Inaugurazione anno accademico 2006-2007 - Università degli studi ...
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scaturiscono dal gioco che si svolge in ciascuna generazione modificano le frequenze delle specie in<br />
quella successiva. Ad esempio le quote dei falchi e delle colombe evolvono in funzione del cibo ottenuto<br />
dalle combinazioni dei loro incontri. Di generazione in generazione, gli individui di tipi diversi vengono<br />
replicati secondo un tasso di crescita da cui dipende l’equilibrio finale. Se in tale esito la frequenza<br />
di una specie è positiva, essa è evolutivamente stabile. Se è positiva per più specie, queste possono<br />
coesistere stabilmente.<br />
Anche se sembra poco appropriato per il mondo animale parlare di strategie intenzionali anziché di<br />
mero adattamento, gli economisti devono tuttavia essere riconoscenti ai biologi per l’introduzione della<br />
nozione di stabilità evolutiva in contesti strategici 19 . In primo luogo perché, come ha sottolineato il<br />
premio Nobel John Nash, cui si deve la formulazione del concetto di equilibrio nella teoria dei giochi,<br />
questa nozione suggerisce un’interpretazione più realistica dell’equilibrio stesso, come termine ultimo<br />
di un processo di apprendimento, piuttosto che come esito iper–razionale capace di realizzarsi mediante<br />
un’unica scelta istantanea. Ma soprattutto perché tale nozione può venire utilizzata per selezionare<br />
un equilibrio quando, come nel caso dei giochi prima discussi, ve ne sia più di uno. Inoltre, se nessuno<br />
dei due equilibri è evolutivamente stabile, può esserlo un terzo misto in cui le due strategie (o comportamenti)<br />
coesistono 20 .<br />
Qual è allora il meccanismo che, in un mondo di individui non distinguibili, consente a una popolazione<br />
propensa all’eguaglianza e alla cooperazione di coesistere e di non soccombere del tutto quando<br />
gli egoisti, a differenza dei falchi, approfittano opportunisticamente della generosità altrui ma non<br />
lottano tra di loro?<br />
In biologia, Robert Trivers e William Hamilton h<strong>anno</strong> spiegato questa circostanza ricorrendo a modelli<br />
basati sull’altruismo parentale, in cui l’aiuto ai discendenti aumenta la probabilità dei comportamenti<br />
altruistici nelle generazioni successive, grazie a meccanismi di trasmissione genetica. L’altruismo<br />
parentale non è tuttavia un tratto specifico dell’uomo, essendo comune a molte specie. Inoltre esso non<br />
riesce a spiegare l’emergere di comportamenti interessati al benessere altrui al di fuori delle relazioni<br />
familiari o comunque in comunità ampie. La sua capacità di diffondersi dipende sì dal beneficio elargito,<br />
ma anche dalla frequenza delle interazioni con i beneficiati. Se ci limitiamo a gruppi strettamente familiari,<br />
tale frequenza è abbastanza elevata da mantenere nel tempo la propensione altruistica trasmessa<br />
geneticamente. Ma se ci interroghiamo sulla possibilità che i benefici dell’altruismo si estendano al di<br />
fuori delle famiglie, quando ciascuna di queste è una frazione molto piccola dell’intera popolazione, la<br />
frequenza delle interazioni con i beneficiati si abbassa a tal punto che la condizione di stabilità evolutiva<br />
del comportamento beneficiante viene meno 21 .<br />
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