Scarica - Associazione San Marcellino
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Alma Mater Studiorum – Università di Bologna<br />
FACOLTÁ DI SCIENZE POLITICHE<br />
Corso di Laurea in Scienze del Servizio Sociale<br />
Elaborato di Tesi in Teoria dei Processi di Socializzazione<br />
IL CONDIZIONAMENTO OPERANTE DI<br />
B.F. SKINNER COME CHIAVE DI LETTURA DI UN<br />
SERVIZIO PER SENZA DIMORA<br />
Candidato: Relatore:<br />
TRUZZI FRANCESCA Prof. GIOVANNI PIERETTI<br />
Sessione II<br />
Anno Accademico 2004/2005<br />
1
INDICE<br />
Introduzione pag. 2<br />
1. La libertà pag. 7<br />
2. Verso l’alienazione pag. 12<br />
3. Il ruolo del potere pag. 16<br />
Capitolo 1: La chiave di lettura<br />
1. Il comportamentismo pag. 19<br />
2. Walden Due. Utopia per una nuova società pag. 22<br />
Capitolo 2: Il contesto<br />
1. Cenni sulle povertà pag. 29<br />
2. L’associazione <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong><br />
2.1 Un po’ di storia pag. 31<br />
2.2 Lo stile pag. 33<br />
2.3 Le aree d’intervento pag. 37<br />
Capitolo 3: I soggetti<br />
1. Storie di vita:<br />
percorsi diversi per un destino comune verso la libertà pag. 40<br />
2. L’opinione di un operatore pag. 60<br />
Conclusioni<br />
Bibliografia<br />
3
Introduzione<br />
“La libertà è un tema trattato da molti teorici, e nessuno a parte esprimere le<br />
loro tesi in merito, può vantarsi di aver dato un significato unico e<br />
inequivocabile a questo termine”. Cosi un ospite della comunità di vita “Il<br />
Ponte”, mi ha detto, quando una sera a cena ho iniziato a spiegare<br />
l’argomento del mio elaborato finale per cercare di dare agli occhi degli<br />
abitanti della comunità un senso alla mia presenza li.<br />
Io non voglio certo cercare di spiegare cos’è la libertà, vorrei solo che il mio<br />
lavoro di ricerca mi aiutasse a comprendere come, la libertà tanto acclamata<br />
dai movimenti libertari, la libertà che presuppone assenza totale di<br />
coercizione esterna in realtà non esista. La lotta per la libertà è infatti diretta<br />
non al controllo in sé stesso, ma ai controllori avversivi. E’ un modo per<br />
sottrarsi alle condizioni avversive, si esplica infatti con la lotta o la fuga, che<br />
però non hanno come focus il controllo in quanto tale, ma il modo con cui<br />
questo viene esercitato. Un bambino quindi può ribellarsi ai genitori, un<br />
cittadino può rovesciare un governo, un ecclesiastico può riformare una<br />
religione, uno studente può attaccare un insegnante ed un emarginato può<br />
sfuggire vagabondando dalla cultura, ma il fine di queste azioni non è<br />
l’anarchia, l’assenza totale di potere e controllo, ma è la contestazione del<br />
controllo “cattivo”. Contestazione che fa per cosi dire, parte del corredo<br />
biologico dell’individuo, che quando è trattato in modo avversivo tende ad<br />
agire con aggressività contro la fonte reale della stimolazione, ma anche<br />
contro ogni persona o oggetto a portata di mano. Il vandalismo può esser un<br />
esempio di contestazione aggressiva indiretta o mal diretta. Quella che<br />
possiamo chiamare letteratura della libertà è stata realizzata al fine di indurre<br />
la gente ad attaccare o a fuggire da coloro che cercano di controllarla<br />
mediante condizioni avversive. L’importanza di questi scritti sulla libertà non<br />
va comunque messa in discussione, lasciata senza aiuto e senza guida infatti<br />
4
la gente si sottomette nel modo più assoluto alle situazioni che siano esse<br />
avversive o meno. Di alcuni contributi tradizionali si potrebbe dire che<br />
definiscono la libertà come l’assenza di controllo negativo, sottolineano cosi<br />
come la situazione viene “sentita”. Altre teorie definiscono libero l’individuo<br />
che agisce in assenza di un controllo negativo, qui l’accento viene quindi<br />
posto sul “fare ciò che si vuole”, usando le parole di John Stuart Mill : “la<br />
libertà consiste nel fare ciò che si desidera”.<br />
Si inneggia cosi la possibilità di sfuggire da condizioni di controllo avversivo,<br />
ma il sentimento di libertà che nasce non è una guida attendibile, infatti<br />
decade la sua validità non appena ci si scontra con forme di controllo non<br />
avversive che sono meno appariscenti e a volte nemmeno percepibili.<br />
Per chiarire riporto l’esempio presente nel libro “Oltre la libertà e la dignità”;<br />
Skinner ricorda come il lavoro produttivo era un tempo il risultato della<br />
punizione, si pensi allo schiavo che lavorava il più possibile per evitare le<br />
conseguenze dell’interruzione del lavoro. Oggi invece l’escamotage del<br />
controllo per il lavoro produttivo è il salario che rappresenta la forma buona<br />
delle punizioni del tempo della schiavitù; Si evidenzia cosi che l’uomo agisce<br />
per evitare conseguenze negative del suo comportamento, lo studente farà<br />
tutti i compiti per evitare le punizioni, il lavoratore lavora come stabilito per<br />
non essere licenziato. Ecco esplicato uno dei principi della teoria di Skinner,<br />
in base alle quali il comportamento si esplica in seguito a rinforzi positivi e<br />
negativi. L’intera teoria di B. F. Skinner si basa sul concetto di operant<br />
conditioning (condizionamento operante). Gli individui operano in base ad<br />
un continuo processo di condizionamento dato dall’ambiente esterno, dalla<br />
società, dalle istituzioni, dalla cultura, durante il quale incontrano speciali tipi<br />
di stimoli, chiamati rinforzi. Questi stimoli hanno l’effetto di indurre e favorire<br />
un certo tipo di comportamento.<br />
Questo è il condizionamento operante: “il comportamento è seguito da<br />
conseguenze, e la natura di queste conseguenze modifica la tendenza degli<br />
5
organismi a ripetere o meno un determinato comportamento in futuro”. Se un<br />
comportamento è seguito da un rinforzo positivo, molto probabilmente verrà<br />
ripetuto; viceversa se è seguito da un rinforzo negativo ci sono scarse<br />
probabilità che si ripeta. Questo è il controllo, il condizionamento<br />
onnipresente che l’individuo subisce.<br />
Il Lavoro per lo svolgimento di questo elaborato è cominciato con uno studio<br />
approfondito delle teorie di Burrhus F. Skinner (1904-1990), psicologo<br />
statunitense, uno dei maggiori esponenti del comportamentismo.<br />
Tra le sue affermazioni più radicali, colpisce la concezione stessa<br />
dell’individuo. L’uomo non viene infatti da lui visto come soggetto<br />
completamente autonomo, libero e incondizionato. Skinner e cinquant’anni di<br />
comportamentismo insegnano come in realtà gli individui siano condizionati<br />
dall’ambiente sociale, culturale e naturale.<br />
Da quello che più mi ha colpito durante la lettura delle sue opere, cioè dalla<br />
tesi della coincidenza tra libertà e controllo, vista soprattutto in ambito<br />
comunitario, esempio evidente nel suo romanzo Walden Due, ho cercato di<br />
estrapolare la possibile chiave di lettura per il contesto di Sa <strong>Marcellino</strong>. In<br />
particolare volevo appunto mettere in discussione ciò che io, come molti altri,<br />
credevo che fosse la libertà, il pensiero di Skinner preso in toto è a mio<br />
avviso, troppo “radicale”, però credo sia importante tener presente che<br />
esistono certi tipi di controllo sotto i quali la gente si sente perfettamente<br />
libera.<br />
Quello che io intendo evidenziare è come l’individuo è già condizionato in<br />
partenza dal suo essere uomo. Questo mio lavoro mi ha permesso di<br />
modificare il mio modo di essere e di vedere le cose, in quanto ha ribaltato<br />
molti dei miei sensi comuni riguardo appunto, il tema del controllo e della<br />
libertà, e mi ha permesso anche di trovare il modo e il luogo di senso per un<br />
mio sviluppo identitario.<br />
6
Nella prefazione del suo libro, “Oltre la libertà e la dignità” Skinner narra un<br />
esempio a mio avviso efficace per evidenziare come e quanto noi siamo<br />
facilmente condizionati da tutto ciò che ci circonda.<br />
Riporta l’ influenza esercitata da uno striscione con su scritto “ricordatevi<br />
della guerra aerea” posto davanti a dei professori, e a lui stesso durante una<br />
lezione in cui si discuteva di “Oltre la libertà e la dignità”, tutti gli oratori infatti<br />
hanno nominato la guerra in Vietnam.<br />
Evidenziare cosi, ciò che l’autore definisce un “atto eccellente di ingegneria<br />
comportamentale”, pone una questione a mio avviso destabilizzante, in<br />
quanto dimostra chiaramente come siamo sottilmente “controllati” e<br />
“controllabili”.<br />
Seguendo la tesi di Skinner che presuppone che la libertà senza controllo<br />
non può esistere, e che afferma anzi che un contenimento buono sia<br />
essenziale per provare la reale sensazione di libertà, vorrei , dimostrare come<br />
questa teoria sia vera più che mai in realtà come quelle comunitarie.<br />
Per trovare queste conferme ho scelto di avvicinarmi alla Fondazione e<br />
associazione <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong> di Genova, in specifico ho vissuto e osservato la<br />
realtà della comunità di vita “Il Ponte”, una delle tante strutture<br />
dell’<strong>Associazione</strong>, ma sono stata anche a contatto con gli operatori del centro<br />
d’ascolto, punto nevralgico dell’attività del servizio e con diversi operatori e<br />
volontari che da anni gravitano attorno a <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong>. Mi sono avvicinata a<br />
questa istituzione perché credo che la sua accezione di libertà corrisponda a<br />
quella che io cerco di evidenziare: “la libertà di essere sé stessi”, con i propri<br />
difetti, le proprie incapacità, le proprie bruttezze, senza per questo essere<br />
giudicati o esclusi. E’ un concetto molto evidente nella realtà della comunità<br />
“il Ponte”, dove al suo interno le persone riscoprono la ricchezza di<br />
condividere, di stare insieme, in maniera diversa, a volte con litigi, a volte<br />
facendo vedere il proprio lato peggiore, ma insieme.<br />
7
Quando la libertà viene intesa in questo modo, il controllo diventa di<br />
conseguenza un aspetto non legato tanto alla repressione e punizione di atti<br />
violenti o illegali, ma una forma di contenimento, di monitoraggio, che si<br />
esercita più sul piano della relazione che su quello delle regole. <strong>San</strong><br />
<strong>Marcellino</strong> opera con persone in stato di emarginazione grave e povertà<br />
estrema, persone cioè che vivono in totale assenza di libertà d’essere, di<br />
libertà di scegliere. Quello che l’associazione tende a fare è trasmettere una<br />
forma di contenimento e di auto-controllo, essenziali per riprendere in mano<br />
la propria vita e per riprovare la sensazione di libertà. Cerca infatti di trovare<br />
una via intermedia tra la figura del genitore normativo e l’interiorizzazione di<br />
questa figura, cercando di far capire cosa è giusto e cos’è sbagliato, ridando<br />
significato alle loro esistenze e tessendo una rete di legami significativi,<br />
essenziali per l’equilibrio della persona. Le regole “imposte” servono per<br />
impedire alle persone di lasciarsi vivere e di farsi del male, bevendo o<br />
vivendo allo sbando, servono per far sentire le persone importanti e ben<br />
volute, per insegnare una buona convivenza e ritmi di vita sani, e non sono<br />
create per dare impedimenti fine a sé stessi. Ecco quindi che la teoria di<br />
Skinner trova conferma nella realtà, in particolare nella realtà della comunità<br />
di vita “il Ponte”, dove attraverso l’imposizione di un controllo “buono” si cerca<br />
i fare ri-acquisire alle persone la propria libertà e la propria dignità.<br />
8
La libertà<br />
…..facile credere che la volontà sia libera e che la persona sia libera di<br />
scegliere. Il risultato è invece il determinismo. La generazione spontanea del<br />
comportamento ha raggiunto lo stesso stadio della generazione spontanea<br />
dei bachi e dei microrganismi al tempo di Pasteur. "Libertà" significa di solito<br />
l’assenza di restrizione o coercizione, ma in modo più ampio significa una<br />
mancanza di qualsiasi determinazione anteriore: "Tutte le cose che<br />
pervengono ad essere, tranne gli atti di volontà, hanno cause".<br />
È in gioco la vistosità delle cause quando il comportamento riflesso si chiama<br />
involontario – un individuo non è libero di starnutire o non starnutire; la causa<br />
iniziante è il pepe. Il comportamento operante si chiama volontario, ma non è<br />
realmente senza causa; solo è più difficile individuare la causa. La condizione<br />
critica per l’esercizio apparente del libero arbitrio è il rinforzo positivo, in base<br />
al cui risultato un individuo si sente libero, si dichiara libero e dice di fare<br />
come gli piace o ciò che vuole e che gli garba di fare. Il ruolo peculiare<br />
attribuito alla volontà deriva dalla sua apparente spontaneità e dal suo<br />
mistero, che suggerisce che si possono produrre conseguenze senza azione<br />
fisica.<br />
E’ necessario andare oltre la dicotomia libertà e costrizioni, per molti<br />
pensatori infatti i due concetti di libertà e costrizione non possono essere<br />
intesi come fenomeni autoescludentisi. Non sono collegati da un legame<br />
quantitativo, che farebbe dipendere un aumento delle libertà da una<br />
diminuzione delle costrizioni e viceversa; queste però non agiscono all’interno<br />
di un campo d’azione a somma zero, cioè in uno spazio sociale dove ad un<br />
aumento delle costrizioni, etero e autodirette, corrisponderebbe una parallela<br />
diminuzione degli spazi di possibilità individuali. Si può semmai sostenere<br />
che quando mutano qualitativamente le forme sociali e individuali della<br />
costrizione, non potranno non subire cambiamenti le configurazioni dentro cui<br />
9
si costituiscono spazi decisionali autonomi e, quindi, le possibilità di scelta tra<br />
diversi corsi d’azione.<br />
Ogni istituzione sociale, per quanto stabile, centralizzata e potente che sia,<br />
non crea norme in modo completamente autonomo e libero in quanto le<br />
istituzioni, come qualsiasi altra struttura sociale, non possiedono una realtà<br />
ontologica: le istituzioni “non pensano” e, pertanto anche il modo in cui esse<br />
producono norme, per essere compreso deve essere ricondotto ai<br />
meccanismi sempre variabili di funzionamento delle relazioni interindividuali e<br />
ai rapporti di potere che possono essere più o meno asimmetrici.<br />
Le norme sono l’espressione non deterministica dei rapporti di forza che<br />
agiscono all’interno di un ambiente e, quindi essendo prodotti sociali, sono<br />
costruite su e a partire da una realtà relazionale storica e contingente.<br />
Essendo prodotte socialmente, le norme possono essere più o meno<br />
interiorizzate e condivise. Possono agire a strati diversi della personalità, e<br />
contribuire in modo più o meno intenso, a costruire le identità degli individui. Il<br />
maggiore o minore grado d’interiorizzazione e condivisione delle norme<br />
influisce sul loro stesso livello di stabilità e sulla loro eventuale modificazione.<br />
Le norme, qualsiasi esse siano, non pendono come una spada di Damocle<br />
sugli individui e sui contesti sociali, ma sono in continua ridefinizione e<br />
formazione; tra le norme sociali che costringono ci sono infatti delle possibilità<br />
di evasione e possibilità di riformulazione delle stesse. Si instaura, tra le<br />
norme e la loro potenziale riformulazione, una dinamica circolare, un instabile<br />
“gioco di poteri” e dei rapporti di forza; c’è insomma relazionalità tra norma e<br />
possibilità, tra costrizioni e libertà.<br />
Non c’è costrizione se non dentro uno spazio di libertà, cosi come non ci<br />
sono libertà non innescate in un insieme di coercizioni. Costruzioni e libertà si<br />
presuppongono necessariamente, tanto da poter sostenere che “la società, è<br />
quella condizione tipicamente umana, che ci rende allo stesso tempo liberi e<br />
vincolati: perché se fossimo nell’una o nell’altra soluzione allora non<br />
10
saremmo in società.” (Donati P. “La società è relazione” p. 8 CEDAM Padova<br />
1998) I confine delle une aprono gli spazi delle altre, e viceversa.<br />
Libertà e costrizioni quindi si possono vedere come aspetti relazionali<br />
interdipendenti e condizionati sia dalla nostra componente biologica, sia da<br />
quella sociale. Cosi la componente chimico-biologica del nostro cervello non<br />
è che uno dei tanti fattori, per quanto importante, che intervengono nel<br />
processo di condizionamento del nostro diventare esseri sociali pensanti.<br />
Pensiamo e agiamo come soggetti sociali, al di là di semplici istinti e azioni<br />
riflesse. Siamo costrutti sociali, dove poco sembra appartenerci, forse nulla<br />
oltre la sostanza di cui siamo costituiti, ci appartiene naturalmente; ci<br />
muoviamo dunque dentro spazi-tempi determinati dal continuo e storico fluire<br />
delle relazioni umane. Agiamo come individui vincolati e costretti:<br />
interdipendenti. E’ a questo livello che si collocano, inscindibili e collegate<br />
circolarmente alle costrizioni sociali, le libertà. I nostri gradi di libertà, dove<br />
con ciò intendo riferirmi all’intensità delle azioni che ci appaiono, che<br />
percepiamo come libere, di senso di autonomia, di decisione e di distinzione,<br />
sono lo spazio della nostra percezione che è poi anche la percezione<br />
dell’altro da sé. La propria individualità non può essere vissuta come se fosse<br />
un oggetto che ci appartiene naturalmente e che può quindi esistere anche al<br />
di fuori di un contesto sociale di interdipendenze. Si evidenzia cosi che, per<br />
