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SATURA art gallery

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C R I T I C A<br />

83<br />

Mario Pepe Arte contemporanea: Marcel Duchamp e il mercato<br />

82 C R I T I C A Scolabottiglie - 1914<br />

re il mondo dell’<strong>art</strong>e dall’esterno, libero<br />

di analizzare l’attività <strong>art</strong>istica<br />

come una qualsiasi altra attività umana<br />

senza inutili mitizzazioni.<br />

Volendo “portare alla luce la logica che<br />

permette di trasformare qualcosa in<br />

operad’<strong>art</strong>e”gli autori focalizzano l’attenzione<br />

su quello che essi definiscono discorso<br />

creativo, cioè quell’insieme di scritti<br />

che esplicitano, accompagnano e indirizzano<br />

il fare <strong>art</strong>istico vero e proprio tanto<br />

da diventarne p<strong>art</strong>e integrante, discorso<br />

“che realizza l’<strong>art</strong>e in ogni momento<br />

del suo farsi, presente prima, durante,<br />

dopo e dentro quello che si può chiamare<br />

l’atto <strong>art</strong>istico.” Etichette come Minimalismo,<br />

Arte povera, Transavanguardia<br />

non esisterebbero senza la funzione discorsiva<br />

che critici come Celant o Bonito<br />

Oliva esercitarono per promuovere e<br />

nello stesso tempo coagulare esperienze<br />

<strong>art</strong>istiche in campo internazionale. Il<br />

fare <strong>art</strong>istico contemporaneo si trova così<br />

strettamente legato col discorso che lo definisce,<br />

in un contesto di riflessione su se<br />

stesso, analogamente a quanto è avvenuto<br />

nella letteratura e nella scienza del Novecento.<br />

E qui il discorso si apre su Duchamp,<br />

che trasporta disinvoltamente la beffa<br />

dell’orinatoio nel campo dell’estetica,<br />

proclamando l’allargamento del<br />

concetto di <strong>art</strong>e, che viene così ad inglobare<br />

anche la non-<strong>art</strong>e (la realtà, il<br />

ready-made), in una contraddizione in<br />

termini che non verrà mai risolta. Un<br />

qualsiasi oggetto reale può diventare<br />

<strong>art</strong>e se esposto in una galleria o in un<br />

museo, sacralizzando così uno spazio<br />

che dovrebbe invece essere luogo di<br />

esposizione di opere d’<strong>art</strong>e già proclamate<br />

come tali dai riferimenti culturali<br />

tradizionali, come la critica, i collezionisti,<br />

gli storici dell’<strong>art</strong>e.<br />

Nel capitolo 6, gli autori proclamano:<br />

“... non ci stancheremo di ripeterlo, tutta<br />

l’<strong>art</strong>e contemporanea si sviluppa all’ombra<br />

dell’Orinatoio di Duchamp.”<br />

Sembra a questo punto doveroso analizzare<br />

le modalità attraverso le quali la<br />

tendenza a ridurre il numero dei referenti<br />

autorevoli e competenti che possano<br />

proclamare un’opera d’<strong>art</strong>e come<br />

tale, e affidarsi all’autoreferenzialità<br />

di un gallerista, di un critico curatore,<br />

o di una cooperativa di <strong>art</strong>isti-manager<br />

non faccia altro che favorire lo sviluppo<br />

e la crescita di un solo referente: il<br />

mercato. Oggi un qualunque sedicente<br />

<strong>art</strong>ista, autorizzato da Duchamp a proclamarsi<br />

tale (questo orinatoio è <strong>art</strong>e perchè<br />

lo dico io), se abilmente promosso<br />

da un’equipe di tecnici, dal critico “coautore”<br />

che crea la confezione al curatore<br />

dell’immagine commerciale, avrà un<br />

grande successo di vendite indipendentemente<br />

dal contenuto e dalla qualità<br />

delle opere. In queste condizioni di estrema<br />

autoreferenzialità, sarà sempre il<br />

mercato l’ultimo ed unico giudice dell’<strong>art</strong>isticità<br />

di un’opera.<br />

La critica contemporanea ha il dovere<br />

