>di</strong> un colpo <strong>di</strong> rivoltella alle spalle, «il moribondo che<br />

reclama la sua minestra», il letto come un pagliericcio, il proprio profilo magro <strong>di</strong><br />

piccolo rapace. Il ritorno, quando a Parigi era il tempo delle ciliegie e gli impiccati<br />

sugli alberi non avevano più sangue. La fuga dalla festa, «j’aimais me faire oublier».<br />

Il lavoro in una fabbrica. L’apparizione della donna amata che non lo riconosce più<br />

(«on ne peut s’aimer quando on est terrifié l’un par l’autre») e rinuncia a<br />

raggiungerlo. La guerra che non vuole finire. E la domanda finale: «pourquoi m’a-ton<br />

tué si je ne suis pas encore mort?».<br />

a seguire<br />

La frontière (1961)<br />

Regia: Jean Cayrol, Claude Durand; soggetto e sceneggiatura: J. Cayrol, C. Durand;<br />

interpreti: Laurent Terzieff; origine: Francia; durata: 18’; v.o.; sott. it.<br />

In un ampio monologo, qualcuno parla <strong>di</strong> se stesso: bambino triste e vagabondo, la<br />

guerra improvvisa, la guerra che se ne va ma «je suis toujours en guerre», mentre


non esistono più età. La città viene ricostruita, «per vivere è sufficiente perdere la<br />

memoria». Il personaggio è un morto <strong>di</strong>verso dagli altri morti, che hanno<br />

<strong>di</strong>menticato, è un «revenant» che non accetta «un falso passato, un falso paese». Ha<br />

vissuto l’esperienza della notte, «sur un bateau sans lumière et sans pavillon».<br />

a seguire<br />

Madame se meurt (1961)<br />

Regia: Jean Cayrol, Claude Durand; soggetto e sceneggiatura: J. Cayrol, C. Durand;<br />

interpreti: Suzanne Flon; origine: Francia; durata: 17’; v.o.; sott. it.<br />

Un inverno sul mare, «on n’attends plus personne». Allora, per passare il tempo, «si<br />

riprendono le storie nel punto in cui altri le avevano <strong>di</strong>menticate». Come la storia <strong>di</strong><br />

Valence, una donna che vaga in una grande città piena <strong>di</strong> palazzi vuoti, mentre<br />

muoiono tutti i membri della sua famiglia. Non sogna mai, facendosi addormentare<br />

dalle dolci mani <strong>di</strong> uno sconosciuto, partendo per le spiagge su un vecchio cavallo da<br />

corsa, come in un incantesimo. Solitaria, aspetta la notte alla sua finestra, finché,<br />

nell’alba inattesa <strong>di</strong> un giorno, «osa vivere». Come la storia <strong>di</strong> Marcel che «parle de<br />

l’amour, amoureusement», rievocata dall’amante Valence che ha assistito,<br />

impotente, alla sua morte. Infine, <strong>di</strong> nuovo Valence, morta, <strong>di</strong>venuta selvaggia in<br />

simbiosi col giar<strong>di</strong>no che la ospita e nel quale ricomincia a vivere una vita vegetale,<br />

invocando <strong>di</strong>speratamente un nome.<br />

ore 19.00<br />

Muriel ou le temps d’un rétour (Muriel, il tempo <strong>di</strong> un ritorno, 1962)<br />

Regia: Alain Resnais; soggetto e sceneggiatura: Jean Cayrol; fotografia: Sacha<br />

Vierny; montaggio: Clau<strong>di</strong>ne Merlin, Kenout Peltier, Eric Pluet; interpreti: Delphine<br />

Seyrig, Jean-Pierre Kéirien, Nita Klein, Jean Baptiste Thiérrée; origine: France/Italia;<br />

produzione: Alpha Productions, Argos Films, Les Films de la Pléiade, Dear Film<br />

Produzione; durata: 115’; v.o.; sott. it.<br />

La guerra d’Algeria è appena finita, ma non per chi l’ha vissuta. Siamo nel 1962 à<br />

