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NUOVA
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Nel’68, anno simbolo di lotte
per l’emancipazione, anche
femminile, il corpo ha rappresentato
più che mai il vettore
del cambiamento e il campo di
lotta tra individuo e potere. In
questo contesto storico e di costume
si colloca la riflessione
creativa di Ketty La Rocca (La
Spezia, 1938 – Firenze, 1976),
maestra elementare priva di
formazione artistica ma che ha
saputo ergersi a protagonista
di quegli anni. Assume perciò
un rilievo particolare la mostra
antologica ospitata fino al prossimo
3 giugno nel Padiglione
d’Arte Contemporanea in corso
Porta Mare a Ferrara, in occasione
della Biennale Donna.
Il progetto espositivo – organizzato
da Udi, Gallerie d’Arte
Moderna e Contemporanea,
Comune e Regione, e curato da
Francesca Gallo e Raffaella Perna
in collaborazione con l’archivio
di Michelangelo Vasta –
si intitola “Ketty La Rocca 80.
Gesture, speech and word” e
raccoglie una selezione di opere
sul rapporto tra linguaggio
verbale e corpo. Nella prima
parte del percorso espositivo,
le opere raccontano della donna
italiana degli anni Sessanta,
forgiata dall’immaginario del
consumo di massa e, in quanto
tale, essa stessa oggetto, non
solo della macchina pubblicitaria,
ma dello stesso sguardo
dell’uomo, il cui potere patriarcale,
secondo l’artista, rimane
immutato. L’emancipazione
nell’universo del consumo rappresentava,
dunque, solo l’ultimo
degli inganni ai danni delle
PAC FERRARA
Le mani e i volti di La Rocca
resistenza al consumismo
Un’opera di Ketty La Rocca esposta al Padiglione d’Arte Contemporanea
donne, che non possedevano
un proprio linguaggio, una propria
autonomia linguistica.
Questo tipo di dominio reificante
per La Rocca va associato
– in un modo per quei tempi
all’avanguardia – alla denuncia
delle profonde disuguaglianze
tra Nord e Sud del mondo.
La Rocca dal ’68 inizierà ad
allontanarsi dalla Poesia Visiva
e dal Gruppo 70, dopo circa
due anni di vicinanza. Il Gruppo,
come ben spiega Raffaella
Perna nel catalogo, a volte è ingiustamente
associato alla Pop
Art. Come dichiarerà la stessa
La Rocca, «la Pop Art non ha
fatto altro che enfatizzare la società
che le stava intorno»,
mentre, prosegue, «io sto facendo
vedere quali sono le piaghe»
del consumismo. Dal ’71
inizierà una ricerca su un linguaggio
artistico più autonomo,
con maggiori richiami alla
fisicità e al linguaggio corporeo.
Dopo la pars destruens, la
decostruzione del linguaggio
del potere, in questi anni tenterà
di propone un’alternativa.
Lei stessa scriverà: «Nel linguaggio
gestuale vi è una ricchezza
di elementi mitici, rituali,
fantastici che sono patrimonio
dell’umanità».
Questo recupero che scava
nel profondo deriva dalla perdita
della speranza nel poter
comunicare verbalmente, a
vantaggio di una comunicazione,
com’è quella corporea,
maggiormente autentica, soppiantata
o depotenziata nel
corso dei secoli dal logos occidentale.
Così, protagonisti diventano,
ad esempio, i linguaggi
delle mani e del volto, che in
un certo senso “parlano”, rimandando
ad altro, oltre l’immediato
dell’avvilente e subdolo
immaginario del consumo e
del potere.
Andrea Musacci
Il rosario familiare di Cagnaccio
nell’esposizione Cavallini-Sgarbi
Dopo l’ingresso dell’Imbarco della regina di Saba di Agostino Tassi,
dal 21 aprile la mostra in castello della Collezione Cavallini Sgarbi si
arricchisce di un nuovo capolavoro: Il Rosario di Cagnaccio di San
Pietro, firmato e datato tra il 1932 e il 1934. L’opera apparve alla
Biennale di Venezia del 1934 e alla Quadriennale di Roma del 1935 e,
nel 1936, alla Galleria Trieste; da allora non è stata più esposta, tanto
da essere, provocatoriamente, definito “inedito” da Vittorio Sgarbi.
Protagonisti del dipinto sono la moglie del pittore, le figlie e la suocera
ritirate in una posizione di attesa. Sullo sfondo il mare. Pregano,
con il rosario in mano, la restituzione del figlio, marito, padre. Gli occhi
gonfi, un misto di attesa e sconforto.
*Su richiesta per le edicole di Comacchio, Lagosanto e frazioni
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