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Bruce Nauman, Eleven Color Photographs, 1966-1967/70<br />

quadro di Jenny Holzer dove su un fondo bianco campeggia<br />

la scritta rossa a caratteri cubitali: “Someone<br />

wants to cut a hole in you and fuck you through it,<br />

buddy”.<br />

Non c’è dubbio che l’effetto è simile a un pugno nello<br />

stomaco: anche per chi non ha ricevuto un’educazione<br />

da signorina vittoriana, l’accumulo di tutte queste immagini<br />

– una dopo l’altra arrivano a oltre cento – alla<br />

fine provoca un senso di nausea e stordimento.<br />

E se anche accettiamo che questa sia arte, se anche<br />

crediamo che dopo due guerre mondiali, Hiroshima,<br />

Auschwitz, Chernobyl, il genocidio in Rwanda a colpi<br />

di macete, le fosse comuni in Bosnia, gli stupri etnici<br />

nel Darfur, la mucca pazza e il buco nell’ozono, sia<br />

impossibile dipingere le Veneri come Tiziano o scolpire<br />

l’armonia del corpo umano come Michelangelo<br />

o Canova, ci rendiamo conto tuttavia che in questa<br />

estetica dello stercorario c’è qualcosa che va oltre le<br />

ragioni del confronto con l’arte dei secoli precedenti.<br />

Non è solo il fatto che il corpo dell’arte riproduce la<br />

mutilazione del corpo stesso del mondo. Deve esserci<br />

ancora un’altra spiegazione. Perché c’è qualcosa di<br />

strano, di inspiegabile, nel fatto che tutte queste deiezioni,<br />

suppurazioni, fermentazioni e infezioni valgano<br />

in realtà milioni di euro.<br />

David Wojnarowicz, Bad Moon Rising, 1989<br />

IN QUESTA ESTETICA DELLO STERCORARIO C’È QUALCOSA CHE VA OLTRE LE RAGIONI DEL CONFRONTO CON L’ARTE DEL PASSATO<br />

Nan Goldin, Statue with flowing breasts, Amalfi, 1996<br />

Potrebbe essere normale, nello spirito del tempo, che<br />

quest’arte venga prodotta, ma poi dovrebbe essere<br />

altrettanto normale che fatichi a trovare un mercato<br />

e a essere esposta nei musei. Sarebbe logico, sarebbe<br />

comprensibile. Come è sempre stato. Una scena<br />

d’amore con Venere e Marte è sempre costata più di<br />

un quadretto con i mendicanti nelle strade della Roma<br />

del Seicento. E allora che cosa, che cosa può spiegare<br />

il valore della merda nell’arte che, come insegna quella<br />

inscatolata negli anni Sessanta da Piero Manzoni<br />

con tanto di scritta “merda d’artista”, vale a peso infinitamente<br />

più dell’oro?<br />

Uno degli artisti più quotati, l’americano Jeff Koons,<br />

l’ha teorizzato chiaramente: “In un mondo dove tutto<br />

Inez van Lamsweerde & Vinoodh Matadin, Bjork: Hidden Place, 2001<br />

è basato sul denaro, ciò che fa un’opera d’arte è il suo<br />

prezzo”.<br />

E chi stabilisce il prezzo? Forse una risposta possono<br />

darla la discesa massiccia nel mondo dell’arte<br />

dei pubblicitari (vedi Charles Saatchi, inventore della<br />

Young British Art e Damien Hirst), di grandi finanzieri<br />

come i francesi François Pinault e Bernard Arnault,<br />

a capo di marchi multinazionali del lusso, delle case<br />

d’asta Christie’s e Sotheby’s e di fondazioni artistiche,<br />

e infine la globalizzazione dei marchi museali. La<br />

loro rete economica, una forza capace di trasformare<br />

chiunque in un artista vendibile a 25/50 mila euro<br />

a foto, ha creato un’economia parallela dove anche<br />

i “rifiuti artistici” valgono milioni, esattamente come<br />

gli excreta dell’iperconsumismo delle nostre città, da<br />

smaltire quotidianamente a peso d’oro con un business<br />

ormai più redditizio di quello della cocaina.<br />

È l’economia globale, bellezza: che sia arte, merda o<br />

scarpe non fa differenza per il profitto.<br />

URBAN 31

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