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consente di esporvisi, di assumer<strong>la</strong> consapevolmente e di abitar<strong>la</strong>. Ciò che va perduto è, <strong>in</strong> altri term<strong>in</strong>i,<br />
l’accadere dell’<strong>in</strong>cisione, il movimento del fissare <strong>in</strong> forme, l’orientamento del far segno, ciò che precede<br />
ogni segno e ogni significato perché ne è <strong>la</strong> tensione evenemenziale: <strong>in</strong>-tensione di senso che vige solo<br />
come anacronistica assenza <strong>in</strong> presenze venture.<br />
La scrittura satura, refrattaria al<strong>la</strong> l<strong>in</strong>earità del r<strong>in</strong>vio semantico praticata da Artaud non testimonia<br />
dunque di una “esistenza che rifiuta di significare”, di “un’arte che si è voluta senza opera”, di “un<br />
l<strong>in</strong>guaggio che si è voluto senza traccia, cioè senza differenza” (come avrà a concludere Derrida), se non<br />
nel<strong>la</strong> misura <strong>in</strong> cui si assuma <strong>la</strong> “differenza” <strong>in</strong> una prospettiva ancora stanziale, bipo<strong>la</strong>re e monoorientata<br />
– prospettiva questa, che pertiene em<strong>in</strong>entemente al<strong>la</strong> metafisica dualistica del commento. È<br />
piuttosto tale idea di differenza che Artaud vuole far saltare. Egli <strong>in</strong>fatti boicotta quell’<strong>in</strong>granaggio<br />
fondamentale che, stabiliti oggetti e significati come reciprocamente trascendenti, si <strong>in</strong>terroga poi sui<br />
modi del<strong>la</strong> loro connessione sensata istituendo, appunto, <strong>la</strong> pratica del commento.<br />
Più che una scrittura “senza traccia”, quel<strong>la</strong> di Artaud si rive<strong>la</strong> così una scrittura tesa a mostrare il<br />
precipizio di se stessa nelle sue stesse tracce, a suo modo esercitandosi come auto-bio-grafia. Come<br />
<strong>in</strong>tendere però tale espressione senza <strong>in</strong>correre nelle medesime banalità psicologistiche che hanno<br />
alimentato tutti i commenti di tipo ‘cl<strong>in</strong>ico’ ai quali l’opera di Artaud il folle è stata così spesso sottoposta?<br />
Scrive Carlo S<strong>in</strong>i:<br />
“Ogni filosofia è una autobiografia, non <strong>in</strong> un senso meramente psicologistico, ma nel senso per cui si può dire<br />
che <strong>in</strong> ogni sapere (saper fare, dire, scrivere) è compresa una genealogia, che è <strong>la</strong> autobiografia di quel<br />
sapere” (4).<br />
Ogni sapere è sempre una auto-bio-grafia <strong>in</strong> quanto, esercitandosi, testimonia di sé e del<strong>la</strong> vicenda del<br />
suo prodursi <strong>in</strong> segni che r<strong>in</strong>viano al proprio stesso tracciarsi – senza mai poterlo significare, ma sempre<br />
mostrandolo nel<strong>la</strong> sua congrua operatività. Ogni pratica (cioè ogni sapere <strong>in</strong> quanto “<strong>in</strong>treccio di<br />
pratiche”, come S<strong>in</strong>i direbbe) è dunque scrittura che produce se stessa come eredità, una eredità che si<br />
riscuote dissipandosi. La pratica filosofica è però quel<strong>la</strong> scrittura che <strong>in</strong>terroga <strong>la</strong> dissipazione e si nutre<br />
del<strong>la</strong> perdita, esponendosi al proprio stesso “scarto”.<br />
“Cari amici, quel che avete preso per <strong>la</strong> mia opera era solo lo scarto di me stesso”: il doppio gioco di<br />
Artaud rive<strong>la</strong> così una consapevolezza filosofica <strong>in</strong>sospettata e <strong>la</strong> sua opera, esponendosi come scarto e<br />
allo scarto di se stessa, non fa che reiterare il movimento produttivo di ogni scrittura, che circoscrive un<br />
mondo <strong>in</strong>-tagliandolo di senso.<br />
Visto sotto questa luce, il gesto grafico di Artaud fa tutt’uno con l’ampiezza del suo gesto teatrale,<br />
