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nostro lunedì - Regione Marche - Cultura

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48<br />

Per più di un anno, tutti i giorni tranne la domenica, ho vissuto nella sartoria<br />

di mio zio. Sembrava la soluzione più ragionevole per occupare il tempo senza<br />

affaticarsi. Il dottore aveva detto che per un po’ non dovevo fare niente.<br />

Non ero proprio malato. Ero un figlio della guerra, anemico e stanco. “Aria<br />

buona, mangiare, dormire.” E un lungo periodo senza doveri: “Fategli fare<br />

quello che gli piace”. Mi chiesero cosa mi piaceva.<br />

Non lo sapevo, ma non volevo fare brutte figure. Risposi con la prima idea che mi<br />

venne in mente: stare nella sartoria di zio Guglielmo. E così fu. Mentre i miei compagni<br />

si preparavano per la licenza media, io non feci altro che guardare e ascoltare<br />

quello che succedeva fra quelle quattro mura. E anche quando stavo a casa<br />

continuavo a pensarci. Ogni giorno, per giustificare la fortuna di non frequentare<br />

la scuola, mi dicevo che stavo andando a studiare l’umanità.<br />

In quell’anno ho imparato che per non annoiarsi bisogna stare sempre attenti<br />

ai particolari e confrontare continuamente tutto con tutto. È così che ci si rende<br />

conto che si è circondati da misteri.<br />

C’era un gruppetto d’uomini vicino all’angolo del vicolo.<br />

Dario si accostò per guardare. Un tale stava facendo il gioco<br />

delle tre carte sopra un ombrello aperto, assistito da un compare<br />

che raccoglieva le puntate. L’uomo si faceva passare le<br />

tre tavolette da una mano all’altra con grande rapidità scoprendo<br />

di tanto in tanto la vincente. In prima fila, un sergente<br />

maggiore dell’Aeronautica si voltò e disse: - Non spingete,<br />

non si respira. - Il maresciallo che gli era accanto non<br />

staccava gli occhi dalle tavolette che passavano sempre più<br />

rapidamente tra quelle mani. L’uomo mostrò ancora una volta<br />

la vincente e un attimo dopo arrestò il gioco, lasciando le<br />

tavolette allineate l’una accanto all’altra, identiche sul nero<br />

dell’ombrello. Il maresciallo allungò una mano e ne toccò<br />

una col dito (anche Dario, chiunque avrebbe detto che era<br />

quella): l’uomo la voltò naturalmente non era.<br />

Il sergente prese il maresciallo per un braccio. - Andiamo, -<br />

disse. - Aspetta. Questa volta è l’ultima sul serio.<br />

- Vieni via, - insistè il sergente. – Ti farai fregare fino all’ultima<br />

lira. - chi frega! – fece l’uomo, offeso, - chi frega!<br />

C’era appena una sfumatura di aggressione, nella voce: non<br />

voleva mettersi a litigare con nessuno, e meno che mai con<br />

un militare. - Accettate duecento? - disse il maresciallo cavandole<br />

dal portafogli. Il compare le prese.<br />

L’uomo aveva appena ricominciato a maneggiare le tavolette<br />

– pareva proprio un prestigiatore - quando s’udì un passo<br />

affrettato in fondo al vicolo. L’uomo alzò gli occhi, raccolse<br />

le tavolette e richiuse di colpo l’ombrello. – Scusate, - disse<br />

il compare restituendo le duecento lire al maresciallo.

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