Boulogne-sur-mer, dove Hélène Aughain si occupa del suo figlio adottivo Bernard.<br />

Veterano della guerra d’Algeria, ossessionato da un episo<strong>di</strong>o <strong>di</strong> guerra: obbligato a<br />

partecipare alla tortura e ad assistere all’assassinio <strong>di</strong> Muriel, una ragazza algerina<br />

accusata <strong>di</strong> sabotaggio, non riesce a superare il suo passato (come il suo camerata<br />

Robert) né a <strong>di</strong>menticare. Inoltre Hélène, vedova borghese ed annoiata che vive in un<br />

appartamento trasformato in bottega antiquaria, decide <strong>di</strong> ritrovare l’amore della<br />

sua adolescenza, Alphonse, anche lui <strong>di</strong> ritorno dalla guerra. Gli scrive. L’uomo<br />

arriva, ma in compagnia <strong>di</strong> una donna, e si installa a casa <strong>di</strong> Hélène. Questo<br />

incontro farà loro scoprire che non hanno più nulla in comune, nonostante gli sforzi<br />

per cercare <strong>di</strong> capirsi.<br />

ore 21.00<br />

Le coup de grâce (1966)<br />

Regia: Jean Cayrol, Claude Durand; soggetto e sceneggiatura: J. Cayrol, C. Durand;<br />

fotografia: Jean-Michel Boussaguet; montaggio: O<strong>di</strong>le Terzieff; interpreti: Danielle


Darrieux, Michel Piccoli, Emmanuelle Riva, Olivier Hussenot, Bernard Tiphaine,<br />

Florence Guerfy, Jean-Jacques Lagarde; origine: France/Canada; produzione: Les<br />

Films de la Pléiade, Sofracima, Soquema inc.; durata: 99’; v.o.; sott. it.<br />

Venticinque anni dopo la fine della seconda guerra mon<strong>di</strong>ale, Bruno Capri,<br />

collaborazionista non scoperto della Gestapo, torna a Bordeaux e <strong>di</strong>venta l’amante<br />

<strong>di</strong> Sophie, la sorella <strong>di</strong> un resistente tra i molti da lui denunciati anni prima e che<br />

hanno trovato la morte. Sebbene abbia subito un’operazione <strong>di</strong> chirurgia estetica, la<br />

vedova della sua vittima crede <strong>di</strong> riconoscerlo… «On se méprendrait en ne<br />

considérant Le Coup de grâce que comme un récit d’action. En réalisant son premier<br />

film, Jean Cayrol [en collaboration avec] Claude Durand retrouve les thèmes de son<br />

œuvre de poète et de romancier: les images de la mémoire viennent recouvrir celles<br />

de la perception» (Pierre Mazars).<br />

lunedì 28<br />

chiuso<br />

<strong>marted</strong>ì 29<br />

ore 18.00<br />

La morte viene dallo spazio (1958)<br />

Regia: Paolo Heusch; soggetto: Virgilio Sabel; sceneggiatura: Marcello Coscia,<br />

Alessandro Continenza; fotografia: Mario Bava; musica: Carlo Rustichelli; interpreti:<br />

Paul Hubschmid, Madaleine Fischer, Fiorella Mari, Ivo Garrani, Dario Michaelis,<br />

Gérard Landry; produzione: Royal Film, Lux Film; origine: Italia/Francia; durata: 82’<br />

Primo film italiano <strong>di</strong> fantascienza ed esor<strong>di</strong>o nella regia per Paolo Heusch, La<br />

morte viene dallo spazio è considerato come uno dei migliori film <strong>di</strong> genere nostrani.<br />

Il razzo XZ viene lanciato verso la Luna ma per un’avaria perde la rotta ed entra in<br />

collisione con alcuni asteroi<strong>di</strong> che conseguentemente puntano inesorabili contro la<br />

