WineCouture 11-12/2023

NUMERO 11/12
Anno 4 | Novembre 2023
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ROSSO VINCE
STORIE DI GRANDI INTERPRETAZIONI CHE NON CONOSCONO CRISI

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“Il meglio deve ancora venire”
“Italians Do it Better”: questa volta è il caso
di dirlo, citando l’iconica t-shirt indossata da
Madonna nel video clip della canzone “Papa
Don’t Preach” a rimarcare con orgoglio le sue
origini tricolori. Già, perché in questa fine di
2023 i migliori al mondo torniamo ad essere
proprio noi italiani. Con alcuni protagonisti
del vino made in Italy che hanno messo in
fila un successo internazionale dopo l’altro.
A partire da Alessio Planeta, amministratore
delegato e responsabile tecnico dell’azienda
di famiglia in Sicilia, che ha riportato dopo
16 anni in Italia il prestigioso titolo di Winemaker
of the Year 2023. A ruota, poi, agli
Oscar assegnati da Wine Enthusiast, Ca’ del
Bosco è stata eletta European Winery of the
Year, dando ancor più lustro a una fine d’anno
in cui ha svelato al mondo la nuova splendida
e avveniristica cantina, mentre Pasqua
Vini, dopo aver sfiorato 12 mesi fa il vertice
del podio come numero uno in Europa, è stata
incoronata, sempre ai Wine Star Awards, “In-
novator of the Year”, vedendo riconosciuto lo
speciale contributo fornito al mondo del vino
che l’ha resa “House of the Unconventional”.
Infine, la ciliegina sulla torta: il Brunello di
Montalcino Argiano 2018 che conquista il
primo posto nella Top 100 di Wine Spectator
e la palma di miglior vino al mondo. Segnali
beneauguranti, dopo 12 mesi di montagne
russe sul mercato, che l’Italia “s’è desta”. E
per il 2024, l’auspicio è uno: “The Best Is Yet
to Come”, come cantava Frank Sinatra.
04 Primo piano. Il vino, (anche) un mondo
per giovani: Filippo Polegato, Astoria Wines
06 Dossier. l grandi rossi italiani nelle
performance all’asta secondo iDealwine
14 Dossier. La Poja e l’unicità della Corvina,
sfumatura di Valpolicella Classica nel mito
SOMMARIO
22 Dossier. Sua Maestà, l’Aglianico del
Vulture: Re Manfredi nell’Olimpo del vino
25 Dossier. Lamole di Lamole in Chianti
Classico: 30 anni di grandi rossi “di quota”
34 Spirits. Distillati, Liquori e Amari nel
racconto di WineCouture
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Anno 4 - Numero 11/12- Novembre 2023
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lanti, spesso sorprendenti e colorate: ma quali
sono i “segreti” oggi per fare breccia nei cuori
una nuova generazione di consumatori di vino?
Oggi abbiamo a che fare con consumatori complessi e
poco propensi alla fidelizzazione. Da un certo punto di
vista sono più curiosi e attenti, cercano il dialogo con l’azienda,
chiedono conto delle sue azioni a 360° e del suo
ruolo sociale. Da un altro punto di vista, però, sono consumatori
abituati all’acquisto d’impulso: per questo, credo
sia fondamentale potenziare l’e-commerce. L’online non è
il nostro canale fondamentale, né lo sarà mai – continueremo
a farci conoscere soprattutto attraverso l’Horeca –, ma
deve esistere un’altra possibilità di connessione e questo
significa che deve funzionare in modo rapido, intuitivo e
funzionale, così da non perdere potenziali occasioni.
Visto da chi siede anche ai tavoli istituzionali nel
consiglio Uiv, il vino è un mondo per giovani?
Certo, noi giovani possiamo portare prospettive interessanti.
Devo dire, però, che per me l’esperienza nel Consiglio
dell’Unione Italiana Vini mi consente innanzitutto
il confronto con persone di grande esperienza ed intelligenza,
d’imparare un approccio più globale ai problemi,
ampliando il mio punto di vista che, talvolta, nelle contingenze
del quotidiano rischia di essere parziale.
PRIMO PIANO
Il vino è (anche) un
mondo per giovani
A tu per tu con Filippo Polegato: i primi due anni
da amministratore delegato e il futuro di Astoria Wines
All’interno dell’universo del Prosecco,
Astoria Wines fin dalla sua fondazione,
nel 1987, è brand di primo piano. Oggi il
suo giro d’affari ha raggiunto i 55 milioni
di euro circa, con l’export a toccare oltre
105 Paesi, per un’incidenza del 30% sul fatturato. Due
anni fa, per la realtà trevigiana l’importante svolta dettata
dal cambio al vertice, con la proprietà unica passata nelle
mani del presidente Paolo Polegato e del figlio Filippo,
subentrato nella carica di amministratore delegato. È proprio
con il classe 1991, quarta generazione di famiglia impegnata
nel mondo vinicolo, che abbiamo fissato il punto
su sfide e traguardi dell’ultimo biennio e tracciato la rotta
del futuro di un marchio protagonista nel canale Horeca.
Ottobre 2021, il via un nuovo corso per Astoria
Wines, lei assume la guida: qual è il primo bilancio
dopo due anni da amministratore delegato?
Devo dire che ho vissuto questi due anni con grande intensità:
impegno e determinazione hanno convissuto con
la naturale preoccupazione per un ruolo aziendale così
strategico, difficile e delicato. Però, ero anche consapevole
della qualità dei nostri dipendenti e della rete commerciale
e sicuro della loro collaborazione: sono stati un importante
riferimento e mi hanno dato sempre il loro sostegno.
Astoria Wines, da sempre, è sinonimo di Prosecco
nelle sue differenti sfumature: dalla vostra
DI MATTEO BORRÈ
prospettiva, qual è oggi la temperatura del mercato
della bollicina italiana più diffusa?
È un periodo contraddittorio, per l’economia in generale
e per il Prosecco in particolare. Noi siamo produttori e vinificatori
sia di Docg sia di Doc e capiamo la difficoltà di
conciliare esigenze diverse. Quel che credo fermamente
è che l’equilibrio si possa trovare solo lavorando per dare
maggior valore al Prosecco a tutti livelli. Dopo anni di
grande crescita, i prossimi devono essere quelli del consolidamento
in cui, a mio avviso, tutti dobbiamo lavorare su efficienza
e marginalità più che sull’incremento dei volumi.
Quali devono essere, a suo avviso, i nuovi orizzonti
del futuro nel mondo per il vino italiano?
Credo ci sia ancora tantissimo spazio per il bere italiano,
purché si guardi nella giusta direzione. Il che significa
non limitarsi ai mercati consolidati, che fanno sì grandi
numeri, ma in questo momento sono in via di saturazione
o soggetti a difficoltà. In questo senso, come Astoria
Wines partiamo avvantaggiati: abbiamo sempre avuto un
export molto frammentato e stiamo continuando, anche
in questo periodo, a crescere su più sbocchi, in Africa,
Asia e Sudamerica soprattutto, così da metterci al riparo
da eventuali crisi contingenti. Sempre seguendo questa
logica, operiamo per far crescere la quota export sul totale
del fatturato: vorrei portarla al 50% entro due o tre anni.
Astoria Wines è nota per le sue bottiglie scintil-
Produrre vino fa sempre più rima con innovazione:
su cosa avete scelto d’investire per diventare
ancora più sostenibili economicamente, ambientalmente
e socialmente?
Non amo i proclami sulla sostenibilità, che spesso riguardano
aspetti più marginali della produzione. Piuttosto, abbiamo
affrontato anni di grandi investimenti per migliorare
in modo sostanziale la nostra efficienza, così da ridurre gli
sprechi da tanti punti di vista: è lavoro meno “raccontabile”
ma più sostanziale. Il nostro polo logistico, ad esempio,
inaugurato lo scorso anno: 6mila metri quadrati che
ci consente una distribuzione più efficiente a un mercato
in evoluzione, in cui si è ridotta la dimensione dell’ordine
medio e soprattutto i tempi di consegna richiesti. Abbiamo
sviluppato con l’Università di Padova un progetto per
la gestione robotizzata degli ordini, riunificando tre magazzini
preesistenti – con meno costi di mantenimento, di
trasporto e meno emissioni di CO2 – e riducendo fino al
40% dei tempi di evasione delle commesse. Altro investimento
importante è stato quello sul nuovo monoblocco di
imbottigliamento, realizzato nel 2023: l’inizio linea completamente
rinnovato ha migliorato del 70% la capacità
produttiva ed eviterà carenze di prodotto a magazzino. In
più, abbiamo completato anche l’impatto per coprire a regime
più del 30% del nostro fabbisogno energetico.
Vini No Alcol: è una strada per il settore?
È una delle tante vie, ma di certo non la principale. E non
è neppure una novità: noi abbiamo lanciato Zerotondo,
il nostro spumante Zero Alcol, più di 10 anni fa. Non si
tratta di un vino dealcolato con processi chimici, ma di un
succo d’uva spumantizzato: anche se non fa grandi numeri,
è un’ottima alternativa per coinvolgere nei momenti
conviviali anche chi non beve alcolici e referenza che ci ha
consentito d’entrare in diversi mercati interessanti.
Imboccato ormai il rettilineo finale, qual è il suo
highlight dell’anno per il 2023?
Devo dire che veder finalmente i risultati degli investimenti
in efficientamento energetico e logistico, che hanno
richiesto anni di lavoro, mi ha fatto molto piacere. E poi sicuramente,
a livello personale, ricordo come un momento
di particolare commozione la presentazione a Vinitaly del
Rosé dedicato mia nonna Mina.
Quali novità avete in serbo per il 2024?
A livello di prodotto, stiamo lavorando al restyling di una
delle nostre linee di successo. Ma abbiamo anche iniziato
una nuova fase d’investimento per efficientare cantina e
sistema frigorifero. In sintesi: non ci fermiamo mai.

6
DOSSIER
Il rosso italiano
che non conosce crisi
Con iDealwine fotografiamo le performance
all’asta dei fine wines tricolore
Grandi rossi, etichette da sogno, veri
e propri miti e capolavori enologici:
ma qual è oggi la temperatura di un
segmento che nella sua declinazione
più pregiata sembra non temere crisi
di sorta? Abbiamo provato a scattare con gli esperti di
iDealwine una fotografia sullo stato dell’arte del mondo
dei fine wines in rosso, categoria che da diversi anni è
protagonista all’intero dell’universo delle aste, vedendo
i vini italiani sempre più in prima fila. Sul portale francese,
riferimento mondiale in tema, le etichette tricolore
più pregiate hanno rappresentato nel 2022 il 61% dei
vini non francesi presenti nel catalogo delle vendite, in
netto sviluppo rispetto al 39% del 2021. In termini di
valore (+53%) e volumi (+32%), l’Italia è ormai ottava
in classifica tra le regioni vinicole aggiudicate su iDealwine,
ma anche la più ricercata dopo le produzioni
d’Oltralpe. A farla da padroni, tra i fine wines italiani in
rosso, i maestri di Piemonte e Toscana, con il solo Giuseppe
Quintarelli a inframmezzarsi nella classifica dei
lotti più cari in una Top 20 che gli scorsi 12 mesi ha visto
sul podio Tenuta San Guido con il suo Bolgheri Sassicaia
1985, seguito da Bruno Giacosa con un Barbaresco
Santo Stefano di Neive 1964 e Giacomo Conterno con
il Barolo Riserva Monfortino 2004. Facendo riferimento
all’altro volto del portale francese, quello di enoteca
online, tra i grandi rossi dall’Italia oggi più apprezzati si
segnalano il Barolo Pira Riserva e il Barbaresco Crichët
DI MATTEO BORRÈ
Pajé Roagna, il grande classico Bolgheri Sassicaia di Tenuta
San Guido e un’altra icona toscana come il Tignanello
di Marchesi Antinori. Più ampi gli orizzonti se si
fa riferimento alle tenute maggiormente ricercate nella
categoria sul portale, che oltre ai tre nomi appena citati,
vedono imporsi la siciliana Frank Cornelissen, la piemontese
Giulia Negri, la trentina Elisabetta Foradori e
l’abruzzese Emidio Pepe. Ma quali sono state, invece, le
tendenze sui grandi rossi italiani emerse in questo 2023?
Nel primo trimestre dell’anno, le eccellenze tricolori
hanno proseguito la loro scalata alla classifica nelle aste
iDealwine. A mettersi in luce, in particolare, le grandi
star in rosso di Toscana, con una bottiglia di Masseto di
Tenuta dell’Ornellaia aggiudicata per 851 euro (+4%),
un Sassicaia 2016 battuto a 475 euro (+26%) e un Solaia
Antinori, sempre 2016, che ha toccato i 450 euro di valutazione
(+23%). A guidare, però, rimane il Piemonte,
che con un Barolo Riserva Monfortino 1955 di Giacomo
Conterno a 895 euro si colloca in cima alla classifica
delle vendite del Q1. Il secondo trimestre, invece, si è
chiuso con gli acquirenti che hanno mostrato un notevole
interesse verso gli eleganti Sangiovese firmati dalla
tenuta Case Basse di Gianfranco Soldera, con un valore
di scambio che si è aggirato tra i 600 e i 700 euro di media
a bottiglia e l’apice raggiunto grazie all’annata 2005,
battuta per 726 euro. È stato tuttavia il millesimo 2008
a registrare la più forte crescita, con una referenza venduta
all’asta per 613 euro (+38%). Ma nel corso del Q2
è proseguita più in generale la buona performance delle
grandi star toscane, dove a risaltare è stata l’annata 2013
di Sassicaia che ha raddoppiato il suo prezzo di aggiudicazione,
toccando quota 338 euro (+51%). Mesi positivi
anche per l’universo Barolo, che ha visto battuti all’asta
tra i suoi lotti più costosi un Brunate Le Coste di Rinaldi
2006, venduto per 501 euro, un millesimo 2016 di
Bartolo Mascarello, a 413 euro, e una rarissima bottiglia
da collezione dell’annata 1952 di Giacomo Conterno, a
230 euro. Ma a risaltare nel trimestre è anche un altro
simbolo di Langa: un Sori Tildin 1996 di Gaja è stato
battuto all’asta per 438 euro (+22%), mentre un lotto di
Costa Russi 1996 ha raggiunto i 376 euro. In attesa di
poter stilare il resoconto dei 12 mesi, anche il terzo quarto
dell’anno ha visto i fine wines italiani grandi protagonisti
su iDealwine, dove nel mese di agosto hanno rappresentato
il 10% dei vini aggiudicati. A figurare in cima
alle classifiche sono stati sempre Piemonte e Toscana,
ma con altre regioni del panorama viticolo tricolore ad
aver suscitato l’interesse dei wine lover internazionali.
Protagonisti delle aste estive in particolare Giacomo
Conterno e Bruno Giacosa, con la Riserva Monfortino
2004 del primo, 100 punti Parker, aggiudicata a un
appassionato di Singapore per 1.189 euro, mentre il Cascina
Francia della stessa annata è stato battuto a 351
euro (+11%) in concomitanza con una double-magnum
di Barolo Cerretta 2018 che ha raggiunto una valutazione
di 952 euro. Tra le altre performance da sogno del
Q3, brillano di Bruno Giacosa Le Rocche del Falletto
Riserva 2000 in magnum, aggiudicata per 1.252 euro,
e il Barbaresco Santo Stefano di Neive 1978, venduto
per 551 euro. Tra le star del vino piemontese scambiate,
Giuseppe Rinaldi ha visto un formato magnum di Barolo
Tre Tine 2017 battuto a 521 euro, mentre spicca il
caso della storica realtà del Comm. G.B. Burlotto, con
il Monvigliero 2016 ad aver toccato una valutazione di
509 euro (+20%) e il Cannubi 2016 venduto a 501 euro
(+57%): a lottare fino all’ultimo rilancio per le rare bottiglie
di questa rinomata tenuta, offerenti per la maggior
parte europei – da Italia, Norvegia, Francia, Spagna e
Paesi Bassi –, ma anche un’importante fetta di acquirenti
asiatici, con in prima fila Singapore e Corea del
Sud. E per quanto riguarda il resto d’Italia? A distinguersi,
ancora una volta, tenuta Case Basse di Gianfranco
Soldera con il Brunello di Montalcino 2006 venduto
per 876 euro. Sempre parlando del re dei grandi rossi di
Toscana, si segnala la performance del Cerretalto 2013
di Casanova di Neri in formato magnum, aggiudicato
per 626 euro, mentre tra le icone toscane una bottiglia
di Tignanello 2009 è stata battuta all’asta per 388 euro.
Ampliando, poi, lo sguardo a emergere sono produttori
come gli abruzzesi Valentini ed Emidio Pepe, la Valpolicella
di Bertani, nostra signora di Montevetrano, Silvia
Imparato, i vini campani di Galardi e quelli siciliani di
Frank Cornelissen, con quest’ultimo, in particolare, a
vedere la sua celebre cuvée Magma, da 100% Nerello
Mascalese a piede franco, aggiudicata per 586 euro con
un’annata 2016.

