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Il disagio, per Bene, è il disagio del soggetto e del<strong>la</strong> rappresentazione. Non si confondano certe sue tirate<br />

con una forma ormai <strong>la</strong>rgamente vulgata di simbolismo o di estetismo deteriore: non rimane niente, a<br />

ben vedere, nel<strong>la</strong> pratica beniana, di quel buio programmatico, di quel<strong>la</strong> sistematica ricerca del distacco<br />

dal vivente verso una presunta purezza del<strong>la</strong> forma che si rovescia spesso <strong>in</strong> necrofilia. Siamo piuttosto <strong>in</strong><br />

presenza di un movimento contrario che però attraversa tali impasse bruciandone quel tanto di<br />

rappresentativo e di decorativo, che non le accantona acriticamente ma le vive nel<strong>la</strong> propria carne<br />

martoriata e nel<strong>la</strong> grana sbrecciata del<strong>la</strong> voce. Questo, per Bene, è teatro. E teatro che usa <strong>la</strong> poesia e <strong>la</strong><br />

voce come critica, luogo cavo mediante il quale attraversare le forme, tutte le forme, trapassandole<br />

senza evitarle. E non c’è nessun mito del<strong>la</strong> purezza, neanche di una purezza vocalica orig<strong>in</strong>aria, come<br />

forse ad un primo approccio potrebbe sembrare.<br />

Nell’agone teatrale, nel<strong>la</strong> gogna del<strong>la</strong> scena e del<strong>la</strong> rappresentazione, l’attore sperimenta appunto il<br />

disagio dell’esserci, fa i conti con le <strong>in</strong>crostazioni del<strong>la</strong> storia e del testo, che non fugge ma combatte <strong>in</strong><br />

un corpo a corpo letterale: se <strong>la</strong> formazione di una identità ci distacca dalle pratiche che <strong>la</strong> costituiscono,<br />

il teatro ci spara <strong>in</strong> faccia, con violenza e tenerezza <strong>in</strong>sieme, tutto questo. E proprio l’attore-Bene, proprio<br />

il campione <strong>in</strong>discusso del<strong>la</strong> vocalità non abbandona mai lo scritto e le sue cancrene: <strong>la</strong> performance<br />

teatrale non è concepibile, per Bene, se non a partire dal testo scritto e dal<strong>la</strong> sua tirannia: è un cont<strong>in</strong>uo<br />

rimasticare e risputare brani di testo come impedimenti, sassi <strong>in</strong> bocca che <strong>la</strong>canianamente impediscono<br />

<strong>la</strong> marea del significante. È <strong>la</strong> stessa cosa che succede con il trovarobato di scena: abiti lunghi e fuori<br />

misura che ostruiscono e rendono <strong>in</strong>naturali i movimenti, oggetti sproporzionati, manich<strong>in</strong>i e pezzi che<br />

non tornano, che risulta impossibile ricomporre, le stesse voci registrate <strong>in</strong> as<strong>in</strong>crono che stracciano <strong>la</strong><br />

l<strong>in</strong>earità del<strong>la</strong> storia, che è poi <strong>la</strong> l<strong>in</strong>earità del nostro procedere scrittorio-alfabetico. Si tenta <strong>in</strong>somma lo<br />

sgambetto, il tranello, <strong>in</strong> modo da riaprire quel<strong>la</strong> fal<strong>la</strong> davvero orig<strong>in</strong>aria tra scritto e orale, tra pensato e<br />

pensiero <strong>in</strong> atto, tra atto e azione - l’abisso del<strong>la</strong> volontà che, per forza di cose, non può non contemp<strong>la</strong>re<br />

al suo <strong>in</strong>terno anche il suo “non”, <strong>la</strong> sua negazione, <strong>la</strong> sua <strong>in</strong>-potenza.<br />

La cosa sconvolgente è che gran parte del<strong>la</strong> poesia del nostro tempo non è più disposta ad abitare un tale<br />

abisso e molto spesso all’abisso preferisce l’ab-soluto, <strong>la</strong> prestazione immunitaria o al massimo<br />

omeopatica: <strong>la</strong> gestione del negativo e <strong>la</strong> costruzione di un rovescio dell’identità altrettanto tenace del<strong>la</strong><br />

forma identitaria stessa. E spiace dover constatare che <strong>in</strong> alcuni casi questo accade proprio ad un tipo di<br />

fruizione ed esperienza poetica che si dice “performativa” e teatrale. Molto spesso, questo tipo di<br />

esperienze si limitano ad accantonare il problema dello scritto che, come abbiamo visto, è il perno<br />

dell’agone orale beniano: allora, nel momento <strong>in</strong> cui sembrerebbe possibile e attuabile un recupero<br />