Terra. La fotografia e gli effetti speciali sono <strong>di</strong> Mario Bava. «La trama è ideata<br />

molto ingegnosamente e la tensione che l’azione suscita va aumentando e non viene<br />

meno fino alla conclusione» (Albertazzi).<br />

ore 19.30<br />

Terrore nello spazio (1965)<br />

Regia: Mario Bava; soggetto: da Una notte <strong>di</strong> 21 ore <strong>di</strong> Renato Pestriniero;<br />

sceneggiatura: Ib Melchior, Alberto Bevilacqua, Callisto Cosulich, M. Bava, Anton<br />

Romàn, Rafael J. Salvia; fotografia: Antonio Rinal<strong>di</strong>; musica: Gino Marinuzzi Jr.;<br />

montaggio: Antonio Gimeno, Romana Fortini; interpreti: Barry Sullivan, Norma<br />

Bengell, Angel Aranda, Evi Maran<strong>di</strong>, Fernando Villena, Stelio Candelli; origine:<br />

Italia/Spagna/Usa; produzione: Italian International Film, Castilla Cooperativa<br />

Cinematografica, American International Pictures; durata: 88’<br />

La fantascienza all’italiana secondo Mario Bava, fra astronavi che scompaiono, un<br />

pianeta dai poteri magici, scheletri e alieni. «Per Terrore nello spazio non avevo<br />

nulla, ma veramente nulla a <strong>di</strong>sposizione. Dico, c’era il teatro <strong>di</strong> posa, tutto vuoto e<br />

squallido perché mancavano i sol<strong>di</strong>: avrebbe dovuto rappresentare un pianeta. Che


ho fatto allora? Nel teatro affianco c’erano due grosse rocce <strong>di</strong> plastica, residuato <strong>di</strong><br />

qualche film mitologico, le ho prese e mezze in mezzo al mio set, poi, per coprire il<br />

pavimento, ho seminato quegli zampironi fumogeni e ho oscurato lo sfondo, dove<br />

c’era solo la parete bianca. Poi, spostando quelle due uniche rocce, ho girato il film»<br />

(Bava). «Il film, a colori, ricorda per la scenografia alcune opere<br />

dell’espressionismo tedesco: suoni, luci, nebbie variopinte e sempre fluttuanti, melme<br />

in ebollizione, situazioni dense <strong>di</strong> mistero sono gli elementi che Bava ha mescolato<br />

per darci un <strong>di</strong>screto racconto <strong>di</strong> quel tipo <strong>di</strong> fantascienza che ignora i problemi<br />

della terra, ambientando personaggi e avvenimenti in mon<strong>di</strong> extragalattici e <strong>di</strong> pura<br />

fantasia» (Cavallaro).<br />

ore 21.15<br />

La ragazza che sapeva troppo (1963)<br />

Regia: Mario Bava; soggetto e sceneggiatura: Ennio De Concini, Enzo [Sergio]<br />

Corbucci, Eliana De Sabata, con la collaborazione <strong>di</strong> Franco Prosperi, Mino Guerrini,<br />

M. Bava; fotografia: M. Bava; musica: Roberto Nicolosi; montaggio: Mario<br />

Serandrei; interpreti: Leticia Román, John Saxon, Valentina Cortese, Dante Di Paolo,<br />

Robert Buchanan, Gianni Di Benedetto; origine: Italia/Usa; produzione: Galatea,<br />

Coronet; durata: 88’<br />

Il capostipite del thriller all’italiana, nato come giallo rosa e trasformato da Bava in<br />

un film <strong>di</strong> suspense, in cui una ragazza americana, giunta in Italia, si trova, suo<br />

malgrado, coinvolta in un delitto e inizia a indagare in una Roma allora definita, da<br />

un anonimo recensore, «del tutto ine<strong>di</strong>ta, assurda, ma <strong>di</strong>vertente». In realtà Bava<br />

svela il volto segreto e minaccioso della città che incute terrore con le sue geniali<br />

costruzioni (il quartiere Coppedè), i suoi appartamenti vuoti e misteriosi (Bava<br />

riesce a creare tensioni anche sfruttando la luce e non solo il buio, come nella<br />

geniale sequenza dell’appartamento dalle pareti bianche, modello per molto cinema<br />

a venire). «Penso che fosse un’idea intelligente. Era come una paro<strong>di</strong>a del giallo, un<br />

