Sonetti contro l'Ariosto, giudice de' Savi in Ferrara - Carla Rossi ...

Studi e Ricerche 

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In copertina: Francesco Bonsignori, Ritratto del Pistoia (?), tempera su tavola (32 x 

28 cm), collezione G. G. Poldi Pezzoli, Milano.

Antonio Cammelli 

(il Pistoia) 

Sonetti contro l’Ariosto, 

giudice de’ Savi in Ferrara 

Edizione critica a cura di 

Carla Rossi 

Edizioni dell’Orso 

Alessandria

© 2006 

Copyright by Edizioni dell’Orso s.r.l. 

via Rattazzi, 47 15100 Alessandria 

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Impaginazione a cura di Isabella M. Grasso 

È vietata la riproduzione, anche parziale, non autorizzata, con qualsiasi mezzo effettuata, 

compresa la fotocopia, anche a uso interno e didattico. L’illecito sarà penalmente 

perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22.04.41 

ISBN 88-7694-000-0

Erostrato: “Pasifilo, entra in casa, e va’ ne la 

cucina, e fa’ cuocere e disporre quelle vivande 

a tuo arbitrio!” 

Pasifilo: “Se mi avessi fatto Iudice de’ Savi, 

non mi davi uffizio che più secondo il mio 

appetito fussi! Io vi vo di botto”. 

Ludovico Ariosto, I Suppositi, Atto V, Scena II

Tavola delle abbreviazioni 

Nel testo vengono utilizzate queste sigle e citate in forma abbreviata le seguenti 

opere: 

BCA Biblioteca Comunale Ariostea, Ferrara 

BNF Biblioteca Nazionale Centrale, Firenze 

BORSETTI F. BORSETTI, Serie dei giudici dei Savi e dei Savi del Maestrato 

della città di Ferrara dall’anno 1321 sino al corrente 1760, 

Ferrara, Biblioteca Comunale Ariostea, Ms Classe I, 492. 

CALEFFINI U. CALEFFINI, Croniche, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. 

Vat. Lat. 9263 (già I, 1, 4, della Chigiana). 

CF Rime edite ed inedite di Antonio Cammelli detto il Pistoia, a c. 

di A. CAPPELLI e S. FERRARI, Livorno, Vigo, 1884. 

Diario ferrarese B. ZAMBOTTI, Diario ferrarese dall’anno 1476 sino al 1504, a 

c. di G. PARDI, appendice al Diario Ferrarese, in RIS 2 , XXIV/7 

(1928) 

FANFANI P. FANFANI, Vocabolario della Lingua Italiana, Firenze, 1905. 

HONDEDIO Hondedio di Vitale, Cronaca, Ferrara, BCA, Coll. Antonelli, Ms 

257. 

LD Archivio di Stato di Modena, Cancelleria ducale, Leggi e decreti. 

Rettori Archivio di Stato di Modena, Cancelleria ducale, Carteggi dei 

rettori dello Stato. 

RIS 1 Rerum Italicarum Scriptores, a c. di L. A. MURATORI, Milano, 

Società Palatina, 1723-51. 

RIS 2 Rerum Italicarum Scriptores, a c. di G. CARDUCCI e V. FIORINI, 

Bologna, Zanichelli, 1900-… 

SACCHETTI Franco SACCHETTI, Il Libro delle Rime, a c. di A. CHIARI, Bari, 

Laterza, 1936. 

Statuta Ferrariae Statuta Ferrariae. Anno MCCLXXXVII, a c. di W. MONTORSI, 

Cassa di Risparmio, Ferrara 1955. 

TIRABOSCHI G. TIRABOSCHI, Dizionario topografico-storico degli Stati Estensi, 

Tip. Camerale, Modena 1824-25. 

Vacchette Archivio Storico Comunale di Modena, Camera segreta. 

Villani, Cronica Giovanni Villani, Nuova cronica, a c. di G. PORTA, 3 voll., Parma, 

Fondazione Pietro Bembo, Milano, Guanda, 1990-1991.

2 Sonetti contro l’Ariosto 

Voc. Crusca Il Vocabolario degli Accademici della Crusca, Venezia 1612. 

Edizione elettronica, Accademia della Crusca - Scuola Normale 

Superiore CRIBeCu, 2001.

Premessa 

Nel 1865, Antonio Cappelli pubblicava a Bologna, presso Romagnoli, la 

princeps dei Sonetti giocosi di Antonio da Pistoia, costituita da venti componimenti 

tratti in parte dal codice a. H. 6. I della Biblioteca Estense di Modena, e in 

parte dal ms. D. 313 della Forteguerriana di Pistoia, cui aggiungeva, in appendice, 

ventitré sonetti adespoti contro Niccolò Ariosto, il quale, dal 28 gennaio del 

1486 sino alla fine di dicembre del 1488, aveva ricoperto la carica di Giudice dei 

Dodici Savi di Ferrara e che è passato alla storia più per essere il padre di Ludovico 

che per particolari meriti personali. 

La singolare collana di sonetti caudati contro l’Ariosto è tràdita da un solo 

codice miscellaneo latino e italiano di prose e versi di vari autori: il Lat. 228 = a. 

W. 2. 11 della Biblioteca Estense Universitaria di Modena, che la contiene alle 

cc. 179r-188v. Il manoscritto è stato esemplato quasi interamente dal patrizio e 

letterato ferrarese Gaspare Sardi (1480-1559) 1 , sebbene i Sonetti contro l’Ariosto 

appaiano di altra mano. 

In quella sede, il Cappelli avanzò per primo, ancorché senza argomentazioni 

convincenti 2 , l’ipotesi che l’autore dei componimenti satirici contro il conte 

Ariosto fosse Antonio Cammelli, detto il Pistoia (1436-1502), uno dei maggiori 

poeti burleschi del nostro Quattrocento, acclamato e celebrato in vita e ancor più 

nel Cinquecento 3 , pur tuttavia generalmente negletto dalla critica contemporanea. 

A favore dell’attribuzione si espresse in seguito Giosuè Carducci, nel Saggio 

sulle poesie latine di Lodovico Ariosto 4 e Giulio Bertoni, nel 1910, scriveva 

che gli argomenti del Cappelli «non raggiungono, per comune consenso, il valo- 

1 Autore, tra l’altro, del Libro delle historie ferraresi, edito per la prima volta a Ferrara, 

presso Francesco Rossi da Valenza, 1556. 

2 A. CAPPELLI, Sonetti giocosi di Antonio da Pistoia e sonetti satirici senza nome 

d’autore, Bologna, Romagnoli, 1865, p. 16. 

3 Dal Castiglione nel Cortegiano, II 67; dal Berni (che possedette il prezioso “codice 

Gianninello”); dal Bandello in una delle sue Novelle, I XXXIV; da Niccolò Franco nelle 

Rime contro l’Aretino; dall’Aretino stesso nel Ragionamento delle Corti e ancora dall’Ariosto 

nelle Satire (VI: «Ma se degli altri io vuo’ scoprir gli altari, /tu dirai che rubato e 

del Pistoia /e di Petro Aretino abbia gli armari»), dal Manfredi e dal Casio. 

4 G. CARDUCCI, Saggio sulle poesie latine di Lodovico Ariosto, Zanichelli, Bologna, 

1876, p. 31.


re d’una dimostrazione, ma hanno più d’una presunzione di coglier nel vero» 5 ; 

mentre nel 1953, Antonio Piromalli notava: «come ebbe a riconoscere ampiamente 

Vittorio Cian, il Pistoia che fu costretto a vivere presso le corti non si 

confonde con la turba dei verseggiatori prezzolati […] fu poeta anticortigiano e 

antiestense perché il sistema di vita che derivava dalla corte estense venne da lui 

satireggiato con amarezza: la corruzione dei funzionari, la vanità dei letterati, la 

crudeltà dei magistrati e capitani di giustizia hanno nel Pistoia un coraggioso denunciatore 

e per tale motivo non ci meraviglieremmo se si accertasse la sua paternità 

dei sonetti contro Niccolò Ariosto» 6 . 

La produzione del Pistoia, che comprende un poemetto giovanile in ottava rima, 

l’Istoria di Patroclo e d’Insidoria 7 , più di cinquecento sonetti satirici e politici, 

una tragedia, Pamphila (considerata dagli storici della letteratura la prima 

opera teatrale italiana che si discosti dalla forma delle rappresentazioni popolari 

e si avvicini alla classica), una commedia, De Amicitia, purtroppo oggi perduta, 

una frottola, Madonna mia illustrissima ed un capitolo, ascrivibile al genere della 

“disperata”, è stata finora raccolta ed edita disordinatamente (soprattutto per 

quel che riguarda i problemi ectodici legati alla tradizione manoscritta), senza i 

necessari collegamenti fra i singoli testi e, soprattutto, senza una contestualizzazione 

storico-culturale. 

Studiato con moderato interesse verso la fine dell’Ottocento, come attestano 

anche alcune stampe, pubblicate soprattutto in occasione di nozze, riscoperto e 

edito da Erasmo Pèrcopo agli inizi del Novecento, il pistoiese è stato, tuttavia, 

trascurato dalla critica contemporanea, che gli ha negato sinora un’indagine organica, 

tanto che la pubblicazione più importante sul suo conto, in epoca relativamente 

recente, resta la sola voce curata da Domenico De Robertis per il DBI 8 . 

Grazie ad una sovvenzione del Fondo Nazionale Svizzero per la Ricerca 

Scientifica, ho perciò intrapreso il vasto progetto di edizione dell’intero corpus 

lirico del Pistoia, iniziando dalla pubblicazione di uno dei più singolari componimenti 

del poeta toscano: la Disperata 9 , capitolo in terza rima posto a mo’ di 

epilogo del suo canzoniere burlesco; per proseguire poi con il presente studio dei 

Sonetti contro l’Ariosto (ripubblicati qui nel maggiore rispetto del codice unico 

5 G. BERTONI, Intorno a un sonetto dialettale attribuito al Pistoia, in «Giornale storico 

della letteratura italiana», vol. LV, Torino, Loescher, 1910, pp. 455-457. 

6 Cfr. A. PIROMALLI, La cultura a Ferrara al tempo di Ludovico Ariosto, Firenze, La 

Nuova Italia, 1953, p. 149. 

7 Tràdito anonimo dal solo codice BNF Palatino 219, ma, come spero di dimostrare 

nella mia monografia dedicata al Pistoia di prossima pubblicazione, senz’altro attribuibile 

al Cammelli. 

8 D. DE ROBERTIS, Cammelli Antonio, in DBI, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 

1960-, XVII, ad vocem, pp. 277-86. 

9 C. ROSSI, La “Disperata”, capitolo conclusivo dei “Sonetti faceti” del Pistoia, in 

«LIA», 6 (2005), pp. 43-61.

Premessa 

che li contiene) 10 , e terminare infine con una monografia, corredata dall’edizione 

critica dei più importanti sonetti politici, lubrici e satirici del pistoiese e da alcune 

opere tràdite anonime, che vanno indiscutibilmente restituite al Cammelli. 

Dopo aver sottoposto la collana dei sonetti contro il Giudice de’ Savi ad 

un’accurata analisi critica, stilistica e linguistica, sono giunta alla conclusione 

che dei 23 sonetti polemici volti a colpire l’avidità del conte Niccolò, personaggio 

pubblico tristemente noto ai sudditi del ducato estense, 21 sono certamente 

usciti dalla plume, avvelenatissima, del Pistoia, mentre altri due sono di un secondo 

autore (con ogni verosimiglianza Lelio Manfredi) 11 , il quale intervenne 

apertamente a dar man forte al Nostro. 

Ho approntato quest’edizione commentata con l’obiettivo di rilanciare, in una 

prospettiva ermeneutica consona, l’opera lirica del poeta satirico toscano. A tale 

scopo l’Introduzione colloca i Sonetti contro l’Ariosto nel contesto storico-politico 

nel quale essi vennero elaborati; si passa poi all’esegesi della singolare collana, 

segnalando, a piè di pagina, le poche correzioni apportate al manoscritto e le 

molte inesattezze della stampa del 1865 (riedita nel 1884 a cura di Cappelli e 

Ferrari) 12 ; infine, la parafrasi di ogni componimento e il commento ai singoli sonetti 

tenteranno di penetrarne la particolare veste linguistica. 

Com’è noto, nel Quattrocento, dalla poesia del Burchiello prese corpo una 

produzione burlesca e satirica che interessò una messe di autori disseminati in 

tutta Italia e che trovò sfogo nel linguaggio allusivo e a doppio senso dei canti 

carnascialeschi. Una produzione che continuò nel Cinquecento col Folengo, col 

Berni e con i burleschi che fecero capo alla romana Accademia dei Vignaioli o 

con i toscani dell’Accademia degli Umidi, cui aderirono, tra gli altri, il poeta-pittore 

Agnolo di Cosimo, detto il Bronzino 13 , Anton Francesco Grazzini, detto il 

Lasca 14 e, tra i minori, l’Amelonghi e il Serafini (autori di argute rime giocose 

10 Riproduco i sonetti quali si leggono nel citato codice estense, perché più facilmente 

si rilevino e correggano le molte inesattezze della stampa del Cappelli, pubblicata, tra 

l’altro, senza l’ausilio di un adeguato commento. Il mio obiettivo è quello di offrire un 

contributo per un’indagine filologicamente, letterariamente e storicamente più approfondita 

attorno all’opera del Pistoia. 

11 Traduttore del Tirant lo Blanc di Joanot Martorell negli anni Dieci del Cinquecento. 

Sul Manfredi, cfr. C. ZILLI, Notizia di Lelio Manfredi, letterato di corte, in «Studi e 

problemi di critica testuale», XXII (1983), pp. 39-54. 

12 A. Cappelli ripubblicò, infatti, insieme con S. Ferrari (Cfr. CF), nel 1884, i ventitré 

sonetti in Rime edite e inedite di Antonio Cammelli detto il Pistoia, Livorno, Vigo, pp. 

250-277. 

13 Poeta burlesco di notevole raffinatezza, autore, tra l’altro, di una collana di sonetti 

contro il Castelvetro dal titolo I Salterelli dell’Abbrucia sopra i Mattaccini di ser Fedocco, 

a c. di C. ROSSI, Roma, Salerno Editrice, 1998. 

14 Anton Francesco Grazzini, Le rime burlesche edite e inedite, a c. di C. VERZONE, 

Firenze, Sansoni, 1882. 

5


d’occasione), esponenti d’una lirica che scelse le vie della mimesi burlesca, del 

rifacimento parodico, dell’invettiva e della satira e che non disdegnò il latino 

macaronico, il gergo ionadattico, il dialetto (usati, s’intende, con estrema consapevolezza 

e perizia stilistica). 

Se si vuole tracciare una mappa aggiornata della poesia burlesca quattro-cinquecentesca 

e seguire, in tutte le sue ramificazioni, l’accidentato percorso che 

dal Burchiello conduce al Berni, non si può non passare per il Pistoia, come ha 

sottolineato Adriana Mauriello 15 , e non si può non dedicare a questo poeta l’attenzione 

che merita, anche per comprendere le ragioni di una diaspora che il mecenatismo 

di Lorenzo il Magnifico non volle e non potè fermare ed il singolare 

intreccio di culture diverse prodottosi nelle corti settentrionali, dove si giunse 

addirittura a favorire una sorta di colonizzazione da parte dei letterati toscani. 

15 Cfr. A. MAURIELLO, L’edizione dei “Sonetti faceti” di Antonio Cammelli, in 

«Esperienze letterarie» (1999), pp. 51-67.

1. Il “Giudice de’ Savi” di Ferrara 

I 

Introduzione 

Il 28 gennaio del 1486, il ferrarese Niccolò Ariosto, investito alcuni anni prima 

del mero titolo di conte (senza feudo) dall’Imperatore Federico III, già capitano 

della cittadella di Reggio dal 1472 al 1480, capitano in Polesine durante la 

guerra contro i veneziani (1481-82) e tesoriere generale delle milizie estensi, 

venne nominato dal proprio protettore, il duca Ercole I d’Este, “Giudice de’ XII 

Savi”, ossia capo dell’amministrazione comunale di Ferrara 16 . 

Michele Catalano, nella sua biografia di Ludovico Ariosto 17 , si domanda come 

avesse fatto il padre del poeta ad ottenere una carica tanto prestigiosa e avanza 

l’ipotesi che l’avesse comprata, come avveniva allora per molti impieghi di 

corte e del comune. La verità storica è, se possibile, anche peggiore: sappiamo 

difatti che il duca aveva un debito aperto con il neo-conte il quale, nel 1471, aveva 

partecipato al complotto, ordito a Modena, per uccidere il legittimo duca di 

Ferrara, Niccolò di Lionello d’Este. La nomina dell’Ariosto a Giudice dei Savi 

serviva, verosimilmente, all’estense per disobbligarsi e al conte per trarne facili 

guadagni ed un certo potere. Nel Quattrocento, infatti, il principale organo del 

comune di Ferrara era il consiglio dei Savi (derivante dal minor consiglio medievale), 

i cui membri venivano nominati direttamente dal duca, al pari del Giudice 

che li presiedeva e di ogni altro ufficiale e magistrato cittadino, compreso il massaro 

che gestiva le entrate del comune. 

Quella di Giudice dei Savi, definito «pater moderatorque patriae et praefectus 

universitatis» 18 , sebbene fosse una carica di grande prestigio all’interno del consiglio, 

comportava mansioni in realtà piuttosto circoscritte che si limitavano, per 

lo più, a compiti di rappresentanza: immissione nell’officio del podestà 19 , posi- 

16 La carica equivaleva a quella di Gonfaloniere in altre città. 

17 M. CATALANO, Vita di Ludovico Ariosto, Ginevra, Olschki, 1931, I, p. 61. 

18 Cfr. Statuta Ferrariae, Anno MCCLXXXVII, cc. 1r-v. 

19 Le cronache ferraresi ricordano, ad esempio, l’immissione in ufficio da parte dell’Ariosto 

del podestà Jacomo Baiardo, gentiluomo di Parma, nel gennaio del 1487: 

«acompagnato a cavallo da li zentilhomini con le trombe e coi stendardi. Al quale el Magnifico 

Zudexe di XII Savii, messer Niccolò di Ariosti, ge dette la bacheta al tribunale, 

in presentia di XII Sapienti» (Diario ferrarese, p. 177).


zioni d’onore nelle cerimonie e nelle processioni cittadine, ordinaria amministrazione 

in materia di rifornimento annonario, fiscalità, igiene e istruzione pubblica. 

Fu proprio dal controllo diretto del fisco che molti Savi trassero i loro maggiori 

guadagni, sovente senza che il duca fosse al corrente dei loro traffici. 

«Di fatto l’unica sfera in cui i Savi si muovevano con una certa autonomia 

era la redazione degli estimi civili e rurali e delle altre forme di rilevamento della 

popolazione, in base a cui oltre alle “colte” stabilite dal comune venivano ripartite 

anche alcune imposte e gravezze straordinarie istituite dal Signore» 20 . Le 

linee guida erano sempre stabilite dal duca e dai suoi collaboratori, di cui i Savi 

si limitavano a eseguire le decisioni con scarsi margini di iniziativa. Presso l’Archivio 

Storico di Ferrara sono conservati i registri contenenti le Deliberazioni 

dei Savi 21 ; è assai indicativo il fatto che il consiglio, solo sporadicamente menzionato 

negli statuti quattro e cinquecenteschi, non avesse neppure una sede propria 

e si riunisse in alcune sale del priorato di San Romano (antico monastero già 

semiabbandonato nel Quattrocento), da dove nel 1474 si trasferì, in affitto, in 

una camera del palazzo di corte, accanto ai locali del Consiglio segreto. 

Lo scarso peso politico del consiglio si rifletteva sulla sua composizione: se è 

vero che per tutto il Quattrocento le famiglie che contavano il più alto numero di 

Savi fra i propri membri appartenevano tutte a quelle che un cronista ferrarese 

come il Caleffini definiva genericamente «case di zentilhomini», va però sottolineato 

come numerose casate fra le più antiche, potenti e prestigiose se ne mantennero 

sempre lontane, proprio perché la carica comportava un’implicazione 

personale nel controllo di tasse, denari, mercati e nel rapporto diretto con i cittadini. 

Come ha sottolineato Marco Folin: «delle 244 famiglie che entrarono in 

consiglio fra il 1420 e il 1505, solo 38 (15%) sono definibili in termini di ‘gentilizie’: 

esse occuparono complessivamente 337 (25%) dei 1347 seggi disponibili; 

particolarmente presenti furono i Sacrati (11 membri della famiglia occuparono 

59 seggi), gli Ariosto (9 consiglieri, 37 seggi), i Costabili (10 consiglieri, 29 seggi), 

i Perondoli (7 consiglieri, 27 seggi), i Trotti (7 consiglieri, 24 seggi)» 22 . 

Complessivamente, nell’arco del secolo i gentiluomini non occuparono più di un 

quarto dei seggi consiliari; viceversa si segnalavano per l’assidua presenza diverse 

famiglie borghesi: soprattutto giureconsulti, grandi mercanti e banchieri, 

ma anche molti notai, medici, speziali, probabilmente in ossequio all’antica consuetudine 

che parte del consiglio fosse scelto a rappresentare le contrade. 

Si ha dunque l’impressione che il seggio di Savio, oltre che come forma di 

gratificazione individuale, fosse concesso dal duca ottemperando ai desideri delle 

famiglie più coinvolte nei traffici cittadini, e dunque maggiormente interessate 

a gestirne anche gli aspetti economici più minuti. 

20 Cfr. M. FOLIN, Rinascimento estense. Politica, cultura, istituzioni di un antico Stato 

italiano, Bari, Laterza, 2004, p. 76. 

21 Regg. 65 (1393-1796). 

22 FOLIN, Rinascimento estense, cit., ibid.

Introduzione 

L’Ariosto succedeva, nella carica, al ricco e rispettabile Bonifacio Bevilacqua, 

il quale aveva operato con correttezza ed era stimato dalla popolazione; al 

contrario del suo predecessore, il conte Niccolò era un uomo avido e senza scrupoli 

e, come giustamente notava Giuseppe Pardi, «il duca potrebbe aver pensato 

che egli fosse capace di ricavare le maggiori somme possibili dalle imposte comunali. 

L’esonero di Bonifacio Bevilacqua non può essere accaduto perché egli 

avesse fatto guadagni illeciti, ma perché forse non era abbastanza energico nell’imporre 

il pagamento delle tasse e non faceva rendere abbastanza all’erario comunale 

e ducale» 23 . 

Così, già il primo gennaio del 1488, in occasione dell’insediamento di un 

nuovo e giovane podestà a Ferrara, i Savi, nel corso della seduta pubblica, manifestarono 

il loro risentimento nei confronti dell’Ariosto, il cui operato illecito era 

talmente palese da imbarazzare i colleghi 24 ; tanto che, alla fine del 1488, il conte 

Ariosto, a neppure tre anni dalla sua prestigiosa nomina, venne sollevato, repentinamente, 

dal redditizio incarico dal duca che, declassandolo, nel marzo dello 

stesso anno, lo inviò come capitano a Modena. Le cosiddette “vacchette” del comune 

di Modena, custodite presso l’Archivio Storico Comunale, registrano il 

suo ingresso in città fra una gran turba di cittadini: 

Nicolaus de Areostis comes intravit honorifice pro Capitaneo huius alme civitatis 

Mutine magna civium comitante caterva 1489 die XXVIII febr. 

A dar credito ad un anonimo poeta dell’epoca, i modenesi avevano ben poche 

ragioni di festeggiare l’ingresso del nuovo capitano in città: Modena si lamenta e 

dice Oimè / io mi sento doler forte la testa, / perché Ferrara giubila e fa festa, / 

della sua febbre che venir mi dè // Misera agnella mè, che mal per me, / dal gran 

suo lupo in preda son richiesta, / ché se ’l Pastor mio aduito non mi presta, / 

scannata ho già la pelle per mia fé. (son. XXI). Il motivo dell’allontanamento 

del conte Ariosto dalla capitale del ducato estense risiedeva giustappunto nel fatto 

che, nei quasi tre anni trascorsi a capo dell’amministrazione comunale, egli si 

era manifestamente arricchito a spese dei suoi concittadini ed era divenuto celeberrimo 

per le sue insistenti e continue estorsioni, ruberie e violenze. 

Che il padre di Ludovico fosse un uomo violento e iracondo è cosa risaputa 

presso i biografi del poeta e Girolamo Baruffaldi, nella Vita di Lodovico Ariosto 

25 riferisce di una lettera, conservata presso l’Archivio estense, a firma di Niccolò 

in cui il conte, da Modena, si vantava col duca di esser riuscito ad estorcere 

con la tortura ad un povero innocente una dettagliata confessione. 

