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■LA NUOVA
Losportdeimotori
08
MERCOLEDÌ
18 APRILE 2018
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PARLA GIANFRANCO BONERA
“QUASI” MONDIALE NEL 1974
Gianfranco
Bonera oggi
e con la Mv
Agusta
con la quale
ha sfiorato
il titolo
mondiale
«Nella oggi
conta il business
E su ...»
IL GRANDE EX: «HO PROVATO UNA HONDA, FACILE DA GUIDARE
MARC HA TORTO MA VALE NE HA FATTE PIÙ DI BERTOLDO»
di MAURO CORNO
ndato a un passo dalla
conquista del campionato
del mondo del
1974 nella classe 500 e fermato
soltanto dagli ordini di scuderia
(la Mv Agusta impose
che a vincere fosse il britannico
Phil Read), oggi Gianfranco
Bonera è un simpatico
73enne con cui è molto piacevole
parlare di moto. Perché è
competente, ha gareggiato
negli anni ruggenti (quindici
podi per lui tra 250, 350 e 500
tra il 1973 e il 1980) e non si tira
indietro quando c’è da
esprimere la propria opinione
anche sui mostri sacri di
oggi. Nato a Porpetto, in provincia
di Udine, ha vissuto a
lungo in Lombardia e ora risiede
in Sardegna.
La MotoGp attuale le piace?
«Insomma. Oggi prevale il
business. Non mi prenda per
presuntuoso, ma se permette...»
Prego.
«Lo scorso anno, a Valencia,
ho avuto la fortuna di provare
una Honda MotoGp, trovo
questi bolidi di una facilità
estrema da guidare, con tutta
questa tecnologia. Gas aperto
e via: non devi fare molto altro.
Pare sia importante che
non si creino distacchi abissali
tra i fuoriclasse e i piloti di
medio livello. Una volta non
era così, i campioni davano
anche un giro agli altri. Evidentemente
si pensa ci sia
più spettacolo ad avere tutti
assieme».
Del “fattaccio” di Rio Hondo
tra Marquez e Rossi cosa
pensa?
«Che la colpa è del direttore
di corsa. Doveva mandare lo
spagnolo ai box e farlo partire
da lì, non certo dalla griglia di
partenza».
E il sorpasso ai danni di
Valentino?
«Aveva fretta, non ho visto
nulla di cattivo nel suo comportamento
ma soltanto
grande decisione. Valentino,
in questo caso, non deve fare
la vittima perché in passato
anche lui ne ha fatte più di
Bertoldo. E poi non mi è piaciuto
Uccio (Alessio Salucci,
detto Uccio, amico di Valentino,
ndr)».
Ci spieghi meglio.
«Marquez, che è un pluricampione
del mondo, si è reso
conto di avere fatto una
cazzata ed è andato a scusarsi.
È deplorevole che Salucci
l’abbia mandato via come un
cane, doveva esserci un uomo
Yamaha a parlare con
lui».
Lei ha mai vissuto una situazione
simile?
«Più di una. Mi ricordo che
ad Abbazia (pista in Croazia,
dove si correva il Gp di Jugoslavia,
ndr) sono arrivato lungo
nell’affrontare un tornante
e ho buttato fuori Takazumi
Katayama (campione del
mondo nelle 350 nel 1977,
ndr): a fine gara sono andato
a scusarmi e ci abbiamo bevuto
sopra. Tipo simpatico il
giapponese, portava con sé la
chitarra in pista».
Altri tempi.
«Può dirlo forte. C’era una
grande senso di amicizia nel
paddock. In gara era un’altra
cosa, naturalmente, ma la cavalleria
la faceva da padrona
e portava al rispetto reciproco.
Sapevi che se fosse caduto
qualcuno per terra si sarebbe
fatto molto male».
Lei con chi aveva legato in
modo particolare?
Con Barry Sheene (inglese,
due volte iridato nelle 500,
ndr) e Angel Nieto (spagnolo,
ben tredici volte campione
del mondo tra 50 e 125, ndr),
che purtroppo non ci sono
più. Non volevamo correre in
moto e basta. A noi interessava
goderci la vita, eravamo
giovani. Noi tre andavamo a
ballare, facevamo le ore piccole,
nei limiti del possibile.