quanto asimmetrica una relazione possa essere, non ci troveremo mai di<br />
fronte a individui totalmente liberi o totalmente costretti, semmai ci troveremo<br />
di fronte a soggetti “diversi”, più deboli, che si trovano a sottomettersi a<br />
situazioni di assoluta mancanza di libertà, intesa come possibilità di scelta,<br />
dove ogni atteggiamento di resistenza, che postula la coscienza di possedere<br />
un certo margine di libertà individuale, viene a mancare.<br />
La prospettiva relazionale limita cosi, sia il pericolo che vede attribuire<br />
all’individuo un’illimitata capacità-possibilità di scelta, quanto il rischi opposto,<br />
secondo cui l’attore sociale non metterebbe in azioni sovradeterminate dai<br />
11
meccanismi di funzionamento del più vasto contesto sociale e ambientale. Il<br />
rischio che è comunque importante sottolineare è l’esistenza di soggetti più<br />
deboli, che si trovano a “subire la vita”, che non sono capaci, per motivi di<br />
povertà relazionale o per problemi psichici, o perché sono semplicemente più<br />
fragili, di opporre resistenza e di agire le pratiche del sé, usando un termine di<br />
Foucalt, in maniera autonoma; Invece di rielaborarli a propria misura, questi<br />
soggetti si percepiscono inadeguati, e vedono i modelli che si trovano nella<br />
cultura imposti, invece che proposti, suggeriti dalla cultura, dalla società e dal<br />
gruppo sociale. Ci si trova cosi in situazioni dove il sentimento di<br />
inadeguatezza e il senso di inferiorità prevalgono, la forza di reagire oltre che<br />
i mezzi stessi per farlo, vengono a mancare, ci si percepisce in una<br />
situazione estrema dove non resta nient’altro che non fare scelte estreme che<br />
li conduce verso un percorso di autodistruzione e progressivo abbandono di<br />
sé. Proseguendo cosi verso la più assoluta perdita di libertà. In particolare<br />
penso alla libertà della scelta di una persona di vivere per strada, è inevitabile<br />
chiedersi se la condizione di senza dimora è una scelta o una costrizione. Ci<br />
sono due diversi punti di vista; c’è chi pensa che sia una condizione<br />
totalmente subita e chi invece filofeggia sul fatto che è una scelta pienamente<br />
libera e consapevole. Io credo che, entro limiti ben precisi si possa affermare<br />
che è una scelta vivere per strada, in quanto credo che comunque qualsiasi<br />
individuo abbia un minimo di autoderteminazione ma subito voglio<br />
sottolineare che non è soltanto una scelta fatta perché desiderata o perché<br />
considerata ottimale. Ogni persona infatti, è soggetto nella vita a compiere<br />
scelte che avrebbe preferito evitare, perché sconvenienti e portatrici di<br />
sofferenza, ma che si vede quasi costretto a fare. L’esperienza della vita si<br />
svolge con una “dotazione iniziale di risorse”, data da condizioni oggettive in<br />
cui si trova, dalle caratteristiche personali, dalle risorse economiche, sociali,<br />
culturali del suo ambiente, dalla carica affettiva che lo circonda, e ciascuno di<br />
noi ha diverse capacità di gestione di queste risorse originarie; non si può<br />
12
quindi apriosticamente stabilire quali siano le cause principali che portano a<br />
scegliere di vivere per strada perché ogni singolo individuo ha delle proprie<br />
“chance di partenza” e delle proprie capacità di gestione di queste e delle<br />
esperienze di vita. La contraddizione quindi sta a priori, , in quanto le persone<br />
che hanno compiuto tale scelta o che l’andranno a fare sono persone che a<br />
causa di lacunosità nelle loro “dotazioni originarie”, di mancanza di<br />
significative relazioni umane, di una serie di microfratture esistenziali<br />
insostenibili, non avevano nient’altro da scegliere. Quindi soffermandomi<br />
nuovamente sulla libertà presente nella scelta di diventare “senza dimora”,<br />
ritengo necessario evidenziare che anche se apparentemente una persona<br />
sceglie consapevolmente è anche vero che è una scelta dettata da una<br />
mancanza di condizioni oggettive che permettono di compiere una scelta tra<br />
diverse alternative. Non avevano quindi altra possibilità di scelta, e io<br />
definisco questa non una libera scelta, perché una scelta senza alternative è<br />
una costrizione.<br />
Ecco quindi cosa intendo per libertà: l’esseri liberi di scegliere perché messi<br />
nelle condizioni di poter avere delle diverse chance e liberi d’essere diversi, di<br />
avere i propri limiti e le proprie peculiarità, i propri problemi e la propria<br />
“dotazione di risorse oggettive e soggettive” per affrontarli.<br />
Credo che sia emblematica la figura del senza dimora per evidenziare come,<br />
una persona che apparentemente vive al di fuori di ogni regola di ogni<br />
costrizione, non sia in realtà una persona libera ma anzi oserei dire<br />
totalmente costretta, in quanto è priva di qualsiasi risorsa oggettiva e<br />
relazionale necessaria per compire scelte, per definirsi, per vivere e per<br />
provare l’esperienza della libertà.<br />
13
Verso l’alienazione<br />
L’uomo odierno percependosi come separato dal mondo, si sente libero ma<br />
anche solo. E questa libertà lo obbliga a fare una scelta che gli fa paura; egli<br />
ha dunque bisogno di sentirsi unito agli altri uomini, non dimentichiamo infatti<br />
che l’uomo è un animale sociale. Questo conflitto di base tra separazione e<br />
unione, tra autonomia e socialità, è comune a tutti gli uomini. Per restare in<br />
buona salute mentale, ognuno deve risolverlo; ma ognuno lo risolve in<br />
maniera differente, a seconda del suo carattere e della sua cultura. L'uomo<br />
può risolverlo: tramite l'amicizia, la tenerezza, l'amore, l'azione per bisogno di<br />
giustizia, la ricerca della verità e dell'indipendenza; oppure tramite la<br />
dipendenza, l'odio, il sadismo, il masochismo, la distruttività, il narcisismo<br />
(amore di sé, egocentrismo). Non bisogna dimenticare che uno dei primi<br />
sentimenti dell'uomo fu quello dell'ansietà esistenziale. Ogni uomo ha bisogno<br />
di riconoscersi nel suo universo naturale e sociale, ha bisogno di una<br />
bussola, di un quadro di orientamento (la stregoneria, la magia, la credenza<br />
in un Dio hanno coperto questo ruolo). Che importa che il ruolo sia falso, che<br />
alieni l'individuo, l'importante è che esso svolga la sua funzione psicologica di<br />
socializzazione con l'universo. E' per questo che le religioni e le ideologie le<br />
più irrazionali e fanatiche sono così attraenti.<br />
Più che di una bussola l'uomo ha bisogno di dare un senso alla propria vita,<br />
di avere degli scopi di vita; ma può anche votarsi completamente ad un idolo,<br />
ricercare il potere, ammassare del denaro che evolverà ad un ideale<br />
umanitario. L'uomo può trovare il sentimento d'unità, ridurre la frattura<br />
esistenziale, unirsi agli altri uomini, amarli, essendo creativo e indipendente;<br />
ma può anche cercare di sfuggire all'angoscia fondendosi con qualche cosa o<br />
con qualcuno, perdendo quindi la sua autonomia, sia per passione amorosa,<br />
religiosa o ideologica, sia esercitando una potenza assoluta sugli altri<br />
(sadismo), sia sottomettendosi totalmente agli altri (masochismo), sia infine<br />
facendo di se stesso il centro del mondo (narcisismo). L'uomo può fuggire la<br />
14
sua separazione, cercare di dimenticare se stesso, ritrovare l'unità nel trance,<br />
nelle orge sessuali, nei rituali, nella droga, nella passione sfrenata, nella<br />
distruzione; egli può cercare la fama, identificarsi nel suo ruolo sociale,<br />
diventare un oggetto; questa è la via regressiva, la via dell'alienazione, nella<br />
quale non si afferma come individuo autonomo e perde se stesso.<br />
La nostra società, non ha saputo sviluppare una via progressiva, né la<br />
potenzialità di autonomia e di cooperazione degli individui, né la creatività<br />
individuale e sociale, sviluppa invece le potenzialità regressive; essa<br />
nasconde la noia, il disgusto di vivere, la depressione, l'aggressività, la<br />
distruttività. Eppure l'uomo ha in sé le possibilità di diventare un essere<br />
autonomo, creatore e sociale, purché le condizioni esteriori favoriscano le<br />
sue possibilità. L'aggressività, la distruttività non sono innate; esse sono una<br />
delle possibilità che la natura ha dato all'uomo per risolvere il suo problema<br />
esistenziale: la distruttività non è che l'alternativa alla creatività. Si dice che il<br />
corredo genetico di una persona, che è il prodotto dell’evoluzione della specie<br />
spieghi parte del funzionamento della sua mente, mentre la parte restante è<br />
spiegata dalla sua storia personale. Per esempio la competizione fisica o<br />
intellettuale che sia, ha determinato la comparsa di sentimenti non fisici di<br />
aggressività, i quali conducono a loro volta ad atti fisici di ostilità.<br />
A condizione che una società favorisca le potenzialità di autonomia e di<br />
creatività rendendo possibili dei legami affettivi d'uguaglianza, l'uomo perderà<br />
i suoi impulsi negativi.<br />
Il carattere mercantile della nostra civilizzazione e lo sviluppo della tecnica<br />
hanno disumanizzato i rapporti tra gli uomini; ormai si possono uccidere<br />
migliaia di persone premendo un bottone; la sessualità stessa diventa una<br />
tecnica del piacere ed il corpo una "macchina dell'amore"; non dimentichiamo<br />
che la distruzione degli ebrei da parte dei nazisti fu organizzata come una<br />
produzione di massa con recupero di materiale e riciclaggio. L'uomo<br />
cibernetico è una specie di schizofrenico in un universo di cose, un essere<br />
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cerebrale tagliato dalla realtà affettiva, un uomo che non avvicina gli esseri e<br />
le cose affettivamente, con il cuore, ma in termini di efficacia e di rendimento.<br />
Questo uomo può sembrare ben adatto e soddisfatto perché divide la sua<br />
follia con milioni di altri. Paradossalmente, ai nostri giorni, è la persona sana -<br />
quella che rifiuta di diventare una macchina tra le macchine - che può sentirsi<br />
estranea al mondo, isolata al punto di diventare psicotica.<br />
Certo, la situazione è grave; ma si vede nascere una reazione, una rivolta,<br />
come se le forze della vita si risvegliassero nell'uomo ed egli rifiutasse di<br />
lasciarsi andare ad un controllo cattivo. E' forse anche per questo che si<br />
vedono giovani protestare contro i misfatti della civilizzazione industriale,<br />
contro l'inquinamento, contro l'autoritarismo, contro le barriere gerarchiche e<br />
le diverse segregazioni, contro la guerra. I bisogni di "qualità di vita" si fanno<br />
più pressanti. Alcuni preferiscono un lavoro interessante in miseria a delle<br />
soddisfazioni di denaro e di prestigio. L'amore della vita è stato<br />
profondamente represso in ognuno di noi, ma ciò che è stato represso<br />
continua ad esistere.<br />
L'uomo preistorico che viveva in bande come cacciatore e raccoglitore di cibo<br />
era relativamente poco distruttore e sapeva mostrarsi amico e cooperante. E'<br />
con lo sviluppo della produzione e la divisione del lavoro, con<br />
l'accumulazione di un largo surplus e la costruzione di Stati, fondati su un<br />
sistema di gerarchie e di élites, che la distruttività ha cominciato ad<br />
aumentare.<br />
E' possibile pensare che, essendo in crisi la società attuale, l'uomo arriverà a<br />
costruire una nuova forma di società nella quale nessuno si sentirà<br />
minacciato. Ma bisogna ben riconoscere che per ragioni economiche e<br />
culturali queste speranze non si realizzeranno senza difficoltà.<br />
Ciononostante è possibile costruire un mondo nuovo, ma il nuovo<br />
“umanesimo” deve essere radicale; dei cambiamenti profondi sono necessari<br />
16
nelle strutture politiche ed economiche, nei nostri valori, nella nostra<br />
concezione degli scopi di vita e nel nostro comportamento personale.<br />
Grazie ad una migliore conoscenza dell'uomo, grazie ad una specie di fede<br />
nell'uomo e nella vita, il cambiamento personale è possibile, anche nella<br />
nostra società malata. Non si tratta di aspettare passivamente il miracolo di<br />
una rivoluzione violenta ma bisogna cominciare a cambiare la società,<br />
bisogna accelerare il cambiamento e renderlo irreversibile. La conoscenza di<br />
sé e le relazioni umane possono essere migliorate ed anche trasformate<br />
grazie all'apporto della psicologia sociale e della dinamica di gruppo, cosi<br />
come affermava E. Fromm nella sua “Speranza e Rivoluzione”: “Bisogna<br />
moltiplicare i piccoli gruppi nei quali l'individuo impara a spogliarsi delle sue<br />
antiche strutture mentali e relazionali e può mettersi a vivere l'autonomia e la<br />
cooperazione egualitaria”.<br />
L'uomo deve, in effetti, liberarsi delle antiche strutture alienanti e ricreare le<br />
nuove strutture che lo renderanno completamente umano. Non potrà non<br />
servirsi di una nuova educazione. Senza questa nuova forma di educazione,<br />
senza la moltiplicazione dei piccoli gruppi di formazione e di lavoro dove si<br />
insegna a vivere diversamente, la pratica dell'autogestione e la società<br />
libertaria resteranno allo stadio di utopia. Sono già presenti nella realtà gruppi<br />
di individui che più o meno coscientemente cercano di creare un nuovo modo<br />
di vivere, che cercano di cambiare la società. Si pensi per esempio a<br />
numerosi movimenti mondiali e in particolare all’esperienza dell’<strong>Associazione</strong><br />
<strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong>, che, usando le parole del Professore G. Pieretti: “dalla sua<br />
straordinaria esperienza umana concentrata sul mondo delle persone senza<br />
dimora, trova la fiducia e la certezza di una possibilità di riscatto dell’uomo,<br />
figlia della certezza che tra gli uomini non ci sono perfetti o imperfetti, né salvi<br />
e dannati ab inizio”. <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong> è una realtà concreta che permette di<br />
toccare con mano come sia viva e pulsante la voglia di cambiamento, fuori e<br />
17
dentro di noi, che ha il merito di innescare una fondamentale catena tra<br />
associazioni in Italia ed Europa che condividono lo stesso mondo della vita.<br />
Ecco quindi esempi tangibili di come una pacifica e sommersa rivoluzione sia<br />
in atto, verso il cambiamento, verso una nuova dimensione umana, dove la<br />
dignità, la libertà e la centralità della persona ne sono il motore.<br />
Il ruolo del potere<br />
In quest’ottica il potere sembra essere un’esigenza pratica, non è mai<br />
individuale e pertanto non è collegabile nell’ottica contrattualistica della<br />
cessione e dell’acquisizione. Un potere dinamico ed elastico è un potere<br />
eminentemente relazionale, che pertanto non esiste al di fuori di un contesto<br />
ambientale di interdipendenze. Nel momento in cui le istituzioni collettive<br />
hanno preso (appreso) forma e contenuto, gli individui non avrebbero scelta<br />
che rimanere dentro il quadro normativo fissato dall’istituzione, salvo ricadere<br />
nel campo dei comportamenti devianti e pertanto punibili tanto dalle regole<br />
del diritto (si pensi al protagonista del film Arancia meccanica, Alex in<br />
carcere) tanto dai meccanismi informali di esclusione sociale (si pensi ad<br />
esempio all’eterno e tormentato girovagare del vagabondo o della fuga nella<br />
droga). A differenza delle teorie dell’azione, quelle sistemiche procedono<br />
invece dall’alto verso il basso (top-down), secondo una logica deterministica<br />
che spesso finisce con il considerare alla stregua di cose, le istituzioni<br />
restringendo eccessivamente i margini di scelta degli attori sociali.<br />
La prospettiva relazionale permette di superare questa dicotomia tra attore e<br />
sistema sociale per studiare i fenomeni interpersonali senza che il primato<br />
spetti al singolo o al sistema, ma semmai alla relazione che li connette<br />
rendendoli interdipendenti. Quindi Potere con la p maiuscola per definire un<br />
potere concentrato e un potere monarchico assoluto, la sovranità legittima di<br />
uno stato liberaldemocratico, l’autorità indiscussa di un leader carismatico<br />
18
ecc. , un potere che ha quindi un centro, un fulcro dal quale si diparte un<br />
marginale potere, con la p minuscola, o meglio dei poteri periferici più o meno<br />
gerarchicamente subordinati al Potere; poteri diffusi, instabili, multiformi che<br />
determinano dispositivi concreti come per esempio carceri, cliniche, comunità<br />
che impongono o offrono all’individuo la possibilità di determinarsi. Il folle, il<br />
tossico, il senza dimora come soggetti e la follia, la tossicodipendenza e la<br />
povertà estrema come oggetti, non esistono separatamente e pertanto non<br />
possono essere considerate come due sostanze isolabili, non basta però<br />
nemmeno connetterle con un rapporto dialettico di interazione, in quanto<br />
anche ciò significherebbe trattarli come fenomeni che esistono<br />
separatamente e che solo in un secondo momento entrano in connessione.<br />
E’ necessaria pertanto una prospettiva processuale e relazionale che<br />
consideri il folle e la follia, il tossico e la tossicodipendenza ecc.,<br />
interdipendenti e non isolabili; la relazione deve essere prioritaria anche<br />
all’interno delle tecnologie di potere che producono l’oggetto della follia e<br />
quindi il folle, l’irrazionale, il criminale, il malato, ecc.<br />
I poteri dunque agiscono sull’individuo, sulle essenze delle idee, sulla<br />
determinazione del comportamento, e agiscono a primo impatto sui corpi, si<br />
pensi ad esempio ai meccanismi di ammissioni alle istituzioni totali: prigione,<br />
ospedale, caserma ecc., in cui i processi di cambiamento comportamentale<br />