di ristabilire criteri di valutazione dell’<strong>art</strong>e<br />

che siano universalmente validi<br />

e condivisi dalla più ampia e significativa<br />

rappresentanza all’interno e all’esterno<br />

del sistema dell’<strong>art</strong>e. Per far<br />

ciò deve rimettersi a pensare in grande,<br />

cominciare a demolire gli assunti<br />

teorici su cui si basano i comportamenti<br />

attuali, a far chiarezza sui falsi<br />

miti e i cattivi maestri. Deve insomma<br />

mettere i baffi a Duchamp.<br />

A questo proposito è interessante quello<br />

che scrive Antonio Del Guercio su Duchamp<br />

e sul ready-made 2 : “Non estetico,<br />

non <strong>art</strong>istico, il ready made non ha<br />

alcun posto nella storia delle opere d’<strong>art</strong>e;<br />

se esiste un luogo nel quale può prendere<br />

posto, questo si trova ai margini<br />

della storia dell’<strong>art</strong>e....” e ancora: “ Il ready<br />

made è segnato da una p<strong>art</strong>e dal suo<br />

non essere frutto d’una operazione<br />

estetica, dal suo non essere una forma<br />

elaborata nel fuoco d’una<br />

urgenza espressiva; e dall’altra<br />

dal non ricevere il<br />

suo statuto d’opera d’<strong>art</strong>e<br />

da criteri critici, che sono<br />

sempre discutibili, variabili,<br />

opinabili ma in questo<br />

modo sociali, bensì da una<br />

‘decisione’ dell’<strong>art</strong>ista.”<br />

La disinvolta pratica professata<br />

da Duchamp ha<br />

come effetto immediato<br />

di spalancare le porte<br />

dell’<strong>art</strong>e a tutti, per cui la<br />

conseguente democratizzazione<br />

del mondo dell’<strong>art</strong>e<br />

auspicata anche da<br />

Walter Benjamin 3 porterebbe<br />

a pratiche sociali in<br />

cui tutti si riconoscerebbero<br />

<strong>art</strong>isti. Purtroppo<br />

come giustamente fa rilevare<br />

sempre Del Guercio:<br />

l’autoreferenzialità<br />

dell’<strong>art</strong>ista “..lungi dal<br />

consegnare a tutti gli abitanti<br />

del pianeta la democratica facoltà di fare <strong>art</strong>e..., esige l’intervento<br />

della galleria, del Museo, ossia dei tradizionali luoghi delegati<br />

del riconoscimento delle opere d’<strong>art</strong>e.”<br />

E’ dunque una pesante responsabilità di Duchamp e di chi non è intervenuto<br />

a demolire i suoi assunti teorici, l’ aver sacralizzato il Museo,<br />

la galleria, il luogo dove vengono esposte le opere di un <strong>art</strong>ista. Durante<br />

la Biennale di Venezia del 1980 una scopa dimenticata dalla squadra<br />

delle pulizie faceva sfoggio di sé appoggiata al muro di una sala.<br />

Fui testimone io stesso dell’osservazione attenta di numerosi visitatori<br />

che giravano intorno alla scopa e quardavano sulla parete in cerca<br />

dell’etichetta identificativa. Ma se questo episodio muove il sorriso e<br />

lascia ancora il dubbio sull’operazione <strong>art</strong>istica come pura autoreferenzialità,<br />

quello delle tazzine da caffé di Illy esposte nella Biennale del<br />

2003 ne diventa l’emblema. Tazzine da caffé del tutto ordinarie, vero<br />

e proprio esempio di ready made, vengono dichiarate <strong>art</strong>istiche ed ecco<br />

le tazzine d’<strong>art</strong>ista e l’<strong>art</strong>e del caffè. In questo caso é il design che viene<br />

improvvisamente semplificato Scrivono a questo proposito Del Lago<br />

e Giordano 1 : “ Si noti unadifferenzafondamentale con il design: in questo<br />

veri e propri creatori, come Munari o Magistretti, firmano lampade<br />

e tavoli destinati aun uso comune, non <strong>art</strong>istico. Invece nel caso delle<br />

tazzine di Illy, abbiamo piccole opere d’<strong>art</strong>e, che in realtà non sono<br />

Mario Pepe Arte contemporanea: Marcel Duchamp e il mercato

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