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FuoriAsse #18

Officina della Cultura

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menti di testo di Majakovskij. Il riferimento<br />

non era unicamente all’opera del<br />

grande russo, in realtà il nostro voleva<br />

essere un lavoro sul rapporto tra poesia<br />

e rivoluzione, perché quelli erano gli anni<br />

del grande fermento nelle piazze, non<br />

solo nelle cantine, e si affacciavano nuove<br />

intersezioni creative, nuove pratiche<br />

anche comunicative (penso alle radio libere),<br />

così che si ragionava saltando da<br />

Charles Baudelaire a Walter Benjamin,<br />

da Edgar Allan Poe alla poesia cinese.<br />

Era voler scardinare in modo leggero,<br />

aereo, ma pieno di energia, il modo tradizionale<br />

di una messa in scena. Venne<br />

a vedere le prove un giorno Simone Carella,<br />

che era la mente del Beat 72, una<br />

delle cantine romane, gestita da Ulisse<br />

Benedetti, a quel tempo una vera fucina<br />

di proposte (c’era passato anche il gran -<br />

de Carmelo Bene). Simone ci propose di<br />

fare lo spettacolo al Beat. Ci spostammo<br />

quindi a provare nella cantina di via<br />

Gioacchino Belli 72, in uno spazio che<br />

ognuno poteva reinventare a seconda<br />

delle proprie esigenze sceniche; noi ridipingemmo<br />

tutte le mura dello spazio sce -<br />

nico di bianco, una cosa normalmente<br />

aborrita dai teatranti, che preferiscono<br />

far emergere i corpi dal buio, dal nero.<br />

Anche Simone all’inizio fu scettico, poi<br />

ci appoggiò in pieno. La scenografia consisteva<br />

in poche grosse corde sospese<br />

tra le volte della cantina, sulle quali ci<br />

arrampicavamo. Che cosa rappresentavano?<br />

Niente. Ma davano respiro, senso<br />

di libertà, di leggerezza, allo stesso tempo<br />

potevano ricordare i cavi elettrici dei<br />

tram stesi sopra le piazze russe. C’erano<br />

anche degli specchi rotti, poggiati in degli<br />

angoli, un giradischi con la registrazione<br />

su disco di un comizio di Lenin,<br />

un piccolo brano di Niccolò Paganini che<br />

si incantava sempre allo stesso punto,<br />

una stella rossa spezzata, una sedia<br />

appesa a una parete. Il pubblico era disposto<br />

su due lati opposti, da una parte<br />

su una gradinata di tubi innocenti e<br />

palanche da cantiere, dall’altra su due<br />

panche; noi in mezzo. Così il 24 marzo<br />

del 1976 debuttammo, e fu anche il<br />

debutto ufficiale de La Gaia Scienza: un<br />

grande successo; uscirono articoli su<br />

quasi tutti i quotidiani, dall’appena nata<br />

«Repubblica» al «Paese Sera» alla «Voce<br />

Repubblicana». Giuseppe Bartolucci,<br />

l’autorevole studioso e critico, rimase<br />

molto colpito dal nostro lavoro e poi fu<br />

sempre al fianco della compagnia con<br />

suggerimenti, critiche, osservazioni.<br />

La Gaia Scienza finì praticamente dove<br />

era iniziata, a Venezia, nell’autunno del<br />

1984.<br />

Durante quei dieci anni si era definito<br />

sempre più lo stile del gruppo, che<br />

Eva<br />

riuscì a imporsi all’attenzione della critica<br />

(ad esempio Franco Cordelli, Nico<br />

Garrone, Achille Mango, Maurizio Grande)<br />

e del pubblico in Italia e all’estero<br />

per lo sviluppo di una ricerca particolare<br />

sul movimento dell’attore-performer,<br />

basato su contaminazioni tra la nuova<br />

danza americana, le tradizioni orientali,<br />

l’energia mediterranea; per il lavoro sullo<br />

spazio scenico, spesso compiuto assieme<br />

ad artisti visivi e comunque in<br />

riferimento alle avanguardie storiche e<br />

agli sviluppi contemporanei; per il ritmo<br />

dell’azione scenica; per le scelte musicali.<br />

Fummo definiti Postavanguardia, Tea -<br />

tro Metropolitano, Nuova sensibilità: a<br />

noi delle definizioni importava poco,<br />

però succedeva così: e quindi contrapposizioni<br />

tra le “tendenze”.<br />

In effetti eravamo tendenziosi. Buona<br />

parte del cosiddetto teatro ci sembrava<br />

morto da molto tempo, esperienze più<br />

vicine anagraficamente ci parevano moribonde;<br />

il teatro “politico” una cosa un<br />

po’ triste, “vetero”, che nell’ansia del<br />

messaggio riproponeva forme stantìe; il<br />

cosiddetto Terzo Teatro lo consideravamo<br />

invece penitenziale, chiuso al contemporaneo,<br />

barricato nel rito e nel<br />

mito; il teatro commerciale e anche quel -<br />

lo “di prosa” non lo consideravamo tea-<br />

FUOR ASSE<br />

45<br />

Redazione Diffusa

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