degli internati, passano attraverso un meticoloso lavoro sul corpo. Lo schema<br />
gerarchico non aiuta molto a comprendere le complesse e policentriche<br />
dinamiche del potere, meglio riferirsi quindi ad un potere diffuso (non<br />
equamente s’intende) impercettibile, incoglibile. Esiste una serie di ricorrenze<br />
che mette in risalto come il potere sia in parte responsabile del<br />
comportamento degli individui, per esempio i rigidi meccanismi di controllo<br />
della parola o della gestualità sono rinvenibili tanto nell’ingresso in carcere<br />
quanto nelle relazioni che si stabiliscono per esempio in una corte o in una<br />
caserma; i riti e le consuetudini determinate dai poteri, creano le definizioni di<br />
19
normale/anormale, giusto/ingiusto, bene/male, sano/malato e queste<br />
condizionano in maniera conscia e anche inconscia l’operare degli individui,<br />
il loro comportamento, i loro principi e valori fondamentali e in generale i<br />
significati che si attribuiscono ai vari ambiti di vita (scuola, lavoro, famiglia,<br />
abitazione, tempo libero).Il rispetto delle forme cerimoniali di comportamento<br />
è vincolante per gli individui che all’interno di “spazi totali” agiscono sempre<br />
per così dire, come internati. E chi non riesce a stare all’interno di questi<br />
spazi totali si perde, per cosi dire, in un percorso di abbandono e<br />
decomposizione del sé.<br />
20
CAPITOLO 1: LA CHIAVE DI LETTURA<br />
Il comportamentismo<br />
Il behaviorismo (o comportamentismo) è stata la corrente che fin dagli inizi<br />
del secolo ha visto registrare i maggiori consensi e i più interessanti sviluppi<br />
in rapporto al metodo, ai campi di ricerca, alle applicazioni. Essa si<br />
caratterizza per la forte ostilità nei confronti di tutte le impostazioni legate<br />
all'introspezione, al mentalismo, allo strutturalismo, alla psicoanalisi,<br />
all'associazionismo, a quelle che partono da ipotesi innatiste per sostenere<br />
che la psicologia è studio dei comportamenti osservabili. Passata da un<br />
orientamento meccanicistico (come nel caso dei riflessi condizionati di<br />
Pavlov) ad uno studio più articolato dei rapporti tra stimolo (S) e risposta (R),<br />
la scuola ha progressivamente prestato maggiore attenzione alle affinità e<br />
alle differenze del comportamento degli animali e degli uomini, alle relazioni<br />
tra apparati biologici, fisiologici, organici e modalità di comportamento, alla<br />
presenza degli elementi attivi operanti nell'individuo a livello biologico,<br />
psichico, comportamentale nei rapporti con l'ambiente. Di qui la concezione<br />
dell'apprendimento come costruzione di legami associativi tra stimoli e<br />
risposte nell'interazione con l'esterno. Tra i suoi esponenti principali E. L.<br />
Thorndike (1874-1949), J.B. Watson (1878-1950), C.L. Hull (1884-1952).<br />
Tuttavia la figura di maggior spicco è certo quella di B.F. Skinner (1904-<br />
1990), in quanto ha dimostrato tutte le potenzialità del comportamentismo nel<br />
campo pedagogico.<br />
Il punto di partenza della teoria di Skinner è la critica alla tesi che il pensiero<br />
ha un modo di funzionare autonomo, con proprie strutture, processi evolutivi,<br />
modalità di raccordi e di organizzazione dei dati dell'esperienza; in realtà il<br />
pensiero (come del resto anche il linguaggio e le altre funzioni superiori) è<br />
una forma di comportamento che non possiede una propria autonomia<br />
21
interna e di cui pertanto occorre conoscere le componenti. Skinner rifiuta la<br />
posizione degli attivisti che postulano una serie di motivazioni, bisogni,<br />
interessi immediati nel fanciullo. Presupponendo invece che determinati<br />
eventi (detti "rinforzi") abbiano un valore particolare per gli individui in quanto<br />
il loro prodursi riduce o aumenta lo stato di tensione interna, il modo più<br />
efficace per promuovere un certo tipo di condotta mentale sta nel mettere a<br />
punto rinforzi con caratteristiche contingenti (contingenze di rinforzo) tali da<br />
esercitare un controllo positivo del comportamento. Normalmente<br />
nell'educazione si fa ricorso al controllo disciplinare, mentre sarebbe più<br />
proficuo rafforzare le risposte, le condotte, le azioni ecc. ritenute positive con<br />
opportuni interventi.<br />
Si possono perciò tracciare dei programmi di rinforzo che determinano la<br />
quantità, la qualità, la frequenza dei rinforzi necessari per ottenere lo<br />
stabilizzarsi di certi comportamenti. Discriminare, generalizzare, astrarre non<br />
sono per Skinner atteggiamenti del pensiero e a un certo stadio dell'età<br />
evolutiva, ma comportamenti acquisiti in seguito a una serie di operazioni<br />
nell'ambito delle quali viene favorita quella ritenuta più valida. Lo stesso<br />
dicasi per il linguaggio, per le attività espressive e creative. In generale la<br />
società cerca di raggiungere questo obiettivo usando però termini e modi<br />
impropri, anche perché esiste una difficoltà reale nel rafforzare in termini<br />
immediati e temporali i comportamenti. Si tratta invece di puntare sulla scelta<br />
appropriata di contingenze rafforzative, sulla semplificazione dei contenuti da<br />
apprendere, sul controllo immediato, sull'apprendimento individualizzato. Si<br />
rende dunque necessaria un'impostazione programmata secondo linee<br />
curricolari ben specificate, sia come gradualità di progressione sia come<br />
momenti di apprendimento e di verifica, in modo da ottenere un insieme<br />
organizzato di comportamenti che sia aperto, non ripetitivo e non meccanico.<br />
Ispirandosi al romanzo "Walden" di H. D. Thoreau (1854), Skinner propone di<br />
costruire una società in cui il rispetto della libertà e della dignità della persona<br />
22
viene ottenuto con un sistema educativo fondato sul condizionamento<br />
operante, senza punizioni e repressioni; una società “paneducativa” che<br />
anziché punire tardivamente i comportamenti negativi, si fondi sul rinforzo<br />
precoce di quelli desiderabili. Poiché l'istruzione tradizionale, mentre<br />
presuppone che le conoscenze necessarie vengano acquisite da tutti in modo<br />
uguale, trova poi difficoltà a individualizzare l'insegnamento per adattarlo ai<br />
ritmi di ciascuno, Skinner ritiene che sia necessario progettare delle<br />
sequenze di apprendimento uguali per tutti ma nello stesso tempo in grado di<br />
individualizzarsi per le esigenze di ciascuno e di verificare accuratamente i<br />
risultati ottenuti. La pedagogia deve diventare "tecnologia dell'insegnamento",<br />
avvalendosi del supporto di tecnologie esterne. Infatti la pedagogia di<br />
Skinner, proprio presupponendo l'esame e il controllo analitico dei processi e<br />
delle strutture psichiche da formare negli allievi, privilegia la progettazione, la<br />
programmazione, l'istruzione programmata. In tale contesto si inserisce<br />
l'impiego delle macchine per insegnare: già realizzate nei primi esemplari fin<br />
dagli anni '20, Skinner le progetta, al fine di individualizzare l'insegnamento,<br />
secondo un modello a sequenza lineare. Esse si fondano sul principio di<br />
realizzare accurate sequenze di contenuti e quesiti che ogni alunno può<br />
affrontare con i propri tempi e modi, avendo la garanzia di un feedback<br />
immediato attraverso il rinforzo che segue alla risposta. E' chiaro che<br />
l'impiego di questi strumenti ai fini dell'insegnamento non si può certo inserire<br />
nella scuola tradizionale ma solo in un progetto che si propone di creare<br />
scuole modello, di formare insegnanti preparati, di semplificare e di<br />
programmare ciò che si deve apprendere, di migliorare la prestazione dei<br />
materiali utilizzati, di definire in modo più organico gli obiettivi, di costruire<br />
curricoli scolastici articolati nello spazio, nel tempo, nei contenuti, nei sistemi<br />
di verifica e di controllo.<br />
23
Walden due. Utopia per una nuova società<br />
Per far comprendere meglio il disegno di ingegneria comportamentale di<br />
Skinner, riporto di seguito il suo progetto di comunità utopica, incarnato nel<br />
romanzo Walden Due.<br />
E’ un romanzo scritto nel 1948, riprende il romanzo Walden (vita nei boschi)<br />
di Henry David Thoreau (1854), romanzo volto a riportare l’uomo ad una sua<br />
interiore autenticità in perfetta armonia con la natura.<br />
Walden 2 è una ripresa socializzata e razionale, la descrizione del modello di<br />
vita di una piccola città in cui le regole sociali sono all’opposto di quelle<br />
vigenti negli States.<br />
Si narra della visita nella comunità-città di Burris (dal primo nome di Skinner,<br />
Burrhus) professore universitario di psicologia, e di un professore di filosofia<br />
morale, Castle, che opporrà delle contro argomentazioni polemiche, più due<br />
coppie: una affezionata allo stile di vita americano mentre l’altra molto meno.<br />
Vengono accolti dal prof. Frazier che li guiderà nel loro soggiorno.<br />
Il romanzo è soprattutto un’opera di pedagogia estesa a tutti i livelli di vita: dai<br />
bambini appena nati fino agli anziani, dai problemi individuali a quelli collettivi<br />
dove gli individui possono esprimere e sviluppare le proprie capacità<br />
intellettive, operative, creative, secondo il proprio gusto, senza l’ansia della<br />
competizione, senza il morso della gelosia (“il mostro dagli occhi verdi”), ma<br />
in cooperazione con gli altri.<br />
L’ingegneria culturale adottata si basa sui seguenti punti:<br />
• No gelosia e invidia<br />
• No competitività<br />
• No leaders<br />
• No prevaricazioni personali di alcuni su altri (“non siamo adoratori di<br />
dei”)<br />
• No imposizioni di sorta<br />
• No arricchimento<br />
24
• No consumismo<br />
• No moda<br />
• Sì al controllo del feedback comportamentale degli individui adottando il<br />
condizionamento operante<br />
• Sì all’eliminazione di situazioni casuali<br />
• Sì al lavoro per tutti, secondo i gusti di ciascuno e poco impegnativo<br />
• Sì ai servizi socializzati (tipo grande comunità, no familiare).<br />
• Sì al matrimonio precoce<br />
• Sì a pochi figli e subito<br />
• Sì alla realizzazione professionale o artistica anche della donna<br />
• Famiglia = grande comunità<br />
• I figli sono di tutti, tutti possono fare i genitori<br />
• Educazione comunitaria (“la casa domestica non è il posto giusto per<br />
l’educazione”)<br />
L’istruzione è un punto debole del progetto di Skinner: non propone nulla di<br />
più di ciò che aveva dato la scuola attiva.<br />
Per l’educazione della condotta, si usano esercizi di autocontrollo sin dalla<br />
prima età e vige la regola dell’antipunizione (come nella psicanalisi) constatati<br />
i suoi effetti negativi a lungo termine.<br />
Nel libro è diffuso un elegante senso dell’umorismo nei confronti del “buon<br />
senso” e dei luoghi comuni.<br />
Skinner si oppone al perenne controllo del comportamento di molti da parte di<br />
pochi (Chiesa, governi, scuola, famiglia, ecc.) per mezzo di un<br />
condizionamento operato con mezzi rudimentali ma non per questo meno<br />
efficaci.<br />
Skinner ha scelto di presentare il proprio pensiero in termini di<br />
controargomentazioni che emergono principalmente fra due protagonisti del<br />
romanzo: Castle e Frazier.<br />
25
Il tema dominante è quello della tesi fondamentale di coincidenza di libertà e<br />
controllo.<br />
L’autore ritiene pronta la scienza del comportamento. Le sue tecniche però<br />
sono attualmente nelle mani sbagliate. L’uomo non è libero, anche se ciò<br />
forse non sarà mai completamente dimostrabile. Obbiettivo della scienza del<br />
comportamento skinneriana è la felicità di tutte le persone impedendo la<br />
prevaricazione di singoli individui sugli altri assieme a quello del<br />
raggiungimento di un senso di libertà ottenuto senza coercizione e punizione.<br />
La tecnica adottata è quella del condizionamento operante. Si tratta di<br />
aspettare che la persona esibisca un determinato comportamento, che faccia<br />
già parte del suo repertorio e che quindi la persona ha la tendenza o<br />
inclinazione ad emettere, a produrre spontaneamente, cioè non in risposta a<br />
richieste altrui. A tale comportamento deve essere fatto seguire<br />
immediatamente o qualche evento che sia piacevole per la persona stessa,<br />
un evento cioè che rientri in quelle cose che ci piacciono, vogliamo che si<br />
verifichino di nuovo (rinforzo positivo), oppure la cessazione della situazione<br />
di disagio in cui il destinatario si trovasse nel momento in cui emetteva quel<br />
determinato comportamento (rinforzo negativo), l’eliminazione cioè di quelle<br />
cose che non ci piacciono, non vogliamo che si verifichino e prendiamo<br />
misure per liberarcene ( Walden 2 p.251). In entrambi i casi con la risposta<br />
immediata si ottiene un aumento della probabilità che la persona esibisca<br />
spontaneamente quel comportamento, si ottiene cioè che il suo<br />
comportamento venga rafforzato.<br />
A Walden 2 viene praticato il rinforzo positivo perché le situazioni negative<br />
sono già state eliminate per quanto possibile già a priori. Ad ogni modo<br />
controllare tramite rinforzo vuol dire instaurare una situazione in cui l'individuo<br />
“fa ciò che vuole” o meglio “tende a fare ciò che vuole” e riceve in più un<br />
premio consistente in un’esperienza che è sicuramente piacevole per lui. Il<br />
controllo tramite condizionamento operante viene sospettato di<br />
26
manipolazione, mistificazione e autorità anonima. Frazier replica che<br />
ciononostante le persone si ritengono completamente libere, fanno ciò che<br />
realmente desiderano fare: non vi è né costrizione né rivolta. Non si lotta mai<br />
contro forze che fanno sì che essi vogliano agire nel modo in cui agiscono. La<br />
manipolazione operata dal controllore viene evitata attraverso una scrupolosa<br />
osservazione del feedback comportamentale degli individui: è l’appagamento<br />
stesso dell’individuo a dimostrare ciò che è bene e ciò che non lo è.<br />
I programmi di sviluppo sono tagliati a misura individuale dei soggetti e<br />
modificati sperimentalmente: se ci si accorge che un programma risulta<br />
troppo avanzato per un soggetto non ottenendo i risultati previsti, si ritorna ad<br />
una fase precedente. In questo modo viene rispettato il normale e soggettivo<br />
ritmo evolutivo. Il benessere del controllato è alla base del corretto<br />
programma di condizionamento. Così pure particolare attenzione riceve il<br />
gruppo in quanto secondo Skinner una corretta cooperazione sociale è<br />
indispensabile alla felicità dell’individuo. ( Per una scienza del<br />
comportamento, B.F. Skinner)<br />
Quindi la forma di controllo è compatibile con l’esperienza di libertà e il<br />
sistema skinneriano permette di scongiurare rischi manipolativi. L’obiettivo<br />
del corretto comportamento viene raggiunto unitamente alla rinuncia<br />
sistematica alla punizione ed alla repressione dei bisogni individuali assieme<br />
all’adozione di un piano mediante il quale l’educatore ottiene con sicura<br />
efficacia il massimo di realizzazione delle potenzialità individuali, compresa la<br />
capacità di stabilire relazioni di cooperazione sociale che non è qualcosa di<br />
diverso dalla felicità individuale, ma ne è condizione necessaria.<br />
(Argomentazioni Skinneriane a cura di Lucia Lumbelli p. XX).<br />
Skinner ritiene il modello di Walden 2 perfettamente applicabile anche alla<br />
società americana del 1976 come a quella del 1948: se non viene applicata è<br />
solo per motivi di cattiva volontà politica o pedagogica favorendo invece<br />
modelli che favoriscono una cultura competitiva ed opportunistica. (p. XXI)<br />
27
Nella società descritta da B. F. Skinner nel racconto Walden Two, del 1948,<br />
tutto ciò che bisogna insegnare ai ragazzi sono le tecniche di apprendimento,<br />
poiché poi ognuno per proprio conto o assieme ai compagni che s'è scelto,<br />
coltiverà gli studi che desidera. Tanto più che la città di Walden offre in vari<br />
luoghi e in vari momenti le più diverse opportunità di sviluppare le proprie<br />
conoscenze. Come egli afferma anche nel suo saggio "Oltre la libertà e la<br />
dignità", lo scopo deve essere quello di offrire a ciascuno le conoscenze e le<br />
tecniche necessarie per padroneggiare sè stessi. Per cui nella sua comunità<br />
utopica, le lezioni di autocontrollo debbono iniziare sin dalla primissima<br />
infanzia e saranno abbastanza frequenti per molto tempo. "Dato che i nostri<br />
bambini -spiega un abitante di Walden due- restano felici, energici e curiosi,<br />
non abbiamo assolutamente bisogno di insegnar loro delle "materie". Noi<br />
insegnamo solo le tecniche del pensiero. (...)diamo ai nostri bambini delle<br />
opportunità di apprendere e una guida, (...)il resto lo imparano da soli nelle<br />
nostre biblioteche e nei nostri laboratori. (....)non vengono trascurati, ma solo<br />
raramente, per non dir mai, viene loro insegnato qualcosa. (...) Piuttosto noi<br />
diamo loro le nuove tecniche per acquisire conoscenza e pensiero" ( Walden<br />
2 p.131-2). Perciò al di là del leggere, scrivere e far di conto, non si<br />
prevedono né programmi, né discipline fisse, né classi; tutti d'altronde si<br />
preoccupano dei bambini della città, li aiutano e sono a loro disposizione per<br />
ogni problema. Anche a Pala, nell'Isola di Huxley, 1963, al posto della<br />
famiglia vi sono centri di adozione reciproca per cui i bambini pensano ad<br />
ogni adulto come fosse suo padre o sua madre. Come tra gli Ajaoïens di<br />
Fontenelle anche in questa società, ispirata al buddhismo tantrico, l'intera<br />
