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quale <strong>in</strong>fallibilmente, per giunta, si farà ritorno nel primo. Perché i due gusci, <strong>in</strong> realtà, sono uno solo. Al<br />

paradigma del riparo sferoidale sono rego<strong>la</strong>rmente aggregati alcuni altri elementi. Se f<strong>in</strong>ire significa<br />

oltrepassare una soglia verso un altro <strong>in</strong>izio, diventa ovvio che tanta morte non confligga, e anzi si leghi<br />

immediatamente, con l’idea del nascere, dell’entrare nel mondo, e che <strong>qui</strong>ndi <strong>la</strong> poesia di Porta sia tuffata<br />

<strong>in</strong> uno spazio femm<strong>in</strong>ile e per di più materno (28); <strong>la</strong> cavità uter<strong>in</strong>a, o i suoi sostituti analogici, e il parto<br />

diventano riferimenti fondanti (29). La vis generativa <strong>in</strong>oltre, non limitata nei corpi umani, ha grana<br />

corpusco<strong>la</strong>re e satura tutto lo spazio; si viene ridotti <strong>in</strong> polvere, ma <strong>la</strong> polvere è ancora feconda, come<br />

fosse una nuvo<strong>la</strong> di m<strong>in</strong>uscoli semi <strong>in</strong> cerca di un terreno dove attecchire (30). Di nuovo una s<strong>in</strong>go<strong>la</strong>re<br />

corrispondenza, perché nel mondo di Beckett <strong>la</strong> polvere è presenza costante. Ma, che veli le cose o si<br />

sollevi momentaneamente <strong>in</strong> un turb<strong>in</strong>e, è polvere allegorica che par<strong>la</strong> del<strong>la</strong> ripetizione <strong>in</strong>sensata di<br />

nascite e morti, sotto il sole che splende sul niente di nuovo (31).<br />

Le immag<strong>in</strong>i di fecondità sono <strong>in</strong> naturale pendenza verso quelle di coito, godimento sessuale e<br />

concepimento, <strong>in</strong> una corrente fortemente libidica e senza e<strong>qui</strong>voci dest<strong>in</strong>ata al<strong>la</strong> procreazione. «E io ho<br />

molta fame / e voglio fare l’amore», si trova scritto <strong>in</strong> una poesia (32); e che l’amore debba essere<br />

genitale, e generante, lo conferma, fra tanti altri, una porzione importante dei materiali preparatori al<br />

romanzo cui l’autore <strong>la</strong>vorava quando morì. Si tratta di una scena assai studiata <strong>in</strong> cui l’io narrante (uno<br />

scrittore di nome Antonio, Emilio, o Leo, che riceve commissioni da uno stravagante personaggio<br />

chiamato Leonardo), osservando sua moglie che al<strong>la</strong>tta il figlioletto, decide che non deve dirle di un<br />

<strong>in</strong>contro sessuale avuto con una ragazza sconosciuta, e concluso con una fel<strong>la</strong>tio: «mi guarderebbe come<br />

se l’avessi derubata di qualcosa […]; il mio seme» (33). Il desiderio, che funziona da propulsore nel<br />

Porta degli anni Ottanta, non è lontano da quello schopenaueriano: desiderio del<strong>la</strong> Specie. È <strong>la</strong> Specie<br />

che, nell’<strong>in</strong>dividuo, dice «ancora», per sentirsi rispondere «sì». Ma questo desiderio f<strong>in</strong>alizzato al<br />

godimento e al<strong>la</strong> conservazione del<strong>la</strong> specie è uno degli oggetti di più forte d<strong>in</strong>iego da parte di Beckett. I<br />

suoi sciancati, f<strong>in</strong>ché riescono a par<strong>la</strong>re, pronunciano maledizioni verso i genitori, e propositi di sterm<strong>in</strong>io<br />

nei confronti dei bamb<strong>in</strong>i (34). Rimpiangono di non essere stati risparmiati dal<strong>la</strong> nascita, e si sforzano di<br />

diventare «ogni giorno un po’ più puri, un po’ più morti», dirigendosi «ansimando verso <strong>la</strong> grande apnea»<br />

(35). Come ha scritto Carlo Pasi, «è il corpo il nemico, il desiderio che oscuramente fluisce nel corpo e il<br />

pensiero non è <strong>in</strong> grado di contrastare» (36).<br />

A fronte di un <strong>in</strong>sieme così ben del<strong>in</strong>eato di temi comuni ossessivamente ripresi, cosa permette a Porta di<br />

non virare verso il peggio, e di abbracciare con gioia <strong>la</strong> logica del desiderio? È un v<strong>in</strong>colo che egli str<strong>in</strong>ge<br />

tra quel desiderio, l’immag<strong>in</strong>azione e il l<strong>in</strong>guaggio poetico. Da Passi passaggi (ma già dalle Lettere del<br />