giallo nel giallo. Questa ragazza che ha una fervida immaginazione e fantasia e<br />

viene suggestionata dal libro che sta leggendo» (John Saxon). «Una delle mie<br />

sequenze preferite del cinema <strong>di</strong> Mario Bava è quella che apre il film. Quando è<br />

uscito il dvd in italiano ho visto la scena: è apparentemente la stessa ma, allo stesso<br />

tempo, è completamente <strong>di</strong>versa da quella americana. Il <strong>di</strong>alogo è <strong>di</strong>fferente. La<br />

sequenza, in un bianco e nero meraviglioso, è costruita dalla macchina da presa che<br />

si muove su un aereo passeggeri. Mentre la macchina da presa li sfiora, si sente<br />

quello che pensano i personaggi inquadrati, cose del tipo: «Questo cibo fa schifo»,<br />

«Vorrei qualcosa da bere», oppure «Non sopporto più mia moglie», c’è un uomo che<br />

sta contando mentalmente dei sol<strong>di</strong> e una donna che sogna <strong>di</strong> andare a fare<br />

shopping. Il movimento chiude sulla protagonista e quello che sta pensando è: «Cosa<br />

farò adesso <strong>di</strong> te? Prenderò questo coltello, lo infilerò nel tuo dannato cuore e te lo<br />

strapperò via!». Poi ti ren<strong>di</strong> conto che sta leggendo un romanzo! È la scena<br />

d’apertura più bella che abbia mai visto. Quando ho comprato la versione italiana,<br />

ho scoperto che non c’è traccia <strong>di</strong> tutto ciò. È la stessa scena, ma non ci sono i<br />

pensieri della gente. Una delusione» (Tarantino).


Copia proveniente dalla Farfalla sul mirino - Ingresso gratuito<br />

a seguire<br />

L’ospite delle due (1975, 58’)<br />

Programma televisivo della Rai andato in onda il 13 aprile 1975, condotto da<br />

Luciano Rispoli. Mario Bava, ospite in stu<strong>di</strong>o con Carlo Rambal<strong>di</strong>, l’attrice Silvia<br />

Monelli e il critico (poi regista e collaboratore <strong>di</strong> Fellini) Gianfranco Angelucci,<br />

spiega ai telespettatori alcuni dei suoi straor<strong>di</strong>nari trucchi.<br />

Materiale gentilmente concesso da Rai Direzione Teche - Ingresso gratuito<br />

mercoledì 30<br />

ore 18.00<br />

Gli invasori (1961)<br />

Regia: Mario Bava; soggetto e sceneggiatura: Oreste Biancoli, Piero Pierotti, M.<br />

Bava; fotografia: M. Bava; musica: Roberto Nicolosi; montaggio: Mario Serandrei;<br />

interpreti: Cameron Mitchell, Giorgio Ar<strong>di</strong>sson, Ellen Kessler, Alice Kessler, Jacques<br />

Delbò, François Cristophe; origine: Italia/Francia; produzione: Galatea, Critérion<br />

Film, Société Cinématographique Lyre; durata: 98’<br />

L’epopea dei vichinghi all’assalto della Britannia. «Senza nasconderselo, il<br />

produttore tentò <strong>di</strong> rifare The Vikings, <strong>di</strong>retto da Richard Fleischer […]. Meno<br />

verboso e più barbaro rispetto al modello grazie alla descrizione grafica della<br />

violenza (l’enorme carro ornato <strong>di</strong> teste <strong>di</strong> morti dove sono legati due torturati;<br />

Rutford trafitto dalle frecce come San Sebastiano), il film <strong>di</strong> Bava anticipa l’universo<br />

parossistico del western italiano. I drakar che si stagliano sullo sfondo <strong>di</strong> un cielo<br />

arancione, il dragone scolpito sulla prua che emerge lentamente dalla nebbia, le<br />

frecce incen<strong>di</strong>arie che illuminano l’oscurità sono tutte testimonianze <strong>di</strong> quanta<br />

poesia si nasconda nella macchina da presa che Bava punta sulla trage<strong>di</strong>a umana…»<br />