società si è costituita in comunità educante e si sente responsabile per tutti i<br />
suoi membri, a tal punto che l'istruzione formale passa in secondo piano<br />
rispetto alla formazione stimolata dal contesto socializzante.<br />
Per tutte le società si può parlare in un modo o in un altro di comunitarismo<br />
utopico nel senso che il bene comune, anzi della comunità, è il bene supremo<br />
28
cui tutti vanno educati sin da piccoli, e dunque il sentimento di appartenenza<br />
alla comunità è il più forte rispetto a qualsiasi altro. Altre volte, si pensi per<br />
esempio alle comunità di vita o di riabilitazione, dove ormai le persone<br />
presenti hanno un certo tipo di educazione e di stile di condotta, il senso di<br />
appartenenza viene man mano insegnato e rappresenta poi il vero collante<br />
della comunità stessa e il “farmaco” adatto per i problemi esistenziali delle<br />
persone che ne fanno parte. Dato che vi è esclusa ogni coercizione forzata,<br />
l'educazione è lo strumento principe cui ci si affida, ma quando invece non si<br />
ha davanti un foglio bianco da educare diventa di cruciale importanza<br />
sviluppare un forte senso di appartenenza basandosi sulla costruzione di una<br />
relazione di fiducia e di aiuto. Sempre si ribadisce il concetto che è più<br />
importante orientare a certi valori che non far apprendere nozioni.<br />
Nella società odierna però la realtà è ben diversa; un forte individualismo fa<br />
da valore fondamentale nell’esistenza dell’individuo. Non è più il senso di<br />
appartenenza ad una comunità o ad una società il motore che fa si che<br />
l’individuo si comporti conformemente. Il condizionamento viene attuato in<br />
maniera sottile attraverso i Mass-media, le mode, i luoghi comuni, la cultura.<br />
E’ inverosimile pensare come nella realtà non ci sia un naturale senso di<br />
coesione, ma che ci sia una specie di lotta di sopravvivenza, e chi vince è chi<br />
riesce a stare tra i binari di ciò che a priori viene definito normale - che poi<br />
nient’altro è che il comportamento più diffuso - chi non riesce a stare tra i<br />
margini viene definito un deviante un diverso, un malato, un pazzo, ecc.<br />
nessuno si pone l’interrogativo se questa persona sta bene o male, se è cosi<br />
per sua scelta o perché tante microfratture nella sua esistenza gli hanno fatto<br />
credere che per lui non c’era che quella soluzione. “Chi non ci sta dentro”<br />
viene etichettato e man mano escluso. Allora c’è qualcosa che non va,<br />
bisogna allargare gli orizzonti e capire che le persone sono esseri fragili e<br />
vulnerabili che la nostra libertà d’essere, di fare, di apparire e di scegliere è<br />
intaccata da sottili meccanismi di controllo che non lasciano scampo o meglio<br />
29
non permettono all’individuo una piena realizzazione di sé. Con questo non<br />
intendo dire che non ci devono essere meccanismi di controllo o meglio di<br />
contenimento, anzi credo che questi siano necessari, ma intendo dire che il<br />
controllo affinché sia buono deve essere esercitato per il bene comune non<br />
per interessi privati, deve inoltre svilupparsi attorno all’individualità di ognuno,<br />
deve prevedere diversità tra un controllato e l’altro. Le regole quindi devono,<br />
a mio avviso, avere un senso chiare e preciso; devono delineare dove inizia e<br />
dove finisce il margine di libertà di ogni individuo, per facilitare quindi la<br />
convivenza civile e per dare all’individuo, la sensazione di essere protetti e<br />
non controllati.<br />
30
CAPITOLO 2: IL CONTESTO<br />
1. Cenni sulle povertà<br />
Prima di parlare dell’<strong>Associazione</strong> <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong> di Genova credo sia utile<br />
alla comprensione cercare di dare un volto al contesto in cui opera, e credo<br />
che sia quindi necessario dare una più precisa spiegazione di cosa s’intende<br />
per povertà.<br />
La situazione stessa di definizione della povertà è un problema; la maggior<br />
parte delle persone infatti crede che i poveri si caratterizzino per una più o<br />
meno assoluta privazione materiale, stereotipo che perde immediatamente di<br />
validità se facciamo caso alle persone che si presentano a chiedere aiuto in<br />
qualsiasi servizio sociale; vediamo infatti persone normali, nel senso che non<br />
si differenziano nel loro apparire, dalla maggior parte delle persone; si<br />
presentano infatti ben vestiti, con cellulare e altri “optionals” il quale<br />
possesso a mio avviso, sta appunto ad evidenziare come non siano i beni<br />
materiali a mancare a queste persone. Solitamente si valuta la povertà non<br />
come fenomeno multidimensionale ma come povertà economica.<br />
Questo tipo di interpretazione però, è valida solo in parte, il concetto di<br />
povertà infatti ha subito e tutt’ora inevitabilmente subisce modificazioni, si<br />
muove infatti di pari passo con la trasformazione della città e delle sue<br />
tradizionali forme di tessuto connettivo. La società, imperniata dei valori, delle<br />
regole, delle caratteristiche del sistema capitalistico, racchiude in sé<br />
meccanismi subdoli e meno appariscenti di esclusione sociale che prima non<br />
erano presenti.<br />
Innanzitutto è necessario concepire la povertà come un processo , come ,<br />
usando le parole del professore Guidicini, lo stato finale di immobilità ormai<br />
del tutto priva di autonomia strategica. Non è uno stato d’essere ma una<br />
sequenza verso il basso che passa attraverso più situazioni.<br />
31
Meglio quindi servirsi di una terminologia specifica e parlare di povertà<br />
urbana estrema, ed evidenziarla come “una sequenza di rotture biografiche<br />
che interessano sia la personalità, sia il tessuto sociale” (G.Pieretti, Per una<br />
cultura dell’essenzialità, Pg 81).<br />
Parlare di povertà significa quindi carenza o mancanza di beni materiali, ma<br />
vuol dire anche addentrarsi in una situazione che vede soggetti incapaci e<br />
riluttanti al provvedere a se stessi, e sottolineare cosi anche la presenza di<br />
più o meno numerosi eventi destabilizzanti aventi effetto di microfratture<br />
dell’equilibrio individuale e che via via fanno perdere il senso stesso della<br />
vita.<br />
E’ come se la società elevasse un muro, ponesse un alinea di separazione<br />
che definisce deviante e non deviante, normale e anormale, malattia e<br />
integrità, stigmatizzando cosi le persone e rendendo ancora più difficile<br />
l’accettazione delle proprie debolezze e fragilità. La pena non è quindi un<br />
supplizio, ma è la perdita di un diritto, di un bene: la libertà di scelta e il diritto<br />
di ognuno di essere messo nelle condizioni minime necessarie per compiere<br />
scelte e decisioni.<br />
La persona che grava in stato di povertà diventa altro da sé, e segue un<br />
processo deformativo che ha effetti sul corpo e sulla mente.<br />
Una persona povera che si trova a vivere in strada, perde coscienza di sé<br />
stesso, perde la sua identità, viene stigmatizzato; la sua nuova forma viene<br />
data dal suo essere “barbone”, uomo che vive per strada, ha cosi inizio la sua<br />
“lobotomia celebrale” il suo cammino verso la perdita di ogni appartenenza e<br />
del senso di sé, verso la spersonalizzazione.<br />
La società, toglie a mio avviso la possibilità di “libero arbitrio” nel senso che<br />
fornendo un assistenza che deve essere solo richiesta e creando una linea di<br />
confine tra normale e anormale, fa si che alcuni individui siano costretti a<br />
scelte estreme di degradazione. Si inserisce a questo punto il “gioco delle<br />
alleanze, dove vince chi riesce a tessere la rete di relazioni primarie e<br />
32
secondarie più solide e funzionali. La vita si svolge all’interno di una rete<br />
complessa di interdipendenze, dove si sviluppano forme “buone” di controllo<br />
e condizionamento auto e etero imposto, l’integrità di una persona si<br />
mantiene e si sviluppa all’interno di un insieme intricato di relazioni plurime e<br />
policentriche, che costituiscono sedi di appello cui fare ricorso e affidamento<br />
nei momenti “troppo” duri della vita. Se queste reti relazionali vengono a<br />
mancare, quando l’individuo per i motivi più disparati si trova a non farcela da<br />
solo, inizia l’inesorabile percorso di abbandono e decomposizione del sé, un<br />
percorso che porta alla povertà estrema.<br />
2. <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong><br />
2.1 Un po’ di storia<br />
L’associazione <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong> è legata ad un particolare stile d’intervento<br />
che attraverso gli anni si è andato evolvendo a favore di quelle persone che,<br />
per le loro difficoltà, si trovano a dover gravitare attorno alla piccola chiesa di<br />
<strong>San</strong> Macellino, nel cuore del centro storico genovese. L’associazione di fatto<br />
si situa in linea di continuità con la veneranda Opera di carità denominata “La<br />
messa del povero”, nata nel 1945 per iniziativa di un padre gesuita, P. Paolo<br />
Lampedosa. Ai margini del centro storico della città di Genova, quest’uomo<br />
sensibile , alla vista delle tante macerie che ricoprivano la città vecchia dopo i<br />
bombardamenti della guerra, toccato, colpito, commosso dalla sofferenza di<br />
tanta gente, decise di aprire la porta della vecchia chiesetta di <strong>San</strong><br />
<strong>Marcellino</strong>. Dietro l’invito del Padre Lampedosa varcarono la porta della<br />
chiesa le persone più diverse, gente che aveva perso tutto con la guerra,<br />
bisognosi delle cose più disparate come un aiuto alimentare, una foto, una<br />
buona parola o anche solo di un po’ di compagnia.<br />
33
Accanto a queste persone se ne insinuavano altre che avevano scoperto una<br />
possibilità concreta e semplice di rendersi utili, di fare qualcosa di buono per<br />
chi ne aveva bisogno. Nelle foto di archivio si rivedono persone dignitose<br />
composte fra i banchi della chiesa e anche impegnata in momenti di festa,<br />
gita, pellegrinaggi. Nel 1963 Padre Giuseppe Carena S.J. prende il posto di<br />
Padre Lampedosa improvvisamente deceduto. Ormai l’attività<br />
dell’associazione già esistente da diversi anni è diventata punto di riferimento<br />
per le persone e per le famiglie, che per le più disparate motivazioni si<br />
trovano a gravitare attorno al centro storico di Genova. Padre Carena decise,<br />
in quel periodo, di muoversi soprattutto a sostegno delle famiglie provenienti<br />
dal sud Italia che si trovavano a vivere nel fatiscente centro storico, dove<br />
trovavano alloggiamenti a basso costo. Si creano attività rivolte ai bambini e<br />
ai ragazzi appartenenti a queste famiglie migrate per mancanza di beni e di<br />
mezzi in situazioni di povertà diffusa, cosi facendo si costituisce un modo di<br />
agire rivolto all’aiuto dell’intero nucleo. Attorno all’attività dell’associazione<br />
gravitano molti volontari, chiamati collaboratori, che poi prendendo spunto<br />
dall’esperienza di <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong> sviluppano diverse associazioni e<br />
cooperative che operano nel campo dei minori, alcune delle quali ancora<br />
presenti nel territorio genovese. La figura di Padre Carena risulta cruciale da<br />
molti punti di vista; prosegue infatti le attività assistenziali quali l’ambulatorio<br />
medico, il sostegno alimentare ed economico, la distribuzione di indumenti<br />
ecc., oltre a questo però inizia una rilevante attività di osservazione, di<br />
registrazione, infatti documenta e scrive tutto ciò che man mano viene a<br />
conoscere delle singole storie di vita delle persone in difficoltà. Fa questo in<br />
assenza di giudizi morali sulle condizioni di vita dei singoli e delle famiglie.<br />
Importante è anche il suo ruolo di tramite tra le persone in difficoltà e il resto<br />
della città, pone infatti a tutta la città il problema dei più deboli inviando un<br />
foglio informativo che tutt’oggi viene inviato a circa quattromila indirizzi.<br />
34
La messa domenicale è forse ciò che ha caratterizzato e caratterizza le<br />
attività di <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong>, proprio in questo momento di preghiera, ma anche<br />
di incontro e di aiuto, è stato possibile per Padre Alberto Remondini e Padre<br />
Nicola Gay, osservare, conoscere, comprendere ed affrontare le situazioni<br />
difficili dell’emigrazione, della tossicodipendenza, dell’alcolismo e dell’essere<br />
senza dimora.<br />
Dall’inizio degli anni ’80 l’associazione rivolge le sue attività principalmente a<br />
favore di homeless che gravano in condizioni di povertà estrema e pur non<br />
escludendo le altre problematiche si strutturano a partire dal centro d’ascolto<br />
servizi ad hoc: dormitori, accoglienze notturne, comunità, mense, laboratori.<br />
2.2 Lo stile<br />
L’<strong>Associazione</strong> <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong> ci ricorda: “di fronte al disagio abbiamo<br />
imparato tante cose, ma ancora tante abbiamo da impararne. Più la<br />
situazione è difficile e più occorre essere preparati: abbiamo iniziato come un<br />
gruppo di volontariato e non vogliamo trasformarci in una fredda squadra di<br />
tecnici dell’aiuto; Cerchiamo però di dare grande attenzione all’integrazione<br />
tra buona preparazione e buone motivazioni perché le persone preparate<br />
siano anche ben motivate e perché le persone motivate si preparino<br />
adeguatamente”.<br />
“In quest’ ultimi anni ci siamo ritrovati accano alle persone della strada ed<br />
abbiamo cominciato ad incontrarle cercando di dare spazio agli stimoli che,<br />
come singoli o come gruppo, ricevevamo da loro: in questo modo è nato<br />
anche il nostro stile, che non è stato frutto di un’idea precostituita ma del<br />
desiderio di incontrare, di comprendere e poi di intervenire. A partire<br />
dall’ascolto dei bisogni immediati (un letto, un pasto, vestiario, una doccia)<br />
abbiamo cercato di avvicinarsi ai bisogni più profondi, raramente espressi:<br />
rileggendo successi e fallimenti abbiamo trovato la strada che è quella di<br />
oggi, che sappiamo non essere quella definitiva, perché sarà continuamente<br />
35
ivista a partire da nuove riletture del vissuto e adeguandosi ai repentini<br />
cambiamenti della società. Il nostro stile consiste perciò nel lasciarsi<br />
emotivamente toccare da queste persone e la riflessione sulla nostra<br />
esperienza di servizio ci induce ad affermare che non bisogna accontentarsi<br />
di inventare risposte adeguate al disagio ma, anche e prima di tutto bisogna<br />
lasciarsi cambiare dall’incontro, cambiare mentalità, guardare noi stessi e gli<br />
altri in un modo più umano, più vicino al cuore, più vero”. (sanmarcellino.ge.it)<br />
Quando si pensa alla condizione di senza dimora, quello che magari più<br />
colpisce è il fatto che queste persone non abbiano una casa dove ripararsi<br />
dove dormire dove prendersi cura di sé, ma in realtà l’essere senza dimora<br />
presuppone anche l’assenza di un luogo degli affetti, di relazioni significative,<br />
di simboli che sono elementi necessari per la definizione della nostra identità.<br />
Quindi lo stile d’intervento dell’associazione non intende lavorare solo sul<br />
problema dell’essere senza casa, ma parte dalla condizione di desaffiliation<br />
(R. Castel), l’esperienza ha messo in evidenza come il problema sia<br />
multidimensionale e articolato, comprende infatti molte diverse problematiche<br />
psico-fisiche che mettono a repentaglio lo sviluppo del sentimento di<br />
appartenenza sociale, innescando o aggravando itinerari di destrutturazione<br />
dell’identità. Partendo dal presupposto che ogni essere umano è tale in<br />
quanto animale sociale, e che la sua forza sta anche nell’aggregazione e<br />
nella socialità, nella sua capacità di tessere relazioni, legami, appartenenze,<br />
si evidenzia come queste persone, che per diversi motivi si trovano a vivere<br />
un progressivo distacco nei confronti dell’appartenenza sociale e delle reti<br />
sociali primarie e secondarie (famiglia, istituzioni ecc.) , scivolano in una via<br />
di non ritorno, verso un percorso di abbandono e decomposizione del sé. Il<br />
rapporto con questo “realtà parallela” ha messo in risalto che è necessario<br />
intervenire con una logica multidimensionale e che non si deve ridurre la<br />
problematica ad un mero insieme di necessità. La risposta al bisogno quindi<br />
dev’essere vista non tanto come finalità ma come strumento e mezzo<br />
36
attraverso cui mettere a punto un progetto di accompagnamento, che<br />
contrasti la cronicizzazione e che porti l’individuo a rinegoziare la propria<br />
identità verso una maggiore emancipazione.<br />
Occorrono anni e anni perché le persone possano ritrovare il loro equilibrio, i<br />
tempi sono quelli dettati dalla storia personale e i progetti ne vengono<br />
condizionati. Non esiste una meta ideale a cui si mira, può essere<br />
l’autonomia parziale o totale, un inserimento lavorativo o a volte anche solo<br />
un accompagnamento sulla strada che per scelta o per forza si trovano a<br />
percorrere. Nell’accompagnarli molto spesso è più che sufficiente stare in<br />
ascolto, essere presenti e rispettare le differenze individuali. E’ preferibile<br />
aspettare che sia la persona a parlare, a chiedere, a confidare; non si deve<br />
cadere nella trappola del “dare per scontato” e in quella di creare situazioni<br />
troppo rigide e predeterminate. Massimo rispetto dunque per le esigenze e i<br />
tempi di ciascuno.<br />
Ci si può riferire al concetto di “addomesticamento” presente nel racconto di<br />
De Saint-Exupery, Il Piccolo Principe, addomesticamento che richiede tempo,<br />