La nostra mentalità era diversa
da quella di Giacomo Agostini,
per esempio, che si allenava
con costanza e si comportava
da professionista anche
sceso dalla moto. Diverso
da noi era anche Walter Villa
(tre volte iridato nelle 250 e
una nelle 350, ndr): era molto
riservato, lo chiamavamo “Reverendo”.
Insomma credo
che magari avrei vinto di più
ma mi sarei divertito molto
meno. Come quella volta in
Venezuela…».
Prego, racconti.
«Per il Mondiale, negli anni
Settanta, si correva anche lì e
così, con Nieto e alcuni amici,
siamo partiti una settimana
prima. Per potere girare in
lungo e in largo per tutta la
nazione sudamericana prima
di montare in sella».
Uno di cui non ha un gran
ricordo è Phil Read, sbaglio?
«Diciamo che non è stato
un grande compagno di squadra».
Nella decisiva gara corsa
in Finlandia dovette lasciarlo
vincere, lasciandogli anche
il titolo iridato.
«Ne parlavo con mia moglie
anche qualche giorno fa.
Pensai che avrei potuto conquistare
il Mondiale l’anno
successivo. E poi mi sembrava
impensabile non ascoltare
gli ordini di scuderia, consideri
che ero al mio secondo
campionato in assoluto e al
primo con la Mv Agusta, che a
quei tempi era la Ferrari delle
due ruote: per assurdo se mi
avessero detto di buttarmi
dalla finestra lo avrei fatto.
Con il senno di poi è chiaro
che sono pentito, nello sport
quando ti capita un’opportunità
la devi cogliere».
Monza, 20 maggio 1973,
una giornata tremenda per
lo sport motoristico con la
tragedia di Renzo Pasolini e
Jarno Saarinen. Lei c’era.
«Pasolini, oltre che un fuoriclasse,
era un uomo dal cuore
immenso. C’è una bellissima
storia che ci lega e che ho voluto
raccontare anche a suo figlio
quando l’ho incontrato».
La racconti anche a noi.
«Quindici giorni prima di
quella gara mi telefona Pasolini,
che mi invita a Monza per
fare delle prove con lui. Io,
che lo conoscevo soltanto di
fama, pensavo a uno scherzo,
ma mi presentai comunque
in largo anticipo per l’appuntamento,
fissato per le 14.
Sempre più convinto di non
avere parlato con lui ma con
qualcuno che lo aveva imitato
fui molto sorpreso quando,
alle 15.30, si presentò: in autostrada
era esploso il lunotto
del Ford Transit, su cui c’erano
quattro moto, due con il
raffreddamento ad acqua e
due ad aria. Voleva fare delle
comparazioni e mi aveva ingaggiato
come tester. Poi mi
chiese se avrei partecipato al
Gran premio delle Nazioni,
che si sarebbe corso proprio
sul circuito brianzolo, e fece
sì che acquistassi una Harley
Davidson. E così anche io mi
iscrissi nella classe 350».
E cosa accadde?
«Successe che il venerdì feci
tre giri e ruppi. Il sabato la
stessa identica cosa. Renzo,
mentre rientravo ai box mogio,
mi guardò e disse ai suoi
meccanici di cambiare il numero
alla sua moto, che mi
cedette per le qualifiche: ottenni
il quarto tempo, figlio
della generosità di un uomo
speciale. E così partecipai al
Gran premio che precedette
di poco più di un’ora quello
purtroppo fatale per Pasolini
e Saarinen, al via anche nelle
250».
A Monza, ormai, le moto
non corrono più.
«È un bene, per come è stato
modificato quel circuito
non ha più alcun senso per le
due ruote. Le chicane sono
deprimenti. I miei circuiti sono
il vecchio Assen, Spa-Francorchamps,
ma soprattutto il
Nurgburgring: lì ti sembrava
di volare, dovevi stare attentissimo
nel cercare il limite,
servivano fantasia e autocontrollo
insieme. E pensi che a
me ha tradito una balla di paglia
finita in pista sul circuito
di Modena: sono caduto e mi
sono rotto il femore».
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