Il 5 aprile del 1487, il duca Ercole I convocò i Savi, per annunciare loro la 

23 Cfr. Diario ferrarese, p. 172. 

24 Cfr. CATALANO, Vita di Ludovico Ariosto, cit., I, p. 61. 

25 Cfr. G. BARUFFALDI, Vita di Lodovico Ariosto, Ferrara, 1807, p. 23. 

9


sua decisione di partire in pellegrinaggio, alla volta di Santiago de Compostela: 

«Lo illustrissimo et excellentissimo duca nostro, messer Hercule, fece chiamare 

in la camera soa lo magnifico zudexe di XII Savii, messer Nicolò di Ariosti, con 

tuti li XII Savii e molti altri zintilhomini. A li quali parlò in presentia de lo ambasatore 

del duca de Milano […]: “Carissimi e nobilissimi mei cittadini e zintilhomini. 

Domane de matina io son per dirizare il camino mio verso Sancto Jacobo 

de Gallicia […]. Da posa il magnifico zudexe di XII Savii, messer Nicolò di 

Ariosti, subiunse con bono animo e audacemente le seguente parole: “Illustrissimo 

Signore, avenga che la presentia de la Celsitudine vostra sia a nuy tuti più 

grata che il desiderio de quella in soa absentia, niente de meno, habiando deliberata 

de adimpire il vodo facto, ne è forza stare contenti de la volentade vostra, 

perché cusì è sta’ sempre uxanza de questo populo vostro fidelissimo, de stare 

obediente a la volentade de li soi Signori, e cusì io in nome de questo populo 

rengratio la segnoria vostra, quella se habia dignata de domandare licentia de tale 

partita, la quale è in potestà vostra. Per il che nuy comprehenderemo quella 

havere uxato uno grandissimo segno de benivolentia e maxime per averne arecomandato 

il Stato e li fioli, molgie e fratelli: li quali sempre ne sono e seràno al 

cuore per lo caratere de la benivolentia porteremo a vostra Excellentia, la quale 

pregamo divotamente ne volgia aricomandare tuti a le soe segnorie, e nuy pregaremo 

lo omnipotente Dio ve faci andare e retornare felici e con sanitade» 26 . 

Approfittando dell’assenza del duca, partito per Santiago de Compostela, ma 

costretto poi a trattenersi a Roma, presso il Papa sino al 24 giugno, avvenne che, 

a Ferrara, nel corso di un’intera settimana, dal 9 al 15 di giugno del 1487, una 

sorta di Pasquino ante litteram della corte estense, che fece di tutto per mantenere 

l’anonimato (sonetto IX: O tu che saper brami chi sia quello / che sì di Niccolò 

predica e dice, / perdonami ché qui dir non mi lice / il nome mio, ma t’amo 

qual fratello), compose una collana di sonetti, divulgati in piazza e presso la corte, 

per denunciare le rapine e le malefatte del conte Ariosto. Paladino dei poveri, 

il “Detrattore” (come quest’anonimo poeta si definisce nel XII sonetto della sua 

collana) prese a denunciare i furti commessi dal Giudice ai danni della gente del 

contado e dei cittadini ferraresi, dando l’esempio e incoraggiando altri poeti a 

seguirlo nel diffamare pubblicamente in versi l’Ariosto. 

Nelle sue Croniche, Ugo Caleffini ricorda: «Fu adì dicto [9 di giugno] ritrovato 

essere stato atacato cum colla suso ambedue le porte del palatio del duca 

per mezo il Vescoato e s. Domenico e soto le banche di Calegari e in multi altri 

tribi, bischizi e in grandissima vergogna e obrobrio de Niccolò di Areosti, Iudice 

di XII Savij de Ferrara, in rima e non se potè intendere lo auctore e scriptore» 27 . 

D’altronde, l’Ariosto non perse mai il vizio di considerare una cosa sola la 

cassa personale e quella dello Stato estense: nel 1496 il duca fu costretto a to- 

26 Diario ferrarese, p. 182. 

27 Cfr. Vat. Lat. 9263, c. 256: Vergogna del Judice di XII Savj.

Introduzione 

gliergli anche l’ultimo incarico affidatogli, dopo averlo più volte casso e declassato 

da quelli precedenti e dopo avergli chiesto di consegnargli tutte le tasse che 

gli erano dovute (che l’Ariosto aveva fatto abilmente sparire): «A dì 24 dicto 

[nov. 1496] Niccolò di Ariosti da Ferrara, che era commissario in Romagna, a 

Lugo, per il duca Ercole, a furia fu casso de l’offitio suo e condennato in cinquecento 

ducati d’oro et a non dovere mai più avere offizio dal Signore» 28 . 

A Ferrara, l’Ariosto tentò più volte di convincere sia la duchessa Eleonora 

d’Aragona d’Este, moglie di Ercole I, sia il duca stesso, a prender provvedimenti 

contro il suo agguerrito Detrattore (Io sento dir che tu preghi Madama, / che faccia 

fare una grida patente, / per ritrovar colui ch’è sì veemente / in pubblicar la 

tua perversa fama), ma senza successo. 

Come accennato nella Premessa, nel 1865, il Cappelli volle dare un nome a 

questo mordace rimatore, che con tanta veemenza, quattro secoli prima, si era 

scagliato contro l’operato dell’avido Ariosto ed avanzò perciò l’ipotesi che si 

trattasse d’un toscano di nascita e di temperamento, attivo da tempo alla corte 

ferrarese: Antonio Cammelli, detto il Pistoia. 

La proposta di Cappelli merita più attente verifiche, soprattutto dopo che l’unico 

editore moderno di una parte del corpus delle liriche del Pistoia, Erasmo 

Pèrcopo 29 , agli inizi del secolo scorso si pronunciò contro quest’attribuzione, 

senza addurre valide e convincenti giustificazioni al suo dissenso. 

Riprendiamo quindi la vexata quæstio e tentiamo di capire se l’ipotesi timidamente 

avanzata dal Cappelli possa avere un qualche fondamento. Scriveva il 

Cappelli, riguardo alla sua già citata edizioncina di alcuni sonetti del Pistoia, nel 

1865: «La mia raccolta ho divisa in due parti […]. La parte seconda si compone 

di una serie di XXIII sonetti satirici e anonimi contro il Giudice de’ Savi Niccolò 

Ariosto, i quali per più riscontri si direbbero appartenere ad Antonio da Pistoia, 

se non mostrassero natural propensione al dialetto lombardo […] e non si mostrassero 

dettati in Ferrara, quando il nostro poeta n’era lontano». Quasi vent’anni 

dopo, lo stesso Cappelli, nell’edizione delle Rime del Pistoia curata insieme 

con S. Ferrari, corresse il tiro, scrivendo, in merito alla paternità di questi sonetti: 

«ne acquisto maggior persuasione coll’essermi accorto che il codice miscellaneo 

estense ha dove incominciano i sonetti contro Niccolò Ariosto una striscia di 

carta piegata a guisa di segno, nel cui interno si legge di vecchio carattere Antonius 

ex familia Cameli oriunda Pistorio, floruit XV et XVI sec.» 30 . 

Affrontiamo brevemente, qui di seguito, i singoli argomenti del Cappelli, partendo 

innanzitutto dalla data di composizione dei sonetti, per passare poi al discorso 

sulla loro veste linguistica. 

28 Diario ferrarese, pp. 191-2. 

29 E. PÈRCOPO, I Sonetti faceti di Antonio Cammelli, Napoli, Jovene, 1908. 

30 CF xxxij. 

11


2. La data di composizione dei Bischizi 

Come già anticipato, Ugo Caleffini segnalò che durante un’intera settimana 

di giugno del 1487, dal 9 al 15, feroci bischizi 31 vennero affissi un po’ ovunque a 

Ferrara: «Domenica adì 10 dicto ne fue etiam ritrovati de altra manera pure contra 

el dicto Niccolò Areosto. Luni similiter ne fu retrovati de altra sorte. Marti similiter 

ne fu retrovato de altra sorte. Vegneri adì 15 ne fu retrovato multo più vituperosi 

contra el dicto e contra Zoanne Jeronimo Marchese, fiolo che fu de 

Zoanne Ludovico Marchese da Ferrara» 32 . 

Si confonde dunque il Cappelli nell’ascrivere i ventitré sonetti contro l’Ariosto 

al 1497, di conseguenza sbaglia nel dire che, se di mano del Pistoia, essi furono 

causa dell’allontanamento del poeta dal posto di Capitano della porta Santa 

Croce a Reggio Emilia, quello stesso anno 33 : la composizione dei sonetti iniziali 

della corona contro il Giudice dei Savi, infatti, è da ascrivere certamente a dieci 

anni prima e dovette proseguire sino al 1489. 

È lecito però chiedersi se i componimenti cui allude il Caleffini fossero solo i 

ventitré della collana tràdita dal ms. Lat. 228 = a. W. 2. 11 della Biblioteca 

Estense Universitaria di Modena, o se tra i feroci bischizi non ve ne fossero anche 

altri, di diversi autori. 

I sonetti contro Zoanne Jeronimo Marchese sono, come vedremo tra breve, 

certamente tra quelli inclusi nella collana del codice estense. 

Mi pare tuttavia che, tra i Sonetti ferraresi del ’400 in una raccolta di poeti 

cortigiani 34 , tratti da un codice esemplato da Ermete Bentivoglio, negli anni Novanta 

del Quattrocento, ve ne siano di quelli che furono affissi a Ferrara nei fatidici 

giorni in cui più di un rimatore (che maneggiava il verso con perizia e vigoria 

di stile non certo improvvisate) inveì contro l’Ariosto. 

«Fronda, opposizione, circolazione clandestina di versi e libelli satirici fatta 

da nobili, intellettuali e ricchi borghesi: in questo ambiente vengono composti i 

sonetti. È letteratura di opposizione e gli autori, assumono qui la voce dei contadini 

denunciando giudici, sbirri, malgoverno e signori» 35 . 

Si legga, ad esempio il sonetto XXIX (Scene contadinesche) 36 , in cui un contadino 

si appella alla giustizia per avere del grano e si ritrova invece in prigione 

per aver offeso il Giudice: 

31 ‘Bisticci’, ossia ‘giochi di parole’. 

32 Cfr. ms. Vat. Lat. 9263, cit., ibidem. 

33 Ibid., p. xxxi. 

34 Raccolti e trascritti da Ermete Bentivoglio, cavaliere di Ercole I, duca di Ferrara, il 

10 maggio 1494. A c. di M. MILANI, «Giornale Storico della Letteratura Italiana», 1973, 

pp. 292-322. 

35 Ibid., p. 302. 

36 Ibid., p. 297.

Introduzione 

- Mesier lo zuise, fai me dar del gram. 

- El non s’in pole avere. Anda, medì! 

- O Diè el volesse ch’el fusse abonì, 

ch’arà mo fatto tre forna de pam! 

Ne cri che v’abaresse in sta domam. 

- Horsù, livra-la ancuò, che dighi a mi? 

- Potta de l’ango, misser, sta-vu qui 

per far iostisia o per menar le mam? 

- Te me dì vilania, vilam poltrom? 

- Non fo zà mi, messer, muora ch’il fu 

e tutti quei che non volen far rasom. 

- E così sia, se te ’l comporto più. 

- Fatte in zà, Bagatim, e ti, Squarzom! 

Tolli una corda e ligàme costù. 

- Miser, granmarzé a vu. 

E cognosso bem mo che sì cortese 

zà che avì voia de farme le spese. 

Questo Giudice, aiutato da sbirri tristemente noti ai ferraresi, non può essere 

altri che l’Ariosto il quale, tra i suoi scagnozzi, annoverava personaggi dai nomi 

parlanti quali Squarzone e Magagnino (tristi figuri che compaiono anche nella 

collana di sonetti contro l’Ariosto). 

Nella trentesima Scena contadinesca, inclusa nella raccolta di poeti cortigiani 

del Bentivoglio, ritroviamo proprio siffatto Magagnino 37 , in compagnia di Pol da 

Lendinara, protagonista, tra l’altro, anche del sonetto 141 del codice Ambrosiano 

H 223 P. inf., contenente la maggiore silloge delle rime del Pistoia: 

Orsù, brigà, che ’l se vol far din donper allegrezza e strusiar del vin, 

può che l’è casso el nostro Magagnin 

e Pol da Lendenara quel gioton! 

Oh quante volte m’han dà passïon, 

ch’a’ m’arecordo per un bolognin 5 

i me destenne e, se ’l n’era Belin, 

i me cazava in la marza preson! 

Ma questo fu nïente. I vennen può 

a casa mia, da lì a qualche un mese, 

e sì me volsen tuor el carro e i buò. 10 

Ben sai ch’a’ me butiè su le defese 

e sì ghe dissi: O Pol, requia s’tu vo, 

non me voler cazar del Ferarese! 

Magagnin se la prese 

e sì zurò de meterme in gatara 15 

se ’l me poseva coiere a Ferara; 

37 Sonetti ferraresi del ’400, cit., p. 314. 

13


ma Pol da Lendenara 

seppe sì ben menar el barboncello 

che ’l me convene donarghe un agnello. 

I disen può: Fraello, 20 

tiente ben cara la nostra amistà, 

che la te pò zovar in cose’ asà. 

Il feroce Magagnin tornerà, come vedremo tra breve, nei sonetti XII e XVIII 

contro l’Ariosto: evidentemente il soprannome è giocato sul termine magagna, 

associato all’etimo dal latino medioevale magnanus ‘fabbro’. Ma uno sbirro dal 

nome Magagnino appare anche nella Lena di Ludovico Ariosto (atto IV, scena V 

e VII), ambientata proprio a Ferrara. Non stupirà dunque scoprire che, all’epoca 

di Ercole I, uno dei segretari ducali che assistevano anche il Giudice de’ Savi, 

fosse un certo Girolamo Magnanino, il cui cognome ben si presta alla storpiatura 

burlesca. 

M. Milani ricorda che: «a Ferrara le poesie satiriche dovevano avere un loro 

pubblico ristretto, che solo eccezionalmente diventava quello dell’intera città 

quando, al risveglio, i ferraresi trovavano bischizi affissi nei punti più disparati e 

maggiormente frequentati di Ferrara» 38 . 

3. I Sonetti contro l’Ariosto e la tradizione del vituperium 

Se recenti pubblicazioni hanno consentito di acquisire importanti materiali 

critici sulle cosiddette pasquinate romane e sul rapporto Aretino-Pasquino 39 , non 

si è ancora neppure iniziato a lavorare attorno ai precursori dei cosiddetti “pasquinanti”; 

mentre al Gobbo di Rialto di Venezia, al Porcellino di Firenze o al 

“Gegante ’e palazzo” di Napoli sono stati dedicati sino ad oggi pochissimi studi 

critici 40 . 

38 Ibid., p. 299. 

39 Mi riferisco in particolare a tre importanti pubblicazioni della Salerno Editrice: Pasquinate 

romane del Cinquecento, a cura di V. MARUCCI, A. MARZO e A. ROMANO, Presentazione 

di G. AQUILECCHIA, Roma, Salerno Editrice («Testi e documenti di letteratura 

e di lingua», VII), 1983, 2 voll.; Pasquinate del Cinque e Seicento, a cura di V. 

MARUCCI, ivi («Omikron», 32), 1988; Pasquino e dintorni. Testi pasquineschi del Cinquecento, 

a cura di A. MARZO, ivi («Omikron», 35), 1990. Di qualche utilità può risultare 

anche C. RENDINA, Pasquino statua parlante. Quattro secoli di pasquinate, Roma, 

Newton Compton Editori («Quest’Italia», 160), 1991, di carattere più che altro divulgativo. 

Purtroppo resta scoperto in gran parte il Pasquino latino, d’importanza essenziale in 

una cultura radicalmente bilingue qual era quella pontificia. 

40 A. MOSCHETTI, Il Gobbo di Rialto e le sue relazioni con Pasquino, in «Nuovo Archivio 

Veneto», vol. V (1893), pp. 5-85; oltre agli interventi di V. ROSSI, nella «Rassegna 

bibliografica della Lett. It.», I, 184 e nel GSLI, XXII, pag. 295.

Introduzione 

Né si può sostenere che i versi contro il Giudice dei Savi siano genericamente 

ascrivibili al genere comico-giocoso, definizione che mal circoscrive fenomeni 

stilistici diversi: i bischizi affissi a Ferrara non valgono solo come documenti 

storico-politici, ma anche come esibizioni retoriche coram populo di vituperium 

e di parodia. 

Notava a giusto titolo Franco Suitner, nel 1983: «Mario Marti, l’ultimo studioso 

che ha dedicato ampie ed amorose cure a questa poesia, ha difeso efficacemente 

la qualifica di poesia “giocosa” sulle altre possibili. Le sue argomentazioni 

sono assai convincenti e certamente “poesia giocosa” è una etichetta che più 

facilmente copre le varie manifestazioni solitamente avvicinate dalla tradizione 

storiografica. E tuttavia almeno una principalissima ne resta parzialmente fuori: 

il vituperium, la poesia di attacco personale» 41 . 

Tanto nel caso dei Sonetti contro l’Ariosto, quanto per molti sonetti del Pistoia, 

sarà dunque più corretto parlare di vituperatio, piuttosto che, approssimativamente, 

di poesia giocosa, inserendo in tal mondo la nostra singolare corona di 

sonetti nel solco di quella tradizione di cui, in ambito italiano, il fiorentino Rustico 

Filippi fu uno degli iniziatori 42 . 

Le tecniche della vituperatio erano specificatamente contemplate nei trattati 

medievali di ars versificandi: la reprehensio veniva messa in relazione con la 

descriptio personae e rispecchiava il principio del conveniens, ossia della 

conformità tra forma e contenuto. Perfettamente in linea con la tradizione è dunque 

l’espressione di stupore dell’autore dei Sonetti contro l’Ariosto, laddove egli 

nota che non vi è consonanza tra la dignità della carica ricoperta da Niccolò 

Ariosto e il suo operato (come nel secondo componimento della raccolta, vv. 1- 

4): 

Quand’io ben penso a tua strana natura, 

rimango preso in gran confusïone: 

tu magni ’l legno, il marmore, il sabbione, 

il ferro e se gli è cosa ancor più dura. 

Nelle artes si rispecchiavano dei precisi ordines personarum: supreme, infime, 

mediocres (superiores, equales, inferiores): solitamente a una bruttezza fisi- 

41 F. SUITNER, La poesia satirica e giocosa nell’età dei Comuni, Antenore, Padova, 

1983, p. 3. 

42 Per Rustico di Filippo, cfr. la princeps, Le rime di Rustico di Filippo, a c. di V. FE- 

DERICI, Bergamo, Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1899; inoltre Sonetti di Rustico Filippo, 

a c. di V. MENGALDO, Torino, Einaudi, 1971; Rustico di Filippo, Sonetti satirici e 

giocosi, a c. di S. BUZZETTI GALLARATI, Roma, Carocci, 2005 e ancora I trenta sonetti 

realistici di Rustico Filippi, nuove congetture testuali e interpretazioni a c. di M. STAN- 

GHELLINI, Siena, Accademia dei Rozzi, 2004. Per un testo vituperoso di Rustico si pensi 

a Fastel, messer fastidio de la cazza, contro tale Messer Iacopo, ghibellino. 

15


ca corrispondeva una bruttezza morale, come avviene anche per i nostri sonetti, 

si legga ad esempio l’ottavo (vv. 5-8): 

Perché di questo mostro aspro ed orribile 

la istoria te dirò, ch’io son dottissimo 

de’ furti soi, ed ho un libro plenissimo, 

ove cose udirai quasi incredibile. 

Suitner 43 , chiedendosi da dove giunga in Italia questo tipo di poesia, di quali 

linfe culturali si nutra il nostro casalingo vituperium, nota che non è nella poesia 

goliardica, pur importante per altri versanti della rimeria giocosa, che si possono 

cercare i diretti modelli dei componimenti caricaturali e vituperosi dei nostri rimatori: 

«Una posizione di primaria importanza va invece attribuita alla lirica 

provenzale, particolarmente a quella che si sviluppa su suolo italiano. Nelle attuali 

trattazioni sulla poesia comico-realistica toscana questo influsso è decisamente 

non valutato in misura adeguata. […] Per quel che riguarda il vituperium 

infamante, dobbiamo rivolgere la nostra attenzione soprattutto al sirventese» 44 . 

Se, d’un canto, è innegabile che gli immediati precursori dei bozzetti toscani 

caricaturali e vituperosi vadano ravvisati nelle derizorias provenzali (la componente 

vituperosa di molta lirica provenzale, nella tradizione latina dei cantica in 

blasphemiam alterius, è stata più volte evidenziata ed illustrata dalla critica romanza) 

45 ed anche nelle cantigas d’escarnho della penisola iberica, nel Medioevo, 

in Italia e specie in Toscana, la satira burlesca personale, sovente combinata 

con la satira politica, avrà un suo sviluppo particolare, trovando humus in ambiente 

comunale, spesso angusto e fazioso e per questo tanto più linguacciuto. 

R. Davidsohn, ricostruendo proprio l’ambiente fiorentino ai tempi di Dante, 

notava che: «da molto tempo a Firenze era abituale la satira a parole rimate o no, 

tanto che i fiorentini erano chiamati buffoni satirici» 46 , e persino le scritte sui 

muri delle case avevano spesso un carattere politico tale da eccitare il popolo. 

«Un Antonio Cammelli è veramente l’interprete di quella corrente di vita che 

gli storici alla Bacchelli fanno sfumare nel bel gesto di rivolta isolata o nell’oleografia 

di un tumulto di piazza e gli storici della letteratura disperdono in generi 

letterari, in espressioni astratte di comicità, satira, umorismo» 47 . 

È un dato incontrovertibile, però, che il Cammelli, al pari dell’anonimo autore 

dei Sonetti contro l’Ariosto, nei suoi testi contro i magistrati ferraresi e contro 

lo stesso Giudice de’ Savi, non fu certo l’esponente d’una rivolta isolata, tant’è 

43 SUITNER, La poesia satirica e giocosa, cit. 

44 Ibidem, p. 33. 

45 Cfr., ad esempio, D. RIEGER, Gattungen und Gattungsbezeichnungen der Trobadorlyrik, 

Tubinga, Niemeyer, 1976, pp. 56-62 e 147-165. 

46 R. DAVIDSOHN, Firenze ai tempi di Dante, Firenze, Bemporad, 1929, pp. 387-388. 

47 Cfr. PIROMALLI, La cultura a Ferrara, cit., p. 152.

Introduzione 

che sfidò le severissime pene riservate a quei poeti sovversivi, veri e propri pasquinanti 

ferraresi ante-litteram, rappresentanti d’una classe che faticava a trovare 

il proprio posto all’interno del grande circo che gravitava intorno alla famiglia 

ducale: taglio della mano e insproccamento (ossia escissione) della lingua, 

sino alla morte, erano le esemplari punizioni per chi osava oltraggiare, pubblicamente 

in rima, gli esponenti del potere estense. Decreti come quelli ferraresi 

(che si inseriscono in una lunga tradizione di leggi come quella del 20 dicembre 

del 1269 del Consiglio di Perugia che decretava la pena del taglio della lingua 

per chi componesse o recitasse canzoni contro Carlo d’Angiò o si mostrasse fautore 

di Corradino di Svevia) attestano della forza propagandistica riconosciuta 

alla poesia vituperosa e il ruolo d’incentivo a moti popolari che essa poteva 

assumere. 

4. Antonio Cammelli da Pistoia 

Sappiamo che il Pistoia scrisse sonetti satirici contro più persone (dal Bellincioni 

allo Zampante, da Pol da Lendinara al Cinzio). Sono certamente suoi i ventitré 

sonetti contro il poeta Niccolò Lelio della Comare, detto il Cosmico, reo di 

sodomia. Proprio questi sonetti terminano così: Se più troverai versi alla colonna, 

/ non seran miei, ché non serò più stolto, a conferma del fatto che il poeta 

non disdegnava certe “pasquinate”. 

Il Pistoia, come il fiorentino Bernardo Bellincioni, fu tra i protagonisti di un 

particolare momento della vita culturale tardo-quattrocentesca, che spinse numerosi 

intellettuali toscani a convergere verso le corti di Ferrara, Mantova e Milano. 

Nato nella città di Cino, nel 1436 da famiglia originaria di San Pietro in Vincio, 

contrada e parrocchia fuori porta Lucchese, lasciato il borgo toscano in cerca 

di miglior fortuna intorno al 1478, a quarantadue anni, il Cammelli trovò il 

suo primo approdo sicuro presso la corte ferrarese di Niccolò da Correggio, cugino 

di Ercole I d’Este e colto, ma assai povero mecenate, cui fu legato da una 

profonda e fraterna amicizia testimoniata da un fitto scambio epistolare e di sonetti. 