costanza e pazienza nel cominciare a fidarsi dell’altro attraverso piccoli passi.<br />
Addomesticare, cosi come viene spiegato al piccolo principe, è una cosa da<br />
molti dimenticata; vuol dire creare dei legami, vuol dire riconoscere di avere<br />
bisogno uno dell’altro, vuol dire creare dei riti. Ecco quindi evidenziarsi lo stile<br />
di <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong> nel prendersi cura delle persone. Occorre tempo, occorre<br />
un tempo di “addomesticamento reciproco” in cui far crescere e maturare la<br />
fiducia perché possa prendere campo l’aiuto, la comprensione, la tenerezza,<br />
l’affetto e perché possa innescarsi una relazione significativa che aiuti a far<br />
ritornare le persone ad una condizione di vita sostenibile.<br />
Si cerca di conoscere la persona al di là del suo problema più evidente.<br />
Questo permette di vedere la persona sola senza casa, senza lavoro, come<br />
una persona segnata dai suoi problemi, dalle sue debolezze, da una serie di<br />
microfratture, ma anche come fonte preziosa di ricchezze e risorse ancora<br />
37
inespresse. Per questo agli operatori è richiesto un enorme lavoro di<br />
relazione e uno sforzo per lavorare in pieno con le persone per le persone,<br />
offrendo loro principalmente una relazione.<br />
Gli operatori cercano di valorizzare negli utenti le capacità residue di cui<br />
ancora dispongono. Ciò è strettamente connesso ad una logica progettuale,<br />
con la quale è possibile costruire insieme alla persona in stato di bisogno, un<br />
progetto non rigido e determinato, che porta ad un certo cammino e ad alcuni<br />
fondamentali cambiamenti che possono migliorare la qualità della vita,<br />
verificati nei coordinamenti che <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong> attua secondo una logica di<br />
lavoro di rete. Ecco quindi evidenziarsi il reale oggetto di lavoro: prima del<br />
bisogno c’è la persona nella sua interezza, importante è quindi il ruolo di<br />
mediazione tra individuo e sistema sociale: “crediamo che la persona che<br />
viene esclusa o si auto-esclude, necessiti di uno spazio e di un tempo dove<br />
tentare di riconciliare il conflitto che una volta esposto genera solamente<br />
violenza, autodistruzione, morte”. Incontrare una persona nella sua interezza,<br />
e non solo il suo bisogno, si evidenzia nei fatti con la “regola” di dover<br />
passare dal centro d’ascolto per un colloquio individuale con un operatore per<br />
poter accedere alle strutture, il senso è che deve esserci un incontro<br />
significativo tra due persone e non solo tra una domanda e un’offerta. Non<br />
viene erogato solo un servizio, ma quello che viene innescato nell’incontrarsi,<br />
è un processo di rinegoziazione di sé, attraverso un’esperienza educativa,<br />
cioè una situazione in cui i protagonisti - operatori, utenti - possano dare un<br />
senso a quello che stanno vivendo, una situazione dove c’è un<br />
condizionamento operante che l’associazione cerca di fare sull’individuo,<br />
trasmettendo la sua filosofia, e mettendo delle regole, delle norme di<br />
condotta, che costituiscono i punti fermi necessari alla persona di strada<br />
affinché riprenda la sua dignità e la sua libertà.<br />
L’universo dell’utenza mostra caratteristiche eterogenee, e nega l’esistenza di<br />
percorsi e di carriere definite. Se vogliamo evidenziare un comune<br />
38
denominatore tra le diverse storie di vita, questo è sicuramente l’incapacità di<br />
stare dentro ad una realtà normale. La tipologia di interventi che <strong>San</strong><br />
<strong>Marcellino</strong> offre, indica che non ci sono routine consolidate, ma che per ogni<br />
persona ci sono dei singoli interventi, contro le “macro risposte che sono<br />
etichettanti, spersonalizzanti ed emarginanti”. Si cerca di superare l’ottica del<br />
mero assistenzialismo, cosi in voga nelle strutture pubbliche ed<br />
evidentemente non valido, si cerca quindi di far cambiare alla persona il<br />
proprio “cattivo” modo di vivere proponendo un “contratto”, una relazione<br />
importante correlata di servizi e attività. Il rapporto che si viene ad instaurare<br />
non è dettato a priori da logiche di bisogno e risposta ad esso, ma è la<br />
persona stessa che lo sceglie,che detta i tempi e le modalità della relazione.<br />
Credo che a si possa parlare di condizionamento operante, anche per quanto<br />
riguarda il servizio con le persone di <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong>, utilizzando l’esempio<br />
dell’associazione viene cosi esaltato il “buono” del condizionare altre<br />
persone. <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong> lavora con le persone che gravano in situazioni di<br />
povertà estrema e le condiziona con il suo stile e la sua filosofia, fa si che<br />
queste, riprendano affiliazione e senso di sé, attraverso una relazione<br />
importante che dà consigli e suggerimenti per ritornare a vivere un’esistenza<br />
degna di essere chiamata Vita.<br />
2.3 Le aree di intervento<br />
Fra i senza dimora le problematiche emergenti sono principalmente:<br />
• L’alloggiamento<br />
• Il lavoro<br />
• La salute<br />
• Le dipendenze<br />
• La socializzazione<br />
Nell’affrontarle è necessario non porsi in una posizione a priori critica, ma<br />
chiedersi “come mai questa persona si è lasciata andare fino a questo punto,<br />
39
come mai è cosi mal ridotta”, nel fare ciò occorre essere pazienti ed adattarsi<br />
i tempi degli altri, diversi da persona a persona e diversi perché sono il<br />
risultato di singole storie di vita. In ogni individuo che si trova a rivolgersi a<br />
<strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong>, i problemi della casa, del lavoro, dell’alcool, delle relazioni e<br />
quello sanitario a suo tempo hanno creato e stanno ancora creando<br />
sofferenza. Accanto ai servizi offerti, si cerca di organizzare interventi che<br />
spaziano in cinque aree. L’accoglienza è la parola d’ordine a <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong>,<br />
fa parte del tentativo di offrire alle persone uno spazio ed un tempo per<br />
negoziare la propria identità. Faccio riferimento in particolare all’area<br />
accoglienza del centro d’ascolto, dove un volontario gestisce la sala d’attesa<br />
e accoglie chi arriva. Per i frequentatori è importante qui, essere riconosciuti,<br />
chiamati per nome, valorizzati, se si è attenti a curare il momento<br />
dell’accoglienza, anche e soprattutto nelle modalità di approccio, allora la<br />
persona riscopre la possibilità di scoprirsi “voluta bene” e degna di attenzione<br />
e di stima. In particolare una buona accoglienza permette alla persona di<br />
cambiare in positivo l’idea che ha di sé, la persona deve sentirsi amata da<br />
qualcuno, deve percepire un’attenzione e un riconoscimento da parte degli<br />
altri, che lei non riesce a darsi da sé stessa. Essere ben accolti aiuta quindi le<br />
persone senza dimora a riacquisire l’importanza della socializzazione, dello<br />
stare insieme e del fidarsi dell’altro; condizioni essenziali per la buona riuscita<br />
dell’accompagnamento verso la libertà e la dignità personale, infatti solo cosi<br />
scatterà il desiderio di una rinnovata conoscenza di se stessi e di una<br />
rinnovata gestione e organizzazione della propria esistenza. E’ importante<br />
quindi accogliere e poi saper ascoltare. All’inizio infatti le persone si rivolgono<br />
al servizio portando i loro problemi e i loro bisogni quali il mangiare, il<br />
dormire, aiuti economici ecc. sta agli operatori, con gli strumenti a<br />
disposizione, convertire la richiesta iniziale in una vera relazione d’aiuto, e<br />
creare quel rapporto significativo di comprensione dell’altro, che permetta di<br />
leggere oltre la richiesta iniziale, e di cercare i reali problemi, mancanze,<br />
40
isogni.<br />
Dietro al problema alloggiamento, c’è infatti, oltre alla necessità di un posto<br />
caldo, pulito e protetto dove dormire, il bisogno di una dimora, di un proprio<br />
luogo degli affetti , delle relazioni significative, di simboli che sono elementi<br />
fondanti della propria identità. Anche dietro una dipendenza che<br />
necessariamente dobbiamo curare, c’è un problema altro che ha portato a<br />
abusare di una determinata sostanza legale o meno. Il problema non sta<br />
nella sostanza, o meglio non solo in quella, il problema sta a monte, è, un<br />
malessere esistenziale che ti porta a vivere nell’oblio dello sballo, che ti porta<br />
a riuscire a vivere solo alterato. E’ importante aiutare chi si trova in difficoltà,<br />
soprattutto con un tipo di aiuto che porti la persona a percepire il suo reale<br />
problema, ed è necessario non fermarsi al solo problema “apparente” ma<br />
andare a fondo e chiedersi “Perché”.<br />
CAPITOLO 3: I SOGGETTI<br />
41
1. Storie di vita: percorsi diversi per un destino comune verso<br />
la libertà.<br />
I percorsi biografici sotto esposti, hanno lo scopo di evidenziare come la<br />
libertà intesa come “fare quello che si vuole”, impregnata dalla filosofia del<br />
vivi e lascia vivere, si dimostra estremamente pericolosa e addirittura<br />
dannosa. Se non c’è una qualche forma di controllo auto o etero imposto, se<br />
manca un’effettiva disponibilità di risorse oggettive e soggettive, se non c’è<br />
un senso del limite e una concreta conoscenza di sé stessi e se è assente un<br />
sistema interiorizzato di norme, infatti, le persone lasciate allo “stato brado”,<br />
perdono dignità e restano faticosamente aggrappati al limite della<br />
sopravvivenza, iniziando un percorso di inesorabile abbandono e<br />
decomposizione del sé, senza contenimento alcuno, verso l’autodistruzione e<br />
scegliendo per contingenze e non per libera volontà.<br />
La logica comunitaria e nello specifico la realtà del Ponte, comunità<br />
residenziale della più vasta realtà di <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong>, sono un esempio di<br />
concreta e piena coincidenza di libertà e controllo. Le persone che seguono<br />
un percorso di reinserimento con l’associazione, sono consapevoli della loro<br />
esigenza di essere aiutati ma sono anche coscienti che deve nascere da loro<br />
la voglia di cambiamento. Il loro non è semplicemente un seguire i comandi,<br />
le regole, ma è, seguire delle indicazioni “terapeutiche” date da persone con<br />
più capacità e maggiore esperienza, essenziali per rientrare in porto e<br />
riprendere sé stessi e nel modo possibile maggiore libertà ed autonomia. La<br />
persona è, attraverso piccoli passi, aiutata ad uscire da una situazione in cui<br />
è spesso assente una dimensione temporale e un certo autocontrollo. Le<br />
regole presenti non sono semplicemente imposte, ma sono nate prendendo e<br />
dando senso al contesto in cui si formano. Non sono quindi divieti e<br />
costrizioni fine a se stessi, ma sono una forma di contenimento essenziale. I<br />
42
progetti che intendono promuovere l’autonomia e la libertà e la dignità,<br />
riconsegnano alla persona il senso e l’importanza della propria vita Questo<br />
emerge dai racconti biografici degli ospiti che aiutano a vedere e a capire<br />
come questi individui abbiano riacquistato dignità e libertà solo dopo<br />
l’inserimento in questa “istituzione totale” che li impone, regole e norme<br />
comportamentali da rispettare.<br />
Piero si presenta per la prima volta a <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong> nel novembre del<br />
1987, molto intimorito, chiede un posto dove poter dormire, varie volte è stato<br />
al dormitorio pubblico “Massoero”, ma ora non avendo più la residenza a<br />
Genova non può più essere ospitato li. Fa molta fatica a parlare di sé,<br />
racconta velocemente che ha lavorato come barista e cosi ha cominciato a<br />
bere, che è stato sposato, e che ad un certo punto ha perso lavoro e moglie.<br />
Dopo di questa prima sfuggente “apparizione”, Piero non si è più visto, fino al<br />
giugno del 1995. Si presenta come un tipo trasandato vestito di jeans e fa<br />
pensare ad uno scaricatore in porto, al tipico uomo da bar. Non fa in tempo a<br />
sedersi che precisa di essere un ex detenuto. Da quando è uscito dal carcere<br />
(circa quattro mesi) è stato in una pensione, pagandosela con dei precedenti<br />
risparmi, da allora cerca lavoro, ma senza risultati.<br />
Inizialmente si presenta alquanto scostante e sembra menefreghista, la sua<br />
richiesta è chiara: “Cerco aiuto per non finire per strada, un posto dove<br />
dormire che mi dia la tranquillità necessaria per riuscire a trovare lavoro e<br />
ritrovare l’autonomia”.<br />
Spiega di essere un tipo chiuso, di avere difficoltà a parlare con gli altri di sé<br />
ed esprime la sua convinzione che parlare dei suoi problemi non porterà a<br />
nulla in quanto non glieli risolveranno gli altri. Dice di non essere alcolista,<br />
ammette che lo è stato, ma che ormai, il problema è risolto; ha smesso in<br />
carcere perchè si era reso conto che bevendo non poteva andare lontano.<br />
43
Passano le settimane, la sua ricerca di lavoro è in vana, si sente addosso<br />
l’etichetta di ex carcerato, che gli impedisce di trovare un’occupazione. Si<br />
sente un uomo senza possibilità, accusa fastidio nell’essere giudicato e<br />
pensa che il suo passato ormai gli precluda ogni possibilità di cambiamento,<br />
la gabbia del suo passato gli toglie la libertà, lo priva d’ogni possibilità di<br />
scelta, in questo periodo Piero non si sente libero perché privato delle<br />
ricchezze della “normalità”: casa, lavoro, amicizie, famiglia.<br />
Nel settembre 1995 è stato inserito nel laboratorio di pulizie, il suo umore e la<br />
sua salute migliorano di giorno in giorno, dice di stare meglio soprattutto<br />
perché, con qualche ora occupata, la giornata sembra meno dura. Ammette<br />
anche di non bere più quei bicchieri che ogni tanto si sentiva costretto a bere<br />
perché la vita gli pesava troppo. Molto soddisfatto del suo piccolo impegno<br />
quotidiano, ha cominciato a progettare il domani, pensa a una casa<br />
rendendosi però conto che anche a causa dei suoi 55 anni non è cosi<br />
semplice inserirsi nel mercato del lavoro e trovare un’occupazione che gli<br />
permetta di mantenersi autonomamente, ha quindi una costante sfiducia di<br />
fondo verso la possibilità di migliorare la sua situazione.<br />
E’ il maggio del 1997, Piero è da qualche giorno uscito dal carcere, dorme al<br />
Massoero, si ripresenta a <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong> ed è convinto di ricominciare da<br />
dove era arrivato. E’ molto prudente nell’esprimere i suoi progetti , dice che<br />
per il momento preferirebbe uscire dal dormitorio pubblico perché in quella<br />
struttura si sente abbandonato a se stesso, si sente in pericolo perché<br />
nessuna regola viene fatta rispettare e da questo capisce che non c’è<br />
nessuna attenzione verso di lui e verso gli altri ospiti.<br />
Nel 1998 Piero viene inserito nella comunità di riabilitazione “il Boschetto”,<br />
dove si inserisce subito nel migliore dei modi e recupera forza e buon umore.<br />
Durante una delle riunioni settimanali, fa emergere le sue difficoltà, che<br />
riguardano per esempio il rispetto degli altri compagni, la tolleranza e<br />
l’accettazione delle osservazioni e delle critiche; dal suo modo di descrivere<br />
44
una vita comunitaria ideale traspare l’attaccamento ad un impianto valoriale<br />
segnato dai trascorsi di carcere e dal tempo passato nella Legione straniera<br />
prima come fante e poi come infermiere, dove non facendo né osservazioni,<br />
né critiche agli altri si ha il diritto di non riceverne mai e dove le inadempienze<br />
e le carenze di qualcuno vengono subito coperte da altri.<br />
Nella dimensione comunitaria una concezione simile della convivenza si<br />
scontra con il lavoro di scambio e arricchimento che quotidianamente avviene<br />
tra gli ospiti. Le modalità di relazionarsi di Piero, frutto molto probabilmente di<br />
esperienze povere d’opportunità di vera condivisione, lo condizionano molto,<br />
ma non sembrano rappresentare un ostacolo al suo progetto con <strong>San</strong><br />
<strong>Marcellino</strong> e alla sua voglia di andare avanti e alla scelta concordata di<br />
passare alla comunità di vita “Il Ponte” piuttosto che in un alloggio.<br />
Questa scelta appare dettata dal suo bisogno e dalla sua voglia di socialità, di<br />
condivisione, di famiglia. Il 31 maggio 1999, si trasferisce in comunità dove<br />
prende subito possesso dei suoi spazi, mostrando lo sviluppo di un forte<br />
senso d’appartenenza con le strutture, e con la più ampia realtà di <strong>San</strong><br />
<strong>Marcellino</strong>, cosa evidenziata anche dalla sua scrupolosa puntualità nel<br />
presentarsi ai colloqui settimanali; padroneggia in cucina, luogo a lui preferito,<br />
dove riscatta la sua identità perduta, riprendendo coscienza di se stesso e<br />
delle sue capacità.<br />
Quando gli chiedo di spiegarmi secondo lui che significa l’essere libero, mi<br />
dice: “Ero solo, orfano di guerra, sono stato affidato ad una zia materna che<br />
sposò un militare di Messina e ci trasferimmo li, dove ho frequentato le scuole<br />
dei Salesiani fino alla prima liceo, quando a causa di litigi violenti con il marito<br />
della zia, presi l’unica via che mi sembrava possibile per sfuggire da una<br />
situazione ormai insopportabile, e mi arruolai in marina. Dopo tre anni di<br />
Legione straniera venni espulso e approdai cosi a Genova, dopo un paio di<br />
anni come barista cambiai professione e cominciai a fare il ladro e poi la vita<br />