8
DOSSIER
Nel panorama globale del vino, quando si
parla di iconic wine, i grandi rossi, ricchi
di suggestione, fascino e avvolti da un
alone di desiderio e ricercatezza, rappresenta
un riferimento. Si spazia dai grandi
territori del Piemonte, passando per Veneto e Toscana,
senza però dimenticare gli elitari e nobili Cru di Francia
e non solo. Per scoprire meglio le dinamiche
e offrire una fotografia di quello che è lo
stato attuale di mercati e trend intorno
ai grandi rossi, abbiamo interpellato
Corrado Mapelli, direttore generale
Gruppo Meregalli, voce fra le più
autorevoli quando si parla di distribuzione
e fine wines in Italia.
DI IRENE FORNI
Quali sono, a suo avviso, gli elementi
che definiscono un grande
vino rosso?
Oggi quando si parla di un grande vino è
perché è riconosciuto tale non solo da noi distributori
ma anche dalla critica, dal mercato e soprattutto dal
consumatore. Gli elementi caratteristici per definirne lo
status sono sempre più di uno: si parte dalla qualità del
prodotto, che è ovviamente imprescindibile, segue poi la
sua distribuzione, dove entra in gioco l’importanza del
nostro ruolo sul mercato, con la presenza nei principali
locali, ristoranti, hotel ed enoteche maggiormente rappresentative.
Quindi penso che i fattori principali a concorrere
nel fare di un rosso un grande vino siano innanzitutto
il giusto posizionamento all’interno del mondo
Horeca, poi la qualità riconosciuta, infine la certificazione
da parte di critica e mercato.
Vista dalla prospettiva del distributore di etichette
icona, qual è oggi la temperatura
del mercato dei vini premium e super
premium?
La salute è buona e la temperatura positiva.
Il consumatore, oggi, ha bisogno
di certezze, specie in un periodo
d’incertezza diffusa come l’attuale.
Quindi, si orienta sempre più spesso
verso la ricerca e l’acquisto di prodotti
che danno garanzie: questi sono
proprio quei vini considerati grandi e
che sono rappresentati da brand forti capaci
di dare sicurezza. Se l’offerta nella categoria
è sempre inferiore alla domanda, attualmente
non si registra alcun segnale di calo nelle vendite per quel
che riguarda queste etichette premium e superpremium.
Laddove invece una riconoscibilità così spiccata non c’è
si fa ovviamente più fatica, perché l’unica leva che resta è
quella del prezzo e può capitare che sul mercato ci sia un
concorrente capace di presentare un’offerta più bassa della
tua, rischiando così di ricevere scacco matto su un deal.
La certezza
di un grande vino
Il mercato dei grandi rossi nell’analisi di
Corrado Mapelli, direttore generale Gruppo Meregalli
Unicità fa spesso rima con rarità:
quanto risulta complicata oggi la gestione
delle assegnazioni davanti a
una domanda internazionale in crescita
per i vini icona?
Questo è sicuramente l’elemento più difficile.
Come professionisti vorremmo sempre proporre
e rendere disponibili ai nostri clienti
questi prodotti nelle quantità che loro
desiderano, ma purtroppo questo oggi
spesso non è possibile, proprio in virtù
dei nuovi mercati che nascono da
un’evoluzione della cultura e della conoscenza
del prodotto e della loro diffusione
nel mondo. Quando si tratta
di etichette di punta, la loro produzione
in quantità limitate rende impossibile
per definizione accontentare tutti.
Le assegnazioni sono così l’aspetto più
complicato di un lavoro quotidiano e
costante con il quale cerchiamo di favorire
il cliente che dimostri di saper
valorizzare al meglio la referenza. Cerchiamo
di scongiurare speculazioni,
poi promuoviamo il servizio alla mescita,
che permette di accontentare un
maggior numero di appassionati: se
il prodotto circola, infatti, rimanendo
nella mente del consumatore, afferma
ancora di più il suo valore e quella
rotazione che le cantine ricercano. In
definitiva, non vengono ostentati i collezionisti
ma sapientemente gestiti, perché le bottiglie devono
essere aperte.
Le grandi etichette sono diventate sempre più
oggetti da collezione e investimento: come si
pone un freno a logiche speculative per favorire
l’apertura delle bottiglie tra veri appassionati?
Questo fa sicuramente parte delle criticità, oltre che del
lavoro del distributore. Noi, all’interno del cammino di
un’etichetta, non ci poniamo come elemento di passaggio
post-produzione, ma come partner del produttore, con
cui condividiamo, passo a passo, logiche, scelte e strategie
commerciali. E in questi tempi, in particolare, è importante
favorire quella clientela che le bottiglie le sa proporre al
mercato e favorisce quindi una movimentazione del vino.
Quali i simboli nel catalogo Meregalli quando si
fa riferimento all’universo dei grandi vini rossi?
Sono davvero molti, dunque ritengo opportuno citare
quelle realtà con le quali abbiamo un rapporto storico
di decine di anni, come Tenuta San Guido per Sassicaia,
Guidalberto e Le Difese, Argiolas per Turriga e Korem,
Di Majo Norante con il Don Luigi, Speri con Amarone
Sant’Urbano, Vistorta e, per andare dall’altra parte del
mondo, Penfolds con il Grange. Per gli Chateaux non abbiamo
un’esclusiva, ma dei “partenariats privilégiés”: accordi
diretti con realtà come quelle della famiglia Lafitte e
come Château Margaux. Siamo, inoltre, partner stretti per
l’Italia di Château Petrus. Ma l’elenco, guardando il catalogo
Meregalli potrebbe essere ancora lungo.
Parlando della prossima stella nella produzione
di grandi rossi, quale territorio citerebbe?
Le performance di una zona sono spesso dettate dalla disponibilità
di prodotto, quindi si fatica a dare una risposta
definitiva a una domanda di questo tipo. Ma in questo
momento il Sud Italia, in particolare con Etna e Sicilia in
generale, può ambire a un posizionamento ancora più
importante di quello che già detiene tra i grandi rossi. Se
guardiamo invece alle zone classiche, come quelle di Barolo,
Amarone, Brunello e dove nascono i Supertuscan, le
performance sono sempre positive e spesso proprio condizionate
da una disponibilità maggiore o minore rispetto
a quello che il mercato chiede.

10
DOSSIER
In un mondo alla perenne ricerca della novità che sorprenda,
spesso si perde contatto con chi, lungo il corso
del tempo, ha definito standard che oggi permettono
a chi è giunto dopo di paragonare il personale
operato e far crescere la qualità del settore. Comunemente
detti “classici”, non devono far pensare
a qualcosa di stantio: all’opposto. Spesso la loro
fulgida fama abbaglia operatori e appassionati,
facendo perdere di vista evoluzioni, nel solco di
uno stile che resta immutato in eleganza, che ne
testimoniano la vitalità. Ed è importante, di tanto
in tanto, riaccendere i riflettori su universi
ed etichette che sono garanzia nel calice. In
questo ritorno alle basi, intese come fondamenta
che offrono un sostegno a ogni
wine list e offerta a scaffale che si rispetti, è
bene affidarsi a chi con le cantine vanta un
legame doppiamente stretto, per la natura
stessa di una gestione aziendale familiare
che è primo requisito anche quando si fa
riferimento alla selezione. Tra i grandi rossi
nel catalogo Sagna S.p.A., realtà fondata
nel 1928 dal Barone Amerigo Sagna, fin
dalle origini specializzata nell’importazione
e distribuzione di vini, liquori e distillati
d’altissima qualità, sono annoverate vere
leggende enoiche. Ma cosa definisce un
fine wines in rosso per la realtà distributiva
Back
to Classic
Grandi espressioni in rosso del catalogo Sagna S.p.A.
imprescindibili per ogni wine list
DI MATTEO BORRÈ
torinese? “La nostra società si è sempre concentrata
sulla selezione di aziende familiari con alle
spalle lunga esperienza nella produzione di vino,
che con il loro operato hanno spesso influenzato
e accresciuto lo sviluppo dei territori in cui operano:
penso alle famiglie Faiveley e Moueix, rispettivamente
in Borgogna e Bordeaux, ai Rapuzzi
in Friuli o a Carlo Hauner sull’isola di Salina”,
spiega Massimo Sagna, presidente Sagna S.p.A.
“Si tratta di realtà che sono state in grado di creare
un proprio stile, diventare icone e perpetuare
il loro impegno adattandosi a un mondo del vino
in continuo movimento. La nostra è una politica
rigorosa che rifugge le mode passeggere e i facili
volumi: trattiamo prodotti ricercati la cui qualità,
altissima, è indiscussa. Questa scelta di lavorare
con aziende a gestione familiare è per noi garanzia
di serietà, condivisione di progetti e continuità produttiva
nel tempo per vini e distillati catalogabili come dei grandi
classici intramontabili”. Nella ricerca all’interno del portfolio
di quelle etichette imprescindibili per una carta vini, in
un gioco di sponde tra i due lati delle Alpi, il tour nel calice
inizia dalla patria del Pinot Noir, con Domaine Faiveley.
Tra i più storici volti della Côte d’Or, dal 2008 in poi ha
promosso investimenti che hanno da un lato aumentato
il parco vitato, convertito nei 123 ettari a bio, e dall’altro
fatto parlare in bottiglia i suoli attraverso le lavorazioni in
cantina. La filosofia della famiglia Faiveley nel calice è chia-
ra: una Borgogna di alta qualità, per vini cangianti
pronti alla beva fin da subito, ma chiamati a durare
nel tempo. Tra i grandi rossi, che nascono da un
approccio sostenibile in vigna e “ragionato” nella
tecnologica cantina, si fa notare il Corton Clos
des Cortons Faiveley Grand Cru, figlio di una
parcella di poco più di due ettari, monopolio
della famiglia Faiveley dal 1874, nonché uno
dei pochi Grand Cru di Borgogna che porta
il nome dei suoi proprietari. Un Pinot Noir
ampio e rotondo al palato, di bellissima
energia. Rimanendo Oltralpe, ma spostandosi
tra l’estuario della Gironda e l’Oceano
Atlantico, ritroviamo un altro mito del vino
transalpino: il Château Pichon Longueville
Comtesse de Lalande. Tra i più antichi della
zona di Bordeaux, risale al 1686. Classificato
nel 1855 tra i deuxième grand cru classé,
dal 2007 è parte della grande famiglia della
Maison Louis Roederer. Si apre allora
una nuova era che conduce a mappare e
reimpiantare con viti adatte alle specifiche
di ogni terroir le 60 parcelle della tenuta,
a un approccio sempre più “ecologicamente
responsabile” tra i filari, ma anche a ridisegnare la cantina
per vinificazioni parcellari più precise. Poi il carattere
di questo Pauillac, blend di Cabernet Sauvignon (68%),
Merlot (29%), Cabernet Franc (2%) e Petit Verdot (1%),
è conseguenza di suoli composti da piccoli rilievi costituiti
da ciottoli su argilla che permettono un perfetto drenaggio
dell’acqua. Per un grande rosso che al palato rivela una
meravigliosa morbidezza, perfetta armonia e stupefacente
persistenza. Un vino di gran razza, complessità, eleganza
e longevità. Una descrizione, quest’ultima, accostabile a
un mito anche su questo lato delle Alpi: il Barolo Bussia
Pianpolvere Soprano. Un vino unico da un unico vigneto:
queste le coordinate che definiscono il progetto di Rodolfo
Migliorini per la storica Riserva, commercializzata dopo
10 anni di affinamento. La fotografia irripetibile di tre ettari
di vigna che rappresentano una delle massime
espressioni esistenti del Nebbiolo. Sottozona della
Bussia di Monforte d’Alba, Pianpolvere Soprano è
nome di un lieu-dit risalente alla fine del 1700, quando
Napoleone Bonaparte fece costruire su questo
appezzamento una polveriera, oggi al centro di un
disegno che ha condotto a una gestione dell’appezzamento
attraverso pratiche che contribuiscono
a rispettare la terra e il suo ecosistema, permettendo
di conservare una produzione esclusiva
rimasta nei secoli fedele a un terroir di cui
mostra le migliori virtù. Per un vino di grande
carisma, intensità e potenza, dal sorso profondo
con tannini finissimi. A chiudere il
cerchio è il re dei vini veronesi: ma
nella “rilettura” di un territorio e della
celebre tecnica dell’appassimento
che ne fa Marco Speri. Progetto personale,
il suo, che nasce nel 2008
sulle colline della Valpolicella Classica,
a Fumane, dove inizia un viaggio
in solitaria che mira a lasciare
esprimere le uve Corvina, Corvinone
e Rondinella, attraverso
un protocollo che prevede
macerazione prolungata pre e
post fermentativa, un affinamento
in cemento e sole botti grandi di Rovere.
Prendono così forma i vini Secondo
Marco, diretti e freschi ma non per
questo meno longevi, in cui brilla per
eleganza, in una sequenza di grandi rossi
costruiti su tensione e agilità, l’Amarone
della Valpolicella: denso e integro al
palato, è accompagnato da retrogusti di
confettura e note boisé. Per un classico
postmoderno, fin dall’etichetta.