Ebbe inizio, poi, la sudditanza presso la famiglia ducale: risulta che il poeta 

fosse attivo presso la corte estense, a Ferrara, già prima dell’invasione veneziana 

durante la guerra del 1482-84. Nel 1485, egli accettò un compito poco gratificante, 

quale esattore della gabella. Dal Libro autentico della Masseria della 

città di Reggio, appare che egli fu mandato «Capitano alla porta di Santa Croce 

in Reggio dell’Emilia, colla paga mensile di lire 16 reggiane, oltre l’alloggio, il 

privilegio della pesca nelle fosse presso la detta porta e il godimento di alcuni 

orti entro la città. Pare tuttavia ch’egli non avesse cagione di chiamarsi molto 

contento del nuovo ufficio ottenuto dalla liberalità del duca, al quale scriveva lagnandosi 

dello stipendio che stentava a comparire» 48 . Poco dopo, infatti, nel 

48 CF, xxix. 

17


1487, egli era nuovamente a Ferrara dove rimase fino al 1490, quando partì alla 

volta di Roma per un breve soggiorno (ricordato dall’Aretino nel suo Ragionamento); 

di nuovo a Reggio dopo la sosta romana, tornò infine nell’amata Ferrara, 

dove rimase sino alla morte. Nonostante i tentativi di approccio con Ludovico il 

Moro, non è attestato un suo soggiorno a Milano, mentre i legami del poeta con 

la corte mantovana sono da attribuire al rapporto che egli ebbe con Isabella d’Este, 

figlia di Ercole I e sposa del marchese Francesco Gonzaga, signore di Mantova, 

che gli permise di ottenere piccole occupazioni redditizie. 

La vita del Pistoia, una volta lasciata la Toscana, si svolse dunque prevalentemente 

in Emilia e fu caratterizzata da frequenti peregrinazioni da una città all’altra, 

con un progressivo declino di fortuna, di fama e soprattutto di salute, che lo 

portò alla morte, per sifilide, a Ferrara appunto, nel 1502. 

Il poeta, nonostante l’amicizia e la stima che lo legarono al Correggio, dedicò 

alla marchesa di Mantova, Isabella d’Este, il suo canzoniere giunto a noi, verosimilmente 

nella veste voluta dallo stesso autore, attraverso il codice Ambrosiano 

H. 223 P. I inf.: una raccolta di 533 sonetti caudati, preceduti da un Dialogo (i 

cui interlocutori sono lo Spirito del Pistoia, Caronte, Archidrommo e Plutone) e 

seguiti da un componimento intitolato Disperata. 

Il 18 di giugno del 1499, il poeta inviava a Isabella la sua tragedia Pamphila, 

promettendo alla «illustrissima et eccellentissima marchesana di Mantua e madonna 

sua colendissima», allora villeggiante nella tenuta di Sacchetta di Sustinente, 

che di lì a poco le avrebbe fatto avere anche un’intera raccolta di sonetti 49 . 

Trascorsero, da allora, altri tre anni, durante i quali la Marchesa non ricevette 

nulla; il 29 aprile del 1502 il Pistoia moriva, senza essere riuscito ancora a far 

avere alla propria benefattrice il volume promessole e a lei dedicato. 

Nel 1893, un catalogo della Biblioteca Ambrosiana di Milano rivelò allo studioso 

napoletano Erasmo Pèrcopo l’esistenza di un manoscritto di rime del Pistoia: 

il codice H. 223 P. I inf. Il Pèrcopo, esaminando il contenuto del codice e 

confrontandolo con gli altri testimoni sino ad allora noti, giunse alla conclusione 

che non solo si trattava di un autografo del Pistoia, ma che il volume andava 

identificato proprio con la raccolta promessa dal poeta alla Marchesa di Mantova 

nella lettera del 1499. Lo studioso decise di pubblicarlo interamente, salvo il capitolo 

della Disperata che, nel manoscritto, come appena accennato, si trova alla 

fine dei sonetti, alle carte 283v-288r, e che il Pèrcopo (a causa del tema tragico 

trattato nel componimento che, a suo dire, strideva con il tono brioso dell’intera 

raccolta) decise di dare alle stampe separatamente 50 . 

Se l’attribuzione al Pistoia del codice Ambrosiano non è in discussione, non è 

chiaro, tuttavia, per quali vie il Pèrcopo abbia accertato l’autografia del volume. 

49 Cfr. E. PÈRCOPO, I Sonetti faceti, cit., Prefazione X, XI. 

50 Idem, Una disperata famosa in «Raccolta di Studi Critici dedicata ad Alessandro 

D’Ancona», Firenze, Barbera, 1901, p. 702 sgg.

Introduzione 

A tal fine, infatti, il critico non utilizzò documenti di mano del poeta. Per di più, 

egli stesso espresse profondo rammarico per non aver potuto visionare direttamente 

il manoscritto e confessò, con molta onestà, di non averne ottenuta neppure 

una copia integrale. 

Nessuna precisazione è fornita, poi, dall’editore in merito ai criteri di trascrizione 

del manoscritto. Nel Codice autografo dei sonetti, prefazione all’edizione 

dei componimenti, egli scrive: 

«Ritrovai questo codice in una rapida visita, dell’aprile 1893, all’Ambrosiana, nel 

cui catalogo, sotto la lettera V, era notato Vinci Antonio da Pistoia, Rime; ma io, 

credendo si trattasse di qualche sonetto disperso, non mi curai di esaminare il manoscritto, 

che poi non ho potuto più vedere. Chiesto poi ed ottenuto dall’amico 

Emidio Martini, allora bibliotecario della Braidense, un indice del codice, ne riconobbi, 

quand’ero troppo lontano, tutta l’importanza; e dovetti contentarmi di 

avere, colla descrizione del manoscritto, una copia dei soli sonetti inediti ed una 

collazione degli editi sui testi a stampa, fatiche tutte del dottor Virgilio Mazzelli, 

allora sottobibliotecario della Braidense. Un’accuratissima revisione sulle bozze 

di stampa debbo alla cortesia degli amici Proff. Domenico Bassi e Bernardo Sansiventi, 

che qui ringrazio pubblicamente» 51 . 

Punto imprescindibile per chi intenda conoscere la lirica del Pistoia, l’edizione 

percopiana, pregevole e meritevole sotto più aspetti, necessitava, a un secolo 

dalla sua pubblicazione, di essere sottoposta a una minuziosa indagine analitica; 

operazione che ho tentato di compiere nella già annunciata monografia dedicata 

al pistoiese, attualmente in corso di revisione per la stampa per questa stessa casa 

editrice. 

In sintesi, dopo l’indispensabile accertamento dell’autografia del codice Ambrosiano 

H 223 inf., sono giunta alla conclusione che, tra il 1499 e il 1501 il Pistoia, 

oppresso dai gravi problemi di salute, causati dalla sifilide (tra i quali una 

quasi totale cecità), sentendo approssimarsi la propria fine, commissionò al figlio 

Marc’Antonio, anch’egli poeta, la trascrizione dei suoi sonetti all’interno di 

quello che oggi è il codice Ambrosiano che, dunque, è un codice d’autore, ma 

non autografo del poeta. 

Molte scelte editoriali del Pèrcopo si rivelano, oggi, assai discutibili: prima 

tra tutte quella di eliminare dall’edizione dei Sonetti faceti la Disperata che fu, ai 

suoi tempi, celeberrima. 

Come ho dimostrato di recente 52 , la Disperata del Pistoia rappresenta l’epilogo 

del suo canzoniere (ed è in stretta relazione con quella corona di componimenti 

del Tebaldeo, intitolata al comune amico Timoteo Bendedei, che tratta il 

51 

PÈRCOPO, I Sonetti faceti, cit., p. XVI, n. 1. 

52 Cfr. C. ROSSI, La “Disperata”, capitolo conclusivo dei Sonetti faceti del Pistoia, 

cit. 

19


tema della monacazione della donna amata): un epilogo sarcastico per un canzoniere 

di sonetti faceti, osceni, pungenti e anticlericali. Posta a conclusione dell’intera 

raccolta, la Disperata, pur rispondendo perfettamente ai canoni del genere, 

presenta una peculiarità rispetto a tutte le altre Disperate del Rinascimento. 

Essa è venata d’una amara ironia, insita nel messaggio stesso del componimento: 

“altra via di salir al ciel ci resta che non i conventi”. Monacandosi, la donna 

amata ha privato il poeta non solo di sè medesima, ma anche della possibilità di 

salvezza attraverso l’amore. 

Erasmo Pèrcopo considerò, invece, il componimento un epicedio per la 

scomparsa di Beatrice d’Este, la giovane moglie di Ludovico il Moro, morta il 3 

gennaio del 1497 di parto, all’età di ventidue anni (l’interpretazione si basa, più 

che sull’esegesi testuale, su una lettera 53 , priva di data, con cui il Pistoia dedica a 

un anonimo destinatario la raccolta di componimenti parzialmente tramandata 

dal cod. Bolognese 2618, un manoscritto mutilo, in cui però non figura il testo 

della Disperata). Per lo studioso napoletano, il tono e l’argomento del componimento 

risultano talmente in dissonanza con l’insieme della raccolta dei sonetti 

del Pistoia, da indurlo a mutilare il codice Ambrosiano H. 223. 

Allo stesso modo, appaiono piuttosto discutibili i motivi che indussero il Pèrcopo 

a respingere la proposta del Cappelli, che voleva attribuire al Pistoia i Sonetti 

contro l’Ariosto; egli infatti, non trovandoli nel codice Ambrosiano, scrive: 

«non vi compariscono affatto quegli arguti e virulenti sonetti contro il Cosmico, 

come non vi compariscono quegli altri, non men belli e terribili, contro Niccolò 

Ariosti, che lo stesso Cappelli volle, senza alcun solido fondamento, pure affibbiare 

al nostro. Se veramente del Cammelli, l’una e l’altra di queste serie avrebber 

trovato indubbiamente il loro posto accanto a quelle consimili contro il Bellincioni, 

il Sasso, il Ciampante ed altri mal capitati rimatori e pubblici ufficiali» 54 . 

5. La lingua dei Sonetti contro Niccolò Ariosto 

Come accennato al punto 1 di questa Introduzione, il Cappelli ebbe fondamentalmente 

due dubbi riguardo all’attribuzione al Pistoia della corona di sonetti 

satirici contro l’Ariosto: il primo, come s’è visto, concerneva la presenza del 

Pistoia a Ferrara negli anni in cui venne redatta la corona (ma, come ci aiuta a 

chiarire il Caleffini, attraverso la testimonianza delle sue Croniche, il Cappelli 

posticipò erroneamente la composizione di almeno dieci anni). Il fatto che il Pistoia, 

all’epoca della redazione dei sonetti contro l’Ariosto (dal giugno del 1487 

al gennaio 1489) non fosse più a Ferrara, come paventò Cappelli, è dunque assolutamente 

inesatto: infatti, è evidente che i sonetti tràditi dal codice Ambrosiano 

53 Pubblicata da R. RENIER in I sonetti del Pistoia giusta l’apografo Trivulziano, Torino, 

Loescher, 1888. 

54 

PÈRCOPO, I Sonetti faceti, cit., p. XXVI.

Introduzione 

H 223 inf. seguono non solo un’organizzazione tematica, ma anche cronologica. 

Nel 1487, il Pistoia scrisse una corona di sonetti contro il poeta toscano Bernardo 

Bellincioni, che nell’Ambrosiano vanno sotto i numeri dal 111 al 130. I sonetti 

che, nel codice, vengono immediatamente dopo questa corona, si riferiscono 

a fatti, come il vestirsi alla franciucula e personaggi ferraresi come il Signor 

Pietro De Benvenuti dagli Ordini, che compare nel sonetto 131 (personaggio che 

Pèrcopo non riuscì a identificare 55 , ma che risulta essere l’architetto ducale, 

quando venne istituito l’officio alle Fabbriche e Munizioni, un organo deputato 

specificamente alla cura degli edifici del duca). 

Così i sonetti 142-143 sono scritti contro Gregorio Zampante, nativo di Lucca 

e podestà a Ferrara proprio nel 1489 56 , che il Diario ferrarese definisce 

«grandissimo ribaldo, ma il maggior huomo in autorità appresso Ercole I» 57 . 

Che il Pistoia calunni personaggi attivi a Ferrara sul finire degli anni Ottanta 

del Quattrocento, mi pare una prova inconfutabile del fatto che egli si trovasse 

nella capitale estense in quegli anni; tra l’altro, da alcuni documenti superstiti, 

citati dallo stesso Pèrcopo 58 , risulta che nel 1489, a ricoprire la carica del Pistoia 

di capitano di porta Santa Croce a Reggio, non vi era più il poeta, ma un suo nipote, 

tale Andrea. 

L’anno successivo, per l’esattezza il 30 giugno del 1490, la presenza del poeta 

a Ferrara è attestata dai sonetti 210 e 211, in cui il poeta commenta una ridicola 

giostra fatta sulla piazza principale, fra un cavaliere spagnolo e uno francese. 

Il secondo dubbio del Cappelli riguardava la lingua dei sonetti. Eppure, la 

presunta natural propensione al dialetto lombardo, o meglio, al dialetto emiliano, 

cui egli faceva cenno 59 si riduce a pochi, scherzosi vezzi linguistici, di cui 

non v’è traccia alcuna nei primi cinque componimenti. 

La lingua dei Sonetti contro l’Ariosto è innegabilmente il toscano letterario, 

con qualche settentrionalismo assolutamente intenzionale (come d’altronde anche 

nei sonetti autografi del Pistoia), lì dove i locutori sono personaggi ferraresi, 

oppure, come nel ventiduesimo sonetto, dove a parlare sono il conte Ariosto e 

sua moglie, la reggiana Daria Malaguzzi Valeri. Si tenga conto, inoltre, che alcune 

grafie settentrionali sono certamente da attribuire al copista e non all’autore 

(si veda ad esempio il primo sonetto, dove la rubrica riporta il termine Judice, da 

attribuire all’autore, mentre nell’ultimo verso appare zudese). Che l’autore sia un 

toscano è confermato anche dalla presenza di numerose parole (quali foco, 

gioco, loco) in cui si registra il mancato dittongamento di -o- tonica. Dalla mia 

55 Ibid., p. 169. 

56 Cfr. L. N. CITTADELLA, Notizie relative a Ferrara per la maggior parte inedite, 

Ferrara, 1864, p. 367. 

57 Cfr. Diario ferrarese, p. 330. 

58 E. PÈRCOPO, Antonio Cammelli e i suoi sonetti faceti, in «Studi di Letteratura italiana», 

vol. VI, Napoli 1904, p. 312, nota 1. 

59 

CAPPELLI, Sonetti giocosi di Antonio da Pistoia, cit., p. 252. 

21


trascrizione del codice modenese, che riproduco qui, risultano molto più evidenti 

i toscanismi del poeta, rispetto a quanto non traspaia sia dalla prima, che dalla 

seconda edizione a stampa di Cappelli e Ferrari i quali, purtroppo, hanno la tendenza 

a correggere e ammodernare troppi lemmi. Sicuramente attribuibile all’autore, 

ad esempio, è la forma, sempre corretta da Cappelli e Ferrari ‘gi’, ‘ge’ 

per ‘ci’, ‘ce’: infatti nel vernacolo pistoiese risulta particolarmente spinta la sonorizzazione 

della velare iniziale (d’altronde ‘gi’ e ‘ge’ compaiono talmente tante 

volte nei sonetti del Pistoia che una lista delle occorrenze si tramuterebbe in 

un noiosissimo e sterile elenco). Nel sesto sonetto della corona, vi sono solo due 

settentrionalismi, in rima: tò (v. 5), per tuo e bò (v. 8), per bue, usati evidentemente 

per schernire il Giudice. Nel settimo sonetto, lì dove il locutore si rivolge 

ai ferraresi usa il termine dialettale cà (v. 15) per casa. Nel ventesimo sonetto, il 

popolo grida “Al spurco, al lordo!” (v. 13). Sono troppo insufficienti le occorrenze 

di espressioni o lemmi dialettali settentrionali per poter affermare che questi 

sonetti propendono al dialetto lombardo. Tra l’altro, bisogna ricordare che la 

città di Pistoia «disponendo di una via naturale che la metteva in contatto diretto 

con Bologna e la Val Padana, si era potuta aprire a quegli influssi determinanti 

per la varietà toscana che definiamo ‘occidentale’. Alcuni di questi tratti del linguaggio 

pistoiese appaiono molto antichi, altri appaiono invece come la conseguenza 

di influssi che si manifestarono nella seconda metà del duecento» 60 , ne 

deriva che il lessico del Pistoia presenta naturalmente alcune peculiarità emiliane. 

Un dato inconfutabile, comunque, a testimonianza che l’autore dei sonetti 

contro l’Ariosto fu un toscano, e meglio ancora, un pistoiese, è l’uso del termine 

broldo, che appare nel secondo sonetto della corona, v. 18: 

In questo mezzo un broldo 

s’apparecchia, per farti un bel cappello, 

acciò che ’l sol non ti secchi il cervello. 20 

Si noti che broldo è la forma sincopata di beroldo o biroldo, che nulla ha a 

che vedere con brolo (giardino), come invece credette il Cappelli. Biroldo è un 

termine dialettale toscano (e più precisamente pistoiese) per ‘sanguinaccio’, ovvero 

«budello o di vitella o di majale ripieno di sangue acconciato con varj ingredienti 

e cotto nel pajuolo» (Fanfani). A Pistoia è nota la ricetta del beroldo 

con busicchioni (budelli), salame piccante, pecorino e brodo di rigaglie. Quel 

che è certo è che nessun poeta ferrarese del Quattrocento avrebbe mai usato un 

simile termine tanto caratteristico della cucina di una certa area della Toscana, 

termine che (il dato è ancor più importante), compare in altri due sonetti del Pistoia 

(il 158 e il 161 61 ), fra l’altro in rima, come nel secondo sonetto della raccolta 

contro l’Ariosto, proprio con manigoldo e soldo. 

60 *Storia di Pistoia, vol. II, Firenze, Le Monnier, 1998, p. 328. 

61 I numeri si riferiscono all’ordine in cui compaiono i sonetti nell’edizione percopiana 

del codice Ambrosiano H 223 inf. (cfr. PÉRCOPO, I sonetti faceti, cit.)

Introduzione 

A ciò si aggiunga, ancora, che anche nel sonetto 158 del Pistoia, i beroldi servono 

a costruire un copricapo, in questo caso per incoronare due poeti: 

Dunque Apollo ve invita 15 

a coronar questi dui manigoldi, 

l’un de vesiche e l’altro de beroldi. 

Harrà il beccar di soldi, 

pel malifitio, il pugno e ’l grembo pieno, 

l’altro con l’oro del comune in seno. 

Si noti, inoltre, nei sonetti contro l’Ariosto, l’uso del termine ventroni (che 

appare nel ventesimo sonetto della corona, al verso 15): 

E con levi e ventroni, 15 

per dignità acquistata nell’offizio, 

sia in salutarlo a gara ogn’uom propizio. 

Levi e ventroni stanno qui per ‘polmoni’ e ‘ventricoli’ di animali. Se è abbastanza 

chiaro il doppio senso di levi, che nel gergo furbesco sta per ‘cose rubate’, 

per cui il ladro è detto levantino (e la merce rubata quel che vien di Levante, come 

nel sonetto 151 v. 5 dell’Ambrosiano H 223), non altrettanto chiaro è il senso 

di ventroni, che sfuggirebbe completamente se non se ne conoscesse l’uso fattone 

dal Pistoia, in special modo nei sonetti contro il Cinzio, ovvero contro il verseggiatore 

anconetano Francesco Cinzio Benincasa. Si legga ad esempio il sonetto 

150 (v. 9 sgg.): 

Correte qua che Cinthio fa sonetti, 

lardarolli, carnifici, fornari, 

con ovi, con ventroni e pan boffetti. 

Battuti, tosto Christo sugli altari, 

chiamate il boia che ’l suo Cinthio aspetti 

[…] 

Il Pistoia chiama a raccolta pizzicagnoli, macellai e fornai, che con uova, 

ventroni e pane marcio accorrano a salutare il Cinthio, mentre i battuti (i monaci 

della “compagnia della morte”) pregano per l’anima sua e il boia lo attende sul 

patibolo. 

Era costume, infatti, che il condannato al capestro venisse messo alla berlina 

e che contro di lui la popolazione scagliasse frutta marcia, ciarpame, uova e 

quant’altro. 

Anche nel ventesimo sonetto della collana contro l’Ariosto, il poeta incita il 

popolo ferrarese a lanciare contro l’Ariosto frattaglie d’animali: giacché il Giudice 

ha levato (rubato) e s’è riempito il ventre durante il periodo in cui era in carica. 

Per dignità acquistata nell’offizio (v. 16), le frattaglie che il poeta suggerisce 

di tirargli addosso non possono essere altro che levi e ventroni. 

Ciò che conta maggiormente, però, è che sia al Pèrcopo, sia al Cappelli e al 

23


Bertoni, sono totalmente sfuggiti alcuni sonetti, inclusi anch’essi nel codice Ambrosiano 

sotto i numeri 156-57, in cui il Pistoia riprende esplicitamente la polemica 

contro Niccolò Ariosto esattemente nei termini in cui essa è trattata nei sonetti 

anonimi contro il Giudice de’ Savi. 

In questa corona, il conte Ariosto viene soprannominato sarcasticamente Magnaferro, 

per la sua abitudine a divorare qualsiasi cosa, anche la più indigesta, al 

pari degli struzzi, che divorano persino i sassi. 

Il codice modenese riporta, in calce al ventesimo sonetto della corona, una 

data precisa: 1489, adì primo de zanaro la matina fu casso il dicto Magnaferro e 

in suo luogo successe il spettabile Galiazzo Trotto. Si noti, ora, come il sonetto 

156 del codice Ambrosiano sia in stretta relazione con questo ventesimo sonetto. 

Codice Ambrosiano H. 223 P. I inf., 

autografo del Pistoia 

CLVI. 

“Refrenative, lingue, or ch’io son casso, 

non fate più per me circolo in piazza, 

ché lo struzzo crudel di mala razza 

non mangiarà tra voi più ferro o sasso. 

Dui sol tesori al mio partir vi lasso: 5 

la bella infamia e la mia vita pazza. 

Vo in mar tranquillo, in quella galeazza 

ch’e’ m’ha col trotto suo cangiato il passo. 

Dove io ne vo, si sa senza ch’i ’l dica, 

per volontà del iusto Ercule nostro, 10 

che vuol ch’io provi una sua gran fatica. 

La morte aspetto in man di qualche 

mostro; 

figli pietosi di mia patria antica, 

deh, per l’anima mia, un pater nostro! 

Quel ben sì sarà vostro, 15 

ch’io aspetto al mio fallir quella iustizia, 

la qual sempre negai per l’avaritia”. 

Collana anonima contro il Giudice de’ Savi 

XX. 

Gloria in excelsis Deo, e in terra pace. 

Giubila, pesta patria, ridi e canta: 

la cassia è data, medicina santa, 

al Magnafer, ladron publico e audace. 

Inclito Duca, a cui il vizio spiace, 5 

ben ti ringrazio di clemenza tanta; 

ma più se in piazza una forca si pianta, 

per far giustizia del lupo rapace. 

O buoni patrizi eletti, io vi ricordo, 

che il corvo non condice in fra i pavoni, 10 

però scacciate questo aspide sordo. 

E voi, plebei, suonate i tamburloni, 

sgridandol per le strade: “Al sporco, al lordo!” 

corona singolar di poltronzoni. 


per dignità acquistate nell’offizio, 


Nel sonetto 156 del manoscritto Ambrosiano, il Pistoia lascia che a parlare 

sia direttamente il protagonista: un personaggio pubblico che è casso, vale a dire 

destituito dal Duca. Costui si rivolge a coloro i quali si riunivano in piazza per 

sparlare di lui. I vv. 3-4 specificano che lo struzzo crudel di mala razza/non 

mangiarà tra voi più ferro o sasso. Mi pare, questo, un inequivocabile riferimento 

all’Ariosto che, nel sesto sonetto della collana anonima, viene definito proprio

Introduzione 

uccel struzzo. Ancor più espliciti sono i vv. 7-8, col riferimento alla galeazza e a 

un personaggio che m’ha col trotto suo cangiato il passo. Infatti, come palesato 

anche dal ventesimo sonetto della collana qui riprodotto, il nome del successore 

dell’Ariosto era Galeazzo Trotti. Sono stati proprio questi versi a trarre in inganno 

Pèrcopo che, in Correzioni e giunte in appendice alla sua citata edizione dei 

sonetti del Pistoia, scrive che questo componimento è: «diretto, come il seguente 

sonetto (CLVII) contro Galeazzo de’ Trotti che, dal 1489 al 91, fu giudice de’ savi 

in Ferrara. Difatti in questo sonetto è detto di lui che, partendo da Ferrara, va 

in mar tranquillo, in quella galeazza […] ov’è chiara l’allusione al duca di Milano 

Gian Galeazzo Sforza» 62 . 