trascorse fine a se stessa, quasi a me estranea, ogni giorno agivo mosso da<br />
45
necessità impellenti, conducevo un’esistenza sregolata e senza senso,<br />
abbandonato a me stesso, ai miei problemi e alle mie debolezze; senza<br />
nessuno che mi prendesse per mano e mi consigliasse trasmettendomi un<br />
piccolo insieme di regole a vivere dignitosamente libero. Quando mi sono<br />
ritrovato in strada dopo tanti anni di carcere e di Legione straniera, mi<br />
sembrava che non mi rimanesse altra scelta, altra possibilità, se non vivere<br />
per strada, arrangiandosi a stento con qualche lavoretto illegale, io oggi<br />
invece sono libero, mi sento libero perché ho scelto io di stare qui, perché ho<br />
ritrovato forza e serenità, aiuto e compagnia; perchè in questa istituzione io<br />
mi sento libero di scegliere, sono libero di essere me stesso nel rispetto della<br />
mia persona e delle altre a me vicine e sono contento di sottostare alle poche<br />
e fondamentali regole che <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong> ci dà, perché sono queste regole<br />
che mi hanno tolto dalla rovina, che mi hanno fatto rientrare in porto!”<br />
Aldo si presenta al Centro d’ascolto per la prima volta nell’aprile del 1988 e<br />
dice di trovarsi a Genova da 4 anni. Inizialmente ospitato da una cognata, poi<br />
a casa di un amico e poi si è ritrovato a vivere in stazione perchè “l’ospite<br />
dopo un po’ pesa”. Ha una completa o quasi, assenza di rapporti con parenti<br />
o con amici e comunque non ha nessuna relazione importante che gli dia la<br />
possibilità di chiedere aiuto. Il suo primo bisogno espresso è di tipo<br />
alloggiativo e chiede qualche soldo, dopo questa prima richiesta non si è più<br />
presentato a <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong> fino al novembre del 1993, quando si ripresenta<br />
fingendo di essere nuovo. Confida di avere moglie e tre figli, è certo però che<br />
la sua famiglia non voglia avere a che fare con lui, perché non ha un lavoro.<br />
Dice di essere in giro da tre mesi e di trovarsi per la prima volta in una<br />
situazione del genere.<br />
I suoi racconti non coincidono, forse la realtà è troppo dura da ricordare per<br />
lui, forse ha vergogna di ammettere il suo passato, chissà, è comunque<br />
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evidente il suo processo di abbandono, non ha lavoro, dorme dove gli capita,<br />
è trasandato, rifiuta di stare al Massoero perché dice di “non voler stare con<br />
quelli là”, chiede ospitalità all’Angolo. Man mano che il rapporto va avanti,<br />
Aldo racconta la sua verità: dice di vivere da 40 anni a Genova, che ha<br />
lasciato il lavoro su pressione della moglie che voleva tornare al “paesello”,<br />
da li non è più riuscito ad inserirsi stabilmente nel mondo del lavoro.<br />
Ha 3 figli con i quali ha buoni rapporti ma contatti occasionali, racconta di non<br />
essere mai stato in una situazione agiata, ma che con il lavoro che aveva<br />
riusciva a “campare”. Dai suoi racconti emerge la sua incapacità a prendersi<br />
le responsabilità, non è mai colpa sua, accusa la crisi lavorativa, la moglie<br />
cattiva ecc. Escono lunghi periodi passati al Massoero, alle stazioni e sui<br />
treni. Ormai la sua condizione di senza dimora è conclamata e ha evidenti<br />
problemi di alcoolismo, che però minimizza, secondo lui, infatti, il suo unico<br />
problema è la mancanza di lavoro, che lui considera la chiave per la stabilità<br />
e per l’autonomia.<br />
Gentile e ambiguo, ha un atteggiamento sottomesso e un modo di rapportarsi<br />
che impedisce un reale contatto, continua comunque il rapporto tra Aldo e<br />
<strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong>, che permette di capire che dietro quell’uomo che ride,<br />
scherza e fa battute in realtà c’è una persona sensibile e affettiva, che<br />
racconta agli altri e a sé stesso bugie perché è meno doloroso rimuovere la<br />
realtà passata piuttosto che rielaborarla.<br />
Nel frattempo gli anni scorrono, Aldo ha una borsa lavoro di cui sembra più<br />
che soddisfatto, sta frequentando un Club per alcolisti in trattamento e sta<br />
cercando di ritrovare l’equilibrio e di progettare il futuro, dopo anni passati al<br />
Gradino e all’Angolo, nel 2000, viene trasferito al Boschetto. All’inizio<br />
reagisce con aggressività verso il gruppo, fa fatica a mantenere regolarmente<br />
i suoi impegni e a creare contatto con il resto degli ospiti. Passa al Boschetto<br />
tre anni, durante i quali si rivela la sua adeguatezza a vivere in una situazione<br />
comunitaria piuttosto che in un alloggio, emerge infatti sempre più, il suo<br />
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isogno di essere aiutato e controllato. Soffre la solitudine, è pervaso da un<br />
senso di inadeguatezza e inferiorità e per questo non è in grado di crearsi<br />
autonomamente relazioni importanti, inoltre, forse a causa dell’abuso di<br />
alcool, ha subito un precoce deterioramento mentale, La soluzione che si<br />
prospetta ottimale per lui e per i suoi 56 anni è la comunità Il Ponte dove<br />
tutt’ora risiede.<br />
Parlandomi del suo passato Aldo fa molta confusione, dice una cosa e subito<br />
dopo l’esatto contrario, riesco però ad entrare in confidenza con lui, così mi<br />
racconta che nella vita ha tanto sofferto per i suoi errori, che l’alcool e il suo<br />
senso di inferiorità gli hanno precluso molte scelte. Mi dice di essersi sentito<br />
abbandonato nel momento del bisogno dalla sua famiglia, e che ha vagato<br />
per molto tempo senza mete, bevendo e ancora bevendo per tutto il giorno,<br />
per non pensare, per cercare di attutire il dolore vivo più che mai al solo<br />
pensiero di essere solo, di non potere per vergogna e per orgoglio chiedere<br />
aiuto ai figli, di non potere tornare a casa perché troppi pregiudizi gravavano<br />
su di lui.<br />
Aldo pensa di non essere mai stato veramente libero, dice che non ha mai<br />
capito cosa voleva dalla vita e che solo da quando sta a <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong> crede<br />
di aver scoperto se stesso e di essere scampato da una situazione senza via<br />
di uscita. Vede le regole come essenziali per la formazione dell’individuo e<br />
per il suo sviluppo, vede la vita in comunità libera e dignitosa, mentre ricorda<br />
il suo passato in strada come un periodo buio, iniziato per forza maggiore e<br />
non per scelta e dove era completamente condizionato e dipendente.<br />
Gianni è seguito dal Centro d’ascolto di <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong> dal 1986. Accolto in<br />
un momento di grave difficoltà, non aveva né casa, né qualcuno che lo<br />
potesse aiutare e al quale fare riferimento. Confida che non ha mai visto il<br />
padre e che la madre è morta quando lui era piccolo, ma in realtà questo non<br />
è vero, non vede e non sente la madre da tantissimo tempo perché con lei<br />
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aveva dei grossi problemi di incomprensione a causa dei quali preferiva<br />
pensarla morta. Si è trasferito in giovane età a Roma con il fratello, dove si è<br />
sperperato tutti i suoi risparmi, vaga per l’Italia, prima ad Ancona, poi Asti,<br />
Torino e arriva a Genova dove riesce a sviluppare una forte conoscenza del<br />
territorio e instaura rapporti con molti enti assistenziali. E’ ormai a tutti gli<br />
effetti un senza dimora ed ha problemi con l’alcool, è terribilmente fobico,<br />
molto rigido e chiuso, nervoso, aggressivo, dice di avere una casa in Lazio<br />
lasciatagli dai parenti ma lui non la vuole, non gli interessa anche perché non<br />
riesce a vivere sotto un tetto.<br />
Gianni non riesce a stare in luoghi chiusi, dice di soffrire di claustrofobia, e<br />
questo non gli permette di trovare lavoro e lo costringe a dormire per strada,<br />
la sua fobia infatti gli impedisce di riuscire ad entrare in un posto chiuso<br />
anche solo per riposarsi; forse i suoi disturbi derivano da un evento<br />
traumatizzante; all’età di 24 anni ha perso la giovane amata, morta<br />
all’improvviso a causa di un brutto male. Continua a dormire in strada, sotto<br />
qualche portico, E’ inserito per la prima volta nell’anno 1992 al dormitorio<br />
L’angolo e nel 1996 è trasferito in un’altra accoglienza notturna, sempre<br />
dell’associazione, sembra cominci ad accettare di stare con altre persone<br />
sotto lo stesso tetto.<br />
A periodi alterni frequenta il Centro d’ascolto dove è aiutato ad affrontare le<br />
difficoltà dovute a frequenti momenti di depressione legati per lo più, al suo<br />
precario stato di salute, che lo portano a bere e a vagare in città.<br />
Nel 1998 il suo senso di appartenenza con la realtà di <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong> è forte,<br />
e lui inizia a mostrare interesse per trasferirsi in comunità, vorrebbe andare al<br />
Ponte perché dice di sentire il bisogno di essere aiutato e contenuto e perché<br />
non vuole rimanere solo. Anche se ammette che quando è con altre persone<br />
è scontroso, maleducato, prepotente e che non sa accettare critiche o<br />
consigli, sceglie la vita di comunità, perché alla fine dietro alla sua dura<br />
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apparenza c’è una persona fragile e sensibile che ha molto bisogno di<br />
attenzione e di affetto.<br />
Gianni mi dice che le regole di <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong> e più in generale, della società<br />
servono per delineare ed evidenziare gli spazi di libertà che ogni persona ha,<br />
dice: “la libertà senza regole non può esistere”.<br />
Secondo lui nessuno è libero se non ha un controllo alla base che gli fa<br />
capire che cosa è bene e cosa è male, che insegna a rispettare sé stessi e gli<br />
altri. Le regole per lui sono essenziali, innanzitutto per mantenere l’ordine e<br />
poi perché il controllo è l’unico mezzo che permette alle persone di farsi una<br />
coscienza, una guida interiore che aiuta a vivere.<br />
Giorgio si presenta al Centro di ascolto nel 1998, dal 1983 è senza casa e<br />
senza dimora, racconta di essere stato cacciato dalla moglie e che da allora è<br />
senza lavoro, senza casa e senza dimora, e passa il tempo facendo lunghe,<br />
lunghissime passeggiate “qua e là”. Giorgio al momento del primo colloquio<br />
ha già 62 anni e da 15 vive per strada, dormendo in stazione e al dormitorio<br />
pubblico.<br />
Si presenta chiedendo assistenza: un alloggio e qualche spiccio.<br />
Da anni ristagna in questa situazione; immobile, aspetta rassegnato e con<br />
atteggiamento passivo. E’ convinto che siano gli altri a doverlo aiutare, che è<br />
lo Stato che ha il dovere di trovargli una famiglia, cioè che è la legge che<br />
deve garantirgli quei diritti e quel minimo essenziale perché lui possa<br />
provvedere a sé stesso e a farsi una famiglia. Quando affronta certi<br />
argomenti appare ansioso e impaziente, è convinto che sia suo diritto non<br />
essere costretto a chiedere ed essere però ugualmente aiutato. Questo suo<br />
modo di percepire il suo diritto all’assistenza è in netto contrasto con la logica<br />
assistenziale attualmente in auge; in Italia infatti per ricevere aiuti e<br />
assistenza sociale, è necessario chiedere!<br />
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Il suo particolare modo di vedere la sua situazione e di pretendere aiuto, lo<br />
hanno fatto gravitare in questo non spazio esistenziale, è effettivamente una<br />
persona con qualche deficit mentale, ma questo non può giustificare l’omertà<br />
dell’assistenza pubblica che lascia vivere cosi queste persone, che per<br />
mentalità, per orgoglio o per incapacità non riescono a chiedere e si sentono<br />
abbandonate da tutti e pian piano abbandonano se stessi.<br />
Passa qualche anno al dormitorio “Il Gradino” dove dice di stare bene e dove<br />
si adatta scrupolosamente a regole ed orari.<br />
Più il tempo passa e più Giorgio ritorna in ottima forma, non è particolarmente<br />
reattivo però esprime la sua esigenza di vivere in un contesto protetto, dove<br />
possa essere contenuto e seguito. Dice che le regole non gli danno fastidio,<br />
ma anzi gli piace seguirle e il dover rientrare in dormitorio ad una specifica<br />
ora gli da un forte senso di appartenenza, perché dice “mi sembra che<br />
qualcuno mi aspetti, e questo mi fa sentire accolto, ben voluto e importante”.<br />
Si barcamena tra atteggiamenti di disponibilità e di chiusura, è ripetitivo e<br />
fatica molto ad uscire dai suoi schemi mentali, non accetta consigli se non<br />
dall’autorità, dice che vuole ragionare con la sua testa ma poi in realtà si<br />
abbandona agli altri. Ammette di non sentirsi adatto a combattere “là fuori,<br />
dove il mondo è troppo cattivo, competitivo e veloce”.<br />
Quando arriva il sussidio, appare spaventato piuttosto che contento, reazione<br />
strana visto che sembrava aspettasse quello per progettare il suo futuro. Il<br />
ricevere un contributo economico continuativo, fa emergere la sua paura al<br />
cambiamento, la sua paura di essere nuovamente abbandonato a se stesso:<br />
“…ho paura di essere lasciato libero, in balia di me stesso e delle avversità<br />
del mondo, non riesco a mettere dei paletti nella mia vita, da solo non riesco<br />
a pensare ad un domani, da solo cammino e ancora cammino perché non so<br />
che altro fare…”. Me lo immagino attraversare il mondo, lo vedo passeggiare<br />
senza meta per posti che solo lui avrà il tempo di raggiungere, e al suo rientro<br />
51
gli chiedo: dove sei stato di bello oggi Giorgio? Risponde: “dalla foce a<br />
Boccadasse e poi indietro, come sempre, come ogni giorno.”<br />
Il suo comportamento è sempre uguale, tutto in lui è immutabile, innanzitutto<br />
il sorriso che non è mai pieno ma sempre un po’ forzato, quasi come se la<br />
felicità non appartenesse al suo cielo vitale; è uguale ogni giorno, nel modo di<br />
vestire e nelle cose che fa, credo che il suo essere scrupolosamente<br />
routinario lo aiuti a trovare in un certo senso, la sua stabilità.<br />
Sembra essersi fermato agli anni ’40/’50, rispetto alla percezione che ha di lui<br />
e della sua vita, anni in cui i film erano bellissimi, la musica straordinaria, la<br />
società ordinata e a misura d’uomo, insomma sembra essersi fermato nel<br />
periodo dove aveva un’esistenza degna e serena.<br />
Gli viene proposto uno “stage” alla comunità “il Boschetto”, dove può “giocare<br />
alla famiglia”, dove cioè può imparare a gestire se stesso in rapporto con altre<br />
persone e a seguire regole, compiti e doveri precisi. Accetta anche se<br />
preferirebbe la soluzione dell’alloggio per avere maggiore autonomia, si<br />
rende comunque conto che per lui è ancora prematuro trovarsi solo in una<br />
casa e gestire poi tutte le incombenze che ne deriverebbero, sembra pian<br />
piano accettare l’idea che forse la via della comunità e in specifico “Il Ponte”,<br />
comunità residenziale, sarebbe la più adeguata alla sua persona e alle sue<br />
esigenze. Dopo 1 anno in comunità riabilitativa infatti, accorda con il suo<br />
operatore, il trasferimento al Ponte, dove tutt’ora con la precisione di un<br />
orologio vive tra i suoi riti, le sue abitudini e i suoi doveri di buon coinquilino.<br />
Parlare con lui non è stato facile. E’ una persona ermetica e sfuggente, il tono<br />
emotivo è quasi assente nelle sue parole, parla per frasi fatte, manierismi;<br />
quando durante una cena in comunità ho parlato di me e del motivo della mia<br />
presenza li, Giorgio mi ha detto che per capire cos’è la libertà e per capire se<br />
gli individui sono liberi devo guardarmi attorno e vedere quante sono le cose<br />
che una persona sceglie di fare perché vuole e quante ne fa per necessità,<br />
per dovere, per caso, per forza maggiore. Mi dice che lui ha smesso di<br />
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sentirsi libero proprio quando apparentemente non aveva più regole e legami<br />
che lo portassero a fare o dire qualcosa, “la mia libertà è finita quando sono<br />
stato lasciato solo senza nessuno che mi desse consigli e indicazioni”, le<br />
regole sono per lui necessarie per percepirsi libero e per fare delle scelte,<br />
“senza delle regole io non sono nessuno, mi alzo alla mattina e non so cosa<br />
fare, senza l’insieme di norme che <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong> ha costruito per noi non mi<br />
sarebbe restato nient’altro che camminare…”.<br />
Franco ha iniziato a frequentare il Centro d’ascolto nel febbraio 1987. Dopo<br />
diversi tentativi di accoglienza naufragati a causa del suo alcolismo e degli<br />
accentuati tratti paranoici, nel febbraio del 1996 comincia a discutere per un<br />
reale cambiamento, intraprendendo, con l’aiuto dell’<strong>Associazione</strong> <strong>San</strong><br />
<strong>Marcellino</strong>, un percorso di reinserimento sociale: accetta di avere una<br />
residenza stabile e di conseguenza un documento d’identità valido, inizia a<br />
frequentare il servizio di salute mentale, partecipa con regolarità al CAT (club<br />
per alcolisti in trattamento), inizia una pratica per l’invalidità civile e si iscrive<br />
al collocamento. Molto gradualmente le cose migliorano: il suo problema con<br />
l’alcol viene tenuto a freno, i suoi tratti paranoici non compromettono la<br />
relazione d’aiuto e in virtù di tali cambiamenti nel 1999 viene inserito nella<br />
nostra comunità residenziale, che si presenta per un soggetto come lui la<br />
soluzione più adatta perché concede da un lato maggiore libertà e autonomia<br />
ma, dall’altro assicura contenimento e controllo, necessari per mantenere la<br />