(Martinet). «Le mie navi vichinghe erano carcasse della pasta Buitoni messe in fila,<br />

con quella specie <strong>di</strong> becco davanti soltanto, dopo<strong>di</strong>ché ghiaccio secco per fare<br />

nebbia e i macchinisti che ogni tanto gettavano secchiate d’acqua, il dolly che<br />

andava su e giù e fumo in teatro, fumoni bianchi, fumoni neri. Ci prese<br />

un’intossicazione che rimasi sei mesi a letto e per poco non andavo a finire al<br />

manicomio per l’avvelenamento. Nello Santi mi mandò il cassiere con un regalo <strong>di</strong><br />

cinque milioni, quelle cose che oggi col cavolo che succedono» (Bava).<br />

Copia proveniente dalla Cineteca Griffith <strong>di</strong> Genova - Ingresso gratuito<br />

ore 20.00<br />

Quante volte... quella notte (1969)<br />

Regia: Mario Bava; soggetto e sceneggiatura: Carl Ross, Mario Moroni; fotografia:<br />

Antonio Rinal<strong>di</strong>; musica: Lallo Gori; montaggio: Otello Colangeli; interpreti: Daniela<br />

Giordano, Brett Halsey, Pascale Petit, Dick Randall, Brigitte Skay, Valeria Sabel;<br />

origine: Italia/Germania Occidentale; produzione: Delfino Film, Hape Film; durata:<br />

95’


«Una ragazza [...] racconta <strong>di</strong> essere stata vittima <strong>di</strong> un tentato stupro, ma il<br />

presunto violentatore sostiene che le cose sono andate <strong>di</strong>versamente. Nemmeno un<br />

testimone riesce a far luce sulla verità. Bava, molto più a suo agio nel genere horror,<br />

tenta qui una ben poco convincente incursione nel thriller dai toni pirandelliani,<br />

ambizioso ma assai sconnesso nella struttura narrativa. Iniziato nel 1969, il film è<br />

uscito quattro anni più tar<strong>di</strong> per problemi <strong>di</strong> censura» (Mereghetti). «Ho anche fatto<br />

un film spinto. Uno solo, niente male. Non lo nego. Si tratta <strong>di</strong> Quante volte… quella<br />

notte. L’ho fatto in un’epoca in cui in Italia, se rifiutavi <strong>di</strong> girare un film erotico, ti<br />

prendevano per omosessuale. Era basato sullo stresso principio <strong>di</strong> Rashômon: la<br />

notte <strong>di</strong> due coppie, raccontata da ciascuno dei partner. Una volta tanto le scene <strong>di</strong><br />

sesso erano giustificate. Ma la censura l’ha bocciato. Il mio amico Riccardo Freda<br />

faceva parte della Commissione. Per salvare il film ho proposto in un secondo tempo<br />

<strong>di</strong> inserire una messa nera. Sono ancora in attesa <strong>di</strong> risposta» (Bava).<br />

ore 21.45<br />

Diabolik (1968)<br />

Regia: Maria Bava; soggetto: Angela e Luciana Giussani, Dino Maiuri, Adriano<br />

Baracco; sceneggiatura: D. Maiuri, Adriano Baracco; fotografia: Antonio Rinal<strong>di</strong>;<br />

musica: Ennio Morricone; montaggio: Romana Fortini; interpreti: John Philip Law,<br />

Marisa Mell, Michel Piccoli, Adolfo Celi, Clau<strong>di</strong>o Gora, Terry Thomas; origine:<br />

Italia/Francia; produzione: Dino De Laurentiis Cinematografica, Marianne<br />

Productions; durata: 101’<br />

Trasposizione cinematografica del celebre fumetto delle sorelle Giussani. L’ispettore<br />