sussunto e contratto nel<strong>la</strong> nota espressione teatro del<strong>la</strong> crudeltà. Nel<strong>la</strong> ricerca di Artaud tale espressione<br />
costituisce un momento di svolta, all’<strong>in</strong>terno di un percorso che, a partire dal<strong>la</strong> sua concreta esperienza di<br />
attore e di regista, lo condurrà ad una fatale resa di conti con i fondamenti dei saperi occidentali. Il teatro<br />
del<strong>la</strong> crudeltà, <strong>in</strong>fatti, non è propriamente teatro sulle scene, ma è l’istanza di una <strong>in</strong>edita acrobazia che<br />
chiede di sostare operativamente proprio <strong>in</strong> quel luogo <strong>in</strong>afferrabile, quel “nucleo fragile e irre<strong>qui</strong>eto” che<br />
era stato <strong>in</strong>dicato come il dissipato di ogni scrittura. E se ogni scrittura non può che essere autobiografica<br />
iscrizione di sé, taratura del senso come esposizione di una anacronistica provenienza, allora quel sostare<br />
operativo si determ<strong>in</strong>a come rappresentazione di sé nel<strong>la</strong> pluriorientata e gratuita produzione di altro da<br />
sé. Ciò che Artaud chiama ‘teatro del<strong>la</strong> crudeltà’ è un esercizio autogenerativo e attore crudele è colui<br />
che, agendo, espone <strong>la</strong> realtà alle sue metamorfosi e il soggetto al<strong>la</strong> sua costitutiva soggezione.<br />
Crudeltà è dunque esercizio di <strong>in</strong>sistenza nel luogo utopico nel quale si compie <strong>la</strong> sottrazione produttiva,<br />
nonché l’esibizione riproduttiva di quel<strong>la</strong> sottrazione medesima: luogo che è propriamente un primum<br />
movens <strong>in</strong> quanto transito già sempre accaduto nel<strong>la</strong> emergenza grafica di pratiche di vita. Quel che <strong>in</strong><br />
ogni scrittura si sottrae è l’accadere dell’<strong>in</strong>cisione, avevamo detto; tuttavia solo sottraendosi l’<strong>in</strong>cisione<br />
accade, e accade <strong>in</strong> forma di spoglia <strong>in</strong>erte che, cadendo appunto, cede il passo a nuove scritture del<br />
medesimo <strong>in</strong>-scrivibile.<br />
Il teatro del<strong>la</strong> crudeltà è perciò <strong>la</strong> frequentazione rigorosa del transito <strong>in</strong>-scrivibile, verticalmente attivo<br />
all’<strong>in</strong>terno delle sue iscrizioni, solo <strong>in</strong> esse e per esse riattivabile (questo era il secondo <strong>la</strong>to del doppio<br />
gioco artaudiano). Ed è ovvio che tale frequentazione sfugga al pr<strong>in</strong>cipio del<strong>la</strong> differenza b<strong>in</strong>aria<br />
saturando il r<strong>in</strong>vio semantico. Non perché “rifiuti di significare” (il che co<strong>in</strong>ciderebbe con il paradossale<br />
rifiuto di accadere nell’unico modo <strong>in</strong> cui può farlo), ma perché abita <strong>la</strong> macu<strong>la</strong> di quel differire: punto<br />
osmotico vivente/vissuto nel quale non vi è differenza né r<strong>in</strong>vio, <strong>in</strong> quanto ogni differenza vi si <strong>in</strong>augura e<br />
ogni r<strong>in</strong>vio vi si artico<strong>la</strong>.<br />
Solo <strong>la</strong> comprensione di tale ‘<strong>in</strong>differenza’ consente di <strong>in</strong>tendere <strong>la</strong> scrittura del<strong>la</strong> crudeltà come teatro<br />
autobiografico e, ad un tempo, di accogliere <strong>la</strong> provocazione artaudiana ad <strong>in</strong>terrogare i suoi scarti<br />
reiterandone il gesto fondativo. Solo tale comprensione, forse, potrebbe consentire di transitare<br />
dall’<strong>in</strong>treccio di <strong>in</strong>consapevoli autobiografie al<strong>la</strong> scrittura di una consapevole ma imprevedibile<br />
autogenerazione (5).<br />
Flor<strong>in</strong>da Cambria<br />
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