12
DOSSIER
Cartoline di un
mondo che cambia
Complessità, longevità, ma anche piacevolezza fin
da giovani: i grandi rossi oggi secondo Sarzi Amadè
Prosegue il nostro viaggio per delineare
lo stato dell’arte dei grandi vini rossi sul
mercato tricolore in questo 2023 che si appresta
a finire. E l’attenzione, quando
si parla di fine wines non può prescindere
da un’altra grande realtà dell’universo della
distribuzione Horeca che proprio nella categoria
in rosso vede una quota maggioritaria del proprio
catalogo. Un’offerta capace d’includere 150
Château diversi e una selezione di Borgogna fortemente
incentrata proprio sulle aziende “rossiste”.
Parliamo di Sarzi Amadè, realtà a conduzione familiare
fondata nel 1966 da Nicola Sarzi Amadè,
titolare con i figli Claudia e Alessandro.
Un’attività, tra i pionieri nel settore, che ha
saputo capire nel tempo come interpretare
il mercato mettendo sempre al centro due
fattori fondamentali: il gusto personale di
chi guida e quello della sua clientela. Elementi
che ritroviamo anche nella scelta di
alcuni emblemi tra i grandi rossi protagonisti
della vasta selezione del distributore
milanese, insieme a tutte le caratteristiche
che li rendono tali. “Complessità, longevità,
ma anche piacevolezza fin da giovani: questi
aspetti oggi concorrono a identificare un
grande rosso”, esordisce Alessandro Sarzi
Amadè. “Si sono, infatti, accorciati molto i
DI IRENE FORNI
tempi di consumo per alcune tipologie di vini
importanti, tanto che ormai sono spesso bevuti
fin troppo in anticipo”. Una dinamica,
quest’ultima, che ha influito sulle stesse
dinamiche del mercato. “L’aspetto della
longevità è passato in secondo piano ed è
un peccato, soprattutto in casi come quello
del Bordeaux, che io ritengo l’icona del
rosso di qualità in assoluto”. Profondità
e ampiezza da un lato, dunque, ma oggi
sempre più la ricerca di una spiccata bevibilità.
“Come evidenzia il crescente
successo di Pinot Nero, soprattutto
dalla Borgogna, ma anche Nerello Mascalese
dall’Etna, godibili fin da giovani”, riprende
Sarzi Amadè. “Una direzione su cui
si sta indirizzando ora anche l’universo di
Langa”. Ma quale l’attuale temperatura del
mercato dei fine wines in rosso in Italia? “In
Italia, i grandi rossi francesi sono vini un po’
di nicchia, destinati a una clientela capace di
apprezzare e comprendere le straordinarie
sfaccettature di Bordeaux e Borgogna. Poi
si osserva una crescita nella considerazione
degli appassionati di quelle che sono le
eccellenze tricolori nel calice, tra Barolo ed
Etna, Brunello e Chianti Classico. Sempre
più anche a livello mondiale, proprio il Baro-
lo si è imposto, tra le zone di produzione,
come il volto italiano simbolo quando si
parla di grandi rossi, distaccando la Toscana:
ovviamente fatta esclusione di
quelle etichette icona che fanno classifica
a sé”. È proprio dall’eccellenza di
Langa che partiamo per comprendere
meglio la visione di un grande
rosso secondo Sarzi Amadè. Tra le
etichette di punta del catalogo, un
fiero rappresentante del vino piemontese
come il Barolo Docg Ravera
Riserva Vigna Elena di Elvio
Cogno. Prodotto solo nelle grandi
annate, porta con sé una stilistica
che non ha mai ceduto alle tendenze
del mercato o a quelle del gusto.
Un Barolo senza compromessi, per
puristi, che ha mantenuto integra
la sua identità di grande rosso, affermandosi
come prodotto di assoluta
eleganza, all’altezza della sua
storia e della tradizione della denominazione.
Di maestosa onestà,
rispetta con meticolosa attenzione il
savoir faire tramandato di generazione in generazione.
Restando in Italia, ma facendo un lungo balzo da nord a
sud, nella magica Sicilia si va sempre più imponendo un
territorio che ha visto nel recente periodo una concreta
crescita della qualità dei suoi prodotti, affermandosi
come una tra le zone più ricercate oggi del panorama
vitivinicolo italiano. Per una denominazione in ascesa
proprio laddove si parli di grandi rossi identitari e inconfondibili:
l’Etna. In zona, all’interno del portfolio
Sarzi Amadè spicca un’azienda la cui fama è simbolo
della Sicilia del vino: Benanti. Il suo Etna Rosso Doc
Contrada Cavaliere nasce da Nerello Mascalese
allevato a 900 metri s.l.m. Per un rosso etereo
e armonico, grande interprete del territorio e
di questa autoctona uva siciliana, che coniuga
forza ed eleganza ad una piacevole acidità fruttata.
Facendo, invece, tappa fuori dal Belpaese,
la direzione obbligata è la culla indiscussa dei
più pregiati fine wines in rosso: la Francia.
Grande territorio celebre per la storica qualità
enologica è Bordeaux. Nell’iconica patria
del taglio bordolese troviamo i 45 ettari del
Grand Enclos de Las Cases, che racchiude
un terroir dalla grande complessità, capace
di conferire a un rosso iconico la sua
personalità unica. Cabernet Sauvignon
completato da percentuali minoritarie,
che variano di anno in anno, di Merlot
e Cabernet Franc delineano i
tratti del Grand Vin de Léoville
Château Léoville Las Cases, avvolgente
modello di un grande
Saint-Julien, nonché una tra le
più pregiate espressioni della
Rive Gauche. A chiudere la
rassegna in rosso firmata Sarzi
Amadè per il mercato italiano
la Borgogna della famiglia Latour,
con un altro simbolo della produzione
d’Oltralpe: il Château Corton Grancey
Grand Cru. Un blend di cinque climats
– Bressandes, Perrières, Grèves, Clos
du Roi e Chaumes – le cui proporzioni
variano a seconda dell’annata e per cui,
dopo l’affinamento separato, solo le
migliori botti sono scelte per concorrere
all’assemblaggio finale. Per un Pinot
Noir Grand Cru simbolo della vocata
tradizione di questa terra, che nel calice
si racconta in tutta la sua potenza e
attraverso la setosità dei tannini.

14
DOSSIER
La Poja e l’unicità
della Corvina
Una pioneristica sfumatura
di Valpolicella Classica entrata nel mito
DI MATTEO BORRÈ
Esistono vini che fin dal nome trascendono
quella che sarà poi l’esperienza nel calice.
Sono quei volti iconici dell’enologia che in
una parola sono capaci di sintetizzare ogni
aspetto della loro essenza e identità. In questo
novero, speciale club riservato a pochi, si conta anche
un figlio della Valpolicella Classica che racchiude
in sé la storia di un intero territorio, di un vitigno e di
una famiglia: La Poja.
È sulle vocate colline
del comune di
Sant’Ambrogio di
Valpolicella che è situato
un piccolo vigneto,
poco meno di
tre ettari che rappresenta
molto più di un
semplice Cru. È qui,
a 320 metri s.l.m. che
la leggenda ha fatto
da preludio all’intuizione, dimostratasi poi più che
vincente, di un uomo mosso dal profondo amore verso
la sua terra. È il 1979, quando Giovanni Allegrini,
pioniere della viticoltura di collina e della qualità in
bottiglia in Valpolicella, raggiunge, impiantandovi un
vigneto, la piana, all’epoca da tempo incolta e abbandonata,
sulla sommità de La Grola: un luogo magico,
sinonimo di uva Corvina. Proprio su questi declivi, infatti,
leggenda narra che il simbolo tra le uve autoctone
veronesi sia nata. Ed è ancora su questa particolare altura
che i suoi grappoli nerissimi e dolci esprimono al
massimo il loro potenziale.
Proprio La Poja è stata la scintilla di una rivoluzione,
creazione entrata direttamente nel mito nonché
elemento di frattura tra il prima e il dopo del vino in
Valpolicella. Il passaggio, innanzitutto, dalla tradizionale
Pergola nel sistema
di allevamento
al Guyot. A mutare,
però, anche la densità
di piante per ettaro,
più che doppia: soluzione
individuata per
contenere la vigoria
della Corvina, riducendo
le rese in favore
di una maggiore
concentrazione delle
uve. Infine, l’esaltazione di un terreno realmente unico:
quello di una collina, che insiste su uno strato calcareo,
terminando con una piattaforma perfettamente
pianeggiante denominata Monte Poja, che gode di un
microclima eccezionale ed è favorita da un’esposizione
ideale. Di origine cretacea, con un contenuto di calcare
del 78,5%, di cui attivo è il 16,78%, si presenta con
una superficie perfettamente bianca che, riflettendo la
luce solare e facilitando il processo di fotosintesi, garantisce
alle uve di raggiungere gradi di maturazione
zuccherini e fenolici ottimali. Il terreno del vigneto La
Poja, poi, ricco in Potassio e Calcio, scarso in Magnesio
e Ferro, è caratterizzato da pochissimo suolo: l’esiguità
di sostanza organica della superficie spinge le radici
delle viti negli strati profondi, dove possono assorbire
una molteplicità di oligoelementi che concorrono alla
straordinaria complessità del vino che qui vi nasce.
Un grande rosso raffinato e profondo, dove frutto,
spezie e note balsamiche si fondono alla perfezione.
Un vino che, dopo quattro anni di affinamento, si presenta
fresco e croccante, ampio negli aromi di erbe
aromatiche ed officinali, speziato, di grande corpo e
lunga beva. Per una delle due etichette Allegrini, insieme
all’Amarone della Valpolicella Classico Riserva
Fieramonte, ad aver conquistato, prima assoluta per la
Valpolicella, La Place de Bordeaux, cuore pulsante del
mercato internazionale dei vini di alta qualità. Ma per
allargare ulteriormente i suoi orizzonti, La Poja è stata
in questo 2024 al centro di un progetto che l’ha condotta
nel cuore di Londra, con una straordinaria verticale
che ha segnato il debutto di un tour che condurrà
l’iconica referenza sui principali palcoscenici internazionali.
Veri e propri confronti, botta e risposta tra
Master of Wine e professionisti del settore chiamati a
condividere pensieri e riflessioni innanzi a un calice
che mira ad emozionare sorso dopo sorso.
“Per me La Poja rappresenta l’emblema di un vino fortemente
guidato dal luogo d’origine che si esprime con
grande unicità: un vitigno, un vigneto, la rappresentazione
aderente all’annata”, sottolinea Cristina Mercuri,
“maestra d’orchestra” alla degustazione londinese.
“Parliamo dell’iconicità della Corvina: la signature
stilistica non è molto variata nel tempo, ma lo stupore
deriva dal riconoscere, annata dopo annata, una
mano sempre più fine e precisa. Il frutto è sempre più
definito e il corpo aggraziato nonostante la sua generosità.
Le caratteristiche naturali come i suoli calcarei,
l’esposizione e l’altitudine, ma anche l’allevamento a
Guyot premiano un palato denso, equilibrato, lungo.
È il modo giusto per ottenere vini che durano per decenni,
come per l’appunto la Corvina in La Poja”. Ma
quale, in quel che è stato il procedere à rebours, l’annata
che maggiormente ha stupito? “Senz’altro la 1997
per la sua grazia, eleganza e slancio”, risponde l’esperta
wine educator. “Ancora molto frutto accompagnato da
piacevoli note di sottobosco e tabacco. L’acidità è vibrante
seppur molto integrata, i tannini risolti che si
allungano sul mezzo palato e supportano il finale lungo
e talcato”.
Se oggi è la longevità dell’iconica etichetta Allegrini
posta sotto i riflettori, lo scorso anno La Poja è stata al
centro di un’altra importante iniziativa, con una promozione
al calice in abbinamento a creazioni nel piatto
altrettanto uniche che ha toccato più di 30 ristoranti,
principalmente stellati, in tutta Italia. “Mai come oggi,
nell’alta ristorazione - e non solo - è fondamentale offrire
un’ampia scelta di alternative al calice, spaziando
da prodotti di pronta beva e alta rotazione, fino ad arrivare
a grandi monumenti del vino”, sottolinea Paolo
Porfidio, head sommelier di Terrazza Gallia. “La Poja,
per me, rappresenta la massima espressione di potenza
ed eleganza della Valpolicella: il frutto di un lavoro
attento e costante in vigna e in cantina. Un vino molto
versatile, capace di accompagnare ed esaltare piatti di
struttura e complessità. Oltre alle caratteristiche sensoriali
che lo rendono un ottimo accompagnamento a
tavola, poter dare all’ospite la possibilità di degustare
anche solo un calice de La Poja significa avvicinare, far
scoprire - ed eventualmente riscoprire - non solo un
grande rosso, ma anche un territorio meraviglioso che,
grazie ad interpreti come la famiglia Allegrini, riesce
a regalare diversità e qualità immensa”. Ed è così che
a essere scritti sono anche oggi nuovi entusiasmanti
capitoli di un leggenda divenuta mito nel calice.