Ginko dà la caccia a Diabolik che, con l’aiuto <strong>di</strong> Eva Kant, ha rubato <strong>di</strong>eci milioni <strong>di</strong><br />

dollari. Bava non ne aveva un grande ricordo (anche perché i tempi <strong>di</strong> lavorazioni,<br />

particolarmente lunghi, erano inusuali per lui): «Per Diabolik avevo a <strong>di</strong>sposizione<br />

pochissimi mezzi, l’ho finito con circa duecento milioni <strong>di</strong> spesa, un’inezia. Si figuri<br />

che ho dovuto arrangiarmi a inventare tutto con i trucchi perché la produzione non<br />

mi forniva niente, ma proprio niente. Ha visto la capanna <strong>di</strong> Diabolik in campagna, il<br />

suo rifugio, il laboratorio, l’autorimessa...? Le giuro, erano tutti modellini, fotografie<br />

che io ritagliavo al momento, improvvisando per rime<strong>di</strong>are allo squallore della scena<br />

e incollavo su un vetro davanti alla macchina da presa». Invece Dino De Laurentiis<br />

che produsse il film serba un grande ricordo del regista: «Diabolik era uno <strong>di</strong> quei<br />

film che senza gli effetti speciali non si sarebbe potuto realizzare. All’epoca non<br />

c’era la tecnologia che c’è oggi, per esempio la computer animation, che ci consente<br />

<strong>di</strong> fare quasi tutto. All’epoca era necessario usare la fantasia e scelsi Mario Bava<br />

perché aveva quest’eccezionale capacità nel realizzare gli effetti speciali. Era un<br />

grande professionista e riusciva a risolvere problemi complessi in chiave tecnica con<br />

un’agilità eccezionale. Oggi Mario Bava dovrebbe essere un mito, un uomo che tutti<br />

dovrebbero ricordare per le sue qualità umane, ma soprattutto per la sua voglia e la<br />

sua passione <strong>di</strong> fare del cinema». Piena esplosione pop, con l’icona Marisa Mell,<br />

scelta <strong>di</strong> ripiego per la parte <strong>di</strong> Eva Kant, assegnata inizialmente a Catherine<br />

Deneuve, la quale però non voleva lasciar vedere neppure i polpacci e fu rispe<strong>di</strong>ta al


mittente. Poco dopo esplose con Bella <strong>di</strong> giorno «dove se non mostravano al<br />

microscopio la sua epidermide, poco ci mancava! Valli a capire gli attori!» (Bava).<br />

giovedì 31<br />

ore 18.00<br />

La Venere d’Ille (1978)<br />

Regia: Mario e Lamberto Bava; soggetto: dal racconto omonimo <strong>di</strong> Prosper Mérimée;<br />

sceneggiatura: L. Bava, Cesare Garboli; fotografia: Nino Celeste; musica: Ubaldo<br />

Continiello; montaggio: Fernando Papa; origine: Italia; interpreti: Marc Porel, Daria<br />

Nicolo<strong>di</strong>, Fausto Di Bella, Adriana Innocenti, Mario Maranzana, Diana De Curtis;<br />

origine: Italia; produzione: Pont Royal Film Tv, Rai 2; durata: 60’<br />

Film per la tv trasmesso il 27 maggio 1981 per la serie I giochi del delitto - Storie<br />

fantastiche dell’Ottocento. La storia, ambientata nella provincia francese, ruota<br />

attorno a una statua <strong>di</strong> bronzo che raffigura Venere. «Bava è riuscito a cogliere<br />

anche molte delle insenature del racconto e a scrivervi dentro una splen<strong>di</strong>da<br />

rappresentazione <strong>di</strong> una cultura conta<strong>di</strong>na e me<strong>di</strong>terranea nella quale <strong>di</strong> vedono<br />

convivere e intrecciarsi elementi solari e lunari (il lato materiale, razionale, religioso<br />

col lato lunare, irrazionale, magico, del mondo e della cultura conta<strong>di</strong>na<br />

me<strong>di</strong>terranea). Pagine colte che non restano inerti, fini a se stesse, ma che <strong>di</strong>ventano<br />

in Bava occasione <strong>di</strong> racconto, pretesto narrativo. È, infatti, proprio cogliendo<br />

questo tratto culturale del mondo rappresentato che Bava riesce a giustificare<br />