Un dato sostanziale che invalida la tesi di Pèrcopo è che Galeazzo Trotti non 

venne mai casso dal suo officio, ma morì dopo due anni dall’elezione a Giudice 

dei Savi, mentre era ancora in carica (non ebbe dunque il tempo, ammesso che lo 

abbia mai pensato, di recarsi a Milano presso lo Sforza). Certo, neppure il Trotti 

fu uno stinco di santo e non fece che perpetrare le malefatte dell’Ariosto, tanto 

che quando morì, così scrisse il cronista Hondedio, al suo spettacolare funerale 

assistette una gran turba di ferraresi «perché non credeano che ’l fusse morto et 

se davano a credere che ’l dovesse resuscitare et essergli acagnato a’ fianchi per 

devorargli quel altro pocho che gli era restato» 63 ; Galeazzo fu sepolto nel duomo 

di Ferrara, sebbene «passò de questa vita senza confessione e senza alcuno segno 

de contritione di suoi pechati, ma più presto afeccionato pure a fare dele facende, 

dandose ad intendere che la morte li fusse lontana» 64 . 

Il Pèrcopo pare non accorgersi, poi, che nell’ottavo verso del sonetto 156 il 

Pistoia scrive che ei ha cambiato il passo del locutore col suo trotto: il Trotti, 

fuor di metafora, ha dato il cambio all’Ariosto. Nei versi successivi vien detto 

che il luogo dove questo personaggio casso sta per andare, è noto a tutti. Ora, il 

gioco di parole del Pistoia sul termine galeazza è doppio: infatti, la galeazza 

(chiara allusione al nome del Trotti, Galeazzo, e non certo al nome dello Sforza, 

Gian Galeazzo, che nulla ha a che vedere con la vicenda), è un bastimento a vela 

e a remi; ma una delle ville dell’Ariosto, fatta costruire su un terreno di proprietà 

del fratello Francesco, si chiamava proprio Barchetta. Non è escluso che il Pistoia 

alluda qui al fatto che l’Ariosto, destituito dal duca, lasciata Ferrara (dove 

abitava in una casa in via Gioco del Pallone), potesse andare a vivere in mar 

tranquillo, in quella Galeazza. A ciò si aggiunga che il locutore del sonetto dice 

che egli se ne va per volontà del Duca Ercole I (v. 10), il quale lo vuole punire, 

facendogli sperimentare una delle sue leggendarie fatiche (gli scrittori cortigiani 

estensi, infatti, come ricorda lo stesso Pèrcopo 65 , attribuivano al duca Ercole I le 

62 

PÈRCOPO, I Sonetti faceti, cit., p. 658. 

63 

HONDEDIO, c. 23v. 

64 Ibid. 

65 Ibid., p. 193. 

25


stesse virtù dell’eroe mitologico, tanto che Pietro Andrea de’ Bassi, nel 1475 

aveva pubblicato, a Ferrara, un intero poema dal titolo Le fatiche d’Ercole). 

Appare chiaro che il locutore del sonetto 156 del Pistoia è Niccolò Ariosto, 

casso e inviato poco dopo da Ercole I a Modena. Se il componimento del Pistoia 

si conclude con l’Ariosto che chiede ai suoi concittadini un pater nostro per la 

sua anima, il ventesimo della raccolta si apre con un Gloria in excelsis Deo, pronunciato 

dall’Autore e con un ringraziamento al duca Ercole I per aver scacciato 

il Magnaferro. 

Si noti poi come, se nel sonetto del ms. Ambrosiano, il Pistoia parli della 

piazza come luogo di ritrovo di coloro che si lamentavano delle malefatte dell’Ariosto; 

nel ventesimo della corona, quella stessa piazza viene invocata come 

pubblico luogo di supplizio (sempre nella medesima piazza le cronache ferraresi 

ci dicono che vennero affissi i sonetti di scherno contro il Giudice de’ Savi). 

Altrettanto interessante per comprendere il risentimento del Pistoia nei confronti 

dell’Ariosto è il sonetto 157 del codice Ambrosiano che così recita: 

“Attolite le porte” – “Chi è quello?” 

“Il giudice de’ Saviy, tuo creato”. 

“Hai tu denar pel passo?” – “Io fui chiamato 

sì presto ch’io non poti’ tuor bursello. 

Non è qua il secretario, mio fratello, 5 

sì ch’io ci son senza denari a lato”. 

“O dov’è il tuo tesoro?” – “Io l’ho lasciato 

a’ miei figlioli, e la robba e ’l mantello”. 

“Ch’è de lo avanzo delle tue farine, 

quando genaro in Po mise il presame, 10 

che tu tosavi i sacchi alle moline? 

Quanti ne festi allor morir di fame 

per tenir grasse, in casa, le galline! 

Chi non sa scorticar, guasta il coiame. 

O Ciampante o Beltrame, 15 

fatte che questi dui sian cotti tosto, 

il più giovane lesso e ’l vecchio arosto. 

Vien qua tu, Ciuffalmosto, 

mangia questi dui spiriti cattivi: 

mangiati che tu gli ha, cacagli vivi. 20 

Nella finzione poetica, il giudice de’ Savi è morto (Niccolò Ariosto morì nel 

1500), finisce agli Inferi e, giunto all’entrata dell’Inferno, grida: “Aprite le porte” 

– “Chi è?” gli viene risposto – “Il Giudice de’ Savi, tuo protetto” – “Hai denari 

per il passaggio della tua anima?” – “Io sono stato chiamato così in fretta 

che non ho potuto prendere il borsello. E siccome non c’è il segretario, mio fratello, 

son venuto senza denari”. – “Dov’è il tuo tesoro?” – “L’ho lasciato ai miei 

figli, con tutti gli averi e il mantello”. – “E cosa ne è del resto delle tue farine, 

quando a gennaio si gelò il Po, e tu tagliavi i sacchi ai mulini? Quanti ne hai fatti 

morire di fame, allora, per ingrassare, a casa tua, le tue galline? Chi non sa scor-

Introduzione 

ticare, rovina il cuoio. Ciampante, Beltrame, fate che questi due siano subito cotti, 

il più giovane lesso, il più vecchio arrosto. Vieni qua, tu, Ciuffalmosto, mangia 

questi due spiriti cattivi e non appena li hai mangiati, cacali vivi!”. 

Il sonetto, che s’inizia con un solo protagonista, il Giudice de’ Savi (v. 2), si 

chiude con due anime da cuocere all’Inferno, probabilmente quelle di due fratelli. 

Come per il sonetto precedente, Pèrcopo pensò che il giudice qui schernito sia 

Galeazzo Trotti, ma il mancato dittongamento di arosto del v. 17, mi pare intenzionale 

da parte del Pistoia e mi pare lecito ritenere che il poeta alluda ai due 

Ariosto: Niccolò e il fratello Francesco, che fu consigliere di Stato a Ferrara e 

segretario del duca Ercole I (v. 5 il secretario). 

Per quanto riguarda, invece, l’invocazione ai due diavoli Ciampante e Beltrame 

(v. 15), noteremo come fra i giusdicenti estensi dell’epoca, un gruppo fortemente 

caratterizzato era quello degli ufficiali forestieri, come nel caso di Gregorio 

Zampante (di cui già abbiamo in parte detto per il sonetto 156, e che qui appare 

al v. 15), lucchese, che nel corso del suo operato a Ferrara si era macchiato 

di atroci nefandezze, tanto che morì assassinato fra il giubilo popolare 66 ; mentre 

Beltramino Cusatro (Beltrame) era mantovano e fu un commissario della corte 

estense dispotico e mal voluto dal popolo. Se la nomina di forestieri ai posti di 

podestà costituiva un segno di rispetto per le consuetudini municipali, il loro impiego 

in incarichi svincolati dall’osservanza degli statuti rappresentava invece 

un atto di forza contro l’autonomia dei sudditi, che come tale lo recepivano riversando 

il proprio astio sui ‘commissari’. 

6. La struttura della corona 

Alla pari di altre collane di sonetti di scherno e vituperio 67 , anche quella contro 

l’Ariosto segue un ordine per sequenze argomentative, volte a colpire il Giudice 

de’ Savi. Prendendo spunto da dati della realtà storica, fissati nella struttura 

chiusa della corona, questi sonetti si trasformano pertanto in veri e propri paradigmi. 

Il primo componimento funge da proemio: il sonetto d’esordio, per quanto 

sferzante, è comunque tra i più contenuti; il locutore si rivolge, come nei cinque 

che seguono, direttamente all’Ariosto, apostrofandolo sarcasticamente come 

Giudice de’ Matti. Gli fa notare come, attraverso le sue ruberie, di cui ormai parlano 

tutti, perpetrate sfruttando la sua carica politica, stia ingrassando sempre 

più, mentre i ferraresi patiscono la miseria. La città è ormai dissanguata dalle 

continue richieste in denaro del Giudice che non si vergogna, ma va perpetrando 

66 Cfr. Diario ferrarese, cit., pp. 182-83. 

67 Penso in modo particolare alla corona di sonetti caudati del Bronzino contro il Castelvetro, 

per cui cfr. ROSSI, I Salterelli, cit., p. 62. 

27


le sue estorsioni come un serpente velenoso, aggressivo e crudele, come un lupo 

predatore. Si mostra clemente solo con chi gli offre di più, ma se non cambierà 

stile e modo di fare, lo ammonisce il Poeta, il popolo gli griderà “A morte!” (come 

fecero i siciliani contro gli oppressori francesi a Palermo) e lo esorta a ravvedersi. 

In uno stile icastico e ricorrendo a un lessico brioso, l’auctor chiama l’Ariosto 

pestifero, mordace, crudel angue, lupo rapace, ladrone pubblico, mostro 

iniquo e strano. Il legame tra i sonetti è accentuato dalla ripresa del tema anticipato 

nel componimento che precede; così nel secondo sonetto, l’Autore insiste 

sulla strana natura dell’Ariosto, che al pari di uno struzzo, mangia legno, marmo, 

sabbione e ferro: da cui l’epiteto di Magnaferro. Il quarto sonetto dà un’idea 

del momento storico in cui la corona venne composta, giacché risulta che il duca 

Ercole I non è a Ferrara (è infatti partito per un pellegrinaggio a Santiago) e all’Ariosto 

non rimane che pregare Madama, vale a dire Eleonora d’Aragona che 

faccia fare una grida patente (v. 2) contro questo Pasquino ferrarese (il “Detrattore”) 

che faceva circolare i propri sonetti malevoli in piazza. L’abitudine di apporre 

sonetti di scherno in luoghi pubblici è attestata in varie città italiane ben 

prima della comparsa, a Roma, nel 1501, di Pasquino. Nella stessa Roma era la 

consuetudine lasciare versi di scherno attaccati alle colonne di Palazzo Apostolico, 

in Campo di Fiori, a ponte Sant’Angelo, sui sepolcri medesimi dei pontefici 

e dei cardinali. 

Lo stesso Ugo Caleffini parlò di alcuni sonetti di scherno contro più Signori 

italiani, ritrovati a Venezia «atachati a le colonne del palatio del principe, sive 

doxe, in Venetia […]» 68 : ebbene proprio uno di quei sonetti, quello che diede avvio 

ad una serie di risposte per le rime, uscì dalla penna del Pistoia, trattandosi di 

quel componimento giunto una mattina di dicembre del 1492 69 appositamente da 

Ferrara, in cui il Pistoia scherniva i veneziani, parlando in versi dell’avvio dei lavori 

per la cosiddetta “Addizione Erculea”, che avrebbe gravemente nuociuto a 

Venezia. 

I sonetti VIII e IX della collana sono particolari, perché mettono in scena una 

sorta di dialogo tra due poeti: nell’VIII sonetto un altro anonimo rimatore (stilisticamente 

diverso dal Pistoia) si dice pronto a unire le proprie forze a quelle del 

Detrattore e gli dà appuntamento in piazza per l’indomani: perché di questo mostro 

aspro ed orribile / la istoria ti dirò, ch’io son dottissimo / de’ furti suoi, ed 

ho un libro pienissimo, / ove cose udirai quasi incredibile. 

Questa è una prova tangibile (e non si tratta di un mero espediente letterario) 

che gli autori impegnati contro l’Ariosto erano vari e, come nota M. Milani, non 

è improbabile che l’opposizione al Giudice fosse «ristretta a una cerchia di intel- 

68 Dal cod. Vat. Lat. 9263, cc. 301-302v. 

69 Il sonetto di scherno, che diede avvio alla polemica, è il 393 della raccolta ambrosiana 

del Pistoia, O il Duca nostro fa i gran cavamenti, cui ben dieci poeti risposero per 

le rime.

Introduzione 

lettuali illuminati, forse anche nobili che mal vedevano accrescersi la potenza 

della bassa e debile casetta degli Ariosti. […] Non capricci e scherzi dei soliti 

poeti di corte, personaggi a volte un po’ bizzarri, ben capaci di satire e invettive, 

ma sempre pronti a seguire il vento del potere. Da questi sonetti sembra invece 

trasparire qualcosa di più serio» 70 . Si manifesta, invero, un’opposizione feroce 

da parte di chi non ha remore ad istigare il popolo all’insurrezione (sonetto VII), 

come difatti avverrà pochi anni dopo, con l’uccisione dello Zampante (contro il 

quale più volte si era scagliato il Pistoia nei suoi sonetti). Non mi pare dunque 

fuori luogo avanzare un nome per l’autore dell’ottavo sonetto: un poeta che il Pistoia, 

nel suo testamento letterario, definì, proprio come fa l’anonimo autore della 

corona contro l’Ariosto, fratello, ossia Lelio Manfredi (si rilegga la coda dell’ultimo 

sonetto del codice Ambrosiano): 

7. Cronologia 

Ecco la Morte: i miei sonetti al foco! 

Gli altri versi d’amor sian posti in sale; 

pur, se gli è alcun faceto e alcun morale, 

stiano, per fugir otio, fermi in gioco. 

Perché del viver mio resta ancor poco, 5 

d’ogni opra mia si faccia un carnevale: 

ché, quando un pezzo l’omo ha fatto male, 

è pur bon ravedersi a tempo e a loco. 

Lascio il Correggio mio, ch’è la mia musa, 

per quei che in tumul mi daran libello: 10 

ottimo ostacul contro a chi m’accusa. 

E lascio Gian Francesco Gianninello, 

Ieronimo da Casi a far mia scusa, 

e, a Mantua, Paris col dir raro e bello. 

A Correggio un fratello: 15 

Lelio Manfredi, contro a questi cani, 

che la farà con versi e con le mani. 

1471-1505 Governo di Ercole d’Este (nato nel 1435). 

1471 Niccolò Ariosto va a Modena per uccidere Niccolò di Lionello d’Este (uno 

dei concorrenti di Ercole). 

1471 Niccolò Ariosto è nominato maggiordomo del Duca. 

1474 Nasce il primo dei dieci figli dell’Ariosto, Ludovico. 

1481 L’Ariosto è nominato Capitano della guarnigione di Rovigo. 

1482-84 Guerra contro Venezia. 

70 Sonetti ferraresi, cit., p. 301. 

29


1483 Peste a Ferrara. Il Pistoia è a Ferrara, al servizio degli Estensi. 

1484 L’Ariosto rientra a Ferrara, dove viene nominato collaterale dei soldati. Dimora 

con la famiglia in una casa in via Gioco del Pallone. 

1485 Il Pistoia è capitano alla porta Santa Croce a Reggio Emilia. 

1486 Niccolò Ariosto è nominato Giudice de’ XII Savi. 

1487 - 5 Aprile: il duca convoca presso di sé i dodici Savi, per prendere congedo 

da loro, prima della partenza per Santiago de Compostela; l’Ariosto 

manifesta pubblicamente il proprio rammarico per la partenza del duca. 

Il Pistoia è a Ferrara, dove, dal 9 al 15 giugno compone sonetti diffamatori contro 

l’Ariosto. 

1489 Niccolò Ariosto è deposto dal duca e inviato come capitano a Modena. Il 

Pistoia esulta, in versi, per la cacciata dell’Ariosto da Ferrara. 

1490 Il Pistoia parte da Ferrara per un breve soggiorno a Roma. 

1500 Morte di Niccolò Ariosto. 

1502 Morte del Pistoia, a Ferrara, per sifilide.

II 

I Testi 

Criteri editoriali 

Si sono sciolte le abbreviazioni, adattati all’uso odierno le maiuscole e le geminate, 

introducendo inoltre accenti ed apostrofi (questi ultimi impiegati anche 

per segnalare l’apocope e l’aferesi, quando la vocale iniziale caduta è seguita da 

nasale). Si è distinta u da v. La nota tironiana si è risolta in e; si è reso il nesso ph 

con f, ti con z e si è eliminata l’h etimologica e paraetimologica.


SONETTI CONTRO NICCOLÒ ARIOSTO 

GIUDICE DE’SAVI IN FERRARA 1 

************** 

Data a Niccolò Ariosto, Giudice di’ Matti 

I. 

Ser Niccolò, del ferrarese sangue 

te vai facendo grasso a poco a poco; 

del tuo robar si parla in ogni loco: 

già ciascun cittadin afflitto langue. 

E tu che vedi la città esangue, 5 

non te vergogni e pur segui il tuo gioco, 

giugnendo sempre legne sopra ’l foco; 

pestifero, mordace e crudel angue. 

Lupo rapace, pubblico ladrone, 

insaziabile mostro iniquo e strano, 10 

nemico di giustizia e di ragione! 

Achi offerisce più, te mostri umano; 

ma se non muti stilo e opinïone, 

te fia cantato un vespro siciliano. 

So che non parlo invano: 15 

però estima ben questi toi fatti, 

magnifico mio Giudice dei Matti! 

CF: 

2. Ti vai; faciendo. 5. cittade 6. ti vergogni 7. giungendo; legna 11. giustizia 12. ti 

mostri 13. stile e opinione 14. ti fia 16. questi tuoi 

Ms.: 

2. faciendo; pocho 4. afflicto 9. Luppo; publico 10. insaciabil; humano 13. stillo e 

oppinione 14. scicialiano 17. Zudese. 

[Ser Niccolò, stai ingrassando sempre di più, nutrendoti del sangue dei ferraresi. 

Ovunque si parla delle tue ruberie e già ogni cittadino, indebolito, si infiacchisce./ 

E tu che vedi la città di Ferrara dissanguata, non ti vergogni e seguiti la 

1 Per altre indicazioni sull’operato dell’Ariosto quale Giudice de’ Savi, oltre a quelle 

da me fornite nell’Introduzione, cfr. BORSETTI.

I Testi 33 

tua opera, aggiungendo nuove richieste alle vecchie. Sei un serpente velenoso, 

aggressivo e crudele./ Sei un lupo ingordo, un grassatore pubblico, un mostro insaziabile, 

disonesto e orrendo, nemico della giustizia e della rettitudine./ Ti mostri 

clemente solo con chi ti offre di più, ma se non cambi stile e giudizio, finiranno 

col cantarti un vespro siciliano./ So che non parlo inutilmente, perciò, considera 

bene questi tuoi comportamenti, magnifico mio Giudice dei Matti!]


Data a Magnaferro 

II. 

Quand’io ben penso a tua strana natura, 

rimango preso in gran confusïone: 

tu magni ’l legno, il marmore, il sabbione, 

il ferro e se gli è cosa ancor più dura. 

Se ’l tuo divorar gran tempo dura, 5 

di Ferrara serai distruzïone. 

Aspese del Comune la possessione 

comprasti e questa non è cosa oscura. 

E la tua bassa e debole casetta, 

levasti in alto, ser Niccolò mio. 10 

Questa è la legge ch’hai sotto la bretta. 

Tu credi che tal cosa piaccia a Dio. 

expecta pur la pena, expecta, expecta: 

giusto è ’l ciel, credi quel che te dic’io. 

O ladro, falso e rio. 15 

Sper vederti in man del manegoldo, 

Che ti darà la spinta per un soldo. 

In questo mezzo un broldo 

s’apparecchia per farti un bel cappello, 

acciò che ’l sol non te secchi ’l cervello. 20 

CF: 

3. tu mangi 4. ancora 6. sarai 7. Comun 9. debile 11. berretta 13. aspetta 14. ti dic’io 

16 spero; manigoldo 

Ms.: 

2. confussione 4. anchor 6. destructione 12. piaza (settentrionalismo attribuibile al 

copista) 17. mezo 

[Quando penso alla tua natura insolita, vengo assalito da una gran confusione: 

tu mangi il legno, il marmo, la rena, il ferro e anche cose più dure, se ve ne sono./ 

Se questo tuo mangiare avidamente continuerà ancora, finirai con l’essere la distruzione 

di Ferrara. Comprasti a spese del Comune la tua proprietà e questo non 

è certo un mistero./ E così innalzasti la tua umile e meschina casetta, ser Niccolò 

mio. Questa è la legge che hai nella testa./ Tu credi che questo piaccia a Dio. Ma 

attendi pure la pena che il Signore ti riserva: il cielo è giusto, credi a me./ O ladro, 

falso e scellerato, spero di vederti in mano al boia che, per un soldo, sul patibolo 

ti darà la spinta per impiccarti./ Nel frattempo si prepara un sanguinaccio per farti 

un bel cappello, perché il sole non ti faccia essiccare il cervello].

I Testi 

III. 

Data a Niccolò Ariosto più matto che mattissimo 

Io t’ammonii per dui sonetti mei, 

che lassasti il rubar, Niccolò mio; 

ma a quel ch’io sento, cresce il tuo desio: 

di novo se lamentan li giudei. 

Ma forse tu fai strazio de li ebrei, 5 

per vendicar il stento acerbo e rio. 

che ferno sopportar al sommo Iddio: 

in questo, Niccolò, pietoso sei. 

Ma i poveri villan, che con tormenti, 

s’affatican pel ben della cittade, 10 

che han fatto contra Dio, ché tu li stenti? 

Dimme, te par che questa sia pietade? 

Che fai misero te, ché non te penti? 

Pentite ormai di tal scelleritade. 

Odi tutte le strade. 15 

che te cridano dietro a gran furore: 

“Al ladro, al manigoldo, al malfattore!”. 

Perch’io bramo il tuo onore, 

te scrivo questo, giudice mio bello: 

già sei depinto per ciascun bordello. 20 

CF: 

1. due sonetti miei 4. di nuovo si 6. lo stento 11. contro 12. Dimmi ti par 13. ti penti 

14. pentiti 16. ti gridano 20. dipinto 

Ms.: 

17. malfactore 18. honore 19. zudese 

[Ti misi in guardia attraverso due miei sonetti, affinché smettessi di rubare, 

Niccolò mio; ma da quel che sento, crescono le tue bramosie: gli ebrei si lamentano 

nuovamente./ Ma forse tu strazi gli ebrei, per vendicare le orrende e crudeli 

sofferenze che essi fecero sopportare al sommo Iddio: in questo, Niccolò, sei 

pio./ Ma i poveri contadini che con grandi affanni si affaticano per il bene della 

città, cosa hanno fatto loro contro Dio perché tu li strazi?/ Dimmi, ti sembra che 

questa sia pietà? Cosa fai, misero te, perché non ti penti? Pentiti orsù di questa 

scelleratezza./ Ascolta la gente che da ogni strada ti grida dietro a gran voce: “Al 

ladro, al manigoldo, al malfattore!”/ Giacché io tengo al tuo onore, ti scrivo questo, 

giudice mio bello: tu già sei dipinto in ogni bordello]. 

35


Data al gran ladrone 

IV. 

Io sento dire che tu preghi Madama, 

che faccia fare una crida patente, 

per ritrovar colui ch’è sì veemente 

in pubblicar la tua perversa fama. 

Niccolò, tu fai mal, ché colui t’ama; 5 

e per ritrar tua diabolica mente 

dai latrocini noti in fra la gente 

te scrive, come quel ch’el tuo onor brama. 

Tu credi assassinare e quello e questo 

e che i toi furti debbian star celati? 10 

Il tuo robare è troppo manifesto. 

Ame ne venne alli giorni passati 

di Corbola il contado afflitto e mesto, 

e disse che gli avevi addimandati 

ben ducento ducati; 15 

ma volle Iddio che il furto se sentì, 

e in fumo il tuo pensier se convertì. 

El non mancò per ti, 

lupo rapace, maledetto e fello, 

che in sulle spalle avevi già l’agnello! 20 

Te par, Messer mio bello, 

che questa cosa non se debìa scrivere? 

Se voi ch’io taccia, emenda il tuo mal vivere! 