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16
DOSSIER
La Signora del Piceno e il suo gioiello più prezioso.
Per quella che oggi, a 30 anni dal suo
debutto, è considerata non solo l’etichetta ammiraglia
e firma distintiva di un’azienda, ma un
simbolo enologico di una terra: quella piccola
Italia al plurale che sono le Marche, che hanno saputo
conquistare le più importanti tavole del mondo anche
con la schietta eleganza delle colline
ascolane. Lo scorso 2 ottobre, sul
prestigioso palcoscenico di Pellico 3,
ristorante fine dining del Park Hyatt
Milano, una verticale da sogno dedicata
alle cinque annate che meglio ne
raccontano oggi il percorso evolutivo
hanno celebrato l’anniversario della
prima vendemmia di Roggio del Filare.
Rosso Piceno Doc Superiore, è
blend di 70% Montepulciano e 30%
Sangiovese che sin dal suo debutto ha
saputo fissare sulle mappe della critica
un’area vinicola fino a quel momento
poco valorizzata dalle produzioni locali. Merito di chi
su questo vino e, prima ancora, sulla forza della sua terra
ha sempre scommesso: Angela Velenosi, non a caso oggi
universalmente conosciuta come la Signora del Piceno.
È merito delle sue intuizioni e di una sensibilità supportata
dal lavoro del team che la affianca da anni, a iniziare
dall’enologo Filippo Carli, e dei figli Marianna e Matteo,
DI MATTEO BORRÈ
che la giusta alchimia tra comprensione del terroir, vitigni
e stile di vinificazione ha trovato il suo ideale equilibrio
in bottiglia. Per un rosso diventato grande e oggi sottoposto
alla sfidante prova dell’incedere del tempo. “Roggio
del Filare per me non è un vino, ma un figlio che ho visto
crescere e affermarsi”, ha spiegato Angela Velenosi introducendo
una batteria composta dalle annate 2002, 2007,
2012, 2016 e 2020. “Da 30 anni questo
vino racconta la nostra visione del
territorio del Piceno, restando fedele
anche all’interpretazione dell’anno
di vendemmia. Come ogni madre
avevo grandi sogni e speranze per lui
alla nascita, ma oggi posso dire che i
traguardi raggiunti sono andati ben
oltre le mie più rosee aspettative: ottenere
per 19 anni di fila i Tre Bicchieri
del Gambero Rosso o essere inserito
al quarto posto tra i 100 vini rossi in
Italia per Gentleman mi riempie di
orgoglio”. Quando si parla di Roggio
del Filare, d’altronde, si fa riferimento a molto di più di
un Rosso Piceno Doc Superiore. In bottiglia, da 30 anni,
a venire preservato è un patrimonio unico: quello di un
clone di Montepulciano risalente al 1954, tra i più vecchi
del panorama di questo vitigno, perfetto per dare qualità
su quantità. Poi, c’è l’identità di un vino di struttura, importante,
dove il frutto sarà sempre il primo marker di
La longevità
di un’intuizione
Roggio del Filare alla prova del tempo: la verticale
tra le annate simbolo dei primi 30 anni
riconoscimento. Ma da evidenziare è anche la sartorialità
con cui in Velenosi si opera nel dare forma a un’opera
ogni anno unica. Come ha saputo evidenziare l’incontro
oggi con l’evoluzione dettata dal tempo di un vino che
in bocca si tratteggia vellutato nella polpa, possente nella
trama, dall’equilibrio tannico perfetto, fruttato e speziato.
Un rosso di carattere che, in un procedere à rebours, ha
visto in prima fila l’annata 2020, il bimbo di casa, vino
gastronomico, ammaliante, entusiasmante, energizzante,
pronto già oggi ma che riserverà sorprese nel futuro. A
seguire, la 2016, che si è mostrata in tutta la sua potenza,
eleganza e concretezza, nonostante sia figlia del frutto
di un’annata inizialmente da molti considerata “orribile”.
Un passaggio importante, quello sancito da questo millesimo,
perché rappresenta l’anno dell’introduzione della
bottiglia brevettata per Velenosi che dona a Roggio del
Filare una veste unica e riconoscibile su qualsiasi scaffale.
“Roggio del Filare è realmente espressione in ogni suo
aspetto della nostra cantina”, ha aggiunto nel corso della
degustazione Marianna Velenosi. “Da una parte il Montepulciano,
a simboleggiare il carattere indomabile di mia
madre Angela, con la sua forza ed energia sempre pronti a
emergere; dall’altro lato il Sangiovese, più misurato come
me e maggiormente longevo, a portare equilibrio”. La stessa
armonia di una vendemmia perfetta, come la 2012, che
nel calice si manifesta con una marcia in più, colpendo per
la balsamicità e la nota mentolata dell’annata che la rende
diversa da tutte le altre. Per un vino della maturità, ma
non per questo meno pronto ad affrontare il tempo che
gli si pone ancora innanzi. Esattamente come le annate a
seguire, che hanno chiuso la verticale: da un lato la 2007,
con la sua freschezza satinata, che però diventa solidità
guardando al futuro; dall’altra la 2002, scelta per il grande
potenziale di longevità espresso e altra sorpresa in bottiglia
dopo il freddo e le difficolta in tempo di vendemmia.
Un vino emblematico, proprio l’ultimo, per raccontare la
consapevolezza, acquisita nel corso degli anni, di come
Roggio del Filare avrebbe mantenuto sempre la capacità
di conservare il proprio carattere espressivo longevo qualunque
fosse la stagione che gli si ponesse innanzi. Per
un’etichetta, fin dalla sua nascita, proiettata al futuro e che
parla di convivialità.
Photo: Gabriele Zanon

18
DOSSIER
Il senso del luogo
di un vino
Esordio per La Fabriseria 2016,
l’Amarone Classico più raro della famiglia Tedeschi
Quando si parla di grandi rossi, scorrendo
gli elenchi con i principali volti dell’eccellenza
enologica italiana, in cima ci
s’imbatterà sempre nella A di Amarone.
Tra i pionieri ad aver contribuito in maniera
decisiva a forgiare la storia del re dei vini veronesi
c’è una famiglia, i Tedeschi, che in Valpolicella ha fondato
il proprio quotidiano impegno attorno allo studio della
vigna, sulle collaborazioni
con ricercatori
ed università, nella
promozione di azioni
concrete di sostenibilità,
fino ad arrivare a
identificare la caratterizzazione
aromatica
dei propri 48 ettari
di vigneti. Tutto questo
ha condotto alla
produzione di vini
che sono reale espressione del meglio che il territorio
abbia da offrire. Più nello specifico: si tratta di fotografie
dell’identità dei terreni di alta collina. È il 1964, quando
Renzo Tedeschi decide di vinificare separatamente le uve
del vigneto Monte Olmi: oggi, quella pionieristica intuizione
dell’esistenza di un codice chimico che consente
di esprimere “il senso del luogo di un vino” ha trovato
fondamento anche in una ricerca, in collaborazione con
DI MATTEO BORRÈ
l’Università di Verona, sugli aromi e la loro evoluzione
nei vini Amarone. Con il territorio della Valpolicella, non
a caso, la famiglia Tedeschi vanta un profondo legame,
lungo quasi quattro secoli. Da sempre ha creduto nella
grande ricchezza della produzione vinicola a queste latitudini,
adottando i più innovativi metodi di produzione e
gestione dell’ambiente, al fine di ottenere vini potenti, ma
sempre eleganti e dotati di grande personalità e tipicità.
Se oggi Monte Olmi
è il vino emblema
dell’azienda e di un
intero territorio, i costanti
investimenti
avviati negli ultimi 20
anni hanno condotto
ad ottenere referenze
sempre più armoniche
ed eleganti, che
hanno ulteriormente
valorizzati quelli che
sono stati identificati come i Cru di famiglia. “Monte
Olmi è l’Amarone più balsamico, Maternigo quello più
speziato, mentre La Fabriseria è sintesi tra i primi due volti
della Valpolicella di Tedeschi”, evidenzia Maria Sabrina
Tedeschi, titolare dell’azienda con i fratelli Antonietta e
Riccardo. Ed è proprio La Fabriseria che vede oggi esordire
la nuova annata 2016, un grande millesimo in particolare
per la zona Classica, del suo Amarone della Valpolicella
Docg Classico Riserva. “L’Amarone più raro, in termini di
annate e quantità di bottiglie disponibili, nel novero dei
Cru della nostra famiglia”, prosegue Maria Sabrina Tedeschi.
“È il vigneto più alto di nostra proprietà, arrivando
a toccare quota 500 metri s.l.m., nella zona Classica, con
esposizione sud-sud-est”. È inizio anni 2000, quando la
famiglia Tedeschi impianta il vigneto La Fabriseria, su un
territorio di circa sette ettari, in località Le Pontare. Crocevia
da dove osservare all’orizzonte le acque del Lago
di Garda e al contempo il profilo delle valli di Fumane e
Marano di Valpolicella, regala vini che sono figli del “terreno
perfetto”, a detta dei geologi che ne hanno studiato la
composizione. “È speciale per la diversità dei suoli che lo
caratterizzano”, prosegue Maria Sabrina Tedeschi. “Poco
profondo, risulta, infatti, terreno molto secco, che anche
dopo abbondanti piogge tende ad asciugare rapidamente.
Con una grande quantità di scheletro, è ricco di calcare
che regala una freschezza accentuata al vino che qui vi nasce”.
È territorio, dunque, quello del vigneto La Fabriseria
che offre una marcia in più nel calice. “Ritroviamo, come
da caratteristica di Corvina e Corvinone, un carattere fruttato,
ma accompagnato da note speziate e balsamiche insieme,
oltre che sfumature floreali che aggiungono un ulteriore
elemento alla complessità di questi vini”, sottolinea
Maria Sabrina Tedeschi. A fare capolino nel blend finale
anche una piccola percentuale di Oseleta, per un vino capace
di raccontare di sé fin da giovane, ma poi soprattutto
attraverso l’evoluzione nel corso degli anni. Un vero e proprio
fine wines, che nella nuova annata 2016 ha visto la
luce in sole 1400 bottiglie. “Segue a ruota un millesimo altrettanto
grande, il 2015: un evento straordinario quando
si fa riferimento a espressioni così ricercate che vengono
prodotte soltanto a seguito di vendemmie eccezionali per
qualità”. L’Amarone della Valpolicella Docg Classico Riserva
La Fabriseria, per via dei numeri limitati e del costo,
è destinato alla ristorazione di alta fascia ma soprattutto
a quelle enoteche che desiderano caratterizzare l’offerta a
scaffale con un prodotto davvero unico pensato per soddisfare
il bisogno di ricercatezza dei veri appassionati. Come
un altro nuovo progetto, che si lega al racconto e segna una
nuova tappa del cammino della famiglia Tedeschi: l’inaugurazione
dell’archivio dedicato alle vecchie annate. “La
distintività dell’Amarone tra i fine wines italiani è dettata
dalla capacità di farsi bere con piacere sin dalle annate più
giovani, per poi garantire una spiccata longevità laddove
prodotto con i corretti criteri per conservare una buona
acidità in vista dell’affinamento prolungato”, sottolinea
Maria Sabrina Tedeschi. “Per questo abbiamo scelto di
mettere a disposizione del pubblico, materialmente visitabile
in azienda, l’archivio delle vecchie annate. Per determinati
millesimi, conservati fino a oggi in cantina a condizioni
ottimali, ora esiste anche una disponibilità d’acquisto in
quantità variabile”. Per un’iniziativa destinata a far toccare
con mano a chiunque lo desideri la longevità del re dei
vini veronesi. “È anche un racconto in bottiglia della storia
della nostra azienda, che affianca quello della famiglia e di
chi opera in cantina”, chiosa Maria Sabrina Tedeschi. “A
testimoniare una volta di più di come il vino sia elemento
di convivialità capace di cambiare ogni esperienza”.

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20
DOSSIER
A
Spessa di Cividale, nei Colli Orientali del
Friuli, Annalisa Zorzettig porta avanti una
visione di vino che è riassunto di 150 anni
di storia. Un libro a cui, di vendemmia in
vendemmia, sono aggiunti nuovi capitoli,
grazie al lavoro portato avanti tra i filari e in cantina. Anima
da vignaiola, attenta a ogni cosa le capiti e la circondi,
Annalisa Zorzettig ha sempre provato
ad ampliare gli orizzonti del
proprio racconto, individuando
nuove connessioni capaci di spiegare
meglio a chi incontrava il vero
valore di quanto si cela dietro ogni
bottiglia. Laboriose mani che, ben
oltre il vino, narrano tanto di più. È
una cultura, sono volti e tradizioni
quelli che si riflettono in un calice,
a maggiore avviso in una terra di
confine come i Colli Orientali, teatro
nel corso dei secoli di ricchi e
dinamici scambi culturali mitteleuropei,
che da sempre fanno parte della mentalità di chi qui
ha le proprie radici. Nasce così quel forte senso di responsabilità,
da sempre insito nella famiglia Zorzettig, verso un
patrimonio unico, che nel vino trova una sintesi. “In ogni
bottiglia c’è la saggezza dei nostri avi, c’è il sole e l’aria che
hanno maturato le uve, c’è una cultura agricola ed imprenditoriale
tenace, che ci ha dato l’opportunità di credere
Ritorno
alle radici
Annalisa Zorzettig e la visione di un vino autoctono
che non conosce confini
DI MATTEO BORRÈ
davvero alla nostra identità, forte e consapevole”, spiega
Annalisa Zorzettig. “Fondamentale oggi è trovare linguaggi,
codici e modi di comunicare, in sintonia con il presente,
per poter affermare valori senza tempo, eterni”. Nascono
di conseguenze le diverse collaborazioni che vedono oggi
impegnata l’azienda friulana, a iniziare dalle ormai consolidate
partnership con Mittelfest o con Cortinametraggio. A
venire così esaltate sono le attitudini
innate del vino: creare convivialità,
favorire la condivisione, promuovere
la naturale costruzione di
legami duraturi. Tutte dinamiche
che trovano un’esemplare corrispondenza
in quella valorizzazione
delle espressioni autoctone del
territorio tanto cara ad Annalisa
Zorzettig e alla sua famiglia. “Oggi,
i vini friulani sono sempre più ricercati,
anche per via della loro
personalità nel calice”, riprende
Annalisa Zorzettig. “Viviamo una
fase di rinascita, anche da parte di noi cantine, rispetto alla
consapevolezza dell’originalità e potenzialità del frutto dei
nostri autoctoni”. Sono proprio questi ultimi, non a caso, a
rappresentare il paradigma attorno a cui ruota la proposta
in rosso di Myò Vigneti di Spessa, la linea di punta firmata
Zorzettig. “Un elemento su cui continuiamo a puntare e
per cui non lesiniamo investimenti è il miglioramento della
qualità: sia in vigna o in fase d’affinamento”, aggiunge
la vignaiola di Spessa di Cividale. “Oggi, si
nota come ci sia un target sempre più consistente
di clienti votato a bere meno, ma meglio. Ed è così
che è cresciuta la curiosità verso prodotti come
Schioppettino, Pignolo o Refosco, che richiamano
anche al valore aggiunto di un radicamento
nel territorio quantomai attuale”. Le
vigne Zorzettig dove crescono le uve che
poi daranno forma a queste tre grandi interpretazioni
autoctone in rosso sono vere
e proprie oasi di biodiversità contornate
da boschi. “E anche quest’anno, con tutte
le difficoltà di una stagione vendemmiale
falcidiata in tante parti d’Italia dalle più
diverse problematiche, l’attenzione e il lavoro
all’insegna del massimo rispetto della
Natura guidato dal nostro agronomo Antonio
Noacco hanno ripagato”, evidenzia
Annalisa Zorzettig. I vini della selezione
Myò Vigneti di Spessa sono la rivelazione
del percorso di consapevolezza e audace
crescita intrapreso con decisione da diversi
anni. Nella contemporaneità enologica
sussiste una tendenza generale a standardizzare
i vini, ad omologarli verso imbrigliate
declinazioni internazionali. Non così
è sui Colli Orientali del Friuli. “Il vino è innanzitutto
tempo”, spiega Annalisa Zorzettig.
“Ce ne vuole tanto per dare vita a una grande
etichetta: sia si parli di vigna, sia di cantina. Ed è solo così
che si ottiene quell’eleganza, termine che in un vino può
assumere diversi e differenti significati, ma che oggi è individuata
sempre più con una sostanziale facilità di beva”. Un
passaggio decisivo nel delineare i tratti del vino di domani
sui Colli Orientali. “Oggi, soprattutto quando guardiamo
al mondo dei rossi, c’è da tenere conto di un cambiamento
climatico che restituisce annate sempre più calde, che
poi in bottiglia si riflettono in una gradazione alcolica più
accentuata, anno dopo anno”, continua la vignaiola friulana.
“Investire sull’affinamento per più tempo dei vini ci
aiuta anche a fornire una risposta a questo tipo di dinamica,
favorendo il mantenimento di una struttura e dei giusti
equilibri per frutto e aromi, ma con una facilità di beva più
accentuata, l’elemento che oggi definisce la modernità di
un vino nel calice”. Vitigni autoctoni, connessione con le
altre realtà del territorio e attenzione alle tradizioni, anche
quando si parla di consumi, con i vini fatti sempre più conoscere
in abbinamento ai piatti locali: questa la strada scelta
da Zorzettig. “La nostra attenzione in particolare verso le
interpretazioni in rosso del territorio è oggi ribadita dalla
cura che abbiamo dedicato allo sviluppo di bottaia e barricaia
all’interno della nuova cantina, che ci consentirà di
dare impulso con i rossi della linea Myò Vigneti di Spessa,
sulla scia di quanto già fatto con i bianchi, alla visione di
mantenere i vini per più tempo in affinamento. Ma, attenzione,
l’orizzonte di questo approccio è ben più ampio: dal
tappo al tempo di riposo in bottiglia, stiamo migliorandoci
sotto ogni aspetto”. La nuova cantina è stata pensata per offrire
al visitatore un’esperienza completa del territorio in
cui s’inserisce. I nuovi spazi mirano a raccontare la friulanità,
le tradizioni locali, i colori della terra. Con il progetto, in
fase di completamento per inizio 2024, che ricerca un dialogo
col paesaggio collinare circostante, legando interno
ed esterno. “Sempre più, portare le persone in cantina è un
elemento fondamentale per far loro comprendere il lavoro
dietro ogni etichetta”, conclude Annalisa Zorzettig. “Per
questo, nel progetto della nuova cantina abbiamo incluso
uno spazio dedicato all’accoglienza. Si tratta di un vero e
proprio percorso, quello previsto, in cui attraversando a
piedi la vigna a ridosso dell’azienda potremo coinvolgere
realmente, ben oltre la semplice degustazione, chi verrà in
visita. Vorrei che così tutti potessero arrivare a toccare con
mano non solo il frutto del nostro quotidiano impegno, ma
proprio la storia e la cultura di un territorio e del vino, che
da secoli è sinonimo della più gioiosa convivialità”.