“rotta”. In questa dimensione il Signor Franco ha risposto positivamente sia<br />
alla maggiore responsabilità richiesta dalla stretta convivenza con gli altri<br />
ospiti, che dalla maggiore responsabilità richiesta dalla maggiore autonomia e<br />
libertà che la comunità offre ai suoi ospiti: ha le chiavi di casa, deve rispettare<br />
gli orari, gli ospiti sono chiamati a gestire spesa, pulizie, cucina ecc.<br />
Franco mi racconta di sé e del suo passato: sua madre è morta tre mesi dopo<br />
il parto, il padre si è subito risposato, è stato lui secondo Franco a far morire<br />
53
sua madre. Ha sempre avuto con la figura paterna un rapporto conflittuale,<br />
che a causa dei problemi di alcolismo del padre, sfociava spesso in liti<br />
violente. La situazione si era fatta insopportabile, cosi a sedici anni decide di<br />
scappare di casa dove però ritorna. Dopo pochi anni, però, scappa ancora,<br />
poi ritorna e riscappa, resta su questa altalena fino al 1980 quando approda a<br />
Genova, fa il delinquente, ruba e spaccia e per questo passa in tutto 10 o 12<br />
anni di carcere, che li segnano l’esistenza. Dice che si sente costretto a fare<br />
queste cose, perché non sapeva in che altro modo guadagnarsi da vivere.<br />
Non trovava lavoro e dopo i primi arresti era praticamente diventato<br />
impossibile trovare occupazione. Confida che passa dei momenti di grave<br />
sofferenza quando pensa alla sua famiglia, alla sua casa, al suo paese;<br />
ammette che quando era solo e non contenuto da <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong>, beveva<br />
per attutire, almeno momentaneamente, i dolori provocati dai ricordi e dalla<br />
poca fiducia nella vita e in se stesso.<br />
Da quando ha accettato di farsi aiutare dall’associazione, è contento di sé<br />
stesso ed è sempre più soddisfatto della sua scelta di “vita buona”.<br />
Ammette che è stato difficile accettare le regole e la convivenza con altre<br />
persone diverse da lui, ma sottolinea l’importanza di stare in un posto<br />
tranquillo e sicuro quale il Ponte dove si sente a casa sua.<br />
Franco si accende particolarmente al suono della parola libertà, questo è<br />
comprensibile, in quanto il suo essere è stato segnato da anni di reclusione e<br />
quindi di privazione della libertà fisica, “non era nessuno là dentro, solo un<br />
numero, solo un delinquente che doveva essere punito per le sue malefatte;<br />
mi volevano rendere uguale agli altri nel modo di pensare, di agire e di<br />
essere, mi hanno costretto a tagliare i capelli e questo è stato una delle cose<br />
che più mi ha fatto sentire sottomesso e una nullità in quanto, insieme ai miei<br />
capelli se ne andava anche la libertà di essere me stesso, con le mie<br />
problematiche, i miei difetti, le mie particolarità ma anche con quel poco di<br />
buono che avevo; se ne andava cosi, la mia libertà di essere Franco, diverso<br />
54
dagli altri, con bisogni e problemi diversi ma non per questo meno<br />
importante”.<br />
I suoi racconti sono evidentemente segnati dal carcere e da anni di vita di<br />
strada: “sono sempre stato un ribelle, un diverso, mi sono trovato a<br />
delinquere perché mi sembrava che fosse l’unica cosa che ero all’altezza di<br />
fare, perché era l’unica via disponibile, la più facile, non me ne importava<br />
niente delle regole e degli altri, perché nessuno rispettava me e il mio modo<br />
di essere. Da quando sono a <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong>, ho imparato molte cose, innanzi<br />
tutto ho iniziato a conoscere, capire ed accettare me stesso e poi ho capito il<br />
senso delle costrizioni dell’associazione, che sono costruite attorno a noi per<br />
proteggerci e per aiutarci”. “Le regole non vengono imposte, ma spiegate e<br />
per questo acquistano un significato preciso e viene naturale e piacevole<br />
seguirle. Per esempio, alla sera, dobbiamo rientrare in comunità entro una<br />
certa ora , ogni tanto sbuffo per questo, ma poi sono felice perché sento che<br />
qualcuno si preoccupa di me, perché so che c’è qualcuno che mi aspetta, che<br />
aspetta proprio me, con le mie battutacce, con i miei modi sgarbati, con le<br />
mie lune, aspetta me, Franco diverso ma non per questo, meno importante”.<br />
Le semplici regole di civile convivenza e il contenimento esercitato dalla<br />
comunità su Franco hanno senza dubbio raggiunto il loro scopo, hanno fatto<br />
in modo che si sviluppasse in lui un forte senso di appartenenza e d’identità,<br />
e lo facessero sentire amato,e voluto da quella che oggi lui considera la sua<br />
famiglia. “Sono libero perché ogni giorno scelgo io cosa fare e non scelgo per<br />
necessità ma per volere; per me la libertà è poter fare ciò che si vuole, è<br />
poter fare delle cose coscienti del perché si fanno, e non perché qualcuno ti<br />
da degli ordini, la libertà è l’assenza di dipendenze, l’alcolista e il drogato,<br />
cosi come le persone che vivono per strada, i depressi e gli eterni<br />
insoddisfatti, sono schiavi, persone deboli, che hanno scelto non quello che<br />
volevano, ma quello che apparentemente li restava da fare”. “Io sono libero,<br />
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libero di essere, di fare, di amare e di essere amato, di rispettare e di essere<br />
rispettato, sono libero di scegliere”.<br />
Enzo ha 57 anni dal 1997 è seguito da un operatore di <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong>,<br />
inizialmente chiede aiuto per trovare un alloggio.<br />
Racconta di essere stato cresciuto dal fratello del padre e sua moglie,<br />
dall’età di 1 anno, da quando mori sua madre. Dice che con loro è riuscito a<br />
passare una buona infanzia, a differenza dei suoi fratelli, anche se prova<br />
ancora un po’ di rabbia per il fatto che, gli zii, non gli hanno permesso di<br />
sposarsi e di essere autonomo. Nel 1978 gli zii hanno cominciato ad avere<br />
problemi di salute, cosi lui si è visto costretto a lasciare il lavoro per accudirli,<br />
nel 1993 sono entrambi morti, e in quel momento la situazione è precipitata.<br />
Enzo si è trovato solo, uomo di mezza età non in grado di badare da solo a<br />
sé stesso, di curarsi da sé perché ha sempre avuto qualcuno che, in salute e<br />
in malattia, gli indicava che fare e come farlo. Vive per molto tempo nella<br />
casa dov’è cresciuto, divenuta ormai una capanna sporca, senza luce, gas,<br />
acqua. Quando si presenta al Servizio, chiede un posto dove dormire,<br />
spiegando che ormai la sua casa se n’è andata insieme ai suoi parenti<br />
defunti. E’ molto depresso, piange spesso, è amorfo, taciturno, non cura la<br />
sua persona, è sporco, mal vestito. Emergono subito la sua incapacità a stare<br />
da solo e i suoi problemi psichici. Nel 1999 gli viene proposto “il Boschetto”,<br />
subito non ne è entusiasta, ma dice “almeno posso stare a casa quando<br />
voglio e almeno ho compagnia”. Accetta il trasferimento, con la<br />
consapevolezza che per il futuro gli potrà essere utile sviluppare delle abilità<br />
nella cura della casa, in cucina, e nella cura di sé stesso.<br />
Il suo comportamento esprime una grande pigrizia che lo porta a non curarsi,<br />
non ha infatti una carenza di capacità, ma una forte tendenza a trascurarsi,<br />
tendenza che coinvolge la persona, i suo oggetti personali e i suoi progetti<br />
per il futuro. E’ poco autonomo, ha bisogno di continui stimoli, naviga sempre<br />
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nel suo nulla esistenziale, dice di annoiarsi nel fare sempre la solita vita, ma<br />
non è motivato a fare alcunché.<br />
Comprende i rischi che lui dovrebbe affrontare se decidesse di vivere da solo:<br />
impigrirsi sempre più, guardare troppa televisione, non uscire, non parlare,<br />
trascurare sé e le cose; per questo decide a suo malgrado di passare al<br />
“Ponte”. Li, ha un atteggiamento da istituzionalizzato, è immobile, lamentoso,<br />
questo potrebbe essere il frutto di una forte condizione depressiva.<br />
Enzo crede di non essere mai stato libero: “ho sempre vissuto condizionato<br />
da chi mi ha allevato. Quando avevo deciso di prendere il volo, mi hanno<br />
tagliato le ali e cosi sono stato costretto a vegetare all’interno delle quattro<br />
mura di casa, finché un giorno, sono rimasto solo, e li che potevo fare? Non<br />
sapevo più cosa volevo, cosa pensare, dove andare, chi cercare, ero solo e<br />
molto triste, cosi mi sono lasciato scorrere la vita addosso, finché il mio<br />
patrimonio è finito e la consapevolezza di non farcela da solo, mi ha costretto<br />
a chiedere aiuto”. “Il contenimento per me è essenziale, se non avessi trovato<br />
con <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong> il mio spazio, mi sarei lasciato morire, perché la vita che<br />
da solo posso svolgere in realtà non è molto diversa dalla morte. Ho bisogno<br />
che mi venga imposto tutto, dall’ora del rientro a quanto posso stare davanti<br />
alla televisione; grazie a Dio non sono capitato in cattive mani, ma anzi ho<br />
trovato aiuto da persone con esperienza, che mi insegnano trasmettendomi<br />
delle regole necessarie per condurre la mia esistenza, rispettando i miei ritmi<br />
e le mie diversità”.<br />
Angelo, nel gennaio del 1989 si presenta per la prima volta a <strong>San</strong><br />
<strong>Marcellino</strong>, chiedendo un posto dove dormire, perché non sa dove andare.<br />
Racconta che, negli ultimi anni, ha girato l’Italia in cerca di lavoro senza<br />
ottenere risultati. Ha solo 35 anni, ma è evidentemente in uno stato avanzato<br />
di abbandono di sé.<br />
57
Nel 1987 ha perso il lavoro a causa di un intervento di riduzione del<br />
personale, da quel momento non è più riuscito a pagare l’affitto ed è stato<br />
sfrattato, da allora vive per strada.<br />
Ha perso il padre durante la prima adolescenza e da allora è stato costretto<br />
da necessità economiche a lavorare.<br />
Originario del sud Italia, dove ha vissuto fino a 9 anni, quando si è trasferito a<br />
Genova con la sua numerosa famiglia per cercare di vivere una vita più<br />
dignitosa. Ha tre fratelli più giovani tossicodipendenti, in carcere per furti e<br />
spaccio, e due sorelle che sembrano essere adeguatamente sistemate.<br />
Si sposato e dopo anni di matrimonio nel 1987 ha divorziato.<br />
Inizialmente racconta che quando ha perso il lavoro ha cominciato a bere, e<br />
per questo sono cominciati i problemi con sua moglie che dopo poco ha<br />
chiesto la separazione. In realtà il suo rapporto problematico con l’alcool è<br />
iniziato precedentemente, infatti quando acquista più fiducia nell’operatore<br />
racconta che, gli piaceva passare le giornate al bar con amici bevendo molto,<br />
e che alcune volte si trovava coinvolto in risse violente causate per lo più, dal<br />
suo stato alterato dall’alcool. E’ stato più volte carcerato per reati “leggeri”:<br />
piccoli furti, ubriachezza molesta, liti violente.<br />
La moglie vive a Genova e anche la figlia di 9 anni, che dopo la separazione,<br />
è stata data in adozione perchè entrambi i genitori sono stati giudicati non<br />
adatti al loro ruolo.<br />
Da quello che racconta, e dal modo in cui lo fa, emerge che è una persona<br />
che necessita di essere riconosciuto meritevole e che ha bisogno di essere<br />
incoraggiata e gradualmente ri-educata con attenzione e cura.<br />
Non trova il lavoro, ma vista la sua giovane età, sembra rischioso chiedere un<br />
sussidio, che potrebbe portare alla cronicizzazione del suo stato di<br />
disoccupato.<br />
Man mano che la relazione va avanti, emergono le sue turbe psichiche; è<br />
depresso, si sente perseguitato, ha paura che qualcuno trami alle sue spalle<br />
58
per toglierli anche la possibilità di vedere la figlia, rifiuta le proposte di colloqui<br />
con una psichiatra, soffre di nevrosi croniche e ha anche tentato il suicidio.<br />
La vita sembra insostenibile per lui; non riesce a rielaborare il passato - “per<br />
me quello che è stato, stato, l’unica cosa importante è quello che verrà” – si<br />
colpevolizza, ogni minimo cambiamento lo mette in ansia, e si rifugia sempre<br />
nel bere. L’accompagnamento continua, e i risultati iniziano a vedersi: è<br />
inserito nel laboratorio pulizie, frequenta il Cat (club per alcolisti in<br />
trattamento), per aiutarsi a non bere, prende l’Antabuse, farmaco che rende<br />
tossica anche la minima ingestione di alcolici e frequenta il servizio di salute<br />
mentale.<br />
E’ il 1996, mantiene le sue stranezze, ma comincia a rendersi conto che non<br />
può passare l’intera vita in dormitorio, e con sorprendente lucidità comincia a<br />
fare richieste e progetti per il futuro.<br />
“Sto vivendo un buon periodo, tutto sembra andare bene, riesco a fare<br />
qualche lavoretto, ho un letto, un piatto di minestra calda, qualcuno con cui<br />
parlare, mi sto curando e tutto questo nella massima libertà”.<br />
Nel 1998 si trasferisce al Boschetto, dove sembra stare bene, anche se<br />
spesso ha delle ricadute nell’alcool e nella depressione.<br />
Quando parlo con lui mi dice: “Mi sto rendendo conto, a mio malgrado, di non<br />
essere in grado di controllarmi, di darmi dei freni. Ho capito che non so<br />
gestire la piena libertà e che anzi, questa è dannosa per me. Grazie a <strong>San</strong><br />
<strong>Marcellino</strong>, ho imparato ad accettare l’importanza delle regole e del controllo,<br />
necessari per vivere senza dipendenze, in maniera equilibrata nonostante le<br />
continue difficoltà, e per riuscire a condividere con altri il peso dell’esistenza”.<br />
Per questo anche se passano gli anni e sicuramente i suoi progressi sono<br />
evidenti, gli viene proposto il Ponte, struttura dove tutt’ora risiede, dove può<br />
vivere con maggiore autonomia, restando comunque in un ambiente protetto.<br />
59
Simone è nato a Genova nel 1946, è conosciuto dal Centro d’Ascolto dal<br />
marzo 1987, quando si presenta veramente malconcio, dicendo di essere<br />
proprio a terra perché da sette anni ha perso il lavoro. E’ andato via di casa<br />
dopo la morte della madre, a causa di conflitti con il fratello, che sembra<br />
disprezzarlo, e da allora vive in condizioni di precarietà, sia dal punto di vista<br />
alloggiativo (camere in affitto, ospite d’amici, dormitori, autobus) che dal<br />
punto di vista economico, da quando è disoccupato infatti vive di questua.<br />
Fa la richiesta di essere inserito in un’accoglienza notturna e di trasferire<br />
presso il Centro d’Ascolto la residenza anagrafica necessaria per rifare i<br />
documenti.<br />
Ha avuto rapporti saltuari con <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong>, finalizzati ad ottenere soldi o<br />
lettere di richiesta d’ospitalità per il dormitorio pubblico, fino al 1996, quando<br />
a dicembre si presenta con la richiesta di essere ospitato al Gradino,<br />
accoglienza notturna dell’<strong>Associazione</strong>, in quanto in seguito ad<br />
un’aggressione, nella quale è stato ferito ad un fianco, non vuole più stare al<br />
Massoero. Vuole un riparo, inteso non solo come ospitalità, ma anche come<br />
luogo protetto.<br />
Simone ha evidenti problemi con l’alcool e come compromesso alla sua<br />
entrata in dormitorio, ha accettato di frequentare un club per alcolisti in<br />
trattamento e di prendere l’Antabuse.<br />
Durante i suoi primi giorni al Gradino, emerge chiaramente la sua difficoltà a<br />
rapportarsi con gli altri ospiti, dice che vorrebbe essere più spigliato e<br />
socievole, ma che a causa della sua malattia (soffre di nanismo), la quale<br />
fatica molto ad accettare, non riesce nemmeno a parlare con disinvoltura con<br />
le persone. Tende in genere a svalutarsi, questo emerge nelle sue battute,<br />
nelle cose che dice, è per questo da subito stato necessario fargli capire che<br />
a <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong> lui è accettato cosi com’è ed è stato avviato con lui, un<br />
percorso verso l’acquisizione di maggior sicurezza di sé. Lavora presso<br />
60
laboratori, prima nelle pulizie e poi in lavanderia; è molto corretto e svolge<br />
con puntualità i suoi impegni.<br />
In questo periodo, si sente contento e più sicuro di sé: “qui non mi sento<br />
giudicato, ma accettato e apprezzato per quello che sono, sono felice perché<br />
a 50 anni questa esperienza sta segnando una svolta nella mia vita e sono<br />
sicuro più che mai di voler continuare su questa strada”<br />
A fine ’98, viene trasferito al Boschetto, il cambiamento lo destabilizza e<br />
durante una chiacchierata emerge la sua difficoltà a comprendere la<br />
situazione, si chiede infatti come mai non riesce ad essere sereno neanche in<br />
questo momento in cui ha smesso di bere, lavora, ha un posto dove stare e<br />
persone che lo accettano.<br />
A dicembre 1999 “fugge” dalla comunità, quando torna nel 2000, pentito si<br />
giustifica dicendo che non reggeva più il clima di tensione tra gli ospiti.<br />
Chiede un posto dove dormire perché da mesi dorme sull’autobus e non ce la<br />
fa più. Tutto ricomincia da capo, e questo fa capire come all’interno della<br />
progettualità di <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong>, ci sia il più ampio margine possibile di libertà<br />
di sbagliare, di scegliere. Dopo qualche anno passato presso l’accoglienza<br />
notturna e ricominciata l’attività in laboratorio lavanderia, Simone chiede di<br />
passare alla comunità “Il Ponte”, perché ha paura di allontanarsi da <strong>San</strong><br />
<strong>Marcellino</strong> e di rimanere solo. Viene prima inserito al Boschetto, dove<br />
qualche anno “gioca alla famiglia”. Nel giugno del 2006 si trasferisce al<br />
Ponte.<br />