CF: 

2. grida 8. ti scrive 10. tuoi furti 11. rubare 16. se sentì 17. se convertì 18. Ei 21. ti 

par 22. debba 

Ms.: 

1. pregi 3. vehemente 5. te ama 7. latroscinij 8. honor 19. luppo 

[Io sento dire che tu preghi la Marchesa, che emani un bando per trovare 

quello che è così violento nel render pubblica la tua fama perversa./ Niccolò, tu 

fai male, perché costui ti ama e per distrarre la tua mente dai latrocini noti tra la 

gente, ti scrive, come uno che ha a cuore il tuo onore./ Tu credi di poter uccidere 

questo e quello e che le tue nefandezze possano rimanere celate? Le tue ruberie 

sono troppo evidenti./ Vennero da me nei giorni passati, i cittadini di Corbola, 

afflitti e addolorati, dicendo che avevi domandato loro ben duecento ducati; ma 

grazie a Dio si seppe della tua ruberia e il tuo intento andò in fumo./ Il furto non 

fallì per causa tua, avido lupo, maledetto e infame, che già avevi rapito l’agnello./ 

Ti sembra, Messer mio bello, che questa cosa non si debba scrivere? Se vuoi 

che io taccia, correggi la tua vita scellerata!]

I Testi 37 

Data al conte di gnic-gnac 

V. 

Ciascun me dice ch’io segua il scrivere 

di te, Giudice mio, per castigarte; 

ma e’ ge vorria altro che penne e carte 

a far che tu lassasti il tuo mal vivere! 

Buon seria un ramo di cinquanta livere 5 

che ti spezzasse il capo in mille parti, 

o un duro laccio avesse a strangularti: 

questo a me parerebbe un bel descrivere. 

In te non è scintilla di vergogna; 

tu mostri non udire e alla rapina 10 

intento stai col becco di cicogna. 

Né guardi a nobil sangue, né a dottrina, 

e a questo popol gratti sì la rogna, 

che non gie val inguento o medecina. 

E per più gran ruina, 15 

de’ ferraresi allevi un ghiottoncello, 

che resti dopo te nostro flagello. 

Ma presto al gran bordello, 

andrai col tuo Jeronimo Marchese, 

e mendicare ve vedrò le spese! 20 

CF: 

4. ci vorria; lassiasti 6. parte 7. strangolarti 14. gli val unguento o medicina 20 vi 

vedrò 

Ms.: 

Rubrica: gnich gnach. 12. doctrina 16. giottoncello 17. doppo 

[Ognuno mi dice che devo continuare a scrivere di te, Giudice mio, per castigarti, 

ma ci vorrebbe ben altro che le denunce scritte, perché tu cambiassi vita./ 

Sarebbe necessario un ramo da cinquanta libbre, che ti rompesse la testa in mille 

pezzi, o un laccio robusto per strangolarti: questo mi sembrerebbe qualcosa di 

bello da descrivere./ In te non vi è un minimo di vergogna, tu sembri non darmi 

ascolto e sei pronto a derubare col becco di cicogna la gente./ Né ti fermi di fronte 

ai nobili o alle persone colte e a questo popolo gratti financo la rogna, che non 

basta unguento o medicina./ E per maggior rovina dei ferraresi, tu allevi un piccolo 

furfante, che dopo di te sia il nostro flagello./ Ma andrai presto in malora 

col tuo Geronimo Marchese e vi vedrò mendicare il cibo!]


Data all’uccello struzzo 

VI. 

Da pria io ti chiamai ser Niccolò, 

non avendo di te ben cognoscenza; 

or ti darò della magnificenza 

poi che tua condizione e’l stato io so. 

Io prego che tu facci ch’io sia tò: 5 

tu sai pur ch’io son fatto a tua obbedienza, 

io t’amo, onoro e porto riverenza, 

non altramente che faria a un bò. 

E se me avvisi quando tu esci fuora 

di casa, insieme anch’io con la tua setta 10 

ti farò coda, pur ch’io sappia l’ora. 

E son disposto non sol la bretta 

a te cavarme, ma le braghe ancora, 

da poi che ’l fumo tanto te diletta. 

Presto s’andrà a Zoetta, 15 

t’ammaestro però a poco a poco, 

acciò che meglio sappi usare il gioco. 

CF: 

2. conoscenza 8. altrimenti 14. ti diletta 15. Gioetta 

Ms.: 

2. havendo 3. magnificentia 4. condictione; scio 13. brage 

[Non conoscendoti bene, all’inizio ti chiamai ser Niccolò, ora ti darò del Magnifico, 

giacché conosco il tuo stato e la tua condizione./ Prego che tu faccia sì 

che io divenga tuo: sai che sono al mondo per ubbidirti, io ti amo, ti onoro e ti 

porto rispetto, non diversamente da come farei con un bue./ Se mi avvisi quando 

esci fuori di casa, ti seguirò anch’io, con la tua schiera, purché conosca l’ora./ E 

sono disposto a togliermi dinnanzi a te non solo il berretto, ma anche le braghe, 

giacché la puzza ti piace tanto./ Presto andremo a Gioetta, ma ti istruisco a poco 

a poco, affinché tu sappia giocare sempre meglio].

I Testi 

Data al pater patrie 

VII. 

Populo non dormir più, levate su 

prendi ormai l’arme contro questo can 

del Giudice crudele, aspro e villan, 

che te consuma e strazia ogni die più. 

Ite alla casa e sbattetela giù: 5 

oggi è da far senza expectare diman. 

Costui vi tien oppresso il vino e el pan; 

per disfarve s’è dato a Belzebù. 

Clamate oramai: “Mora il gran ladron! 

Mora, mora il ladron che ne disfà, 10 

degno è d’ogni martir, d’ogni passion. 

Se ancora un mese in quest’offizio sta, 

mandarà nui in tal declinazion, 

che mai più alcun de nui risorgerà”. 

Tiratelo di cà, 15 

e strascinato sia con gran supplizio, 

che a Dio fia grato simil sacrifizio. 

CF: 

1 Popol; levati 4. ti consuma … ogni dì 6. aspettare 7. ti tiene 8. disfarvi 9. Sclamate 

12. officio 13. manderà noi 14. di noi 

Ms.: 

3. Zudese 

[Popolo, non dormire più, alzati e prendi le armi contro questo cane del Giudice 

crudele, duro e villano, che ti logora e strazia ogni giorno di più./ Andate a 

casa sua e abbattetela: bisogna farlo oggi, senza attendere domani. Costui vi sottrae 

il vino e il pane e per annientarvi si è dato al diavolo./ Gridate, finalmente: 

“Muoia il gran ladrone, muoia, muoia il gran ladrone che ci distrugge: egli è degno 

di ogni martirio, di ogni sofferenza./ Se rimane ancora un mese in carica, ci 

manderà in tale rovina, che non risorgerà più nessuno./ Tiratelo fuori di casa e che 

sia trascinato con gran supplizio, poiché a Dio sarà gradito questo sacrificio]. 

39


VIII. 

Data al divoratore della città di Ferrara 

Oh tu che mosso sei tanto terribile 

in dir de Niccolò ladro espertissimo, 

parlar con teco me saria gratissimo: 

fa ch’io conosca te, se gli è possibile. 

Perché di questo mostro aspro ed orribile 5 

la istoria te dirò, ch’io son dottissimo 

de’ furti soi, ed ho un libro plenissimo, 

ove cose udirai quasi incredibile. 

Messo non ge hai che a trenta bolognini 

torre el frumento marzo ai fornar fa, 10 

onde ne portan danno i cittadini. 

Ed hai taciuto quando ai Masi ei va, 

che se fa far le spese ai contadini, 

dicendo che improvviso egli è arrivà. 

Ed altre cose assà; 15 

ma forse cussì amplo e gran soggetto, 

ti fa mancar le rime e l’intelletto. 

Però diman t’aspetto, 

in su la piazza per parlar con teco, 

ch’io so ch’util te fia conferir meco. 20 

CF: 

2. di Niccolò 3. mi saria 4. s’egli è 9. non v’hai 10. marcio 13. si fa 20. ti fia 

Ms.: 

16. subjecto 18. t’expecto 

[Tu che sei tanto ardimentoso nel dare del ladro a Niccolò, mi sarebbe assai 

gradito parlare con te. Fa’ che io ti conosca, se possibile./ Perché ti dirò la storia 

di questo mostro aspro e orribile, poiché io conosco molto bene tutti i suoi furti 

ed ho un libro pieno di cose incredibili su di lui./ Tu non hai detto che egli fa 

comprare il frumento marcio ai fornai per trenta bolognini, per cui ci rimettono i 

cittadini./ E non hai detto che quando va ai Masi, si fa dare ogni ben di Dio dai 

contadini, dicendo che è arrivato all’improvviso/ e hai tralasciato di dire altre cose 

ancora./ Ma forse un argomento così vasto ti fa mancare le rime e l’intelletto./ 

Perciò ti aspetto domani sulla piazza per discutere con te, perché so che ti sarà 

utile parlare con me.]

Introduzione 

IX. 

Data a Niccolò degli Ariosti matto delli XII Savi 

Oh tu che saper brami chi sia quello 

che sì di Niccolò predica e dice, 

perdoname ché qui dir non me lice 

il nome mio, ma io t’amo qual fratello. 

Ch’esser tu mostri al dir uom di cervello, 5 

e ché Caliope te sia fautrice; 

e certo io me terrò sempre felice, 

se veder posso quel tuo gran libello. 

Perch’io apparecchio un bischizo longissimo 

ov’io voglio per ordine distendere, 10 

il viver suo scorretto e bestialissimo. 

E acciò che meglio ciascun possa intendere, 

i furti di quest’uom scelleratissimo, 

lo farò a stampa in su le piazze vendere. 

Però ti piaccia prendere 15 

la penna in man, la carta con l’inchiostro, 

in darme aiuto a divulgar tal mostro. 

CF: 

3. perdonami … mi 4. ma t’amo 6. Calliopè ti sia 7. mi terrò 17. per darmi 

[Tu che desideri ardentemente sapere chi sia quello che predica e dice tanto 

male di Niccolò, perdonami, ma qui non mi è consentito dire il mio nome, eppure 

sappi che ti amo come un fratello./ Giacché attraverso i tuoi scritti, mostri di 

essere un uomo di cervello, ti auguro che la musa della poesia epica e dell’eloquenza 

ti assista, e mi riterrò felice, se potrò vedere quel tuo gran libello./ Dato 

che sto preparando una composizione satirica lunghissima, nella quale voglio 

trattare per ordine del suo vivere scorretto e folle./ E perché ciascuno possa conoscere 

meglio le malefatte di quest’uomo scellerato, la farò stampare e vendere 

in piazza./ Dunque ti piaccia prendere la penna in mano, la carta e l’inchiostro, 

ed aiutarmi a divulgare le cattive azioni di questo mostro.] 

41


Data al gran sberettiero 

X. 

Di te tacere avea deliberato, 

ma Stefano Furlan buon contadino, 

venuto è a me dolente e assai meschino, 

dicendo: “Scrivi un furto inusitato”. 

Il tuo giudice degno m’ha robato, 5 

s’io ho voluto farme cittadino, 

un gran pezzo di terra, e ancor Zannino 

del Fabbro tel dirà ch’ei fu arrogato. 

E tanti prieghi il poverel mi fe, 

che di nuovo la penna ho presa in mano: 10 

ladron non ha coscienza e non ha fè. 

Ma se ciascuno il prezzo del Furlano, 

per farsi cittadino pagar dè, 

ognun più presto voglia esser villano. 

Ma sento che, piano piano, 15 

tu vai dicendo che al Signor de noi, 

come tornato sia, doler ti vuoi. 

Deh taci, ché se i toi 

furti presenti intende e i preteriti, 

impiccar te farà come tu meriti. 20 

CF: 

5. rubato 7. Giannino 13. offrir ti dè (assolutamente di fantasia questa lettura di Cappelli) 

18. se i tuoi 19. l’intende (si tratta di lettura errata dell’h- iniziale presente nel ms.) 

Ms.: 

5. zudese 7. Zanino 12. pretio 19. hintende 

[Avevo deciso di non scrivere più di te, ma Stefano Furlano, buon contadino, 

è venuto da me triste e afflitto, dicendomi: “Scrivi di un fatto inusitato. Il tuo degno 

giudice, quando ho voluto diventare cittadino, mi ha rubato un gran pezzo di 

terra; anche Giannino del Fabbro te lo dirà, perché lui ha curato il rogito”./ E il 

poverello tanto mi ha pregato, che ho preso di nuovo la penna in mano: il ladrone 

non ha coscienza e non ha fede./ Ma se tutti quelli che vogliono diventare cittadini, 

devono pagarti il prezzo che t’ha pagato il Furlano, desidereranno tutti rimanere 

contadini./ Sento dire che hai intenzione di lagnarti di noi con il Duca, 

quando ritornerà./ Suvvia, taci, perché se viene a sapere dei tuoi furti presenti e 

di quelli passati, ti farà impiccare come meriti.]

I Testi 

Dato al volto invedrià, ladro insaziabile 

XI. 

Misera patria, piena di disgrazia, 

quando uscirai di tanta amaritudine? 

Contempla con che gran sollecitudine 

Niccolò ti consuma, afflige e strazia. 

Questo arrabbiato lupo mai si sazia; 5 

in lui non è pietà, né mansuetudine: 

spelonca è di rapine e ingratitudine, 

vuoto d’ogni vergogna e pien d’audazia. 

Non venne il spirto suo dal ciel stellifero: 

Satana il generò sol per tuo eccidio, 10 

e nel corpo dapoi gli entrò Lucifero. 

Non basteria Lucan, Persio né Ovidio, 

a scriver di quest’uomo sporco e pestifero; 

ma spero presto al ciel verrà in fastidio. 

E per suo buon sussidio 15 

manderà Giove una saetta in furia, 

che vendetta farà di tanta ingiuria. 

CF: 

Rubrica: invetriato 11. nel corpo di lui gli entrò 

Ms.: 

17. injuria 

[Misera patria, piena di sventura, quando verrai fuori da tanta amarezza? 

Guarda con che diligenza Niccolò ti consuma, tormenta e affigge./ Questo lupo 

arrabbiato non si sazia mai, in lui non vi è pietà, né docilità. Egli è ricettacolo di 

rapine e ingratitudine, privo di qualsiasi vergogna e pieno d’audacia./ Il suo spirito 

non scese dal cielo stellato, ma lo generò Satana solo per distruggerti e nel 

suo corpo entrò poi Lucifero./ Non basterebbero Lucano, Aulo Persio, né Ovidio 

per scrivere di quest’uomo sordido e pestilenziale, ma spero che presto verrà in 

odio a Dio./ E che Giove, per aiutarci con la sua bontà, mandi una saetta, che 

vendicherà tanta insolenza]. 

43


XII. 

Sonetto comminatorio, compilato per Niccolò, 

padre della patria e conte palatino contro il Detrattore 

La poesia per certo è troppo ardita 

troppo s’estende in detrarre il mio onore: 

io son pur della patria protettore, 

anzi, quel padre che gli dà la vita. 

Ma chi ha la sua lingua nel mal dir forbita, 5 

d’invidia è segno e non d’alcuno amore: 

io farò m’intendere a Madama e al Signore, 

con l’eloquenza mia ornata e fiorita. 

Scio ben che Sue Eccellenze avran per male 

che sia stimata mia persona magna 10 

a Ferrara una zucca senza sale. 

All’India, al Catai, Marocco e Spagna, 

se ben volasse il Detrattor con l’ale, 

già gli ho per carpir lui tesa una ragna. 

E perch’ei non guadagna 15 

di questa sua in grosso mercanzia, 

sempre contemplo con la fantasia. 

Su, Magagnin, va’ via, 

e porta sto sonetto in fra la gente, 

acciò che paia ch’io non tema niente. 20 

CF: 

7. farò m’intenda Madama e ’l Signore 8. con l’ornata eloquenza mia fiorita 9. So 

ben 14. or gli ho per carpir lui tesa una ragna 

Ms.: 

2. extende 4. anci 12. Da in India, dal Cathaio 

[La poesia è certamente troppo ardita e troppo si dilunga a vituperare il mio 

onore: io sono protettore della patria, anzi sono quel padre che le dà la vita./ Ma 

chi ha la lingua ammaestrata nel dir male è invidioso e privo d’amore: farò in 

modo che mi ascoltino la duchessa e il duca, parlerò con la mia eloquenza forbita./ 

So bene che le Eccellenze si dispiaceranno molto del fatto che la mia pregevole 

persona sia considerata, a Ferrara, una zucca senza sale./ Seppure il mio detrattore 

volasse in India, in Catai, in Marocco o in Spagna, gli ho teso una trappola 

per acciuffarlo./ E, dato che egli non ci guadagna nulla con questa mercanzia 

all’ingrosso, io sogno sempre di catturarlo./ Su, Magagnino, va’ via e porta 

questo sonetto tra la gente, perché si capisca che io non temo niente].

I Testi 

XIII. 

Sonetto compilato per Niccolò Ariosto, 

All’illustriss. Madama Duchessa di Ferrara. 

Illustrissima mia cara Madama, 

ogni bel ballo a lungo andar rincresce: 

parmi oramai ch’io sia un nuovo pesce, 

o quella ch’ogni occel sul palmon chiama. 

Vostra Eccellenza poco il mio onor ama, 5 

e ogni dì in men favor la mi riesce; 

però materia di mal scriver cresce, 

al detrattor della mia chiara fama. 

Deh, fate fare, s’el vi piace, una grida 

comminatoria, ov’io gli sia nomato 10 

con preminenza di persona fida. 

Ch’io sia Fabrizio o l’Uticense Cato, 

e che per niente alcun non mi derida, 

nel mio governo e viver costumato. 

Se non, ch’ei sia impiccato; 15 

ed io farò l’offizio senza soldo, 

per spesa al Comun tuor del manigoldo. 

CF: 

6. ch’ogni dì 10. ov’io vi sia nomato 16. l’ufficio 17. tor 

[Illustrissima mia cara Duchessa, a lungo andare anche il più bel ballo viene 

a noia: mi sento un avannotto facile da pescare o la pania che cattura gli uccelli 

sul palmone. /Vostra Eccellenza ha poco a cuore il mio onore, perchè ogni giorno 

vedo che perdo i Vostri favori e perciò il mio detrattore ha sempre più materia 

per scrivere male della mia chiara fama./ Orsù, fate fare, per favore, una grida 

comminatoria, dove io appaia nominato come persona di fiducia./ In modo che 

io vi appaia come un Fabrizio o un Catone, e perché nessuno mi prenda in giro 

per il mio governo e il mio modo di vivere./ Se così non sarà, allora ch’egli venga 

impiccato, ed io farò l’ufficio senza esser pagato, a spese del Comune]. 

45


XIV. 

Dolce e amorevole Raccoglienza fatta all’Illustr. Signor nostro 

nel suo ritorno, per Niccolò Ariosto 

Signor mio caro, vui siati il ben venuto 

per mille volte e anche il ben trovato: 

vui sete sempre sano e salvo stato, 

poi ch’io non v’ho, a quel ch’io intendo, veduto? 

Piacemi assai! Così Giove in aiuto 5 

mi sia continuo avante apparecchiato, 

ma perché ho sol ben retto il Vostro Stato, 

son, Signor mio, da ognuno in odio avuto. 

E udite poi che giunta ho io da un ghiotto: 

che a’ preghi altrui sì il capo mi rasenza 10 

e in rima egli ha il mio onor fornito e cotto. 

Io dirò ben alla Vostra Eccellenza, 

più a destro il tutto, perché forse un grotto 

sarei tenuto qua in Vostra presenza. 

Dalla magnificenza 15 

di questi baron chiari e cavalieri, 

che scio che me caleffan volentieri. 

CF: 

1. mio caro, siate 2. tornato 3. siete voi sempre 4. come intendo 6. vi sia 17. che so 

che mi 

[Mio caro Signore siate mille volte il benvenuto e il ben tornato. Siete sempre 

stato bene, dato che non vi ho visto?/ Mi fa molto piacere, che Dio mi assista 

sempre: solo perché ho retto bene il Vostro Stato, sono venuto in odio a tutti./ E 

ascoltate poi quale cattiveria supplementare mi viene da un disgraziato, il quale 

mi fà lavate di capo e con le sue rime ha diffamato il mio onore./ Io dirò all’Eccellenza 

vostra il tutto in privato, più comodamente, perché se lo facessi ora sarei 

ritenuto un uomo meschino/ da questi stimabili baroni e cavalieri che so mi 

prendono in giro volentieri.]

I Testi 

XV. 

Umana e graziosa risposta fatta al detto Niccolò 

per lo prelibato Illustriss. Signor nostro. 

Noi vi abbiam, Niccolò, ben cognosciuto 

sempre prudente, savio e accostumato: 

il mondo Vi dà quel che ’l ciel gli ha dato, 

che niente infonde di grazia compiuto. 

A nui rincresce e molto è dispiaciuto 5 

sapere che siati sì poco estimato: 

ma almen che sia, ne avete un buon mercato, 

poiché pur peggio non V’è intravenuto. 

Copriteve la testa col zuccotto, 

ché tira vento, e Vui con dispiacenza 10 

nostra dal freddo sareste corrotto. 

Volemo a ogni modo abiati pacienza, 

per nostro amor, e che facciati un scotto 

a chi scrivendo Vi dà penitenza. 

Ché gli è somma prudenza 15 

saper temporeggiar coi cervellieri, 

che sanno a mente tutti li mestieri. 

CF: 

1. conosciuto 2. costumato 3. vi ha dato 5. noi 6. sciapere; che siete 12. vogliamo 

abbiate ogni modo pazienza 13. facciate 

Ms.: 

16. sciapere 17. sciano … gli mestieri 

[Niccolò, noi Vi sappiamo un uomo prudente, savio e di bei modi: il mondo 

vi rende ciò che il cielo, che certo non regala grazia ed eccellenza di costumi, gli 

ha dato./ A noi rincresce e ci è dispiaciuto molto sapere che siete così poco stimato: 

ma dato che è così, ritenetevi fortunato, perché non vi è capitato di peggio./ 

Copritevi la testa con lo zuccotto, poiché tira vento e Voi con nostro dispiacere 

sareste colpito dal mal tempo./ Vogliamo che comunque abbiate pazienza, 

per amor nostro, e che paghiate lo scotto a chi scrivendo vi dà pena./ Poiché è assai 

prudente saper temporeggiare con gli uomini di bell’umore, che ben conoscono 

ogni mestiere.] 

47


Al gran flagello 

XVI. 

Credi forse ch’io abbia a starmi in stroppa 

con dir “il gatto è gionto in la dispensa, 

e ’l topo ch’era sì acconcio alla mensa 

sta guatto, ascoso dentro a qualche toppa?” 

Gnaffe, bon pro! Tu voi che di Gioan Stoppa 5 

di scriver resti a tua vergogna immensa? 

Ma gli è ’na robaria, chi ben la pensa, 

d’una mannaia darte in su la coppa. 

Il poverello avea sangue sudato, 

ben mille volte, restaurando i ponti, 10 

tanto che col Comun avea avanzato 

ducati ottanta; e poi, fatt’i suoi conti, 

di qual, se lui ne volse esser pagato, 

convenne a parte far teco dui monti. 

Lassa: ch’a suoi orizzonti 15 

t’aspetta ’l gran Pluton, poi ch’un capestro, 

t’avrà d’andare, a lui concesso il destro! 

CF: 

Rubrica: flagellato (altro esempio di lettura errata e fuorviante di Cappelli) 7. ruberia 

13. quel 14. due 

[Credi forse che io debba avere soggezione nel dire: “il gatto è arrivato alla 

dispensa e il topo che era così avvezzo alla mensa sta nascosto dentro a qualche 

buco?” In fede, buon pro ti faccia! Vuoi che quel che hai fatto con Gioan Stoppa 

resti scritto a tua imperitura vergogna? Ma questa è una ruberia, e chi ci riflette 

bene, ti darebbe una mannaia sul collo. Il poverello aveva sudato sangue mille 

volte restaurando i ponti, tanto che era in credito col Comune di ottanta ducati e 

poi, fatti i suoi conti, quando volle esser pagato, di quegli ottanta ducati dovette 

far con te, in disparte, due mucchietti. 

Aspetta, perché dopo la tua impiccagione, ti attende all’Inferno il grande Plutone, 

al quale dovrai fare atto di sottomissione.]

I Testi 

Data al magnaterra. 

XVII. 

Mille saluti con commendazione 

Al Magnifico, per parte del Furlano, 

ch’el creò cittadin, ch’era villano, 

ricco d’un pezzo bel di possessione. 

Questo lupo rapace, anzi leone 5 

famelico del pover sangue umano, 

avaro, al bel terren, furioso e insano, 

se slanciò e divorollo in un boccone. 

L’agresto villanzon, morbido e grasso, 

di roba più ch’esperto d’addiettivi, 10 

nel dimacrar diè in terra un gran fracasso. 