21
Èil 1968 quando, a poca distanza dalle sponde del fiume Tagliamento, in provincia
di Pordenone, Otello Tombacco dà vita alla propria personale rivoluzione.
In un anno di rivolgimenti, acquista l’azienda agricola I Magredi, all’epoca terra
di seminativo e vigneto, ma dove erano anche coltivate pesche e mele. Il primo
germoglio di una storia che conduce, a distanza di 15 anni circa, a una seconda
rivoluzione che sancisce il passaggio di testimone da padre a figlio. Siamo nel 1984,
quando Michelangelo Tombacco sceglie la strada che porterà al radicale mutamento della
fisionomia di questo angolo di Friuli-Venezia Giulia. Se prima, infatti, l’uva veniva portata
a Oderzo per la vinificazione, il giovane appena entrato in azienda comincia a concepirne
un destino differente, con l’obiettivo di valorizzare al massimo l’attitudine di terreni unici.
È così che, lungo il corso del decennio, si consuma una svolta che porta all’abbandona
del frutteto, sostituito dalla progressiva estensione del parco vitato. Poi, nel 1992, il taglio
del nastro della prima cantina dalla capienza di 1,2 milioni di litri. Una realtà, I Magredi,
che inizia così il proprio cammino di crescita. Prima, importanti interventi, tra 2000 e
2007, a sostegno dell’incremento delle potenzialità di lavorazione della struttura, poi il
raggiungimento di una capacità totale di capienza di 7,8 milioni di litri nel 2018, a seguito
dell’intesa che porta la Valdo Spumanti ad investire sull’azienda di Domanins produttrice
di vini Doc Friuli Grave. Una partnership, quest’ultima, nata dal rapporto d’amicizia
tra Michelangelo Tombacco e Pierluigi Bolla, legame che non solo ha portato all’intesa
per una partecipazione all’interno della realtà friulana, ma che si è sviluppato ad ampio
raggio. Nel 2023, infatti, da un lato la creazione della nuova linea di vini fermi Tenute
Valdo, dall’altro il rilancio della gamma Horeca firmata I Magredi, entrati ufficialmente
nella distribuzione della storica azienda di Valdobbiadene andando ad aggiungersi a
un’offerta che include anche lo Champagne Nicolas Feuillatte e l’iconico brand francese
Gérard Bertrand Côte des Roses. Un passaggio decisivo, primo step verso un futuro
scandito però sempre dai tempi della natura, come dimostra l’attenzione verso la terra,
che arriva a definire l’identità stessa della cantina friulana. Il nome I Magredi descrive,
infatti, i terreni rappresentativi di quest’area, ricchi di materiale grossolano come ghiaie,
sassi e ciottoli: “Terra Magra”, di origine alluvionale, dove l’acqua, e con essa gli elementi
nutritivi mobili, sono da ricercare in profondità. Ma quel che Madre Natura con una
mano toglie, nell’aridità superficiale del suolo, dall’altra dona, con escursioni termiche
che permettono di ottenere, proprio in conseguenza di questa tipologia unica di terreni,
uve di ampia complessità aromatica e freschezza. È microclima, quello delle Grave,
determinato da un lato dalle montagne che riparano dai venti freddi del nord, dall’altra
dell’effetto benefico del mare Adriatico: un contesto ideale per la nascita di vini che si
distinguono per freschezza, aromaticità ed eleganza. I frutti della vinificazione di una varietà
di uve che raccontano, in oltre 50 ettari di filari, tanto di un volto internazionale, con
Sauvignon Blanc, Pinot Grigio, Merlot e Cabernet, quanto dell’anima autoctona della
realtà di Domanins, grazie a Friulano, Refosco e Ribolla Gialla. A testimoniare l’appartenenza
a un territorio e la sua unicità, anche il magnifico vigneto circolare ideato nel 2008
per celebrare i primi 40 anni di attività. Una forma inconsueta, ma che è molto più di
semplice vezzo estetico ripreso sul marchio aziendale. Questa vigna, infatti, permette di
misurare nei suoi quattro punti cardinali gli effetti delle differenze di calore sulle piante,
evidenziando l’attenzione verso una viticoltura basata sul minor impatto ambientale che
passa in primis attraverso la gestione di forme d’allevamento capaci di entrare più velocemente
in equilibrio con l’ambiente circostante attraverso carichi produttivi più bassi e
spazi vite contenuti. Al contempo, ci si trova innanzi a un’allegoria del ciclo naturale e del
legame che unisce l’uomo alla terra. Una connessione che si fa vino, declinandosi nelle
espressioni più caratteristiche di queste zone, come i bianchi Pinot Grigio, Sauvignon
Blanc e Ribolla Gialla, ma capace anche di tributi che, in maniera differente, riconducono
alle radici di una storia: come nel caso di Divinotello, omaggio in rosso a chi ha gettato
il primo seme di quello che I Magredi sono oggi. Per un blend di Cabernet Sauvignon,
Merlot e Raboso del Piave, che in bocca è caldo, potente, robusto, ricco di tannini nobili,
chiudendo con un elegante fondo di confettura e tostatura. Un vino tanto complesso
quanto dal perfetto bilanciamento, che rappresenta una vera poesia per il palato, espressione
di un territorio e di un racconto capace di sorprendere al primo sorso.
DI MATTEO BORRÈ
La grande bellezza
della “Terra Magra”
I Magredi e il racconto nel calice dell’unicità
delle Grave del Friuli
DOSSIER

22
DOSSIER
Nella geografia del vino mondiale, la
Basilicata non risulta certo ai primi
posti per la notorietà delle sue produzioni
enologiche. Eppure, questo
angolo del Sud Italia alla confluenza
tra due mari meriterebbe un maggiore riconoscimento,
soprattutto laddove si prenda a riferimento
uno dei suoi simboli nel calice: l’Aglianico
del Vulture.C’è chi il potenziale di questa
zona e del suo vitigno principe lo ha intuito
in tempi non sospetti: è Gruppo Italiano
Vini. Dal 1998 ha dato il via al progetto
Re Manfredi, isola che prospera al cuore
dell’altipiano del Vulture. Siamo ai piedi
del cono vulcanico, a pochi chilometri
da Venosa, cittadina che ha dato i natali
al poeta latino Orazio, su terreni calcarei-argillosi
importanti lambiti dal vulcano
dormiente che qui ha depositato non
lapilli ma ceneri. Poi, nei filari, si ritrovano
basse rese e altissima qualità nei 100 ettari
di parco vitato. Un potenziale a cui oggi
Gruppo Italiano Vini ha associato l’importante
investimento che ha portato alla
creazione di una cantina all’avanguardia,
rinnovata e ampliata sulla struttura precedente
proprio con l’obiettivo di portare
l’Aglianico a raggiungere orizzonti sempre
DI MATTEO BORRÈ
Sua Maestà,
l’Aglianico
più ampi e affermarsi ai vertici dei vini di pregio
internazionali. Già, perché al momento della decisione,
poi divenuta operativa tra il 2013 e il 2017,
di dare ordine tra i filari, se per il volto in bianco
si è scommesso sull’impianto sistematico di Müller-Thurgau
e Traminer per 40 ettari, il solo vitigno
a bacca rossa selezionato è stato l’Aglianico,
che oggi rappresenta il 100% della produzione
in rosso di Re Manfredi. È proprio il principe
degli autoctoni della Basilicata il grande
protagonista nel Vulture, al centro di una
progettualità che ha scelto di scommettere
sulla varietà interpretandola partendo da
differenti angolature. “Per la sua importanza,
non può essere un vino di moda:
non vuole essere trendy ma deve puntare
all’eccellenza”, spiega l’enologo Christian
Scrinzi, che in Re Manfredi viene affiancato
sul campo dall’expertise di stampo
anglosassone di Morgan Sean McCrum. Il
cammino cui è chiamato oggi l’Aglianico
del Vulture, infatti, è quello che punta ufficialmente
ad affermarlo come un membro
dell’Olimpo dei grandi classici del vino
italiano. A tal proposito, le ultime scelte di
Gruppo Italiano Vini a supporto di questa
“candidatura” puntano esattamente a
favorire l’ottenimento del prestigioso rico-
Come Re Manfredi vuole portare il vitigno principe
della Basilicata dal Vulture all’Olimpo dei grandi rossi
noscimento. Ma, si faccia attenzione, Re Manfredi non
è solo Aglianico: è anche inusuale variante in bianco.
Lo è con un vero e proprio best seller che si è affermato
nel corso del tempo come espressione di territorio,
non di vitigno, capace di garantire anche una sostanziale
longevità. Per un progetto partito dalla valutazione
di quelli che erano gli autoctoni locali più diffusi,
Malvasie e Moscati, poi però delineatosi attorno a due
a prima vista – ma poi non è stato così – “intrusi” a queste
latitudini: i nordici Müller-Thurgau e Traminer. Il
risultato finale è stato un vino di buona struttura, con
una piacevole dolcezza e un certo residuo, che a volte
ricorda note solforate, dallo straordinario successo.
Un prodotto che può apparire semplice, ma in realtà
attentamente studiato e favorito nella sua genesi dalle
grandi escursioni termiche che caratterizzano la regione
e da temperature che scendono di molto durante la
notte, fattore quest’ultimo decisivo per lo sviluppo degli
aromi. A supporto della vocazione di un territorio,
oggi giunge una nuova cantina all’avanguardia. Già nel
2020 la decisione da parte di Giv dell’importante investimento.
Ora, dopo i lavori di scavo, è stata costruita
ex-novo una struttura unica sul territorio che ha una
linea di pigiatura con selezione delle uve, nuove presse
e vinificatori in legno e acciaio e dei piccoli contenitori
che permettono la vinificazione separata delle uve provenienti
da vigneti diversi in modo da conservarne le
peculiarità. Nella rinnovata cantina trovano spazio anche
un caveau per 1600 bottiglie di annate storiche, a
far data dal 1998, oltre che una nuova barricaia interrata
a sette metri di profondità, che ospita circa 200 barrique
per l’affinamento dell’Aglianico oltre a contenitori
alternativi quali anfore, clayver e contenitori oeufs
de Beaune utilizzati per testare tecniche di vinificazione
diverse. Un’opera maestosa, realizzata anche grazie
al contributo della Regione Basilicata che ha creduto
fermamente nel progetto, modello per il futuro del panorama
vitivinicolo lucano. Un domani che nel calice,
a nostro avviso, vedrà l’affermazione di quell’Aglianico
che Re Manfredi interpreta in tre versioni: il Taglio
del Tralcio, il Re Manfredi e il superiore Vigneto Serpara.
Se il primo è la più dinamica delle espressioni del
vitigno principe della Basilicata e che propone un potenziale
di rapporto tra qualità e prezzo su cui, ad avviso
di chi scrive, è bene scommettere, il secondo, oggi
in commercio con l’annata 2021, ne è la versione più
fresca, vivace, vibrante e dal frutto più spiccatamente
croccante che accompagna il caratteristico profilo balsamico
della varietà. Infine, il Cru, Vigneto Serpara,
prodotto da uve coltivate nel comune di Maschito in
un appezzamento di soli sei ettari con vecchie viti che
offrono meno concentrazione ma regalano una maggiore
longevità al vino: speziato e con una densità che
quasi si mastica, si propone con un’acidità, un tannino
e una freschezza gradevoli, offerti dalla nota balsamica
di sottofondo che pulisce il palato. Per tre racconti di
un grande vitigno, ideale alternativa per soddisfare un
consumatore curioso alla ricerca di nuove suggestive
emozioni nel calice.

Battito
emiliano
Il gusto dell’eccellenza passa attraverso una passione
condivisa: quella per un sapore raffinato, che con le sue
note fresche e floreali continua a legarsi alla migliore delle
tradizioni vitivinicole. Vigna del Cristo. Cuore pulsante d’Emilia.