<strong>in</strong>teressante del corpo-voce e delle sue d<strong>in</strong>amiche, ci troviamo <strong>in</strong> realtà di fronte ad una<br />

smaterializzazione, ad una fuga aproblematica e aprioristica che divide <strong>in</strong>cessantemente vivente e<br />

vissuto, nuda vita e forma di vita, immediatezza e mediazione. È chiaro che allora <strong>la</strong> fruizione da parte<br />

del pubblico diventa più semplice ed accattivante poiché <strong>la</strong>scia tutto così com’è e può tran<strong>qui</strong>l<strong>la</strong>mente<br />

essere tollerata anche nelle sue forme più “estremistiche” poiché non mette <strong>in</strong> discussione l’essenziale,<br />

non percepisce cioè <strong>la</strong> voce come dialettica del pensiero. Lo stesso Bene <strong>in</strong>fatti sostiene:<br />

Non mi riguarda il verso descrittivo, il compit<strong>in</strong>o del paesaggio, il verso, <strong>in</strong>somma, da componimento, poiché e<strong>qui</strong>vale<br />

il riferire sciagurato d’ogni attore ch’io sappia sul<strong>la</strong> scena. E <strong>in</strong> tal senso, <strong>la</strong> tradizione “c<strong>la</strong>ssica” universa è un <strong>in</strong>f<strong>in</strong>ito<br />

cimitero d’attori-poeti e di poeti-attori. Ma se il poetare di là dai “sentimenti” è l’esercitazione <strong>in</strong> l<strong>in</strong>gua altra che<br />

rigorosamente si preclude ogni tentazionacel<strong>la</strong> extratestuale, ecco il gioco sovrano del dire che <strong>la</strong> voce scrive <strong>in</strong> pieno<br />

mercato di scena. […] Ci vuole urgenza - disessere nei suoni per dar voce al pensar dimenticato. (2)<br />

Da tutto ciò <strong>la</strong> forte critica al modello poetico occidentale, e italiano <strong>in</strong> partico<strong>la</strong>re, e il progetto di una sua<br />

dis<strong>in</strong>tegrazione mediante l’atto teatrale:<br />

In questa “<strong>in</strong>umazione prematura”, <strong>la</strong> massa dei miei atomi ha meritato, per autocombustione irripetibile,<br />

un’esplosione che ha dis<strong>in</strong>tegrato gli scapigliati fiutascorregge del<strong>la</strong> tradizione e i signori di baciaculo del<strong>la</strong><br />

neoavanguardia pre-pensionata. Anche se, senza scampo, seguitano a riprodursi, visibilmente <strong>in</strong>coronati dal boato.<br />

Dis<strong>in</strong>tegrato è l’autorialità ecceduta dal<strong>la</strong> sprogrammazione nel prodursi e costituirsi come opera di che solo le scorie<br />

sono oggetto del corpo tipografico a seguire. Dis<strong>in</strong>tegrato è tutto il novecento: il “pasticciaccio brutto” dell’anti-neotradizione<br />

<strong>in</strong>tesa come servizio funebre d’imbellettare il sonno eterno dei c<strong>la</strong>ssici, e - <strong>in</strong> questo ufficio macabro<br />

cosmetico - se-viziare, “spregiudicata”, posture e atteggiamenti, spett<strong>in</strong>andone il senso, sforbiciandolo, <strong>in</strong>tascare una<br />

ciocca nel dis-senso “diligente”, <strong>in</strong>vidioso, mai tentata di r<strong>in</strong>unciare al senso; come <strong>la</strong> scampagnata d’avanguardia,<br />

lungi dal rov<strong>in</strong>are le rov<strong>in</strong>e, nell’ora più sfrenata di ricreazione sco<strong>la</strong>stica, scorrazza, sfregia i nomi sulle <strong>la</strong>pidi, <strong>in</strong>verte<br />

fiori, ceri e fuochi fatui, e f<strong>in</strong>almente impazza nell’obitorio di quel cimitero, <strong>in</strong>vocando il non-senso e il suo contrario.<br />

Non oltre. (3)<br />

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