El Magnaferro, co’ suoi superlativi, 

calvo, con gli occhi saettando a spasso, 

cominciò a latinar per i passivi. 

Dicendo: “Scrivi, scrivi, 15 

Giannin del Fabbro, un publico istrumento, 

come il manzo, d’accordo el, sta contento”. 

CF: 

2. da parte 11. dimagrir 12. Il Magnafer 17. ei 

[Mille saluti, con rispetto, al Magnifico Giudice da parte del Furlano, che da 

ricco contadino il Giudice fece diventare cittadino ferrarese./ Questo lupo ingordo, 

anzi leone avido del povero sangue umano, avaro, ghiotto e dissennato, si 

lanciò sul bel terreno e lo divorò in un sol boccone./ Il contadino, morbido e 

grasso, più esperto di cose concrete che di aggettivi, nel dimagrire cadde in terra 

con grande fracasso./ Il Magnaferro, con i suoi superlativi, calvo, saettando con 

gli occhi, iniziò a parlare difficile, dicendo “Scrivi, scrivi, Giannin del Fabbro, 

un rogito pubblico su come lo sciocco contadino è tutto contento dell’accordo”.] 

49


XVIII. 

Data al pelador di gatti salvadegi, el magnaferro. 

(Dialogo fra un Villano, Niccolò e Squarzone) 

Villano: “Tòcche!” Niccolò: “Squarzon!” Squarzone: “Messer” 

N.: “Guarda chi è quello”. 

S.: “Chi batte all’uscio?” V.: “Io dimando il Messere”. 

N.: “Chi èllo?” S.: “È uno il qual mi pare avere 

sopra le spalle un buon e grasso agnello”. 

N.: “Menal su. Ben ne venga il mio Bertello”. 5 

V.: “Io son venuto per farvi sapere 

che ’l Vostro Magagnino, oltre il dovere, 

l’altrier mi tolse una coltre e un mantello 

perch’io non sono andato al lavoriero: 

Messere a questo non sono obbligato!” 10 

N.: “Gli ha fatto mal, ma non ti dar pensiero! 

Gran mercé dell’agnel che m’hai donato… 

senza quel t’avrei visto volentiero”. 

V.: “Ma non l’ho qui, Messer, per Voi portato: 

io lo porto al mercato 15 

per venderlo e comprarmi pane e vin, 

ch’io ho la moglie e cinque fantesin.” 

N.: “Su, presto, Magagnin, 

e tu, Squarzon, menatelo in prigione!” 

V.: “Messer, e’ non vuol questo la ragione…” 20 

N.: “Oh, brutto villanzone!” 

V.: “Ecco l’agnello, e lassatemi andare!” 

N.: “Lassal; ma mai di questo non parlare!” 

CF: 

Rubrica: pelator de’ gatti selvatici, magnafer 

Villano: “Toc, toc!” Niccolò: “Squarzone!” Squarzone: “Signore?” N.: “Guarda 

chi è” S.: “Chi bussa alla porta?” V.: “Io chiedo del Signore” N.: “Chi è costui?” 

S.: “È uno che mi pare abbia sulle spalle grasso e buon agnello”. N.: “Fallo 

salire. Ben ne venga il mio Bertello”. V.: “Io sono venuto per farvi sapere che 

il Vostro Magagnino, oltre il dovuto, l’altro giorno mi tolse una coperta e un mantello 

perché io non sono andato a pesca: Signore a questo non sono obbligato!”. 

N.: “Magagnino ha fatto male, ma non darti pena! Grazie per l’agnello che mi hai 

regalato, ma anche senza questo ti avrei rivisto volentieri!”. V.: “Ma Signore, non 

l’ho portato qui per Voi: lo porto al mercato per venderlo e comprarmi pane e vino, 

perché ho moglie e cinque bambini”. N.: “Su, presto, Magagnino, e tu, Squarzone, 

portatelo in prigione!”. V.: “Messere, non è questo un motivo…” N.: “Oh, 

brutto screanzato!”. V.: “Ecco l’agnello, e lasciatemi andare!” N.: “Lascialo; ma 

non parlare mai di quanto è avvenuto!”

I Testi 

XIX. 

Dalida, mogliere del Magnaferro, lo ammonisce. 

Magnifico marito mio dolcissimo, 

io non ardisco più di casa uscire, 

perch’io mi sento dietro a ciascun dire: 

“Ecco la moglie del ladro atrocissimo!” 

Io so che tu se’ accorto e sapientissimo, 5 

però, se brami pur tanto il rapire, 

sforzati i furti toi sempre coprire, 

per acquietare questo rumore altissimo. 

Niccolò, ditto Magnaferro, gli risponde: 

Or, non usar con me simil parole! 

Io robo e roberò, ché in fra la gente, 10 

chi è senza roba matto dir si sole. 

Da prima ne fuggìan tutt’ i parenti, 

or ne fan festa: o Dalida, el se vole, 

mentre si può, mangiar con tutti i denti. 

Quando biasmar li senti, 15 

serra l’orecchie, e non stare a contendere: 

come io fo, che mostro non intendere. 

CF: 

Rubrica: Daria, moglie del magnaferro, lo ammonisce 7. tuoi 8. acquetar Intestazione: 

detto Magnaferro le risponde 9. Eh non usar 11. si suole 13. Daria, egli si vuole 

[Daria, moglie del magnaferro, lo ammonisce. 

Magnifico marito mio dolcissimo, non oso più uscire di casa, perchè sento 

dietro alle mie spalle la gente dire: “Ecco la moglie del ladro orrendo!”. Io so 

che tu sei prudente e sapientissimo, perciò, se ti piace tanto rubare, cerca almeno 

di tener celati i tuoi furti, per attenuare queste chiacchiere. 

Niccolò, detto Magnaferro, le risponde: 

Tu, non usare simili parole con me! Io rubo e ruberò, perché la gente considera 

matto chi è senza roba. Prima tutti i parenti fuggivano, adesso fanno festa: Daria, 

bisogna mangiare con tutti i denti finché si può. Quando senti la gente biasimarti, 

chiuditi le orecchie e non stare a litigare: come faccio io, che fingo di non 

sentire.] 

51


XX. 

Gloria in excelsis Deo, in terra pace. 

Giubila, mesta patria, ridi e canta: 

la cassia è data, medecina santa, 

al Magnafer, ladron publico e audace. 

Inclito Duca, a cui il vizio dispiace, 5 

ben te ringrazio di clemenzia tanta; 

ma più s’in piazza una forca se pianta, 

per far giustizia del lupo rapace. 

O boni patrizi eletti, io vi ricordo, 

che ’l corvo non condice in fra i pavoni, 10 

però scacciate questo aspide sordo. 

E voi, plebei, suonate i tamburloni, 

sgridandol per le strade: “Al spurco e lordo!” 

corona singular di poltronzoni. 


per dignità acquistate nell’offizio, 


CF: 

3. medicina 5. spiace 6. ti … clemenza 7. se in … si pianta 13. Al sporco, al lordo 14. 

singolar 

Ms.: 

17. garra 

[Gloria in excelsis Deo, e in terra pace./ Gioisci, povera patria, ridi e canta:/ 

la senna è data, medicina santa,/ al Magnaferro, ladro pubblico e audace./ Nobile 

duca, a cui non piace il vizio,/ ti ringrazio di tanta benevolenza,/ ma ti ringrazierò 

ancor più se si pianta una forca in piazza,/ per far giustizia del lupo vorace./ 

Buoni padrizi eletti, vi ricordo/ che il corvo non sta bene tra i pavoni,/ dunque 

scacciate questa serpe sordida./ E voi, gente, suonati i tamburoni,/ gridando 

per le strade: “Al sporco, al lordo!”,/ massa di indolenti. E, per la dignità che egli 

ha acquistato nell’ufficio,/ sia ogni uomo ben disposto a salutarlo con levi e ventroni].

I Testi 

XXI. 

Modena se lamenta e dice oimè 

io mi sento doler forte la testa, 

perché Ferrara giubila e fa festa, 

della sua febbre che venir me dè. 

Misera agnella me, che mal per me, 5 

dal gran suo lupo in preda son richiesta, 

ché se ’l Pastor mio aduito non mi presta, 

scannata ho già la pelle per mia fé. 

Misericordia, alturio: adiuta, adiuta, 

San Geminian, s’in ciel col sommo Giove, 10 

Mai per te cosa alcuna si è potuta. 

Vedi la mala bestia che se move, 

ver me, tanto rabbiosa divenuta, 

ch’el par che mai la non mangiasse altrove. 

E io so per mille prove, 15 

del suo gran divorar: ma ell’è sì ria, 

che dopo il pasto ha più fame che pria. 

Però se in agonia 

son constituta, tu sai la cagione, 

sì ch’io ti chiamo in mia defensïone. 

CF: 

5. omé 7. aiuto 9. aiuto: aiuta, aiuta 10. se in ciel 14. che par 

Ms. 

10. San Zimignan 

[Modena si lamenta e dice ahimé,/ sento che mi fa male la testa,/ perché Ferrara 

gioisce e fa festa/ per la sua febbre che mi deve venire./ Misera agnella, che 

sono richiesta come preda dal suo gran lupo,/ mal per me, perché se il pastore 

non mi presta aiuto,/ ho già la pelle scannata, in fede mia!/ Misericordia, soccorretemi: 

aiutami, aiutami,/ San Gimignano, in cielo con il sommo Iddio,/ se mai 

hai potuto far qualcosa./ Vedi la malefica bestia che si muove verso di me,/ divenuta 

tanto rabbiosa,/ che sembra che non abbia mai mangiato altrove./ Io so per 

mille testimonianze/ del suo grande divorare:/ ma la bestia è così cattiva/ che dopo 

aver mangiato ha più fame di prima./ Perciò se sono destinata all’agonia,/ tu 

ne conosci la ragione,/ così che ti chiamo in mia difesa]. 

53


Dialogus 

(Niccolò e Daria) 

XXII. 

Niccolò: “Daria, sorella, il fia’ mi viem a men, 

Lo è adesso un mese io non divora’, 

e ho padito tutto il stragualzà, 

fer, marmor, sabbion, legn, paglia e fen. 

Mill’anni il dì mi par, sì tardo vien 5 

il tempo, ch’io sia a Modena arrivà; 

ché, se ’l desegno mio non va fallà, 

là tanto sluviaren che s’empiren!”. 

Daria: “Caro marito, affrena il dente tò: 

hai troppo pien il vintre, e per mia fè, 10 

chi tutto volse, di rabbia crepò. 

Tu il sciai: di tanta infamia il viver n’è, 

che niun di nui di casa uscir non pò 

perché ogn’uon dietro adì ne fa “ve’, ve’, 

ai ladri, uz, te te”, 15 

che par ch’abbiàn crocifisso Jesù, 

però sii savio e non robar mai più!” 

Niccolò: “Il to dicto bon non fu: 

io ho tanta fame ch’a Modena ancora 

slovezarò la preda arengadora”. 20 

[Niccolò: “Daria, sorella, mi manca il fiato. È un mese che non divoro e ho 

digerito tutto ciò che ho trangugiato: ferro, marmo, sabbione, legno, paglia e fieno./ 

Mi pare che il giorno in cui andrò a Modena sia lontano mille anni, e poi, se 

il mio progetto non fallirà, là ci ingozzeremo e ci riempiremo. 

Daria: caro marito, frena i tuoi denti, hai il ventre troppo pieno, in fede mia, 

chi tutto volle, crepò di rabbia. Tu lo sai, siamo tanto infamati che nessuno di noi 

può uscire di casa perché sentiamo gridarci dietro “ve’, ve’, ai ladri, uz, té, té” e 

pare che abbiamo crocefisso Gesù, dunque sii savio e non rubare mai più. 

Niccolò: “La tua predica non serve a niente: ho tanta fame che anche a Modena 

ingollerò anche la pietra arringadora!”]

I Testi 

Ad Jo. Jeronimum Marchionem. 

XXIII. 

Il gran calculator dell’alfabecco, 

che volea scorrer tutto il mare magno 

con la sua nave, è sommerso in un stagno, 

ch’ha le sue rive e tutto il fondo secco. 

Ma cusì va: chi è una semplic’Ecco, 5 

e fa gran tele essendo tristo aragno, 

ch’infin li perde l’onor ed il guadagno; 

Dio mel perdona, se in sta parte io pecco. 

Ch’io parlo, per dir ver, d’un ladroncello, 

ch’essendo sue virtù ben tutte intese, 10 

sarian vizi nefandi in un bordello. 

Questo è il nostro Gioan Gironimo Marchese, 

qual volendo stracciar l’altrui mantello 

n’ha perso uno novo, ed a tutte le sue spese. 

Per sue arroganti imprese, 15 

sarà presto il suo cul quel de la simia, 

e faccia pur, se il scia, ben far di scrimia. 

CF: 

1. calcolator 7. infin vi perde 8. perdoni 9. a dire il ver 12. Gli è … Gian Gerolamo 

14 a sue spese 16. d’una scimia 

[Il grande calcolatore dell’alfabeto, che voleva percorrere tutto il mare magno 

con la sua nave, è annegato in uno stagno che ha le rive e il fondo asciutti./ Ma 

capita così a chi è una semplice Eco e tesse grandi trame essendo un semplice ragnetto 

e infine perde l’onore e il guadagno. Dio mi perdoni se in ciò io pecco./ 

Perché io parlo, a dire il vero, di un ladroncello che le sue virtù fossero elencate 

tutte, sarebbero considerate vizi nefandi persino in un bordello./ Egli è il nostro 

Gian Girolamo Marchese, che volendo rubare il mantello altrui, ne ha perso uno 

nuovo e a sue spese./ Per le sue arroganti imprese, il suo culo somiglierà presto a 

quello di una scimmia e allora che faccia pure, se ne è capace, far di scherma]. 

55


Note 

************** 

I. 

Il metro dei componimenti è quello tipico dei sonetti caudati (in cauda venenum!) 

con coda composta da settenari e distico di endecasillabi eventualmente iterabile, forma 

consacrata dal Burchiello. Il numero di versi varia da 17 a 20, massimo 23; tutti i componimenti 

presentano lo stesso schema metrico: ABBA ABBA CDC DCD DEE. 

Il sonetto d’esordio, per quanto sferzante, è tra i più contenuti e meno mordaci della 

collana. 

Il locutore si rivolge direttamente all’Ariosto, apostrofandolo sarcasticamente come 

Giudice de’ Matti. Gli fa notare come, attraverso le sue ruberie (di cui ormai parlano tutti), 

perpetrate sfruttando la sua carica politica, stia ingrassando sempre più, mentre i ferraresi 

patiscono la miseria. La città è ormai dissanguata dalle continue richieste in denaro 

del Giudice che non si vergogna, ma va perpetrando le sue estorsioni come un serpente 

velenoso, aggressivo e crudele, come un lupo predatore. Egli si mostra clemente solo 

con chi gli offre di più, ma se non cambierà stile e modo di fare, lo ammonisce il Poeta, 

il popolo gli griderà “A morte!” (come fecero i siciliani contro gli oppressori francesi a 

Palermo) e lo esorta a ravvedersi. 

Nell’intestazione di molti sonetti del Pistoia si legge, come qui, Data. 

1. Ser Nicolò: si noti il crescendo: inizialmente l’Autore usa per l’Ariosto il titolo di 

sere, che nella forma apocopata indica deferenza; nel son. III della collana lo chiama, più 

confidenzialmente, Nicolò mio (v. 2); e nel son. VI, precisa: io ti chiamai ser Nicolò/ non 

avendo di te ben conoscenza/ or ti darò della magnificenza. 

Per le parole in rima poco, loco, gioco, foco cfr. Pistoia, Sonetti, 12 e il primo dei sonetti 

contro il Cosmico. 

ferrarese sangue: ‘sangue dei ferraresi’. 

4. langue: < LANGUESCERE, LANGUERE, ‘svenire’, ‘mancar di forze’, ‘perdere il vigore’, 

‘divenire afflitto’ (Voc. Crusca). 

7. giungendo sempre legna sopra il foco: locuzione dal lat. ignem igni inducere. 

8. angue: < ANGUIS, ‘serpente’. 

10. iniquo: < INIQUUS, ‘ingiusto’. 

12. offerisce: ‘offre’, ‘paga’. 

13. vespro siciliano: «diciamo in proverbio Cantare il vespro a uno, fargli una gagliarda 

riprensione, o dirgli liberamente l’animo suo» (Voc. Crusca), ma qui l’Autore si 

riferisce alla nota sommossa popolare, che fu iniziata a Palermo il 30 marzo 1282, al grido 

di «Mora, mora!», lanciato da una donna contro gli odiati oppressori francesi.

I Testi 

II. 

Questo sonetto, il primo della collana in cui l’Ariosto viene apostrofato con l’appellativo 

di Magnaferro, è in stretta relazione con il son. 156 del codice Ambrosiano H 223 

inf., contenente la maggiore silloge delle rime del Pistoia, di cui si è già parlato nell’Introduzione. 

Nei vv. 7-8 l’Autore ricorda che l’Ariosto ha acquistato un ricco podere, con 

annessa villa, a spese del comune: si tratta dell’attuale villa Pavanelli. Nella seconda 

metà del ’400, esisteva in suo luogo uno splendido Castello con un’ampia tenuta, che fu 

venduto nel 1475 alla famiglia Trotti. I fratelli Ariosto, Nicolò e Francesco, riuscirono ad 

entrarne in possesso dopo la cacciata dei Trotti da Ferrara nel 1482, a spese del comune 

di Ferrara, come appunto precisa il sonetto. L’Autore augura poi all’Ariosto che, per le 

sue malefatte, possa finire nelle mani del boia (v. 16), che lo impiccherà per la modica 

somma di un soldo. Nel frattempo, si prepara un beroldo, vale a dire un insaccato di sanguinaccio 

a forma di pagnotta, per fargli un bel cappello, affinché il sole non gli faccia 

essiccare il cervello. 

3. sabbione: ‘terra arenosa’, Cfr. Pistoia, Sonetti, 34, v. 14: «che sia stracco a sedere 

in sul sabbione»; e Villani 7. 29. 3: «E non sofferse il Re, che fossono seppelliti in luogo 

sacro, ma in sul sabbion del mercato». Si noti che all’epoca, a Ferrara, un’intera zona era 

detta “dei sabbioni” per essere stata “spianata de sablone”, come ricorda Ricobaldo, il 

più antico storico di Ferrara, e segnava il limite nord della città, la quale a sud finiva sulla 

riva del Po. 

7. possessione: < POSSESSIO, ‘villa e poderi che si posseggono’. Cfr. Decameron VIII 

2: «Di grandissime posessioni, e di danari, di gran lunga trapassava la ricchezza d’ogni 

altro ricchissimo Cittadino». 

11. bretta: forma sincopata dialettale per ‘berretta’, cfr. Pistoia, Sonetti, 12, 299, 313. 

16. manegoldo: cfr. Pistoia, Sonetti, 158, in rima con soldo e beroldo. 

18. broldo: ‘beroldo’ o ‘biroldo’, voce dialettale pistoiese per ‘sanguinaccio’. Derivante, 

forse per metatesi dal lat. BIRÒTULUS, d’onde birotilo, birotolo, birolto, biroldo, 

formato da bi(s) + ròtulus. Il Cappelli 2 , volle correggere il termine con brolo, spiegandolo 

con ‘corona di fiori’, ma in realtà il verso è molto più truculento. Con beroldo, infatti, 

in Toscana si intende un insaccato di media pezzatura (diametro di 5-7 cm), di forma 

tondeggiante e schiacciata, legato alle due estremità, il cui ripieno è amalgamato col sangue 

di maiale. Il Pistoia usa il lemma in due altri suoi sonetti, inclusi nella raccolta del 

codice Ambrosiano: il 158 e il 161. 

2 

57


III. 

Nella finzione letteraria, il Poeta, notando che i suoi due precedenti sonetti non sono 

bastati ad ammonire l’Ariosto, affinché smetta di derubare i poveri ferraresi, si vede costretto 

a scriverne un altro, giacché sente gli ebrei lamentarsi di nuovo (v. 4). 

Una folta comunità ebraica era confluita, infatti, in quegli anni a Ferrara, attratta dalla 

politica liberale degli estensi. All’epoca, gli ebrei abitavano nel cuore della città medioevale, 

nel triangolo tra via Sabbioni, via San Romano e via Gattamarcia ed erano 

molti tra costoro quelli che esercitavano il mestiere di banchiere: i loro banchi erano sede 

di operazioni di cambio e di prestito e per svolgere quest’attività pagavano una tassa 

alla Camera Ducale, che variava a seconda del volume degli affari. Evidentemente l’Ariosto 

trasse illeciti guadagni da questa tassa. 

Il Poeta, continua, poi, a deridere il Giudice dicendogli che il suo accanimento contro 

gli ebrei è certamente frutto della sua pietà cristiana (nel mondo cristiano, il marchio 

d’infamia che accompagnava gli ebrei era l’accusa di deicidio); ma gli chiede cosa mai 

abbiano fatto di male contro Dio i poveri contadini del ferrarese, ridotti ormai agli stenti 

a causa della sua avidità. Ancora una volta il Poeta, con una tenacia degna d’un Savonarola, 

esorta l’Ariosto a pentirsi e ravvedersi: già da ogni canto, infatti, gli si grida dietro: 

“Al ladro, al manigoldo, al malfattore!”. 

1. due sonetti miei: sono i due precedenti sonetti della corona. 

8. pietoso: ironicamente, nel senso di ‘pio’, ‘buon cristiano’. 

18. bramo il tuo onore: cfr. sonetto IV, v. 8. 

20. sei dipinto per ciascun bordello: cfr. Pistoia, Sonetti, 137, v. 17: «miracol da dipingerlo 

in bordello». L’abitudine di dipingere scene di naturali mostruosità nei bordelli 

è antichissima, basti pensare agli affreschi ritrovati nelle case di piacere a Pompei o in 

quelli in prossimità dello stadio Domiziano a Roma.

I Testi 

IV. 

Il duca fu assente da Ferrara dal 5 aprile al 24 giugno del 1487, quando partito per 

Santiago de Compostela, fu improvvisamente convocato dal papa e dunque fu costretto a 

recarsi a Roma, a conferire col pontefice. In assenza di Ercole I, l’Ariosto prega la duchessa, 

affinché emani un bando, per trovare quel poeta che lo diffama pubblicamente 

con tanta veemenza. Il locutore ironizza sull’acrimonia dell’Ariosto nei confronti di questo 

anonimo scrittore. Come può mai l’Ariosto, si chiede il Poeta, credere di poter assassinare 

e quello e questo (v. 9) rimanendo impunito: qui il Poeta si riferisce sì all’abitudine 

del Giudice di far morire di stenti coloro che tassava e derubava, ma anche al fatto 

che l’Ariosto assassino lo era realmente, avendo partecipato alla congiura contro Nicolò 

d’Este, aspirante a succedere, nel ducato, a Borso, invece del fratello di questi, Ercole I. 

Come può egli, inoltre, si chiede ancora, pretendere che i suoi latrocini, esercitati alla luce 

del sole, restino celati? Qualche giorno addietro, continua, gli si sono presentati i contadini 

di Corbola, per narrargli che l’Ariosto pretendeva da loro ben duecento ducati, ma 

fortunatamente la notizia del furto si diffuse rapidamente e così l’intento dell’Ariosto 

andò in fumo. Eppure la cattiva impresa non fallì perché l’Ariosto si era ricreduto: lui 

già aveva sulle spalle l’agnello per portarlo via e divorarlo (v. 19), come fanno «in vesta 

di pastor lupi rapaci» (Dante, Paradiso XXVII 55). Nuovamente il Poeta lo esorta a pentirsi, 

se vuole che egli taccia delle sue malefatte (v. 23). 

1. Madama: Eleonora d’Aragona, moglie di Ercole d’Este 

crida patente: ‘grida’, disposizione con valore coercitivo, accompagnata cioè da una 

sanzione e utilizzata per articolare e adattare la legislazione formale ad un caso particolare. 

Per un’idea sulle grida emesse dalla giustizia estense, cfr. Gridario. 

13. Corbola: nella laguna Adriana. Il suo nome sembra diminutivo di corbis (corbulla, 

corbula, corbicola) – ‘corba’ o ‘cesta’ – che fu misura di grano, ed anche misura di 

terra necessaria per seminarvi una corba di grano. Dalla misura corba, poté quindi nominarsi 

un dato territorio, sul quale sorgevano villaggi o territori che avrebbero preso il nome 

di Corbola. Corbola, allorché si staccò dal territorio adriese (circa nel 1140) fu posta 

a far parte del ducato di Ferrara. 

14. contado: ‘campagna intorno alla città, nel quale si contengono i villaggi, e le posessioni’ 

(Voc. Crusca); per estensione ‘gli abitanti che vivono nel contado’ o ‘contadini’. 