24
DOSSIER
Il volto Nobile
di Lunadoro
Il Pagliareto Sel.Bio da podio della cantina gioiello di Montepulciano
del gruppo Schenk Italia
DI ROBERTA RANCATI
Territorio, autenticità e altissima qualità: sono queste le parole d’ordine attorno
a cui ruota il progetto di Lunadoro, cantina gioiello di Montepulciano
parte del gruppo Schenk Italia dal 2016. Tra i filari bio di Sangiovese baciati
dal sole e accarezzati dalla fresca rugiada dei mattini senesi, l’azienda toscana
dà vita a Rosso e Nobile di Montepulciano che assumono la forma di quattro
etichette che stanno riscuotendo sempre più successo sui palcoscenici nazionali e internazionali.
Da un lato, dunque, il Prugnanello Rosso di Montepulciano e il Pagliareto
Nobile di Montepulciano, quest’ultimo neovincitore dei Tre Bicchieri della Guida Vini
d’Italia 2024 e unica bottiglia italiana scelta per la cerimonia dei Nobel a Stoccolma del
2019, nell’anno in cui conquistò per la prima volta il massimo riconoscimento del Gambero
Rosso; dall’altro, la Riserva Quercione e il superlativo Gran Pagliareto Vino Nobile
di Montepulciano, la star indiscussa della cantina, vincitore di numerosi premi e protagonista
del nuovo progetto “Tonneaux Selection – Edition 2023” che consente a enoteche,
ristoratori, aziende e appassionati di degustare e scegliere in modo esclusivo tra 12 diversi
tonneaux dell’annata 2018 la botte preferita, numerando e personalizzando le proprie 600
bottiglie. Un’iniziativa che sottolinea l’operosa dedizione sartoriale con la quale agronomi,
enologi ed esperti di Lunadoro operano quotidianamente, coltivando secondo i dettami
del regime biologico i 12 ettari vitati totali dell’azienda, 10 a Sangiovese e i restanti due
suddivisi fra Merlot e Cabernet, da cui sono tratte un totale di circa 90mila bottiglie ogni
anno. Ma quella della cantina senese è anche racconto di una realtà giovane e innovativa
votata alla tradizione, che, con le sue scelte sostenibili e i continui investimenti in qualità,
produce quattro vini che in sé racchiudono tutte le caratteristiche peculiari della terra unica
su cui insiste. Sinceri e raffinati, i grandi rossi Lunadoro esprimono nel calice il profondo
legame che si è instaurato tra l’azienda e l’areale di Montepulciano, con i suoi abitanti,
ristoratori e anche turisti amanti della Toscana del Nobile. Per etichette, naturale espressione
di tale filosofia volta al costante miglioramento, oggi sempre più sotto i riflettori di
critica e pubblico. Come nel caso del Lunadoro Pagliareto Sel.Bio 2019, l’unico Nobile di
Montepulciano biologico ad aver ottenuto il riconoscimento dei Tre Bicchieri nella Guida
Vini d’Italia 2024 del Gambero Rosso, bissando così il podio del 2019 con l’annata 2016.
Un riconoscimento doppiamente significativo: rende, infatti, giustizia alle scelte compiute
dalla cantina, che della sostenibilità ha da tempo fatto uno dei suoi principali capisaldi,
in virtù dell’amore per il territorio che muove le scelte dell’intero gruppo Schenk Italia.
Ma per comprendere fino in fondo questo Nobile piacere biologico e il valore del premio
ricevuto, è opportuno analizzare le caratteristiche tecniche del terreno e le scelte agronomiche
ed enologiche che hanno condotto l’etichetta ad eccellere. Con il primo passo del
percorso sancito da uno studio approfondito sulla posizione del vigneto Pagliareto, situato
nella parte alta della collina dove ha sede la cantina Lunadoro, ad un’altitudine di circa 300
metri s.l.m. con un’esposizione ad est. Un terreno di origine pliocenica di tipo argilloso –
sabbioso, moderatamente calcareo e basico, che si estende tra i 200 e 300 metri di profondità:
qui la vigna di Pagliareto, coltivata a Sangiovese, trova la culla ideale, facilitando una
nutrizione naturale della pianta grazie alla pratica del sovescio. In primavera inizia la selezione
dei tralci migliori che daranno vita ai grappoli, seguita dalle operazioni a verde per
il mantenimento dell’equilibrio vegetativo, elemento determinate per ottenere una buona
maturazione. Solo nell’ultima fase di maturazione si procede con la selezione finale delle
uve, che poi verranno vinificate. Il Sangiovese, d’altronde, non ammette errori in vigna e
nemmeno in cantina, domandando di essere seguito e rispettato: quando è pronto per
andare in bottiglia lo fa capire stupendo, per poi dare il suo meglio nel calice. Esattamente
come dimostra il caso di Pagliareto Sel. Bio 2019, Nobile di Montepulciano che al palato
si esprime regalando grande morbidezza e dolcezza tannica, suo segno distintivo, arricchite
da note boisé leggermente speziate e da tutte le altre sfumature derivanti dal periodo
d’invecchiamento in legno. Per un grande rosso, che dopo il prestigioso riconoscimento al
debutto, promette di regalare performance da sogno anche con le prossime annate, figlie
della stessa filosofia. L’annata 2020 del Pagliareto biologico di Lunadoro, infatti, ha tutte
le caratteristiche per risultare ancora più ricca e concentrata in termini organolettici. Con
i riconoscimenti degli esperti e gli apprezzamenti dal pubblico che, non v’è dubbio, continueranno
ad indicare la rotta da seguire verso un futuro sempre più radioso.

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Sono passati 30 anni dal primo sguardo di
una storia d’amore che ha sancito la rinascita
di un intero territorio, quello della più
piccola U.G.A. del Gallo Nero. Tra le 11 che
delimitano la storica denominazione toscana,
infatti, questo angolo della valle della Greve si differenzia
in maniera evidente per via delle altitudini che
lo caratterizzano. Con i suoi vigneti, minuscole
terrazze strappate alla montagna disegnate
dai muretti a secco di una viticoltura
eroica dal sapore antico ma che vive
ancora, a tratteggiare il panorama
del versante esposto in prevalenza a
est a quote spesso superiori ai 500
metri s.l.m. Qui nasce un Chianti
Classico diverso da tutti gli altri,
differente nello stile elegante e sottile
dei suoi vini, frutto della combinazione
di un peculiare microclima
fresco, di suoli che derivano unicamente
dalla formazione del macigno toscano, caratterizzato
in alternanza da alberese e galestro, ottimo drenante
e ricco di elementi nutritivi e minerali, e di cloni
di Sangiovese, compreso il più presente e diffuso R-10,
spesso allevati con il tradizionale alberello lamolese, a
rimarcare ulteriormente l’appartenenza a un territorio.
È al cuore di Lamole, borgo che da sempre è un tutt’uno
con l’ambiente naturale circostante, modellato nel
DI MATTEO BORRÈ
corso dei secoli dal lavoro dell’uomo e dove il giaggiolo
e la ginestra s’insinuano fra i filari di vite e negli uliveti,
che nel 1993 è giunta la famiglia Marzotto, fondatrice
di Santa Margherita Gruppo Vinicolo. “Il nostro è stato
un amore a prima vista: questi vigneti, questo borgo diffuso
e scarsamente popolato, questi retaggi di un passato
di coltivazione della vite e dell’olivo che risalgono
agli antichi Romani, questi boschi e il profumo
del giaggiolo, ci hanno convinto at the first
sight”, sottolinea Gaetano Marzotto,
Presidente della realtà che raggruppa
10 diverse tenute in alcune tra le
regioni più belle dell’enologia italiana.
“Siamo arrivati in Toscana,
però, con profondo rispetto: per la
natura, per gli uomini, per la tradizione
di questo territorio. Il nostro
primo imperativo è stato quello
di restituire alla bellezza del Chianti
Classico questa tenuta. Volevamo il meglio
e posso dire, oggi, che abbiamo ottenuto il
meglio: nei vigneti, in cantina, nell’accoglienza che qui
abbiamo avviato e, soprattutto, nel calice”. Già, perché
è grazie innanzitutto al cammino percorso da Lamole
di Lamole lungo gli ultimi tre decenni che il potenziale
di questa isola sui monti è stato rivelato in tutta la sua
straordinarietà al mondo. Oggi sono diventati 37 gli
ettari di filari a conduzione biologica della tenuta della
L’espressione più alta
del Gallo Nero
I primi 30 anni in Chianti Classico
dei grandi rossi “di quota” di Lamole di Lamole
famiglia Marzotto, situati tra i 420 ed i 655 metri s.l.m.
su quelle “lame” di terra che contraddistinguono il profilo
della zona, protetti dai venti freddi che arrivano dal
nord dai monti del Chianti e che insistono sui muretti
a secco realizzati con pietre del terreno, che riflettono
la luce diurna per un aumento della fotosintesi clorofilliana
e accumulano il calore del giorno per restituirlo
la notte. Campolungo, capace di infondere nei vini
eleganza e struttura; Storico, piantato il 20 marzo del
1945 e che comprende oltre 100 viti, tra le quali sono
stati riconosciuti più di 30 cloni diversi di Sangiovese;
Vigneto Il Prato, che regala un vino dal frutto brillante
e nitido, morbido nei tannini, sapido e persistente; i
Cru ad alta quota Le Masse, eroico ettaro tra i 607 e i
655 metri s.l.m. che dona un rosso trasparente, fruttato,
acidulo, di vera finezza, e Ridaldi, dove nasce lo speciale
Vinsanto; infine Grospoli, dove con l’annata 2018 ha
preso vita l’omonimo Chianti Classico Gran Selezione
Docg, single-vineyard quintessenza espressiva dalle
caratteristiche uniche del territorio che ha fatto il suo
esordio 18 mesi fa: sono questi i nomi che imprimono
straordinarie e differenti istantanee a un territorio e alla
sua vocazione. Un piccolo mondo antico custode di una
memoria storica che Lamole di Lamole si è impegnata
fin dal principio a preservare. Come dimostra anche
l’arrivo in etichetta nel 2022 per l’intera gamma dei vini
della certificazione biologica, riconversione avviata nel
lontano 2005 e che non ha interessato solamente il rispetto
delle linee guida ministeriali ma portato la tenuta
della famiglia Marzotto a recuperare un intero paesaggio
e a riportarne alla luce la struttura agricola originaria.
“Tutto questo, assieme ad un incremento delle ore
di lavorazione manuale in vigneto, ha permesso alle viti
di diventare più resilienti, in grado di affrontare - senza
aiuti esterni - la sfida dei parassiti, dei funghi, e quella
del clima sempre più estremo che si è registrato negli ultimi
anni”, evidenzia Andrea Daldin, enologo di Lamole
di Lamole dal 1993 (in foto), che ha seguito in prima
persona il percorso che ha condotto a tagliare il traguardo
del bio. Ma a definire quelli che, dai Chianti Classico
Docg Duelame e Maggiolo, alla Riserva Lareale, passando
per le Gran Selezione Vigneto di Campolungo
e Vigna Grospoli, fino a giungere all’icona Lam’Oro,
sono i grandi rossi di Lamole di Lamole è anche un impegno
che in cantina vede la scelta d’avanguardia di un
selettore ottico per migliorare ulteriormente la qualità
delle uve poi vinificate, separando gli acini per colore,
dimensione e spessore delle bucce e scartando i frutti
non idonei attraverso un getto d’aria, e successivamente
l’uso ragionato del legno, con le botti grandi, al fine di
preservare gli aromi originari e garantire un vino che sia
espressione del territorio che lo circonda. Per un Chianti
Classico d’alta quota che nel calice racconta della poesia
del paesaggio lamolese e del felice incontro che ha
unito uomo e natura.
DOSSIER

26
DOSSIER
Ode al Pinot Nero
dei colli bolognesi
L’audace sfida in rosso nel calice di Palazzo di Varignana
per dare lustro a un territorio unico
DI ROBERTA RANCATI
C'è una grande espressione in rosso che nasce a pochi km da Bologna,
sulle colline tradizionalmente terra eletta di Sangiovese,
Malbo Gentile e Pignoletto, autoctoni del territorio attorno a cui
ha mosso i primi passi nel 2016 il progetto vitivinicolo firmato
Palazzo di Varignana. Una sfida audace nel calice che ha dato forma
a una nuova espressione dell’interprete più nobile tra i vitigni internazionali: quel
Pinot Nero che in questa tenuta gioiello nel cuore dell’Emilia si declina sia in una
bollicina Metodo Classico, ma soprattutto nell’elegante setosità della sua versione
rossa ferma. A consentire il gioco di sponde, la particolarità di un microclima che
ha favorito la scelta finalizzata a dare ulteriore lustro, attraverso un grande vino, a
un territorio definito da suoli severi. Le colline di Varignana si trovano tra la Vena
del Gesso e la Via Emilia, dove i crinali dell’Appennino emiliano-romagnolo si
rivolgono a nord, in direzione della Pianura Padana. Qui, le forti ventilazioni
ed escursioni termiche che caratterizzano i cambi stagione risultano ideali
per la maturazione delle uve, frutti che traggono beneficio anche da un
terreno ricco di diversità pedologiche, come argille azzurre e sabbie gialle,
con una sensibile presenza di scheletro nella parte alta della collina. I vigneti
ricamano le pendici di un anfiteatro naturale, ad un’altitudine che varia tra
i 150 e i 230 metri s.l.m., conformazione che promuove la circolazione di
correnti fresche provenienti dai monti: in estate un giovamento per i grappoli,
cui garantiscono una lenta ed equilibrata maturazione degli aromi e
dei sapori della bacca, durante l’inverno protezione per la vigna. Poi c’è la
mano dell’uomo, con una cura sartoriale della materia prima supportata
dalla tecnologia che definisce gli spazi della cantina di Palazzo di Varignana,
realizzata nel 2021, che accoglie e preserva tutta la qualità che la natura offre
vendemmia dopo vendemmia. “Il Pinot Nero interpreta i due suoli che
abbiamo con magnifica attitudine, definendo caratteri di sofficità dalle sabbie
gialle e di densità dalle argille dei calanchi”, spiega l’enologo Umberto
Marchiori di Uva Sapiens S.r.l. “Le vigne ricamano due pendii simmetrici della nostra
vallata, sul versante di levante e su quello di ponente: questo permette due condizioni
di luce e calore agli antipodi e quindi due fisiologie di maturazione asincrone molto
vantaggiose nella produzione”. Diversi i fattori a concorrere nel differenziare il Pinot
Nero vinificato in rosso da quello selezionato per le basi spumante. “Innanzitutto il
tipo di genetica, che è abituata a produrre tannini vellutati e quel tocco aromatico di
fragolina di bosco caratteristico dei grandi Pinot Nero”, sottolinea Marchiori in merito
alle uve destinate al grande rosso di Palazzo di Varignana. “Poi il vigneto esposto
a ponente, condizione che accoglie le radiazioni solari più calde del pomeriggio e
con esse fa procedere alla piena maturi tà di cloni più tardivi”. La vendemmia tra
i filari è ovviamente manuale in cassetta, poi si procede al raffreddamento delle
uve, alla delicata diraspatura e macerazione, sempre a freddo, prima della fase
fermentativa. “La fermen tazione avviene in cemento a temperatura controllata
infondendo anche dei grappoli interi, segue poi la svinatura per gravità e la
maturazione in legno e parte in cemento per un anno”, aggiunge l’enologo.
Per ottenere un’e spressione autentica dei colli bolognesi, Rubicone Igt, si
distingue quello che il suo artefice definisce “uno stile nettamente contemporaneo,
molto varietale e fedele alle caratteristiche del territorio per quanto
riguarda l’acco glienza, il calore, la pulizia, la definizione aromatica e la profondità
del sapore”. Un vino elegante fin dal primo sguardo, con la veste rosso
rubino, che al naso si presenta fragrante nella frutta e nelle spezie, con palato
poi ampio e vellutato, succulento nella frutta pulita e ben definita, in perfetto
equilibrio delle sue componenti a esaltarne la piacevolezza e la delicata
persistenza. Una testimonianza ulteriore nel calice di un progetto vitivinicolo
nato sotto la stella dell’eccellenza. “Un grande rosso che consigliamo
nelle contaminazioni, dalle portate con verdure colorate ai formaggi”, chiosa
Umberto Marchiori. “Ma che si presta a una gamma ampia di esperienze
sensoriali e di abbinamento, sia per sincronia sia per antitesi nei sapori”.