1976) <strong>la</strong> poesia portiana si dice come canto, un canto creatore di immag<strong>in</strong>i e animato da un respiro<br />

sovra- e pre-<strong>in</strong>dividuale. Se è vero che sono sempre i corpi a occupare <strong>la</strong> scena, tali corpi sono <strong>in</strong>nervati,<br />

quasi model<strong>la</strong>ti dal<strong>la</strong> voce immag<strong>in</strong>ante che arriva a fare tutt’uno con essi. Credo si possa dire che l’<strong>in</strong>tero<br />

mondo, <strong>qui</strong>, sia immag<strong>in</strong>ato più e prima che percepito, e proprio l’immag<strong>in</strong>azione valga come pr<strong>in</strong>cipio<br />

organizzatore. Il canto è medium, atmosfera che unisce le <strong>in</strong>dividualità tra loro e con l’ambiente che le<br />

circonda. Il che assume subito un forte valore protettivo, di garanzia e fondamento delle attività e dei<br />

rapporti, un baluardo contro <strong>la</strong> tentazione del vuoto e dell’iso<strong>la</strong>mento: «ma questo solo conta che io ti<br />

parli / che io stia respirando / <strong>in</strong>sieme a voi tutti che non vedo / che ho chiamato, un giorno, /<br />

carissimi…» (37). È questa riserva che fornisce <strong>la</strong> fiducia nel<strong>la</strong> stabilità, sia pure provvisoria; <strong>la</strong> poesia<br />

diventa, spesso prendendo accenti heideggeriani, ciò che consente di avere un mondo, e di abitarlo; e di<br />

non essere mac<strong>in</strong>ati dal<strong>la</strong> terra nei suoi <strong>in</strong>differenti ritmi sempre identici (38); è <strong>qui</strong> che affonda <strong>la</strong><br />

sicurezza nel<strong>la</strong> giustizia dei cicli naturali, e il fervore al pensiero del<strong>la</strong> r<strong>in</strong>ascita. Ed è ancora <strong>la</strong> voce<br />

immag<strong>in</strong>ante, <strong>la</strong> voce del<strong>la</strong> poesia, a salvaguardare <strong>la</strong> comunità contro <strong>la</strong> chiusura del soggetto e<br />

l’ostacolo del<strong>la</strong> morte; l’io è un filtro o un recipiente <strong>in</strong> cui <strong>la</strong> poesia si versa prendendone<br />

temporaneamente <strong>la</strong> forma, ma quando il vaso si rovescerà, vuotandosi, essa tornerà a scorrere verso<br />

altri vasi. La f<strong>in</strong>e, allora, è il canto dell’io nel momento <strong>in</strong> cui deve <strong>in</strong>terrompere l’agire e il comunicare,<br />

per <strong>la</strong>sciare libera <strong>la</strong> corrente che aveva preso posto <strong>in</strong> lui: <strong>la</strong> f<strong>in</strong>e è un’aria, «è un vento che soffia via /<br />

<strong>la</strong> polvere di tutte le ossa» (39). Chi legge Porta sa bene che questi lunghi momenti estatici non formano<br />

una seque<strong>la</strong> <strong>in</strong><strong>in</strong>terrotta, ma al contrario si alternano <strong>in</strong> moti fortemente ondu<strong>la</strong>tori con precipizi di<br />

deso<strong>la</strong>zione, <strong>in</strong> cui il male e l’abbandono sembrano avere il sopravvento, e pers<strong>in</strong>o il canto pare sve<strong>la</strong>re<br />

un profilo malevolo, non essere nient’altro che un pessimo trucco. Il canto stesso, <strong>in</strong>oltre, sovente si deve<br />

<strong>in</strong>terrompere, dando luogo a vasti <strong>in</strong>tervalli di silenzio. Porta, <strong>in</strong>somma, non rifiuta affatto di confrontarsi<br />

col negativo, e di revocare <strong>in</strong> dubbio i mezzi scelti per affrontarlo. Tuttavia ogni volta trova il modo di<br />

rimettersi all’opera, di ricom<strong>in</strong>ciare, dando «per scontato il male» e cercando «il bene, disperata-mente»,<br />

come afferma nel<strong>la</strong> famosa poesia del Nuovo diario (1986) dedicata a Sangu<strong>in</strong>eti (40). Questo perché<br />

l’angoscia non è semplicemente un’affezione del soggetto, ma lo stato d’animo essenziale che permette<br />

all’uomo, se è disponibile a sperimentarlo f<strong>in</strong>o <strong>in</strong> fondo, di compiere l’esperienza fondamentale, che è<br />

sempre, heideggerianamente (e ho già detto come negli anni Ottanta certe dichiarazioni portiane<br />

assumano un <strong>in</strong>confondibile tono heideggeriano) esperienza dell’essere che si dirada per <strong>la</strong>sciar avvenire<br />

l’ente, del<strong>la</strong> Lichtung come spazio abitabile. Il sentimento fondante di questa “seconda” fase del<strong>la</strong> poesia<br />

di Porta è lo stupore che il mondo sia, stupore con<strong>qui</strong>stabile solo accettando <strong>la</strong> prova dell’angoscia (41).<br />

E l’<strong>in</strong>tervallo silenzioso, l’<strong>in</strong>terruzione, non è altro che un ritorno del canto nel<strong>la</strong> sua orig<strong>in</strong>e,<br />

dell’immag<strong>in</strong>ario nel<strong>la</strong> sua sorgente segreta; è proprio questo stacco, questa sorta di pausa <strong>in</strong> cui il<br />

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