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Antoine Auguste Parmentier<br />

più remota finora rinvenuta sul loro legame con<br />

la coltura <strong>della</strong> patata permette di arretrare fino<br />

al 1701, non oltre, quando un commerciante di<br />

Nordhausen portò un po’ di tuberi a una comunità<br />

stanziata nella regione del Württemberg,<br />

perché li coltivassero “per la loro sussistenza e per<br />

goderne com’erano abituati fin dal loro soggiorno<br />

nelle Valli valdesi del Piemonte” [PONS 1985,<br />

pagine 31-50].<br />

Semplificando, potremmo riassumere la storia<br />

dell’ingresso <strong>della</strong> nuova coltura in Europa attraverso<br />

due itinerari. Entrambi partono dalle Ande<br />

peruviane: il primo passa per la Spagna e Genova,<br />

da dove sono irradiate nel centro Italia e nelle<br />

valli del Piemonte occidentale, poi in Germania e<br />

quindi in Francia; il secondo passa per le colonie<br />

inglesi <strong>della</strong> Virginia e, da qui (in seguito a una<br />

spedizione di Francis Drake del 1588), conduce<br />

nelle Isole britanniche, in particolare in Irlanda<br />

[SALAMAN 1989].<br />

In Italia, benché giunte presto, le patate iniziano<br />

ad affermarsi solo nei decenni di passaggio tra<br />

Sette e Ottocento, per merito di agronomi, innovatori<br />

e parroci che, nel tubero, vedono una valida<br />

alternativa al frumento nei tempi di carestia:<br />

Alessandro Volta (1745-1827), nel Comasco;<br />

Antonio Zanon e Vincenzo Dandolo (1758-1816)<br />

nel Veneto; Filippo Re, nel Bolognese; Vincenzo<br />

Virginio (1752-1830), in Piemonte; Michele<br />

Dondero (1744-1813), nel Genovesato, per non<br />

citarne che alcuni. Ma perché è occorso tanto<br />

tempo? Certamente per superstizione e diffidenza<br />

verso una pianta ignota, sospetta, i cui fiori<br />

assomigliano a quelli <strong>della</strong> velenosa erba morella<br />

(Solanum nigrum) e di cui per molto tempo non si<br />

conoscono le parti commestibili, né si sa come<br />

cucinarle.<br />

Ma nel corso del Settecento, i motivi di resistenza<br />

sono lentamente superati dalla necessità di<br />

affrontare le ricorrenti carestie, generate non<br />

tanto dalle diminuite produzioni, quanto dal progressivo<br />

aumento <strong>della</strong> popolazione, tale da<br />

costringere a una crescente mobilità degli uomini<br />

in cerca di lavoro stagionale o di elemosina. E nes-<br />

sun prodotto sembrava, a tale scopo, più adatto<br />

<strong>della</strong> patata che rende, a parità di terreno impiegato,<br />

più del doppio del granoturco e ancora di<br />

più rispetto al frumento e ai legumi.<br />

Delle patate, a Genova, si inizia a discutere nel<br />

1779, quando il settimanale “Avvisi di Genova”<br />

pubblica la notizia di un trattato scritto dall’agronomo<br />

francese Antoine Auguste Parmentier<br />

(1737-1813) sulla Maniera di fare il pane di pomi<br />

di terra senza mescolarvi pur un poco di farina: da<br />

questo momento e ancora per molto tempo, la<br />

possibilità di panificare i “pomi di terra” diviene<br />

il modo più efficace per fare pubblicità alla nuova<br />

coltura e per incoraggiarne la diffusione [vedi le<br />

ricette a pagina 115].<br />

Dopo la pubblicazione di altri interventi sul<br />

medesimo argomento, un lettore, incuriosito,<br />

chiede notizie sulla tecnica di coltivazione. Come<br />

risposta, tra fine agosto e inizi settembre, vengono<br />

fornite alcune semplici istruzioni; pochi mesi<br />

più tardi intorno a Genova inizieranno le prime<br />

semine.<br />

L’introduzione <strong>della</strong> nuova coltura nel dominio<br />

<strong>della</strong> Repubblica era stata tentata alcuni anni<br />

prima. Se ne parla in un breve trattato intitolato<br />

De’ pomi di terra, ossia patate, stampato a<br />

Genova nel 1793 a cura <strong>della</strong> Società Patria di Arti<br />

e Manifatture, dove, dopo avere ricordato un episodio<br />

avvenuto nel 1764 (quando, intorno alla<br />

Certosa di Firenze, le patate avevano permesso di<br />

superare un momento di carestia), si afferma che<br />

successivamente a Chiavari ci fu un primo tentativo<br />

di coltivazione.<br />

Potrebbe trattarsi dell’esperimento tentato da<br />

Pietro Casaretto che nel 1774, tornato a Chiavari<br />

dall’America, fece seminare alcuni tuberi in un<br />

giardino «da lui scelto a provare la produzione di<br />

questo cibo, che dovea poi rendersi tanto utile e<br />

universalmente usato» [Biografia, manoscritto,<br />

1855, pagina 19].<br />

Dopo la propaganda fatta attraverso gli “Avvisi”,<br />

le iniziative e le pubblicazioni curate dalla Società<br />

Patria di Genova (dal 1786) e dalla Società<br />

14 15<br />

Dei Pomi di terra ne avete<br />

parlato anche troppo,<br />

facendone ora del pane,<br />

ora del cascio [formaggio];<br />

ed ora guarendone dallo<br />

scorbuto, quando l’avessimo.<br />

Non so capire<br />

per altro, per qual ragione<br />

voi, che mostrate di averli<br />

in tanto conto,<br />

e li giudicate come<br />

una produzione preziosa,<br />

non ci insegniate poi<br />

la maniera di coltivarli.<br />

“Avvisi” 1779, numero 124<br />

Un illustre intelligentissimo<br />

Amatore, persuaso<br />

dalla ragione e dal fatto<br />

dell’utilità di queste<br />

benefiche radici ne fece<br />

trapiantare una buona<br />

porzione nelle sue tenute<br />

di Chiaveri [Chiavari].<br />

Questa coltura per altro<br />

fu assai presto negletta<br />

da quei Contadini per<br />

un falso principio crudele,<br />

ch’escluder vorrebbe<br />

[…] tutto ciò,<br />

che sente di novità.<br />

De’ pomi di terra, 1793,<br />

pagina 38.

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