27
Un’etichetta che coniuga il sapore
autentico della migliore tradizione
emiliana con l’innovazione dettata
da un “saper fare” costruito lungo un
secolo di bollicine. Icona del terroir
d’elezione per le uve Lambrusco,
zona compresa tra i fiumi Secchia e
Panaro, il Rosé del Cristo Lambrusco
di Sorbara Doc Rosato Spumante
Brut Metodo Classico 2020 Umberto
Cavicchioli e Figli nasce da una
visione che ha nobilitato, elevandolo in
termini di eleganza e raffinatezza, un
vino “pop”. Un’espressione “alta”, ideale
scelta per accompagnare eccellenze
come Prosciutto di Parma e Culatello
di Zibello, che nel tempo ha conquistato
appassionati e critica, conseguendo
numerosi riconoscimenti come i
Tre Bicchieri Gambero Rosso. Dal
perlage fine e persistente, affascina
con il suo colore rosa brillante
con riflessi color cipolla chiaro,
ad anticipare una bollicina dal
sapore deciso al palato, che
stuzzica per la sua freschezza,
con finale fruttato
lungo e armonioso. Un
caposaldo per ogni wine
list che punti a soddisfare
i palati più esigenti.
COLLECTION
Un acronimo, dietro cui si cela un blend elegante e contemporaneo, bollicina in
rosso Extra Brut che sorprende, introducendo un nuovo protagonista in tavola, compagno
di sicuro affidamento per la cucina innovativa e di ricerca della ristorazione
di qualità. Due lettere definiscono ora il nome dello spumante AC Lambrusco
Reggiano Doc Albinea Canali, essenza più pura di una cantina e un territorio. Il
frutto della lenta fermentazione in autoclave, secondo gli spumeggianti dettami del
metodo Martinotti, del mosto fiore ricavato da uve di Lambrusco di Sorbara e Salamino.
Una bolla complessa e vivace, nella sua esuberante effervescenza e il ridotto
dosaggio zuccherino. La freschezza intrinseca del Lambrusco di Sorbara da un lato,
la croccantezza vivace e briosa del Lambrusco Salamino dall’altro, delineano un
assaggio tagliente, senza però mai perdere la linea di equilibrio. Per un sorso stuzzicante,
che si esalta nel pairing con salumi e formaggi di alta fattura del territorio di
cui questa bollicina in rosso è figlia.

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COLLECTION
La Maremma del Sauvignon, insolita
associazione sulla terra rossa venata
di quarzo di Montauto che regala uno
dei bianchi più speciali nel panorama
enologico tricolore. Il Poggio del Crine
Maremma Toscana Doc 2018 Tenuta
Montauto racconta in bottiglia
una scelta controcorrente lunga quasi
mezzo secolo. I primi filari di Sauvignon
messi a dimora da nonno Enos
oltre 45 anni fa, quintessenza e genius
loci di un terroir vocato che oggi
dona una produzione, naturalmente
bassa, di grappoli molto piccoli e
concentrati in succo e aromi. Il resto
è questione di personalità, che l’affinamento
in bottiglia di oltre tre
anni enfatizza, forgiando un vino
bianco dal carattere magnetico.
Per un sorso dorato dalla consistenza
cremosa e imponente,
vivificata dall’eleganza di
una sapidità stentorea.
Un progetto che punta in alto, ma con le radici che affondano in profondità nella terra
di una tenuta gioiello, oasi naturale fuori dal tempo al cuore della Maremma Toscana.
Gian Annibale Rosso Toscana Igt 2019 Castello del Terriccio è l’omaggio
di un nipote al proprio zio, brillante mente che ha plasmato una realtà da sogno che
si affaccia sull’arcipelago toscano, con vigneti che si specchiano all’orizzonte sulle
isole di Gorgona, Capraia ed Elba, oltre alla Corsica. Un passaggio di testimone in
bottiglia che ruota attorno al Petit Verdot di due specifiche particelle di circa 2 ettari:
Vigna Addis e Vigna Tregge. Un blend con Cabernet Sauvignon che dona vita a una
produzione limitata, destinata a un numero selezionatissimo di locali italiani e wine
merchants internazionali, che ritorna per la sua seconda release che in bocca si distingue
per la trama gustativa elegante, con tannino fine e setoso, per una progressione
equilibrata e dal finale di rara persistenza.

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Un territorio, una famiglia, una storia enologica che propone un orizzonte che va ben oltre le
pluripremiate bollicine da Top 100. I Colli di Conegliano della famiglia Dal Bianco si colorano
anche di rosso e bianco grazie Ai Palazzi Masottina. Per un’espressione che nel calice racconta il
carattere e la longevità dei vini del terroir di Ogliano. Come dimostra il valore del tempo che si
manifesta anche nel Montesco Colli di Conegliano Rosso Docg Ai Palazzi, unione perfetta
tra un’anima internazionale, blend di Cabernet Sauvignon, Merlot e Cabernet Franc, e un 10%
dell’autoctono Marzemino. Dopo un affinamento in barrique di Allier per minimo 24 mesi, il riposo
per ulteriori 24 mesi in bottiglia prima della commercializzazione: ma è il trascorrere degli anni
a regalargli l’evoluzione che lo innalza nell’Olimpo dei grandi rossi italiani, rivelando un perfetto
equilibrio tra acidità, freschezza ed eleganza dei tannini. Per un vino sontuoso già alla vista col suo
manto rubino, che al palato ammalia e allieta sorso dopo sorso.
COLLECTION

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Un progetto che ha un luogo ben preciso che chiama “casa”: lo storico cru di Tenuta Novare che
prende il nome dalla Chiesetta di Ognisanti, posta al centro del vigneto, risalente al XVI secolo.
È qui che nasce un’espressione di Valpolicella dov’è la geologia a fare la differenza nel calice.
Perché un suolo ricco in calcare gessoso regala un vino complesso, longevo, sapido e speziato nel
quale la Corvina, che in bottiglia si accompagna poi a un 5% di Rondinella, abbina una maggiore
concentrazione aromatica ad un vibrante palato. Ognisanti Valpolicella Classico Superiore Doc
2021 Bertani è quinto capitolo di una visione ancora agli albori che vuole portare un’etichetta
e un territorio al di fuori dell’attuale percepito comune. Un nuovo riferimento che non ambisce
a farsi modello, ma che punta a dare più voce al territorio e ai vitigni, avvicinandosi così col suo
volto contemporaneo alle nuove generazioni. Tanto che i suoi carattere e leggerezza richiamano
ad abbinamenti eclettici che ne rafforzano l’appeal internazionale. Soprattutto grazie a una nuova
annata dove note di Cola integrate a una spettacolare acidità sono supportate da una precisa
integrazione col legno, regalando a questa nuova visione in rosso una croccantezza al palato tutta da
godere nella sua mordace agilità unita all’appagante sapidità del finale.
COLLECTION
Un grande rosso del Piemonte che, per eleganza e finezza, gioca da sempre un campionato a parte.
Fiore all’occhiello nato con la vendemmia del 2008 per valorizzare il nucleo storico della menzione
geografica Cannubi, dove il mito è stato scritto e oggi rivive fin dal nome sull’etichetta. “Summa”
della filosofia produttiva di una famiglia e di una cantina, il Barolo Docg Riserva Cannubi 1752
Damilano, che vede l’esordio dell’annata 2016, è tributo all’anno a cui risale la più antica bottiglia
delle Langhe, ora conservata nella città di Bra, che in etichetta porta proprio il nome della MGA.
Un terroir dalle caratteristiche inconfondibili, già celebre ben prima che si parlasse di vino Barolo,
e dove le viti di Nebbiolo, che raggiungono il mezzo secolo di vita, sono selezionate per dare forma
a una riserva che deve molto del suo prestigio a un suolo che si fa mosaico di elementi capaci
di garantire a questo rosso il suo stile raffinato. Poi, oggi con la 2016, una tra le migliori annate
dell’ultimo decennio entra in scena, offrendo le carte adatte a un lungo invecchiamento. Per una
bottiglia che saprà regalare grandi emozioni se attesa a dovere, ma che già ora lascia intravedere
la potenziale grandezza fin da un naso elegante ed immediato, complesso, ampio, di frutta ancora
croccante e prorompente, che accompagna un sorso di straordinaria prospettiva.

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CHAMPAGNE
L’immortale
Fleur de Champagne
Verticale delle annate 1988, 1997 e 2002 della Cuvée storica
della Maison di Vertus con Madame Carol Duval-Leroy
DI ANDREA SILVELLO E MATTEO BORRÈ
Una verticale speciale, in compagnia dell’unica donna Ceo in tutta la
Champagne, colei che nel 1991 ha assunto le redini di una Maison tra
le più storiche, giunta oggi alla sesta generazione e fondata nel 1859, ma
soprattutto la più importante realtà della Côte des Blancs, dove conta
50 ettari sui 200 posseduti. L’incontro con Madame Carol Duval-Leroy,
la “Femme de Champagne”, è andato in scena a Milano, grazie a un rendez-vous
orchestrato da Pescarmona Importatori, realtà torinese da 76 anni attiva nell’importazione
di Champagne e vini provenienti dalla Francia, distillati e liquori di alta gamma.
Tra le partnership di maggiore prestigio in portfolio, proprio quella consolidata
con la Maison con sede a Vertus, ancora oggi totalmente di proprietà familiare. A guidarla,
affianca dai tre figli Julien, Charles e Louis, la carismatica Carol Duval-Leroy,
che nel corso degli ultimi 30 anni ha promosso nel calice un approccio stilistico contemporaneo,
profondamente gastronomico, che ha portato in particolare la sua cuvée
Fleur de Champagne in più di 300 ristoranti stellati Michelin partner di Relais &
Châteaux. Un traguardo che non deve stupire, considerato che stiamo parlando della
famiglia che ha realizzato per prima un vino Premier Cru dal 1911, ma anche ad avere
promosso una donna Chef de Caves, posizione oggi ricoperta da Sandrine Logette.
“C’è una luminosità, una salinità incomparabile. I vini sono dritti, freschi, gessosi,
strutturati, con una grazia e una brillantezza propria. Mai eccessivamente aromatici,
verticali, parlano il linguaggio delle loro origini”: così l’artefice delle bottiglie descrive
la cifra di Champagne Duval-Leroy. Una produzione complessiva che tocca annualmente
quota 2 milioni, per bollicine che invecchiano meravigliosamente, senza
rughe, sfidando il tempo con insolenza, tanto da sembrare immortali. Proprio come
ci ha testimoniato una verticale che ha visto salire in cattedra tre millesimi oggi non
in commercio – 1988, 1997 e 2002 – della Cuvée storica, che hanno riposato fino a un
mese prima della degustazione nelle cantine della Maison, quando sono state sboccate
ad hoc per l’appuntamento sotto la Madonnina. Ma per preparare il palato all’incontro
con le tre espressioni di Fleur de Champagne Premier Cru, il primo approccio
con le bollicine Duval-Leroy ha visto l’incrocio con una Magnum di Brut Réserve.
Una bottiglia, questa, che a nostro avviso è vero e proprio atout in aperitivo: fresca,
piacevole, un classico di Maison che si beve volentieri, per un blend perfettamente
equilibrato, tra finezza e potenza, 60% Pinot Noir, 30% Meunier e 10% Chardonnay.
Un bell’inizio che è stato seguito da un vero e proprio viaggio nel tempo, iniziato
con l’annata 1988 della Cuvée storica della Maison di Vertus. Fleur de Champagne è
unione di 70% Chardonnay e 30% Pinot Noir, solo Premier Cru e Grand Cru dai migliori
villaggi: oltre Vertus, Le Mesnil sur Oger, Chouilly, Bouzy, Ambonnay, Verzy e
Verzenay. Nel trio che ha composto la verticale, sicuramente il millesimo che ha stupito
maggiormente: se di questa annata abbiamo avuto occasione di assaggiare diverse
interpretazioni ed etichette, questa è risultata in grande forma, bellissima espressione
di una bottiglia conservata per 35 anni sui lieviti, denotando tanta freschezza,
una bella acidità e una spiccata lunghezza sul finale, con una bolla che era fine ma
intera e persistente. Al naso, le note che più colpivano, tanto da rimanere ancora vivo
come ricordo nella memoria a distanza di tempo, erano quelle di frutta candita: sono
le stesse che continuavano in bocca, dove al palato la 1988 si è presentata ampia. A
seguire, l’intermezzo della 1997, annata che spesso regala sorprese: in questo caso, ci
siamo trovati davanti a una bottiglia che si beveva con piacere, ma rimasta un passo
indietro se confrontata a chi l’ha preceduta nel calice. Il gran finale ha visto salire in
scena il millesimo 2002, con un Fleur de Champagne ancora una volta in grande forma,
a differenza di tante altre etichette dell’universo champenoise dello stesso anno
che oggi hanno oltrepassato il loro apice e stanno virando su note terziarie spinte.
Questa firmata Duval-Leroy è interpretazione che presentava ancora una notevole
acidità, proprio come ricordiamo il millesimo negli assaggi di qualche anno fa e come
poche volte si ritrova ormai oggi. Da ultimo, una considerazione sul “fuori menù”,
l’anteprima base 2014 e vin de réserve: si è assaggiata con piacere, per una bottiglia
che ancora una volta ha scelto di giocare la partita scommettendo tutto su freschezza
e piacevolezza, lo specchio di una Maison da tenere d’occhio.