<strong>di</strong>egeticamente e linguisticamente la splen<strong>di</strong>da zoomata che collegando la luna alla<br />

terra dà il via a quella magistrale ultima parte del racconto, tutta giocata sul perfetto<br />

uso dell’esitazione fantastica, in cui la terra e il cielo, il razionale e l’irrazionale, si<br />

congiungono per determinare lo choc fantastico grazie al quale il racconto<br />

raggiunge il suo climax e il suo senso» (Gualtiero Pironi). «Quest’opera finale <strong>di</strong><br />

Bava è tra i capolavori <strong>di</strong> un cinema che non si risolve mai in equilibri conclusi. I<br />

costumi ottocenteschi si aggiungono ai corpi con la stessa libertà delle ricostruzioni<br />

rosselliniane, e sul rapporto verità-finzione dei corpi irrompono flagranze <strong>di</strong> dettagli<br />

carnalmente presenti oltre la minacciosa fermezza statuaria. Se l’horror <strong>di</strong><br />

Mastrocinque o Ferroni conferma fascinosamente la natura del manichino, Bava può<br />

sì spingere la presenza romantica fin dentro i mon<strong>di</strong> classici (il greco, l’orientale, il<br />

nor<strong>di</strong>co, persino quello postsettecentesco <strong>di</strong> Mérimée o quello dell’orizzonte russo)<br />

ma senza rinunciare a una trasparenza che riesce consunstanziale quanto quello<br />

rosselliniana alla natura televisiva» (Germani).<br />

Copia proveniente dal Museo Nazionale del Cinema <strong>di</strong> Torino<br />

a seguire<br />

Shock (1977)<br />

Regia: Mario Bava; soggetto e sceneggiatura: Lamberto Bava, Francesco Barbieri,<br />

Paolo Brigenti, Dardano Sacchetti; fotografia: Alberto Spagnoli; musica: I Libra;<br />

montaggio: Roberto Sterbini; interpreti: Daria Nicolo<strong>di</strong>, John Steiner, David Colin jr.,<br />

Ivan Rassimov, Nicola Salerno; origine: Italia; produzione: Laser Film; durata: 92’


Dora ritorna nella sua vecchia casa insieme al secondo marito e al figlio. Accadono<br />

fatti sconvolgenti legati al suici<strong>di</strong>o del primo marito. «A partire dall’inizio, la<br />

macchina da presa a livello del pavimento che esplora lentamente la desolazione <strong>di</strong><br />

un ambiente […] il film porta il segno d’una mano maestra: ed il seguito, con il suo<br />

intrecciarsi <strong>di</strong> sesso incestuoso e subitanei squarciamenti <strong>di</strong> putrefazione e violenza,<br />

è messo in scena con un’ambiguità <strong>di</strong> attrazione e repulsione che nessuno, in futuro,<br />

sarà capace <strong>di</strong> ripetere» (Francesco Troiano). «Mi ricordo che c’era anche il<br />

problema del fantasma <strong>di</strong> Shock, sembrava non ci fosse il verso <strong>di</strong> farlo, non c’erano<br />

sol<strong>di</strong>. Shock è stato girato in cinque settimane con 120 milioni. Per finirlo abbiamo<br />

lavorato anche se<strong>di</strong>ci al giorno. Per realizzare il fantasma, Mario costruì un<br />

cartoncino ritagliato con le sue mani d’oro, e lo illuminò con delle luci speciali,<br />

rendendolo sorprendentemente efficace. Aveva anche una collezione incre<strong>di</strong>bile <strong>di</strong><br />

“vetri acqua” degli anni trenta: quasi tutti gli incubi che ha Dora, il mio<br />

personaggio, erano ottenuti attraverso delle deformazioni provocate da questi vetri,<br />

sembrava che il mare ci trascolorasse dentro. Li ha usati anche per l’effetto della<br />

casa che arde alla fine <strong>di</strong> Inferno <strong>di</strong> Dario Argento. Nessuno sapeva far bruciare<br />

questo enorme grattacielo newyorkese, ci voleva un effetto speciale particolare e lui,<br />

ri<strong>di</strong>segnandolo su un vetro, riuscì a farlo» (Daria Nicolo<strong>di</strong>).<br />

ore 20.45<br />

Tavola rotonda moderata da Pierpaolo De Sanctis con Lamberto Bava, Renato<br />

Cestiè, Ernesto Gastal<strong>di</strong>, Filippo Ottoni, Giona A. Nazzaro, Gabriele Acerbo e<br />