Cfr. Sacchetti, Rime, 224 8, pag. 267: «Era Fetonte ne la somma gloria / con carri 

carchi di gente lunatica / fra’ nove cieli, dove facean pratica / quelli de la città bisbigliatoria; 

/ e vegendo ciascun fuor di memoria, / subito corse a la terra sismatica / e insegnò 

a’ fanciulli la gramatica, / onde ne fa ’l contado ancor baldoria». 

18. mancò: fallì. 

59


V. 

Il Poeta ironizza sul recente titolo di conte ottenuto dai fratelli Ariosto direttamente 

dall’Imperatore Federico III, il quale, però, non ha assegnato loro alcun feudo. Ci vorrebbe 

ben altro, nota il Pistoia, che una corona di sonetti per far sì che l’Ariosto abbandoni 

i suoi latrocini; potrebbe servire, invece, un bel tronco da cinquanta libbre sulla testa 

dell’avido giudice, o un duro laccio che lo strangoli. Nell’Ariosto non v’è traccia alcuna 

di vergogna per le proprie malefatte, egli si lancia anzi alla rapina col becco da cicogna 

(v. 11). Né si ferma dinnanzi a persone nobili o colte (v. 12), ma ruba tutto, persino 

la rogna al popolo al quale, per curarsi, non è sufficiente unguento o medicina. E per 

la rovina ancora maggiore dei ferraresi, egli alleva un giovane di mal affare, che ne raccolga 

l’eredità, per perpetrare i suoi furti. Ma presto, lo ammonisce il Poeta, l’Ariosto 

andrà in malora, insieme col suo segretario Gian Girolamo Marchese e tutti e due andranno 

in giro a chiedere l’elemosina. 

Rubrica. gnic gnac: voce onomatopeica che sta qui a indicare che la contea mancava 

e si riduceva solo a un vano titolo. 

3. ge vorria: ‘ci vorrebbe’, particolarmente spinta nel pistoiese risulta la sonorizzazione 

della velare iniziale. Cfr. G. BERTONI, Italia dialettale, Milano, reprint Hoepli, 

1986, p. 129. 

13. gratti sì la rogna: cfr. Pistoia, Sonetti, 152, vv. 7-8. 

14. inguento: esempio di traccia ligure nei dialetti altorenani, nel bolognese e nel vernacolo 

pistoiese. 

16. ghiottoncello: dim. di ‘ghiotto’, per ‘uomo di male affare’. Decameron VIII 5: 

«Messer non gli credete, ch’egli è un ghiottoncello». 

18. al gran bordello: ‘in malora’. 

19: Jeronimo Marchese: figlio del ferrarese Gian Ludovico Marchese, tesoriere e segretario 

personale dell’Ariosto. 

20. spese: al plurale nel senso di ‘alimenti’, ‘cibo’: cfr. Decameron IX 4: «E senza alcun 

salario sopra le spese».

I Testi 

VI. 

All’inizio, afferma il Pistoia, ha chiamato rispettosamente il Giudice de’ Savi ser Nicolò, 

non conoscendolo bene, adesso gli darà mordacemente della Magnificenza (nelle 

cronache ferraresi il Giudice de’ Savi è sempre detto ‘Magnifico’), giacché ne conosce lo 

stato e la condizione (di gran ladro). Aggiunge che se l’Ariosto gli farà l’onore di avvisarlo 

quando sta per uscire di casa, egli si accoderà alla schiera della sua corte e sarà disposto 

ad ossequiarlo togliendosi non solo il berretto al suo passaggio, ma anche le braghe, 

giacché il Giudice pare gradire il fetore (inteso come lezzo di traffici illeciti). Presto, 

lo ammonisce il Poeta, si andrà a Gioetta (v. 15), luogo di festa e svaghi, perciò sarà 

bene che l’Ariosto raffini il suo gioco. 

3. magnificenza: «Magnificenza si è una virtù, che s’ adopera nelle ricchezze, e solamente 

nelle grandi spese» (Voc. Crusca). Poco più avanti, infatti, gli darà del Magnifico 

(Sonetto XVII). 

10. setta: ‘schiera’. 

12. bretta: cfr. Sonetto II, v. 11. 

14. Zoetta: vale per ‘Zueca’ ovvero ‘Giovecca’. Il nome fa la sua apparizione in un 

documento ferrarese del 1401, in cui si accenna a certo Ioannes Tintus pelachanus (conciatore 

di pelli), de Zueca. Ed appare pure nel 1438 in una bolla di Papa Eugenio IV in 

cui si accenna ad una “Zudecha Turresinoru”. A Ferrara la denominazione di Zueca o 

Zudecha indicava una località posta nei pressi dell’attuale Giovecca nel suo ultimo tratto 

verso Levante. Luigi Napoleone Cittadella, che toccò tutti i tasti della storia ferrarese, 

nel suo Notizie relative a Ferrara, edito nel 1564, ipotizzò che Giovecca potesse derivare 

dalla parola provenzale “Iuec” gioco, indicante un luogo adibito a giuochi, a divertimenti, 

ad assembramenti festaioli e che non avesse nulla a che vedere con “Zudeca”, 

cioè Giudecca, che a Ferrara, come in altre città (si pensi a Venezia), indicava il luogo 

degli ebrei. Il lemma, infatti, in questo sonetto, sta senz’altro per ‘luogo adibito a giochi’ 

(cfr. v. 17). 

61


VII. 

Da questo sonetto si comprende più che dagli altri quanto l’opposizione nei confronti 

dell’Ariosto, nel giugno del 1487, fosse ormai giunta all’apice: traspare infatti una fronda 

violenta che non si trattiene dall’istigare la popolazione ferrarese all’insurrezione. 

Che non si tratti di vana retorica e di semplice poesia burlesca, ma di una mossa politicamente 

responsabile lo provano le rivolte popolari di Massafiscaglia (dove nel luglio del 

1488 venne ucciso a furor di popolo il podestà) e di Argenta (dove l’anno successivo, il 

26 ottobre 1489, venne assassinato crudelmente Apollonio Minotto, camerlengo ducale). 

Rubrica: come accennato nell’Introduzione, il Giudice de’ Savi era definito, negli 

Statuti di Ferrara, pater moderatorque patriae. 

9. clamate: < EXCLAMARE, ‘chiamare a gran voce’, ‘gridare’. 

15. ca’: ‘casa’ in vari dialetti dell’alto Reno e della Toscana (oltre che in lombardo); 

cfr. Dizionario Toponomastico del Comune di Sambuca Pistoiese, Società Pistoiese di 

Storia Patria, Pistoia, 1993 e G. GIACOMELLI, Vocabolario Pistoiese, Società Pistoiese di 

Storia Patria, Pistoia, 2000. 

16. strascinato: ‘Tirare una cosa per terra, senza sollevarla’ (Vocabolario degli Accademici 

della Crusca). Cfr. Villani 7 113 1. «Il fece strascinar per la terra, e poi impiccar 

per la gola».

I Testi 

VIII. 

Sonetto di altro poeta, probabilmente il ferrarese Lelio Manfredi, il quale afferma di 

avere un libro pieno di appunti (v. 7) su tutti i furti e le malefatte dell’Ariosto. Questo 

poeta anonimo, sostiene che il Pistoia non ha detto, nei suoi sonetti (messo non v’hai, v. 

9), che il Giudice fa comprare ai fornai il frumento marcio a 30 bolognini, per cui ne soffrono 

i cittadini. Effettivamente, nelle cronache ferraresi, l’inverno del 1487 è ricordato 

come uno dei più rigidi, tanto che nel febbraio di quell’anno la popolazione prese d’assalto 

parecchi magazzini per rubare le provviste. In marzo il frumento era cresciuto di 

prezzo in maniera spropositata. Aggiunge ancora il Poeta che quando l’Ariosto va nelle 

sue possessioni, ai Masi (v. 12) pretende in omaggio dai suoi contadini ogni ben di Dio. 

Questo secondo poeta anonimo si dice interessato a conoscere l’identità del Detrattore 

dell’Ariosto e afferma di essere pronto a unire le proprie forze poetiche alle sue, dandogli 

infine appuntamenento sulla piazza principale per l’indomani. 

9. bolognini: altro nome per ‘soldo’, che si divideva in dodici denari. Era la moneta 

più in uso in Emilia e a Ferrara, specie il Grosso bolognino, con la dicitura «Bonona mater 

studiorum», coniato nel XIV, che ebbe grande fortuna e fu imitato da quasi tutte le 

più importanti zecche italiane. 

10. torre: sta per ‘torre in compera’, ‘comprare’. 

12. Masi: si trovavano nel distretto di Ferrara, vicino a Portomaggiore. Queste terre, 

per la loro fertilità, oltre che di molti monasteri ferraresi, erano proprietà di importanti 

famiglie ferraresi, come appunto quelle degli Ariosto che possedevano i fondi denominati 

“Teste del Vescovo” e “Trebbo”. 

14. improvviso: ‘inaspettatamente’. 

63


Risposta del Pistoia al sonetto precedente; qui egli afferma di amare l’autore di quel 

componimento come un fratello e di ammirarlo per la sua intelligenza e per il suo ingegno 

poetico (vv. 5-6), ma di non poter rivelare apertamente la propria identità. Si dice 

però interessato a vedere quel gran libello (v. 8), ovvero il libro pienissimo di annotazioni 

sulle malefatte dell’Ariosto, cui l’autore del sonetto VIII allude al v. 7. Afferma inoltre 

di voler far stampare e vendere in piazza (v. 14) un suo lunghissimo bischizzo, in cui 

svergogna il Giudice de’ Savi; chiede infine all’amico poeta, di prendere la penna in mano, 

per aiutarlo a far conoscere a tutti le malefatte di tal mostro (v. 17). 

1. Oh tu: incipit, con interiezione, identico a quello del sonetto precedente, di cui 

questo è la risposta. 

IX. 

6. Calliopè: Musa della poesia epica e dell’eloquenza. 

9. bischizzo: dal Ted. beschiss ‘frode’, per analogia con ‘schizzo’ è nato questo termine, 

che sta per ‘componimento satirico’ ed è usato, tra l’altro, anche dal Caleffini per designare 

proprio i sonetti diffamatori contro l’Ariosto, incollati sulla pubblica piazza a 

Ferrara tra il 9 e il 15 giugno 1487.

I Testi 

X. 

Il Pistoia, paladino dei poveri villani taglieggiati dall’Ariosto, racconta di come un 

contadino, Stefano Furlan, il quale aveva voluto divenire cittadino ferrarese, era stato derubato 

del proprio podere dal Giudice, che gli aveva sottratto la terra con un atto notarile. 

Dà inoltre all’Ariosto dello sberrettiero, vale a dire del ruffiano: il Giudice va dicendo in 

giro che, quando il Duca rientrerà a Ferrara, egli si lamenterà con lui di tutti coloro che 

lo hanno pubblicamente infamato. Dai versi 14-16 pare di capire che i poeti, autori delle 

rime di scherno affisse un po’ ovunque a Ferrara in quei giorni di giugno, siano personaggi 

della corte estense. Ma il Pistoia ammonisce il Giudice, ricordandogli che sarà meglio 

che egli taccia col duca, se non vuole essere impiccato per i suoi furti. 

Rubrica: sberrettiero: ‘colui che si sberretta’, ‘adulatore’. 

6. farmi cittadino: chiedere alle autorità di potersi trasferire dalla campagna nel centro 

urbano: grazie alla felice collocazione geografica, Ferrara era decisamente la città più 

popolosa del dominio estense, e con i suoi circa 35.000 abitanti poteva annoverarsi fra le 

prime metropoli italiane per numero di abitanti. 

8. arrogato: ‘rogato’; «termine legale, e dicesi del distendere, e sottoscrivere, che 

fanno i notai de’ contratti, come persone pubbliche, per l’autorità conceduta loro» (Vocabolario 

degli Accademici della Crusca). È tipico del pistoiese lo sviluppo di vocali anaptittiche: 

sotto influssi provenienti dal nord la vocale di appoggio ‘a’ si è introdotta anche 

nelle zone settentrionali della Toscana come nel lucchese e pistoiese “arricordare”, “arriposare”, 

“arrispondere” (Cfr. G. ROHLFS, Grammatica storica della Lingua Italiana e 

dei Suoi dialetti, pp. 472-473). 

65


XI. 

Anche questo sonetto pare, stilisticamente, dello stesso autore dell’ottavo della collana: 

costui chiama infatti Ferrara “misera patria” e nota che non basterebbero i più grandi 

autori latini come Marco Anneo Lucano, Persio Flacco, oppure Ovidio a scrivere delle 

malefatte dell’Ariosto, il quale è spelonca di rapine (v. 7), vuoto d’ogni vergogna, ma 

pien d’audacia (v. 8). Dal punto di vista linguistico, il sonetto presenta maggiori tratti 

settentrionali attribuibili all’Autore (volto invedrià della Rubrica; audazia in rima, v. 8). 

Rubrica. invedrià: ‘invetriato’, ‘che ha l’aspetto e la consistenza del vetro’, oggi diremmo 

‘faccia di bronzo’. 

16. vendetta farà: cfr. Pistoia, Sonetti, 72, v. 5.

I Testi 

XII. 

Nella finzione letteraria, è adesso lo stesso Ariosto a discolparsi e a parlare contro il 

proprio detrattore. Egli giudica la poesia del suo diffamatore troppo ardita e si schermisce 

affermando che le maldicenze sul suo conto sono un chiaro segno d’invidia. 

Seppure l’anonimo poeta avesse le ali per volare sino in India o in Catai, l’Ariosto gli 

ha teso una trappola per catturarlo e farlo condannare a morte per diffamazione e comunque, 

perché appaia che egli non ha nulla da temere, chiede al proprio sbirro, Magagnino, 

di diffondere tra la gente questa sua risposta in rima. 

Rubrica. comminatorio: ‘minatorio’, ‘intimidatorio’. 

per: come il fr. par, ‘da’. 

8. con l’ornata eloquenza: più volte in questa corona all’Ariosto è riconosciuto il 

pregio di saper di parlare in maniera forbita e latinar per i passivi, per raggirare le proprie 

vittime ignoranti (sonetto XVII), ma qui ad esser circuiti dall’arte retorica del Giudice 

saranno le Sue Eccellenze, il duca e la duchessa. 

14. ragna: ‘rete, con la quale si catturavano gli uccelli’, per estens. ‘agguato’, ‘insidia’; 

cfr. Paradiso 9, 51: «Che già, per lui carpir, si fa la ragna». 

18. Magagnin: Girolamo Magnanino, collaboratore del Giudice de’ Savi, con funzioni 

di sbirro (come esattore delle tasse). Si conservano alcune sue lettere; cfr. Rettori, Modena, 

B. 2d, lettera di Amato Cusatro a Girolamo Magnanino del 15, del 17 e del 21 febbraio, 

del 9 marzo, del 19 e 23 aprile 1507. 

67


XIII. 

È ancora l’Ariosto a parlare, rivolgendosi, come anticipato nel sonetto precedente, alla 

duchessa, per chiederle di divulgare una grida per acciuffare il detrattore, grida in cui 

egli stesso sia presentato come persona di fiducia e probo al pari di Gaio Fabrizio o di Catone 

l’Uticense, perché non sopporta più di essere deriso. Farà sì che il detrattore venga 

impiccato e sarà egli stesso a fare il lavoro del boia. Che non si tratta di una banale intimidazione, 

è confermato dal Diario ferrarese 3 , che, nel maggio del 1495, riporta questa 

agghiacciante notizia: «A dì quattro de Magio, de luni, fu condennato per messer Gregoro 

Zampante, capitaneo de iustitia in Ferrara, Francesco, fiolo de Bernardino de Philippo 

Cestarello da Ferrara, ad essere taiata la testa, per cagione che confessò havere scritti certi 

bullettini in vilipendio del duca, del Judice de’ Savii da Ferrara et di altri officiali; la 

quale testa pagando mille ducati se potesse scuotere». Il povero giovane poeta condannato 

a morte per aver reiterato la tradizione di scrivere bullettini di scherno nei confronti di 

personaggi pubblici, era Francesco Cestarelli, nipote del mercante e abile amministratore 

estense Filippo Cestarelli, casso, alla pari dell’Ariosto, dal duca Ercole I, dalla carica di 

Giudice de’ Savi il primo gennaio del 1495 e sostituito dal conte Uberto del Sacrato, contro 

il quale Francesco scrisse i sonetti diffamatori che lo portarono alla morte. Nessuno rimaneva 

a lungo nell’ufficio di Giudice dei dodici Savi o perché chi n’era investito diveniva 

presto impopolare per l’eccessiva fiscalità cui lo costringevano i bisogni del duca o perché 

effettivamente non riusciva a rispondere alle continue richieste di denaro di Ercole I. 

3. nuovo pesce: ‘ingenuo’, «che agevolmente lasci ingannarsi, tratta la metafora dal 

pesce, che noi chiamiamo avanotto, quasi uguannotto, cioè nati dell’anno, ch’e’ si pigliano, 

che sono pesciolini, e agevoli a esser presi» (Voc. Crusca). 

4. palmon: ‘trappola’. «Queste verghe piccole impaniate si ficchino lievemente nelle 

verghe de’ palmoni, che son pertiche grandi di rami d’arbori verdi, massimamente di 

quercia, aventi nel capo superiore, quattro, o cinque verghe un poco elevate, nelle quali si 

ficcano le verghe sottilissime impaniate. E quando quel palmone sarà, ec. gli uccelli si 

pongono sopra ’l detto palmone impaniato» (Voc. Crusca). 

12. Fabrizio: Dionisio di Alicarnasso racconta che durante la guerra tra Roma e Taranto, 

i Romani inviarono un’ambasceria a Pirro, re dell’Epiro e alleato dei Tarantini, per 

riscattare i prigionieri romani. Faceva parte della legazione il console Gaio Fabrizio Luscino 

che Pirro cercò di corrompere perché persuadesse il Senato alla pace. Ma Fabrizio 

rispose che, anche se era povero, possedeva come tutti i cittadini romani il bene massimo: 

la libertà; se si fosse venduto a Pirro non sarebbe stato che lo schiavo di un tiranno. 

Ammirato dalla nobiltà d’animo del console, il re dell’Epiro liberò tutti i prigionieri senza 

riscatto. Da quella volta Fabrizio divenne simbolo di onestà e integrità morale. 

l’Uticense Cato: Catone l’Uticense, simbolo per antonomasia di probità e rettitudine, 

fu uomo di profonda cultura, molto severo nei costumi e nemico di ogni azione disonesta. 

3 Cit., p. 150.

I Testi 

XIV. 

Il 24 giugno del 1487 Ercole I rientrò da Roma a Ferrara, passando per porta San 

Giorgio, accolto con grandi festeggiamenti dalla popolazione. In questo sonetto l’Ariosto 

è presentato tra i cortigiani che gli diedero il benvenuto; il Giudice, con fare lezioso da 

vero sberrettiero, racconta al duca di un ghiotto (v. 9), il quale, incitato da molti, scrive 

sonetti di scherno contro di lui. 

9. ghiotto: ‘uomo di mal affare’, cfr. il ghiottoncello del sonetto VI, v. 16. 

10. rasenza: propriamente ‘rade’. 

11. fornito e cotto: imbandito per vivanda affinché ognuno se ne sazi a piacere. 

13. più a destro: ‘più comodamente’, ‘da solo a solo’. 

grotto: ‘gretto’, ‘meschino’. 

16. caleffan: ‘si burlano di me’, cfr. Sacchetti, Trecentonovelle, 213, pag. 553.37: 

«Dice Cecco: - In fé di Dio, e’ mi pare strano che ciò possa essere, io credea che tu caleffassi. 

- Dice Giannino: - Io non ho da caleffare, ché mi pare mill’anni che io sappia da 

qualche medico se ’l colpo è cassale o no». 

69


XV. 

La risposta data dal duca a Niccolò è degna d’un gran signore. Ercole manifesta la 

propria stima per il conte e ammette che gli rincresce molto sapere che il Giudice è stato 

messo alla berlina, lo invita anche ad essere magnanimo e a perdonare chi lo deride, ma 

contemporaneamente lo mette in guardia, suggerendogli di coprirsi il capo, poiché tira 

vento (v. 10; vale a dire Niccolò è minacciato) e sarebbe corrotto dal freddo (v. 11; ovvero 

dalle freddure di coloro che lo caleffano volentieri). 

Rubrica. Umana: ‘benigna’ 

4. compiuto: «per dotato d’ogni eccellenza di costumi, e di virtù». (Voc. Crusca). Cfr. 

Decameron II 9: «Se, di spezial grazia da Dio avere una donna per moglie, la più compiuta 

di tutte quelle virtù». 

13. scotto: ‘prezzo da pagare all’osteria o alla locanda’ (dal franco skot, ‘tassa’), fig. 

‘contropartita’, ‘pagare il fio’; qui sta più in generale per ‘perdonare’. 

15. Gli è: «Talora par, che gli abbia forza di neutro, ed in un certo modo è particella 

riempitiva, proprietà di questo linguaggio». (Voc. Crusca).

I Testi 

XVI. 

Il poeta ricorda all’Ariosto che, sebbene il Signore sia rientrato a Ferrara (v. 2), egli 

non ha paura di continuare a denunciare pubblicamente i suoi furti: come quello perpetrato 

ai danni del povero Giovanni Stoppa, che aveva riparato i ponti così tante volte, e 

avanzava dal Comune ottanta ducati, ma quando poi volle essere pagato, dovette dividere 

il suo introito con l’Ariosto (v. 14). Ancora una volta il Pistoia augura al Giudice di finire 

sul patibolo e, poi, all’inferno! 

1. stroppa: dal gergo marinaresco sta a indicare un pezzo di corda, piegata ad anello, 

con cui si avvolge un oggetto mobile in modo da unirlo a un punto fisso senza intralciarne 

i movimenti. Starmi in stroppa con dir sta qui per ‘trattenermi dal dire’. 

4. guatto: ‘quatto’. 

8. coppa: «con l’o stretto, la parte di dietro del capo» (Voc. Crusca). 

14. dui monti: ‘due cumuli’ (dovette cioè dividere gli ottanta ducati con l’Ariosto). 

16. capestro: propriamente il cánapo con cui venivano impiccati i condannati alla 

forca. 

71


XVII. 

Torna in questo sonetto un personaggio già incontrato nel decimo della corona: Stefano 

Furlano, quel contadino che aveva voluto inurbarsi ed era stato truffato dall’Ariosto, 

il quale gli aveva rubato il suo terreno (v. 4). Nel componimento viene nuovamente 

ricordato il furto e l’Ariosto è apostrofato come Magnaterra. Questa ripetizione che 

avrebbe poco senso nell’economia della raccolta, spinge a credere che il sonetto (cronologicamente 

posteriore al decimo) sia stato scritto e affisso in qualche pubblico luogo, 

dopo il ritorno del duca a Ferrara, affinché ad Ercole I giungesse notizia delle appropriazioni 

indebite del Giudice dei Savi. 

10. di roba più ch’esperto d’addiettivi: ricco di roba, ma ignorante e dunque facile 

preda di chi sa usare i superlativi (v. 12). 

14. cominciò a latinar per i passivi: ‘parlare difficile’, ma qui ironicamente anche 

‘mandar in rovina (in passivo) l’attivo del Furlan’, facendo scrivere al notaio un pubblico 

strumento (v. 16) sull’accordo con il manzo (lo stolto contadino). 

17. manzo: ‘sciocco’.

I Testi 

XVIII. 

Sonetto sul genere dei dialoghi dialettali e delle Scene contadinesche dei Sonetti ferraresi 

del Quattrocento (per cui cfr. Introduzione). Vi sono rappresentati un contadino, 

l’Ariosto e i due sbirri Magagnino e Squarzone, i quali derubano un villano di un agnello. 

Rubrica. pelador… salvadegi: così apostrofato perché strappa via persino la pelle 

(deruba) ai gatti selvatici (i poveri contadini). Si noti, dal punto di vista linguistico, che 

nella quasi totalità della provincia di Pistoia il fenomeno dell’aspirazione consonantica è 

limitato alla sola “k”, mentre risulta sconosciuta l’aspirazione di “p” e “t” (cfr. G. 

ROHLFS, cit., p. 162), che così si sonorizzano. 

5. Bertello: nome convenzionale dei villani anche nei Sonetti ferraresi del Quattrocento. 

9. lavoriero: impianto da pesca tipico delle valli e degli stagni, costituito da graticci e 

pali disposti a formare un angolo con il vertice rivolto al mare, per la cattura dei pesci 

durante la migrazione. Il lemma appare anche nelle Scene contadinesche, XIV, v. 9. 

17. fantesin: ‘bambini’, da ‘piccolo fante’, ‘infante’. 

73


XIX. 