Nell’occasioni che ho avuto di parlare con Simone, è emerso la sua grande<br />
difficoltà ad accettarsi: “ho sempre vissuto sotto gli sguardi indiscreti delle<br />
persone, ho subito giudizi, ho fatto pietà, ribrezzo. Il mio apparire mi ha da<br />
sempre condizionato” - “da quando ho <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong> al mio fianco, mi sento<br />
accettato,ho acquistato maggiore sicurezza e autostima e mi sento più libero.<br />
Libertà che tra l’altro si dimostra nei fatti, perché molte volte sono “scappato”,<br />
ma ogni volta mi si è data la possibilità di ricominciare. Questo mi ha fatto<br />
61
capire di non essere sotto giudizio alcuno, di non subire critiche gratuite, mi<br />
ha fatto appunto scoprire la sensazione di poter essere libero di essere me<br />
stesso, con i miei pregi, i miei difetti e le mie debolezze”.<br />
Per lui le regole non rappresentano un problema ma anzi; “vivere in un<br />
contesto con delle regole precise, mi ha fatto scoprire l’importanza di una vita<br />
regolare e equilibrata. Inoltre mi sento protetto e contenuto e anche nei<br />
periodi più duri sento il dovere di comportarmi bene perché c’è qualcuno che<br />
si preoccupa per me”.<br />
2. L’opinione di un operatore.<br />
Riporto di seguito l’intervista da me fatta a Ribotti Federico, operatore di <strong>San</strong><br />
<strong>Marcellino</strong>, fino a qualche anno fa responsabile della comunità “il Ponte” e<br />
adesso responsabile dell’area alloggi assistiti.<br />
L’utilità di questa intervista è da ricercarsi nei contenuti e nei significati che<br />
parole come libertà, controllo, logica comunitaria, hanno in una persona che<br />
da anni lavora nell’ambito dell’esclusione sociale grave nella povertà<br />
estrema. E soprattutto le risposte si rilevano importanti, in quanto esprimono<br />
con chiarezza il significato che ho cercato di far emergere dei concetti<br />
apparentemente opposti ma, in realtà interdipendenti, di libertà e controllo.<br />
Mi chiedevo come quando e perché avete scelto <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong>?<br />
Nel 1996 ho cominciato a fare volontariato per l’associazione invogliato dai<br />
racconti di un amico che faceva l’obiettore di coscienza a SM. Da tempo<br />
sentivo la voglia di partecipare attivamente, di vedere dal vero, di uscire dalla<br />
prospettiva filtrata dei media o dei racconti di altri sul mondo del disagio, di<br />
provarmi in un ruolo educativo, di scoprire i miei lati più “umani”, un vago<br />
senso di fastidio per il mondo che produce e funziona nonostante tutto e tutti,<br />
un’idea di società come comunità di persone interconnesse e interdipendenti,<br />
62
la ricerca di un luogo identitario più sano e reale, il sano realismo della<br />
sofferenza contro la finta prospettiva di una vita comoda, un senso di giustizia<br />
terrena…un calderone di buoni propositi, molti dei quali hanno trovato<br />
qualche risposta nel mondo delle persone sulla strada.<br />
Com‘è il vostro rapporto con SM e con gli utenti?<br />
L’istituzione SM si è coerentemente sviluppata con l’idea di accoglienza data<br />
alle persone in difficoltà negli anni. Sarebbe assurdo (ma accade) che con gli<br />
utenti ci si ponga in maniera attenta e accogliente e chi ci lavora si senta in<br />
maniera differente. L’<strong>Associazione</strong> rappresenta per me un luogo di senso e<br />
sviluppo identitario notevole. Il tramite, in pratica, per accedere e partecipare<br />
ad una comunità di persone (che ci lavorano, che frequentano, che chiedono)<br />
che personalmente in questo momento è più che un semplice luogo di lavoro.<br />
Se un domani non lavorassi più a <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong> rimarrei comunque legato<br />
alla comunità e alle persone.<br />
E’ in qualche modo inevitabile se si vuole fare un buon lavoro con queste<br />
persone che un passaggio di questo tipo venga in qualche modo fatto.<br />
Questo per restituire alle persone che la richiesta che facciamo loro di<br />
appartenenza e di affiliazione alla comunità (nella prospettiva di ricostruzione<br />
dell’io) è la nostra stessa ricerca, che è un percorso che facciamo con loro. E’<br />
importante altresì che lo teniamo a mente per evitare di interpretare in<br />
maniera errata il ruolo educativo.<br />
Cosa vuol dire accoglienza?<br />
Significa lasciare aperta la porta del confronto reciproco. Giocarsi<br />
nell’incontro con l’altro in maniera totale, senza impedire che l’altro ci induca<br />
al cambiamento personale. Essere accoglienti significa accettare l’altro in<br />
quanto persona degna, a prescindere dai suoi atti passati, dal suo aspetto<br />
esteriore e dai pregiudizi sulla persona. Accoglienza è anche non accettare<br />
63
comportamenti che non vadano nella direzione di rispettare se stessi e il<br />
prossimo.<br />
Cos’è la libertà e cos’è il controllo usando come chiave di lettura<br />
l’esperienza con <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong>?<br />
Credo che l’accezione migliore per la parola libertà usata nell’ambito<br />
dell’<strong>Associazione</strong> sia “libertà di essere se stessi”. Ricollegandomi al concetto<br />
di accoglienza, la libertà che conquistano queste persone è quella di poter<br />
essere se stessi, con i propri difetti, le proprie incapacità, le proprie bruttezze,<br />
senza per questo esserne giudicati o esclusi. E’ un concetto molto evidente<br />
nella comunità del Ponte dove l’esperienza di anni ha dimostrato a queste<br />
persone che nonostante le crisi, nonostante i litigi, nonostante abbiano fatto<br />
vedere il peggio di se, continuiamo a stare insieme, magari in maniera<br />
diversa, ma insieme. La porta aperta al Centro di Ascolto ha questo<br />
significato, l’esserci nonostante tutto.<br />
Se la libertà è intesa in questo modo, il controllo di conseguenza diventa un<br />
aspetto non legato tanto alla prevenzione/repressione di atti violenti per se o<br />
per gli altri, ma una forma di monitoraggio degli aspetti relazionali e dei<br />
legami che la persona riesce a costruire e mantenere, per valutare se il<br />
servizio, lo strumento in atto per aiutare la persona è congruente con il suo<br />
percorso, per eventualmente valutare con la persona (per quanto possibile)<br />
soluzioni alternative.<br />
La fiducia nell’<strong>Associazione</strong> e, per la proprietà transitiva, negli altri ospiti<br />
dell’<strong>Associazione</strong> assicurano una sufficiente autonomia sul piano<br />
dell’autocontrollo (contenimento); cosicché in comunità si esercitano<br />
pochissimi atti esplicitamente nella direzione del controllo della situazione,<br />
ma si lascia che siano le persone stesse a riportare i problemi che sorgono,<br />
stimolando in questo modo le stesse a interiorizzare il genitore altrimenti<br />
esercitato dalla figura del leader (presente per altro non più di 15 ore la<br />
64
settimana in comunità). Il contenimento in questo modo si esercita sul piano<br />
della relazione più che sul piano delle regole.<br />
Ri-acquisizione della libertà tramite il controllo/contenimento. E’ una via<br />
possibile/utile?<br />
La percezione delle persone presenti in comunità è quella di una<br />
osservazione dall’alto da parte dell’istituzione, anche nei momenti di non-<br />
presenza fisica. Alcuni inizialmente pensavano avessimo piazzato all’interno<br />
della struttura delle “microspie e telecamere” per tenerli d’occhio in ogni<br />
momento. Oggi sanno che nessuno li guarda durante il giorno ma continuano<br />
a pensare che qualunque cosa avvenga all’interno della comunità sia nota<br />
all’istituzione (operatori, dirigenti, volontari). Questa forma di auto-<br />
contenimento potrebbe essere vista semplicemente come un passo<br />
intermedio tra la figura reale di un genitore normativo (che ti dice cose devi e<br />
cosa non devi fare e ti osserva nei tuoi comportamenti) e l’interiorizzazione<br />
del genitore nella consapevolezza del cosa è giusto e cosa sbagliato. Nulla di<br />
diverso probabilmente da ciò che succede nell’età adolescenziale e<br />
nell’esperienza delle prime forme di autonomia.<br />
L’importanza di questa forma di contenimento sta nella percezione non<br />
oppressiva che fornisce; sicuramente i soggetti paranoidi soffrono<br />
maggiormente per l’assenza fisica ed è inevitabile un maggior impegno nei<br />
loro confronti per sopperire a tale assenza con la “presenza relazionale”.<br />
Cos’è la logica comunitaria in <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong>?<br />
Con gli strumenti comunitari si tende a fornire una simulazione di realtà in un<br />
contenitore protettivo per le persone. Sia il Boschetto (la comunità<br />
terapeutica) che il Ponte (la comunità residenziale) sono state pensate per<br />
simulare, quando e dove possibile, le esperienze di casa, di convivenza, di<br />
rapporto con l’autorità, di quotidianità; tale simulazione fornisce però anche<br />
65
gli strumenti per analizzare e verificare con le persone l’esperienza in corso.<br />
Si tengono riunioni settimanali e colloqui individuali per gestire con le persone<br />
l’andamento della vita comunitaria e i problemi che da essa sembrano<br />
sorgere.<br />
Spesso si parla di “giocare alla famiglia”, così come i laboratori di educazione<br />
al lavoro cercano di “giocare al lavoro”, nell’idea che la prima forma di<br />
educazione passa ai bambini attraverso il gioco dove sperimentano e si<br />
sperimentano all’interno di nuovi contesti e di nuovi ruoli.<br />
I percorsi degli ospiti del Ponte hanno nelle loro diversità punti in<br />
comune? Quali?<br />
Se si intende i percorsi di vita delle persone i punti in comune sono quelli<br />
riscontrabili in tutte le persone “simbolicamente”. Mancanza di punti di<br />
riferimento nelle età dello sviluppo e carenza (conseguentemente) di quella<br />
dose di “carezze” (transazionalmente parlando) che sia in negativo che in<br />
positivo determinano lo sviluppo di una identità.<br />
Ricordo sempre quando al Ponte una sera nacque una partecipata<br />
discussione sulla “mamma”. Il concetto comune era < se avessi oggi la<br />
mamma con me…> ; considerando che alcuni di loro non hanno mai visto la<br />
loro madre la cosa risulta perlomeno curiosa.<br />
In questo senso la comunità (di <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong> in senso lato) cerca di<br />
sopperire a queste mancanze ricominciano un percorso di affiliazione, nel<br />
senso letterale del termine, di rigenitorializzazione, per permettere (meglio<br />
tardi che mai) la costruzione dell’io o il suo consolidamento (a seconda dei<br />
punti di partenza).<br />
In base alla tua esperienza cosa porta un individuo a “scegliere” o<br />
“subire” la vita di strada?<br />
66
Credo che un individuo “scelga” la vita di strada in seguito alla distruzione di<br />
tutte le alternative per lui possibili. La persona sceglie la strada perché non<br />
c’è altro di meglio che riesca a fare. L’ambiente (assenza di stimoli esterni) e<br />
la mancanza di alcune capacità relazionali e/o intellettuali si autoalimentano<br />
in un circuito perverso di progressiva distruzione delle alternative possibili fino<br />
alla scelta estrema (amartica) della vita in strada. Le scarse risorse<br />
(economiche, familiari,…) contribuiscono al mancato sviluppo relazionale-<br />
intellettuale, le carenze relazionali-intellettuali contribuiscono a loro volta a<br />
peggiorare il quadro di riferimento e le risorse in un rincorrersi di eventi<br />
distruttivi.<br />
67
Conclusioni.<br />
L’appeal delle città è diventato ambiguo e controverso. Sfiducia, inquietudine<br />
e insicurezza investono la forma urbana e la quotidianità del vissuto<br />
personale, questo è a mio avviso dovuto principalmente alla deprivazione di<br />
comunità forti e di un sistema di appartenenze e di norme stabili ed efficaci.<br />
Il vivere urbano non è solo lo spazio scenico dell’agire dei soggetti ma,<br />
diventa anche, luogo di sparizione e di trasformazione degli individui. Sfuma il<br />
riferimento ad un sistema di regole e con esso anche il riferimento ad uno<br />
“schema guida”. L’uomo è lasciato solo, in balia delle incertezze e dei<br />
repentini cambiamenti, in una concorrenza spietata, dove è solo il più forte a<br />
sopravvivere. Sfiducia, incertezza, solitudine, diffidenza e rifiuto diventano<br />
tratti caratterizzanti l’ideologia dell’uomo urbano.<br />
Credo che questa situazione d’insicurezza urbano, unita a una serie di<br />
microfratture nel vissuto, diano inizio a percorsi di impoverimento e di<br />
distaccamento da sé e dalla realtà circostante.<br />
La città appare come luogo di complessità ma, attorno e all’interno di essa si<br />
sviluppano condizioni di vita alternative. Alcune di esse, non sono a mio<br />
avviso degne di essere chiamate alternative di vita, mi riferisco per esempio<br />
alla fuga nella droga, nel consumo sfrenato, nel cibo o ancora all’eterno<br />
vagabondare.<br />
L’esempio più evidente di questa “fuga” è la scelta di vivere sulla strada.<br />
Sono convinta del fatto che una persona sia costretta a scegliere di vivere “on<br />
the road” in seguito alla distruzione di tutte le alternative possibili. La persona<br />
68
sceglie la strada perché non c’è altro di meglio che riesca a fare. Le scarse<br />
risorse, familiari ed economiche, eventi traumatizzanti, problemi fisici o<br />
psichici, anni di carcere, dipendenze contribuiscono al mancato sviluppo<br />
relazionale - intellettuale, e queste carenze contribuiscono a loro volta a<br />
portare a fondo la barca dell’esistenza già di per sé, in balia di tempeste.<br />
L’esperienza di chi da anni lavora a contatto con persone senza dimora,<br />
mette in evidenza come questi individui, per i motivi più disparati, segnino un<br />
progressivo distacco nei confronti dell’appartenenza sociale e dei riferimenti<br />
istituzionali quali la famiglia, il lavoro, gli affetti, scivolando verso un’area di<br />
non ritorno per quel che riguarda la loro partecipazione attiva e consapevole<br />
al corpo sociale. Sono “presenze” che irrompono e si contestualizzano in una<br />
rappresentazione della città come estensione di non-luoghi. In tutto ciò,<br />
appare evidente che il bisogno d’appartenenza dev’essere colmato in modi<br />
“non tradizionali”, ecco nascere nuovi percorsi d’appartenenza, organizzati<br />
attorno a nuove modalità di condivisione e attorno a nuove regole e forme di<br />
controllo e contenimento; mi riferisco in particolare a soluzioni/alternative di<br />
tipo comunitario. Importante è infatti la capacità di queste strutture di riuscire<br />
a coinvolgere l’individuo, di riuscire a spaccare le impermeabilizzazioni che si<br />
sono venute a creare nel tempo sui soggetti. All’interno di una comunità c’è la<br />
riappropriazione di sé stessi, di nuove modalità di vita, di un’insieme di regole<br />
essenziali per l’esercizio consapevole delle proprie libertà; e c’è inoltre, la<br />
riscoperta del valore di ogni singolo individuo con le sue diversità, con le sue<br />
debolezze e le sue forze, l’accettazione dell’altro e di sé.<br />
Qui in specifico ho fatto riferimento alla Comunità di vita “il Ponte”, struttura<br />
appartenente alla più ampia realtà di <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong> che da molti anni<br />
accoglie persone senza casa e senza dimora, che gravavano in situazioni di<br />
povertà estrema che dopo un percorso di riabilitazione non si dimostrano<br />
adatti a vivere da soli, in piena autonomia. Chi inizia un percorso<br />
d’inserimento con l’associazione <strong>San</strong> <strong>Marcellino</strong>, entra in una “terapia” basata<br />
69
su relazioni profonde e significative, inizia un nuovo percorso di vita verso la<br />
riacquisizione delle libertà e della dignità.<br />
Concepisco la logica comunitaria come specchio della tesi di B.F.Skinner,<br />
che afferma la piena coincidenza di libertà e controllo. Questa affermazione è<br />
riscontrabile, vera più che mai, nella quotidianità del Ponte, dove le persone<br />
sono soggette a semplici, precise e chiare regole ma nel contempo si<br />
percepiscono, a loro dire, pienamente liberi; Liberi di essere diversi, liberi di<br />
scegliere in assenza di contingenze, liberi di essere più deboli ma per questo<br />
non meno importanti, liberi da dipendenze e da sofferenze. Non intendo<br />
mitizzare questa realtà, in quanto non è la pillola magica per un’esistenza<br />
senza sofferenza, ma, quello che voglio mettere in risalto, è come sia<br />
possibile attraverso una serie di regole che fanno da contenimento, rendere<br />
migliore e più dignitosa la vita di alcune persone.<br />
Credo sia necessario dare un’esplicazione migliore di ciò che intendo per<br />
libertà e per controllo; Faccio un esempio astratto, perché credo che possa<br />
dare voce ai miei pensieri più di mille parole. Immaginiamo il mare, una barca<br />
e un porto; il mare rappresenta la libertà, sempre in balia delle onde, dei<br />
pericoli, delle tempeste, la barca è l’uomo, e il porto rappresenta il<br />
contenimento, la forma di controllo buono, che assicura stabilità, punti di<br />
riferimento e sicurezza alla barca, ma non per questo preclude il suo accesso<br />
al mare, alla libertà ma, anzi, ne fa riscoprire la bellezza e l’importanza.<br />
Nella realtà possiamo pensare, il mare aperto come la società, l’individuo la<br />
barca e la comunità “Il Ponte” il porto sicuro, magari solo per un attracco in<br />
caso di emergenza per poi ripartire verso nuovi orizzonti oppure come porto<br />
do ormeggio fisso, perché ormai la barca è fragile e accidentata per<br />
allontanarsi troppo in mare aperto.<br />
70
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