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Caseo
e Santé Couture
la moda incontra il vino
Montelvini: nasce il tour
Tenuta di Caseo, il Metodo Classico della famiglia Tommasi,
e Santé Couture, brand di moda non convenzionale,
hanno dato vita a una collezione di abiti in edizione
limitata di soli 100 pezzi. Questa capsule-collection,
concepita da due talentuosi stilisti veronesi, ha l’intento
di vestire letteralmente le tre diverse referenze della cantina
oltrepadana con vesti progettate con cura per rappresentare
al meglio la personalità distintiva di ogni vino
ed esaltare l’identità di ciascuna
etichetta. La combinazione di
moda e vino in questa straordinaria
creazione offre un’esperienza
visiva e sensoriale
unica che non solo sorprende,
ma celebra la diversità e l’originalità
in ogni singola bottiglia.
Due nuovi ristoranti tre Stelle
nella
Guida Michelin
Italia
“Gli Asolani”
Un itinerario dove tutti i sensi entrano in gioco, assaporando
lentamente i luoghi iconici e la storia di uno dei
borghi più belli d’Italia, lasciandosi cullare dalle note
del compositore Piero Salvatori, accompagnate da un
calice di bollicina, rigorosamente Asolo Prosecco Docg,
Montelvini. È il progetto “Gli Asolani”, realizzato dalla
cantina ambasciatrice di Asolo. Uno speciale viaggio in
cinque tappe alla scoperta del borgo trevigiano e delle
sue personalità più celebri, dalla divina Eleonora Duse
all’avventuriera Freya Stark, che riprendono vita grazie
alle illustrazioni di Gianluca Biscalchin. Un invito a scoprire
un luogo fatto innanzitutto di
persone che qui hanno trovato
il loro senso di appartenenza,
contribuendo a costruire
un patrimonio unico: quello
di cui oggi Montelvini si fa
custode con un nuovo capitolo
della sua Asolo Experience.
Miglior Enotecario
d'Italia:
candidature aperte fino
al 31 gennaio 2024
Ritorna il Concorso Miglior Enotecario d’Italia, ideato da
Aepi (Associazione Enotecari Professionisti Italiani) con il
patrocinio del Masaf e in collaborazione con Vinarius. Le
candidature si chiuderanno il 31 gennaio 2024. Il contest
è aperto a tutti gli Enotecari Professionisti, proprietari di
enoteche, dipendenti o consulenti, collaboratori o liberi
professionisti. Due le categorie di gara: la prima dedicata
agli Enotecari che lavorano presso le bottiglierie esclusivamente
con vendita per asporto e l’altra per chi presta
servizio in pubblici esercizi con vendita e mescita dove è
possibile degustare e acquistare vini e spirits.
Una nuova
cantina da sogno per
Cá del Bosco
Ca’ del Bosco realizza finalmente il suo sogno
con il completamento del progetto legato al suo
patrimonio viticolo e della nuova cantina, raggiungendo
gli obiettivi che si era prefissata oltre
50 anni fa e inaugurando una nuova fase della
sua storia. Dopo 52 vendemmie, infatti, la realtà
guidata da Maurizio Zanella può finalmente
mostrare il suo aspetto definitivo, quello che
un tempo era solo un’idea e che nel corso degli
anni ha preso forma. Il lungo viaggio è iniziato
nel lontano 1968, quando è stato piantato il primo
vigneto. Oggi, quella visione si è realizzata
completamente, segnando un importante traguardo
nella storia di una tra le realtà simbolo
della Franciacorta. Nella nuova cantina arrivano,
poi, importanti innovazioni per estrarre e
conservare al meglio il potenziale delle uve, definendo
un metodo di lavoro che enfatizza l’unicità
di ciascuna parcella di vigna, il tutto per
cercare l’eccellenza nei vini in perfetto stile Ca’
del Bosco. È un vero e proprio percorso quello
che trova ora la sua definizione finale: i nuovi
ambienti per l’accoglienza; il tunnel con i caveaux
delle Riserve di Franciacorta e i caveaux nella
Cupola storica dedicati alle Cuvée Annamaria
Clementi; la galleria delle pupitres e il tunnel
riservato all’affinamento dei Millesimati Vintage
Collection; per finire, la cupola dei sensi che
precede l’installazione “Prestige Immersion”,
un’esperienza scenografica all’interno di una gigantesca
bottiglia capovolta realizzata con oltre
33mila bottiglie di Cuvée Prestige Ca’ del Bosco,
retroilluminate. Qui, a 23 metri sottoterra,
prima delle barricaie storiche, è possibile ammirare
l’area di affinamento della Cuvée Prestige,
in grado di ospitare fino a 4 milioni di bottiglie.
TITOLI DI CODA
E ancora...
L’Italia ha due nuove tre Stelle Michelin: sono Atelier
Moessmer Norbert Niederkofler e il ristorante Quattro
Passi. Salgono così a 13 i ristoranti
tristellati, mentre i cinque
nuovi due Stelle e le 26
new entry una Stella Michelin
delineano un nuovo firmamento
composto da 395
stellati distribuiti in tutta
la penisola: un nuovo record.
Palazzo Te e Villa Della Torre: secondo capitolo dell’alleanza
in bottiglia con il Lugana Doc Camera di Amore e Psiche.
La Doc Etna punta alla Docg:
partito l’iter. Il miglior vino del
mondo 2023 è italiano: il Brunello
di Montalcino Argiano
2018 primo nei Top 100 di
Wine Spectator. Banfi migliora
in sostenibilità: il rating ESG
è superiore alla media del vino.

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5mila bottiglie numerate per celebrare
l’Africa e i valori che da 10 anni guidano
il brand. In occasione del decimo anniversario
del marchio, arriva Elephant
Gin Limited Edition African Explorer,
omaggio ai valori e alle passioni che lo
guidano: l’esplorazione, l’utilizzo di botaniche
africane, la tutela degli elefanti
e il rito del sundowner, l’aperitivo al
tramonto nella savana. Il nuovo African
Explorer (40% ABV) vede protagoniste
le foglie di Buchu del Sudafrica, lo
Zenzero Bianco e la Monodora (noce
moscata africana) del Camerun, che
danno vita ad un gin dalle note agrumate
e mentolate con un finale erbaceo e
sentori freschi dati dallo zenzero.
DISTILLATI – LIQUORI – AMARI
Nel cuore del Kentucky, a Versailles, la storica
Woodford Reserve Distillery è il luogo di nascita
di Woodford Reserve, il bourbon complesso e
versatile “prodotto dalla gente per il piacere della
gente”. Oltre 200 note aromatiche rilevabili tra
legnose, speziate, dolci, fruttate e floreali, maturate
in botti di rovere bianco, contribuiscono a renderlo
una scelta d’eccellenza sapientemente prodotta
dalla Master Distiller Elizabeth McCall. Costruito
intorno al gusto, grazie a una ricca trama di sapori,
offre diverse possibilità di abbinamento tra buon
cibo e mixology, è perfetto per la degustazione in
purezza e ideale anche in cocktail signature come
l’intramontabile Old Fashioned.
È nato Amante 1530, il nuovo Aperitivo
creato da un gruppo internazionale di
amici, tra cui Sting e Trudie Styler, innamorati
dello stile di vita italiano. Arrivato in
contemporanea sulle due sponde dell’Atlantico,
è dedicato alla Mixology d’Autore.
Al palato, il gusto delicato poi evolve in una
sensazione più decisa e corposa: con aromi
di Arancia candita, Tè oolong, Zenzero,
Caprifoglio e Mele cotte, possiede una
dolcezza di fondo ben bilanciata che regala
una piacevole amarezza vegetale. Non troppo
zuccherato - e con un finale amaro più
sottile rispetto ad altri aperitivi - Amante
1530 è ideale da gustare in un cocktail o da
sorseggiare liscio.
Lanciata un anno fa in edizione limitata per celebrare i 75 anni delle Distillerie Berta, è andata
sold-out già con le preordinazioni. Ora Riserva 75 anni ritorna, con bottiglie dall’archivio della
famiglia Berta, che ha deciso di renderne ancora qualcuna disponibile per i cultori dei distillati.
Assemblaggio di ben 10 vendemmie di Selezione del Fondatore, Riserva 75 anni è grappa invecchiata
di Barbera e Nebbiolo tra le più preziose del brand. Si presenta in cassetta in legno di noce
Canaletto americano lavorata e verniciata a mano. Di colore ambrato e dal profumo complesso e
avvolgente, regala sensazioni di grande forza, in cui spiccano la ciliegia, il cacao, la vaniglia.

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Amaro Santoni,
lo spirit toscano a base
di rabarbaro che piace ai
mixologist contemporanei
Amaro Santoni è l’aperitivo a base di rabarbaro, nato
a Chianciano Terme nel 2018 dalla lunga esperienza
liquoristica toscana. Uno spirito bilanciato, d’alta qualità,
a base di oltre 30 botaniche e dal sapore insieme
dolce e amaro, dato dalle note agrumate, dalla foglia
d’olivo, dal fiore dell’iris. “Amaro Santoni rappresenta
l’aperitivo italiano in chiave contemporanea”, spiega
Simone Caporale, global ambassador partner di Amaro
Santoni. “Abbiamo aggiunto alla sua anima tradizionale
un dash, un pizzico di novità, come il suo gusto dolce-amaro,
affinché potesse piacere alle giovani generazioni,
alla ricerca di modi più semplici e leggeri di bere con
moderazione”. Per un amaro versatile in miscelazione e
gradevole in purezza, sempre più presente nei bar, negli
hotel e nelle case di tutto il mondo. L’attenzione verso
le nuove tendenze e il legame con la storia del territorio
caratterizzano anche il design della sua bottiglia, che,
leggera ed elegante, richiama lo splendore architettonico
della cupola ideata dal Brunelleschi di Santa Maria
del Fiore, simbolo della città di Firenze, patria del Conte
Negroni e dell’omonimo aperitivo.
Ardbeg presenta
Anamorphic, il single
malt in 4D
Ardbeg ha rilasciato il 1° novembre
Ardbeg Anamorphic, l’ultima Limited
Edition riservata al proprio
Committee. Un whisky straordinario
creato attraverso
un processo sperimentale.
Per questa audace edizione
limitata, infatti, la
Distilleria ha deciso di
spingere all’estremo
i confini del sapore
ottenuti dalla carbonizzazione
delle
botti. Il risultato
è un single malt
in 4D che abbraccia
quattro
dimensioni: dol-
ce, affumicato, erbaceo e speziato. Le teste dalle classiche
botti di bourbon in cui invecchia Ardbeg sono state
rimosse e incise profondamente, per esporre ancora
più legno durante il processo di tostatura. I barili sono
stati quindi sottoposti a un trattamento a infrarossi,
molto intenso e preciso, e a successivo abbrustolimento,
per raggiungere un gradiente specifico chiamato
“high mocha”, possibile perché le parti terminali delle
botti sono molto spesse. Completata questa fase, le
botti sono pronte per accogliere lo spirito di Ardbeg.
“Il trattamento high mocha delle botti è il principale
responsabile del profilo di sapore multidimensionale
di questo Ardbeg”, sottolinea il Dr. Bill Lumsden,
maestro di distillazione di Ardbeg. “Aromi terrosi di
torba portano ad un Ardbeg che sembra provenire da
un universo parallelo. Il gusto agrodolce del mocha
emerge gradualmente, mentre il cioccolato al peperoncino
si intreccia con note floreali di crisantemo e
gelsomino. Questo whisky porta Ardbeg verso nuove
vette d’intrigante complessità”.
Citadelle Rouge: un nuovo
gin artigianale francese
per Maison Ferrand
Citadelle Gin, pionieristico brand di gin artigianale
francese premium importato e distribuito in Italia in
esclusiva da Compagnia dei Caraibi, presenta il nuovo
Citadelle Rouge. Nato da un ricordo sensoriale di
Alexandre Gabriel, Ceo e Master Distiller di Maison
Ferrand, questo prodotto omaggia l’antica tradizione
della macerazione e distillazione della frutta di stagione
e rievoca la sua infanzia e le marmellate preparate
durante le calde estati dalla nonna. Fedele allo spirito
del marchio, che da sempre produce gin 100% artigianali
e naturali con botaniche infuse una alla volta per
distillare al meglio la loro essenza aromatica, Citadelle
Rouge si caratterizza per i profumi di frutti rossi e
pasticceria. Complesso, fresco ed equilibrato colpisce
per l’esplosione di sapori, celebrazione dei frutti rossi,
senza l’aggiunta di aromi, zuccheri, coloranti o additivi.
Mirtillo rosso, lampone, mora, ribes nero e rabarbaro
s’integrano perfettamente alle 19 botaniche originali
utilizzate nella produzione di Citadelle Original,
creando un profilo aromatico perfettamente equilibrato
tra dolcezza e acidità, con un finale lungo e leggermente
piccante. Perfetto liscio o miscelato è ideale per
scoprire gli aromi dei frutti rossi infusi.
Bitter Fusetti, la rivoluzione
milanese del bere
sbarca su OnlyFans
Bitter Fusetti è il bitter milanese che deve
il suo nome all’omonima via di Milano.
Con un mix botanico che spazia dai classici
genziana, rabarbaro e china fino al
quassio, passando per scorze di arancia
amara e chinotto, esprime il meglio di
sé in miscelazione e si lascia
apprezzare per la sua
interessante intensità.
Sia liscio, sia in drink
classici, in cocktail rivisitati
o semplicemente
shakerato, sta facendo innamorare
sempre più appassionati grazie
anche al Fusettone, creazione
dei barman di Farmily Group. E dopo
il successo di Fusetti Nature e l’edizione limitata American
Edition, Bitter Fusetti celebra quest’anno il suo terzo
compleanno sbarcando con un’edizione esclusivamente
hot su OnlyFans, esplorando nuove frontiere con Bitter
Fusetti Banana, il primo ed unico bitter al mondo a base
di rum e infuso di banana. Una versione esotica ed erotica
per volare in altre dimensioni e mondi lontani, come quello
della Tiki Culture. Con Bitter Fusetti Banana si possono
esplorare nuovi gusti ed abbinamenti più inaspettati,
utilizzandolo in cocktail come Mojito e Piña colada. Per
un nuovo must che supera il classico aperitivo all’italiana.
De Santis lancia una nuova
linea di Gin da abbinare
ai panini gastronomici
Paninoteca iconica di Milano sin dal 1964, De Santis introduce
una nuova dimensione nella propria offerta gastronomica
con il lancio della sua prima linea di gin artigianale.
Questa audace mossa rappresenta un nuovo
capitolo nell’evoluzione del marchio, che ha sempre puntato
sulla qualità e sulla dedizione al mondo del cibo. La
passione di De Santis per l’eccellenza culinaria si estende
ora alla mixology con il debutto di tre nuovi gin artigianali:
De Santis London Dry Gin, Distilled Gin XO e L’Amaro.
Tutti prodotti secondo le ricette originali della paninoteca
in collaborazione con Trip Distillery, sono un tributo
all’autentica artigianalità milanese che ha caratterizzato il
marchio per oltre cinque decenni. Il London Dry Gin sorprende
per la sua intensità e un bouquet aromatico complesso.
Nel caso del Distilled Gin XO, l’infusione di rovere
dopo la distillazione aggiunge profonde note di legno e
resina, con tocchi di pane tostato, mandorla e vaniglia, rendendolo
adatto anche da sorseggiare da solo. Infine, L’Amaro
offre un carattere deciso e un gusto avvolgente, con
liquirizia, caramello, radici amare, anice verde, menta, camomilla
e lavanda che si combinano in un mix intrigante.
DISTILLATI – LIQUORI – AMARI