Altro dialogo, stavolta tra Niccolò Ariosto e sua moglie, la reggiana Daria Malaguzzi 

Valeri, la quale con grande tatto nei confronti dell’amato marito, si lamenta con lui di come 

la gente, per strada, sparli di lei, apostrofandola come “moglie del ladro atrocissimo” 

(v. 4); ma l’Ariosto, con fare gretto, le consiglia di fingere di non udire le accuse, perché 

tanto lui, finché gliene sarà concessa la possibilità, continuerà a rubare, dato che “chi è 

senza roba, viene considerato pazzo” (v. 9). 

Rubrica. mogliere: latinismo. Il lemma è usato anche in Toscana e non solo nei dialetti 

del Sud; cfr. Decameron II 8: «Perotto, Giachetto, che è qui, ha tua sorella per mogliere».

I Testi 

XX. 

Nel manoscritto il sonetto non è rubricato, nonostante ciò, nell’edizione Cappelli- 

Ferrari appare preceduto da questa nota: Quando adì 1. gennaio 1489 fu casso il Magnaferro, 

ed in suo luogo successe lo spettabile Galeazzo Trotti. In realtà, nel codice, alla 

carta 187v, in calce al sonetto si legge: 1489, adì primo de zanaro la matina fu casso il 

dicto Magnaferro e in suo luogo successe il spettabile Galiazzo Trotto. 

Per un commento più dettagliato, cfr. Introduzione. 

3. cassia: ‘erba cassìa’, ‘senna’ ovvero ‘lassativo’; qui l’ironia è giocata sul termine 

‘cassare’, ‘destituire’. 

10. condice: < CONDICERE, ‘convenire’. 

12. tamburloni: ‘tamburlani’, ‘tamborlani’, cioè ‘arnesi metallici per distillare’ e anche 

‘cilindri metallici con coperchi’; qui in generale ‘arnesi che fanno fracasso’. 

14. poltronzoni: ‘uomini dappoco’, ‘vili’. 

15. levi e ventroni: frattaglie d’animali da lanciare, per umiliarlo, contro il Giudice 

che nel corso del suo ufficio ha rubato e si è riempito il ventre. Levi nel gergo furbesco 

sta per ‘cose rubate’, ventroni ‘ventricoli’, qui sta ironicamente per ‘cose di cui l’Ariosto 

si è riempito il ventre’. 

75


XXI. 

Anche il sonetto seguente, nel codice, appare senza rubrica, ma nell’edizione Cappelli-Ferrari 

è preceduto dalla seguente nota: Per la nomina di Niccolò a governatore di 

Modena. 

7. pastor: il duca. 

9. alturio: < ADIUTORIUM, ‘soccorso’, ‘aiuto’. 

10. San Geminian: San Gimignano, vescovo e protettore di Modena.

I Testi 

XXII. 

Le inesattezze della stampa di Cappelli-Ferrari, per questo sonetto, sono talmente numerose 

che preferiamo commentarle qui di seguito, piuttosto che riportarne un semplice 

elenco in calce al componimento che, altrimenti, sarebbe di difficile comprensione se venisse 

letto come fecero Cappelli e Ferrari. Il primo verso è ammodernato in il fiato mi 

vien men, al v. 2 viene corretto ch’io non ho divorà l’originale ch’i’ ho non divorà, che 

testimonia un tratto assai importante della negazione che accomuna il vernacolo pistoiese 

al bolognese. A tale proposito, bisogna notare che la compresenza di una forma ridondante 

anche nella parte meridionale dell’Alto Reno e nel pistoiese è di estremo interesse 

perché accomuna tutto questo territorio a un’area dell’Europa centrale francofona e germanofona 

dove la negazione è sempre del tipo ridondante o postverbale (es: il tedesco 

“Morgen muss ich nicht arbeiten”); come è noto la negazione ridondante può semplificarsi 

in negazione postverbale. Tutto il territorio in cui appare la negazione postverbale e 

la negazione ridondante appartiene alla cosiddetta “Area Carlo Magno”, ovvero ai territori 

del germanico “Sacro Romano Impero”; i territori che presentano la negazione postverbale 

e/o la negazione ridondante sono quelli che maggiormente hanno ospitato popolazioni 

germaniche. Ancora, Cappelli e Ferrari leggono perduto (v. 3) dove invece il manoscritto 

ha padito, che è voce dialettale emiliana per digerito (qui è evidente l’ironia del 

poeta, che mette in bocca all’Ariosto termini tipici del suo lessico di gran divoratore, tutto 

incentrato sul mangiare, digerire, ingurgitare) e sempre al v. 3 strangualzare per stragualzare. 

Cappelli-Ferrari trascrivono ancora s’empirem per s’impirem (v. 8); un incomprensibile 

dento per dente (v. 9); pieno e ventre per pien e vintre (v. 10); udir ne fa per 

adì ne fa (cioè aldire), sluvazzerò per slovezarò (v. 20). 

3. stragualzà: voce emiliana per ‘mangiare avidamente’, ‘divorare’. In un testo emiliano 

di poco posteriore, il Processo e confessione del squaquarante Carnevael, viene 

prescritto di «sbevazare, papare, sgolazare, trachanare, ingultire, lecare, stragualzare» 

(cfr. G.C. Croce, La solenne e trionfante entrata dello squaquaratissimo et sloffeggiantissimo 

Signor Carnevale in questa città, Bologna, B. Cochi, s.a., in Affanni e canzoni 

del padre di Bertoldo, a c. di M. DURSI, Bologna, Alfa ed., 1966, p. 119). 

20. slovezarò: ha identico significato di stragualzare (v. 3), cioè ‘ingollare con avidità’. 

preda arringadora: in modenese ‘pedra ringadora’, in piazza grande; ovvero la pietra 

dell’arringo, dove si saliva per parlare in pubblico e dove venivano esposti i condannati 

alla berlina; cfr. Pistoia, Sonetti 77 v. 9. Per lo sviluppo di vocali anaptittiche cfr. nota al 

Sonetto X, v. 8. 

77


XXIII. 

L’ultimo sonetto della corona è diretto (come ricorda anche Caleffini, nelle sue Croniche) 

al ghiottoncello allevato dall’Ariosto: Gian Gerolamo Marchese, segretario del 

Giudice de’ Savi. Il giovane credeva di poter rubare anch’egli, percorrendo tutto il mare 

magno (perpetrando un’infinità di furti), grazie al paterno aiuto del conte Ariosto, ma ora 

che il suo protettore è casso e scacciato da Ferrara, Gian Gerolamo si trova sommerso in 

uno stagno (v. 3). Per voler rubare il mantello altrui, dice il Poeta, il giovane ladruncolo 

ne ha perso uno nuovo (nel senso che avrebbe potuto fare una brillante carriera e invece 

si trova infamato, a tutte sue spese, v. 14). La velenosa cauda del sonetto è degna d’un 

vero poeta satirico quale fu il Pistoia: presto il giovane verrà tanto bastonato per le sue 

malefatte che si troverà il deretano rosso come quello d’una scimmia, e allora per difendersi, 

faccia pure, se ne è all’altezza, di scherma (cioè, sfidi pure a duello chi lo sta infamando 

adesso). 

2. mare: chiara allusione al mare di roba rubata. 

magno: termine furbesco che sottintende il ‘magnare a ufo’. 

5. Ecco: Eco, la ninfa ridotta a pura voce, qui sta per ‘gregario’. 

17. scrimia: dal Ted. schirm, schirmian > poi scrima, scrimia, schermo ed infine 

scherma.

Nota bibliografica 

La necessità di focalizzare l’attenzione sul Cammelli nasce dall’inspiegabile 

carenza di studi critici riguardanti il rimatore toscano. La sua bibliografia, soprattutto 

nell’ultimo secolo, è assai scarsa. 

Il primo studioso del Pistoia fu, nel 1865, Antonio Cappelli (1817-1887), che 

pubblicò la princeps dei Sonetti giocosi di Antonio da Pistoia, costituita da 20 

sonetti provenienti da E, in parte da P, cui aggiunse 23 sonetti adespoti contro 

Niccolò Ariosto, tratti da un altro codice estense, siglato W. 2. II. 

Ad interessarsi dell’opera del poeta toscano fu poi Ottaviano Targioni-Tozzetti 

(1833-1899), il quale, tra il 1869 e il 1883, in alcune pubblicazioni “per 

nozze”, fece conoscere soprattutto i sonetti politici del codice della Biblioteca 

Comunale Ariostea, segnato 408, N., D. 3., cc. 5r-33r; 251v, 273 r, indicatogli 

dall’allora bibliotecario della Comunale di Ferrara: «tutti notevolissimi e spesso 

veramente belli […] massime quelli che si riferiscono al periodo della discesa di 

Carlo VIII» 1 . 

Risale al 1884 la pubblicazione, a Livorno, delle Rime edite e inedite di Antonio 

Cammelli detto il Pistoia, a c. di A. Cappelli e S. Ferrari: i componimenti sono 

tratti da due codici della Nazionale di Firenze (II. ii. 109 e il Magliab. VII. 

25), dal citato codice P, dai due mss. estensi di Modena e dal cod. I 408 della 

Comunale di Ferrara. 

Tra coloro che accolsero con interesse l’edizione di Cappelli e Ferrari vi fu 

Rodolfo Renier (1857-1915), che la recensì nella «Rivista storica mantovana» 2 . 

Così, sempre nel 1884, Renier notò, nel catalogo dei manoscritti della celebre biblioteca 

privata dei Trivulzio di Milano 3 , stilato dal Porro, un codice contenente 

la più ampia silloge di rime del Cammelli fino ad allora conosciuta. 

1 Sonetti politici e burleschi inediti di Antonio Cammelli, detto il Pistoia, Livorno, 

Vigo, 1869, p. 3; per le altre pubblicazioni dello stesso autore cfr. il cap. Stampe antiche, 

qui di seguito. Si tratta di una pubblicazione per nozze, di soli 55 esemplari, preceduta 

da un’interessante Avvertenza, in cui Targioni Tozzetti accenna alla necessità di una storia 

della poesia giocosa e contraddice il «troppo cattivo giudizio che sembra prevalere 

contro tutti i rimatori burleschi». I diciotto sonetti riprodotti sono ben illustrati da note 

storiche, quasi tutte riprodotte in seguito da CF, per concessione dell’autore. 

2 Del Pistoia, in «Rivista Storica Mantovana», I (1885), p. 72 sgg. 

3 G. PORRO, Trivulziana. Catalogo dei cod. manoscritti, Torino, Stamperia Reale Paravia 

e Comp., 1884.


Quattro anni più tardi, nel 1888, fu lo stesso Renier a pubblicare integralmente 

il manoscritto Trivulziano 979 presso Loescher di Torino, con il titolo I Sonetti 

del Pistoia giusta l’apografo Trivulziano (il lavoro di Renier venne sin troppo 

severamente criticato dal Pèrcopo: «il testo di quest’edizione, allestito troppo in 

fretta, riuscì assai scorretto e, per questo riguardo può ben formare il paio con 

quello non meno errato delle Novelle inedite del Sercambi, messe fuori […] dallo 

stesso editore») 4 . 

Ma l’edizione, per quanto imprecisa in più punti e priva di un serio commento, 

ebbe il merito di far conoscere il Pistoia anche all’estero; così, nel 1901, Philippe 

Monnier (1864-1911), nel volume Le Quattrocento 5 parlò, non senza enfasi, 

di un «pauvre domestique, Antonio Cammelli, relégué avec les estafiers et les 

esclaves à l’office, où il mange sur une nappe trouée du pain qui a des poils et de 

la vache qui semble du cuir […]. Seul le Pistoia, qui imite Burchiello, le ferait il 

oublier et annoncerait il le Berni» 6 . Lo studioso olandese Willem Bijvanck 

(1895-1921), tracciò un profilo piuttosto bizzarro del poeta in un articolo destinato 

al grande pubblico, ma assai impreciso e superficiale, in cui il poeta è presentato 

come una sorta di buffone di corte, dal titolo Pistoja een italiaansch humorist 

van de 15 e eeuw 7 . Maggiore precisione dimostrò Edmund Garratt Gardner 

(1869-1935), in Dukes & poets in Ferrara; a study in the poetry, religion, and 

politics of the fifteenth and early sixteenth centuries 8 , in cui si occupò principalmente 

dei sonetti politici del Nostro, fornendone anche una traduzione inglese. 

Risale al 1904 il corposo studio di Erasmo Pèrcopo (1860-1928), Antonio 

Cammelli e i suoi sonetti faceti 9 . Il mosaico delle pubblicazioni delle liriche del 

Pistoia si completò infine nel 1908, con l’inserimento della tessera di più vaste 

dimensioni: l’edizione dei Sonetti faceti di Antonio Cammelli secondo l’autografo 

Ambrosiano, curata sempre dal Pèrcopo 10 . 

Gli studi sul Pistoia vennero rilanciati dall’edizione percopiana, cui seguirono 

recensioni e brevi segnalazioni, edite soprattutto nel «Giornale Storico della 

Letteratura Italiana», dal 1885 sino al 1910. 

Nel 1929, Domenico Clarizia, giovane studioso napoletano, diede alle stampe 

4 2 Perc , p. 882. 

5 Ph. MONNIER, Le Quattrocento, Paris, Perrin, 1901. 

6 Cit., p. 355. 

7 e W. G. C. BIJVANCK, Pistoja een italiaansch humorist van de 15 eeuw, in «De 

Gids», 3 (1902), pp. 339-357. 

8 E. GARRATT GARDNER, Dukes & poets in Ferrara. A study in the poetry, religion, 

and politics of the fifteenth and early sixteenth centuries, London, Constable & Co, 

1904, pp. 475-485. 

9 In «Studi di Letteratura italiana», 6 (1904-1906), pp. 299-920. 

10 E. PÈRCOPO, Sonetti faceti di Antonio Cammelli secondo l’autografo Ambrosiano, 

Napoli, Jovene, 1908.

Nota bibliografica 81 

la propria tesi di laurea, interamente dedicata al Cammelli, dal titolo Un poeta 

giocoso del Rinascimento: il Pistoia, Salerno, Beraglia Editore. 

La pubblicazione più importante sul pistoiese, in epoca recente, rimane la voce 

sul Cammelli, curata da D. De Robertis, nel DBI 11 . 

Purtroppo inutilizzabile, sia perché scritto in un italiano piuttosto approssimativo, 

sia perché essenzialmente un impreciso sunto dello studio del Pèrcopo 

del 1904, è il libro Anticlericalismo e ingiustizie sociali nell’Italia del ’400: l’opera 

poetica e satirica di Antonio Cammelli detto il Pistoia, firmato da Rocco 

Pallone, docente presso la Fordham University - Rose Hill City di New York 12 . 

Nel 1983 Antonia Tissoni Benvenuti e Maria Pia Mussini Sacchi pubblicano la 

Panfila, nel volume edito dalla UTET, Teatro del Quattrocento: le corti padane. 

Nel 1996 viene organizzata a Napoli una giornata di studi sull’Attività di Erasmo 

Pèrcopo tra storiografia letteraria e pratica filologica, cui Adriana Mauriello 

partecipa con un breve intervento sull’Edizione dei Sonetti faceti di Antonio 

Cammelli, edito tre anni più tardi in «Esperienze Letterarie» 13 . 

Nell’ottobre del 2003 l’associazione culturale pistoiese “Un Club per l’Europa” 

dedica uno dei suoi incontri alla rievocazione della figura del Pistoia, in occasione 

della quale la Biblioteca Forteguerriana predispone una mostra, piccola 

ma ben documentata, in cui vengono esposti il codice Tonti, le edizioni ottocentesche 

delle rime del poeta e la corrispondenza autografa degli studiosi che se ne 

erano occupati. 

Nel 2004 esce, per cura di chi scrive, l’articolo La Disperata, capitolo conclusivo 

dei Sonetti faceti del Pistoia, in «LIA», 6 (2004), pp. 43-61. 

Nel 2005, Paolo Orvieto, avvertendo la necessità di presentare nuovamente al 

pubblico l’opera del Pistoia, cura la ristampa anastatica dell’edizione percopiana 

(divenuta ormai praticamente introvabile), preceduta da una documentata introduzione. 

11 Cit., cfr. n. 4 della Premessa. 

12 R. PALLONE, Anticlericalismo e ingiustizie sociali nell’Italia del ’400: l’opera poetica 

e satirica di Antonio Cammelli detto il Pistoia, Roma, Trevi editore, 1975. 

13 Cfr. nota 19 della Premessa.

Sigle 

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Testi comici delle origini / edizioni e antologie 

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biblioteca italiana o straniera che ne possiede una copia e, ove possibile, dopo la 

sigla della biblioteca, la collocazione attuale] 

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Nota bibliografica 85 

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PERRUS (Claudette), Libéralité et munificence dans la littérature italienne du 

Moyen Age, Pisa, Pacini, 1984, 382p. (Bièvre, L 2113). 

1985 

LANZA (Antonio), Aspetti e figure della poesia comico-realistica toscana del secolo 

XV, in “Rassegna della letteratura italiana”, LXXXIX, 1985, pp. 403-443, Firenze, 

Sansoni (Sorbonne, P1329 in-8°). 

1989 

BORSELLINO (Nino), La tradizione del comico, Milano, Garzanti, 1989, pp. 7-66 

(Bièvre, L2801). 

CHIAPPELLI (Giovanni), Ridere nel Medioevo, in “Quaderni medievali”, n. 28, 

déc. 1989 (Sorbonne, P7479 in-8°). 

1990 

BARBERI SQUAROTTI (Giorgio), Storia della civiltà letteraria italiana (diretto da), 

Vol. 1, Dalle origini al Trecento, Torino, UTET, 1990, XX-514p. (Bièvre, usuel). 

1992 

AVALLE (D’Arco Silvio), Concordanze della lingua poetica italiana delle origini 

(a cura di), Manoscritti duecenteschi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1992, CCLXX- 

870p. (Bièvre, in-4° PH90-1).

I manoscritti contenenti composizioni burlesche 

Il seguente regesto comprende, elencate per autore (per comodità di reperimento 

adotto un indice alfabetico e non cronologico) le collocazioni dei vari codici 

manoscritti degli autori giocosi e burleschi precursori del Pistoia. 

- Cecco ANGIOLIERI 

Codice 10 della Biblioteca civica di Udine. 

Codice 1081 della Biblioteca Palatina di Parma. 

Codice 1289 della Biblioteca Universitaria di Bologna. 

Codice Ambrosiano O. 63. Sup. 

Codice Barberino XLV. 47. 

Codice C. 43 della Biblioteca comunale di Perugia. 

Codice Casanatense 433. 

Codice CCCCXLV della Biblioteca Capitolare di Verona. 

Codice Chigiano Latino VIII. 305. 

Codice Escorialense e. III.23. 

Codice Galvani-Manzoni, oggi perduto. 

Codice H. X. 47 della Biblioteca comunale di Siena. 

Codice it. 557 de la Bibliothèque Nationale de Paris. 

Codice Laurenziano XL. 49. 

Codice Laurenziano 122 del fondo Conv. Soppressi. 

Codice Magliabechiani VII, 1040 et 1145. 

Codice Panciatichiano 24. 

Codici Riccardiani 1103, 2729, 2908, 683 et 1094. 

Codice Vaticano 3793. 

Codice Vaticano Barberino Latino 3679. 

Codice Vaticano Latino 3214. 

Codice Vaticano 697 del fondo Urbinate. 

Memoriale n. 85 dell’Archivio Notarile di Bologna. 

- Bindo BONICHI 

Appendice 

Codice 101 dell’Accademia dei Concordi di Rovigo.


Codice 1425 della Biblioteca Angelica di Roma. 

Codice Vaticano Chigiano Latino IV. 131. 

Codice Vaticano Chigiano M. VI. 127. 

Codice 3 della Biblioteca Venturi Ginori Lisci. 

Codice 89 del Fondo Landau. 

Codice Gaddiano 198. 

Codice Laurenziano Ashburnhamiani 1378. 

Codici Magliabechiani II, IV. 126 et 114. 

Codici Magliabechiani VII. 1034 ; 1040 ; 1145 et 1298. 

Codice Marciano IX. 204. 

Codice Panciatichiani 24. 

Codice Parigino Italiano 557. 

Codici Riccardiani 1036 et 1156. 

Codice Senese C. IV. 16. 

Codice Strozziano 137 degli acquisti e doni. 

Codice Trivulziano 1053. 

Codice Udinese Ottelio 10. 

Codice Vaticano Latino 3212. 

- Marino CECCOLI 


- Dino COMPAGNI 

Codice 445 della Biblioteca capitolare di Verona. 

Codice Laurenziano Ashburnhamiani 443. 

Codice Laurenziano Gaddiani 193. 

- Cenne DA LA CHITARRA 

Codice Chigiano Latino IV, 131. 


- Iacopo DA LEONA 

Codice Vaticano Latino 3793.

Appendice 105 

- Bartolomeo DA SANT’ANGELO 


- Stoppa DE’ BOSTICHI 

Codice Chigiano Latino IV. 131. 

Codice C. 155 della Marucelliana. 


Codici Laurenziani XC inf. 40 et 47. 

Codice Magliabechiano VII. 1078. 

Codici Marciani It. IX. 486 et 679. 

Codice Mediceo-Palatini 118. 


Codice Strozziano 137 degli Acquisti e doni. 

Codice Strozziano 122 dei Conventi soppressi. 

- Adriano DE’ ROSSI 

Codice Vaticano Chigiano L.IV.131. 

Codice Laurenziano Rediano 184. 

- Pietro DEI FAITINELLI 


Codice Chigiano A. VII, 217. 


- Iacopo DEI TOLOMEI 


- Meo DEI TOLOMEI 

Codice Chigiano Latino VIII, 305. 

Codice Escurialense e. III, 23. 

Codice Vaticano Barberino Latino 3953.


Codice Vaticano Latino 3793 della biblioteca vaticana di Roma. 

Memoriale n. 85 del 1293 dell’Archivio di Stato di Bologna. 

- Niccolò DEL ROSSO 


- Rustico FILIPPI 


Codice Magliabechiano VII, 1040. 

Codice Marciano IX. it. 529. 

Codici Vaticani Latini 3793 et 3214. 

Codice Vaticano 697 del fondo Urbinate. 

- FINO D’AREZZO 


-FOLGORE DA SAN GIMIGNANO 


Codice Magliabechiano VII, 1066. 

Codici Riccardiani 1158 ; 2795 et 1103. 


- Gualpertino DA CODERTA 


- GUERCIO DA MONTESANTO 


- IMMANUEL Romano 

Codice Barberino Latino 4036.

Appendice 

Codice Casanatense 433. 


- Giuntino LANFREDI 


- Luporo DA LUCCA 

Codice Ambrosiano C. 35. 

Codici Ricciardini 931 et 1103. 

- Neri MOSCOLI 


- Niccola (Muscia da Siena) MUSCIA 



- Cecco NUCCOLI 


- PARLANTINO DA FIRENZE 

Codice Malgiabechiano VII, 1060. 


- Antonio PUCCI 

Codice Laurenziano Ashburnham 1378. 

Codice Laurenziano Tempi 2. 

Codici Magliabechiani VII, 1145 ; 1298 e 1168. 



107


Codice Vaticano Chigiano Latino IV. 131. 

Codice Conventi soppressi B. 7. 2889. 

- Benuccio SALIMBENI 

Codice 1425 della Biblioteca Angelica di Roma. 

Codici Fondo principale, II. II. 40 ; II. IV. 114 et II. IX. 125. 

Codice 332 dei Nuovi acquisti (Giuntina Galvani). 

Codice Vaticano Chigiano Latino IV. 110 et 131. 

Codici 152 e 155 della Marucelliana. 


Codice Laurenziano Ashuburnham 542. 

Codici Magliabechiani VI. 143 ; VI. 163 ; VII. 375 ; VII. 1034 et VII. 1298. 

Codici Mediceo-Laurenziani XC. inf. 47 et 48. 

Codice Mediceo-Palatino 105.

Ariosto, Ludovico; 

Ariosto, Niccolò; 

Bertoni, Giulio; 

Caleffini, Ugo; 

Cammelli, Antonio detto il Pistoia; 

Cappelli, Antonio; 

Carducci, Giosuè; 

Catalano, Michele; 

da Correggio Niccolò; 

Eleonora d’Aragona d’Este; 

Ercole I d’Este; 

Indice dei nomi 

Ermete Bentivoglio; 

Federico III; 

Isabella d’Este; 

Lorenzo il Magnifico; 

Magagnino; 

Niccolò di Lionello d’Este; 

Pardi, Giuseppe; 

Pèrcopo, Erasmo; 

Pol da Lendinara; 

Sardi, Gaspare; 

Squarzone;

Sonetti contro l'Ariosto, giudice de' Savi in Ferrara - Carla Rossi ...

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