Roberto Pisoni<br />

Nel corso della tavola rotonda sarà presentato il volume Kill Bill Kill! Il cinema <strong>di</strong><br />

Mario Bava, a cura <strong>di</strong> Gabriele Acerbo e Roberto Pisoni, un mondo a parte, Roma,<br />

2007<br />

a seguire<br />

Ecologia del delitto (1971)<br />

Regia: Mario Bava; soggetto: Dardano Sacchetti, Franco Barberi; sceneggiatura: M.<br />

Bava, Joseph McLee [Giuseppe Zaccariello], Filippo Ottoni, [non accre<strong>di</strong>tati Sergio<br />

Canevari, Francesco Vanorio]; fotografia: M. Bava; montaggio: Carlo Reali;<br />

interpreti: Clau<strong>di</strong>ne Auger, Luigi Pistilli, Clau<strong>di</strong>o Volonté, Laura Betti, Leopoldo<br />

Trieste, Chris Avram; origine: Italia; produzione: Nuova Linea Cinematografica;<br />

durata: 85’<br />

Prima versione dello straor<strong>di</strong>nario film <strong>di</strong> Bava, che reca come titolo Ecologia del<br />

delitto, voluto dal produttore Giuseppe Zaccariello, per cavalcare l’onda ecologista,<br />

e con la battuta finale «così imparano a fare i cattivi» pronunciata dai bambini<br />

(autentiche stelle del cinema italiano anni Settanta) Nicoletta Elmi e Renato Cestiè,<br />

al suo esor<strong>di</strong>o. Il titolo fu poi cambiato con Reazione a catena (Ecologia del delitto) e<br />

la battuta ammorbi<strong>di</strong>ta, cambiando il senso del finale del film. Tre<strong>di</strong>ci delitti in una<br />

baia, sulla quale grava l’ombra <strong>di</strong> una speculazione e<strong>di</strong>lizia in atto, contro la quale<br />

la natura (o chi per lei) mette in atto le sue forme <strong>di</strong> auto<strong>di</strong>fesa: un congegno


narrativo perfetto in un film <strong>di</strong> forte impatto visivo in cui Bava gioca con gli elementi<br />

naturali e con la luce, suggestionando lo sguardo dello spettatore. Film imitatissimo<br />

in America (Venerdì 13 su tutti), circondato da un culto del tutto meritato, grazie,<br />

oltre che al plot, alla mano ispirata <strong>di</strong> Bava (specie nelle sequenze dei delitti,<br />

costruite con una cura, per una volta, argentiana), a un cast notevole in cui ogni<br />

attore regala un’interpretazione in<strong>di</strong>menticabile (splen<strong>di</strong>do cameo <strong>di</strong> Isa Miranda<br />

nella parte dell’anziana contessa). «Non saprei raccontare la trama, ma è uno <strong>di</strong><br />

quei film che meno li capisci e meglio è. Mi piace soprattutto un’inquadratura venuta<br />

fuori quasi per caso. Prima l’immagine è sfocata, si ha l’impressione <strong>di</strong> vedere<br />

qualcosa che sembra il sole. E invece no, si tratta <strong>di</strong> un occhio, un occhio immenso<br />

che occupa l’intero schermo» (Bava). Giuseppe Zaccariello, produttore improvvisato<br />

ma geniale, reduce dai fasti <strong>di</strong> A ciascuno il suo <strong>di</strong> Petri ed Escalation <strong>di</strong> Faenza,<br />

aveva pretese autoriali e firmò la sceneggiatura sotto pseudonimo.<br />

Al termine del film sarà proiettato il finale <strong>di</strong> Reazione a catena (Ecologia del<br />

delitto).<br />

Ingresso gratuito

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