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Studia Romanistica Beliana

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2. La spinta dal basso: latino rustico e volgare nella predicazione religiosa<br />

Dal XIV secolo, dunque, al fine di evitare che la loro diffusione possa favorire l’insorgenza<br />

di un pensiero eretico o “irregolare”, la Chiesa tenta di emarginare la filosofia e la scienza in<br />

volgare e di interporre numerosi ostacoli alla “lettura diretta” della Bibbia. Essa, del resto, pur<br />

essendo «sempre stata molto attenta alla lingua da adoperare nella comunicazione con i<br />

fedeli», non si può certo dire abbia mai manifestato la reale intenzione di favorire i volgari o,<br />

in progresso di tempo, l’italiano che ne ha poi preso il posto; il suo principale intento è<br />

sempre stato solo e unicamente quello «di mantenere saldi i dettami della fede» (Librandi<br />

2006: 116). Un analogo comportamento ha tenuto, a un certo punto, nei confronti della<br />

retorica ereditata dai classici; «[q]uando, in fase già molto avanzata di decadenza», ha<br />

osservato Auerbach (1958/1983 2 : 302 sg.):<br />

il movimento cristiano poté espandersi liberamente e si servì, come era naturale, della<br />

lingua già esistente e retoricamente formata, esso dette al latino un contenuto nuovo e<br />

anche un particolare tono stilistico […]. Ma i cristiani, anche i più colti, non avevano<br />

intenzione di prendersi cura della cultura in decadenza: per quanto se ne servissero,<br />

infatti, essa non era per loro oggetto di cure o di preoccupazione. Essi misero la cultura<br />

retorica al servizio della Chiesa, ma ciò fu fatto solo in quanto essa appariva praticamente<br />

utilizzabile per la predica, l’apologetica e la polemica; se qualcuno andava oltre, ciò<br />

provocava la critica, che qualche volta era autocritica. La Chiesa adattò la retorica antica<br />

alle necessità, o meglio si prese cura degli uomini così come li trovava; lasciò cadere con<br />

indifferenza le arti retoriche dove e quando non le parvero più necessarie; a quel tempo<br />

non si sentiva ancora responsabile dell’istruzione e della cura dell’espressione. Solo<br />

molto tardi, quando tutto il resto scomparve, essa fu costretta per ragioni pratiche ad<br />

istituire scuole proprie, e così diventò, senza volerlo, la depositaria degli avanzi della<br />

cultura antica. Ma allora non si tratta più di cultura spontanea: i contenuti della cultura<br />

erano diventati oggetto di conservazione, di raccolta e di interpretazione erudita;<br />

spontaneamente, dal loro stesso spirito, non li capiva più nessuno.<br />

Il “tono stilistico” cui allude Eric Auerbach è quello che lui stesso definisce sermo humilis,<br />

su cui tornerò. Gli ostacoli frapposti al “trasferimento” linguistico dei testi sacri e liturgici<br />

evolveranno, dopo il Concilio di Trento (1542-1563), nell’esplicito divieto di tradurli e nel<br />

ridimensionamento strumentale dell’italiano (per molto tempo, però, dei vari italiani<br />

regionali) agli usi più propriamente comunicativi costituiti dall’attività di predicazione e<br />

dall’insegnamento del catechismo:<br />

La scelta fu condizionata, soprattutto negli anni immediatamente successivi al Concilio di<br />

Trento, dalla necessità di arginare la riforma protestante e di trasmettere, per contrasto,<br />

una dottrina ben codificata e sorvegliata; il progetto fu perseguito con costanza anche nei<br />

secoli successivi, nonostante l’affievolirsi del pericolo protestante avesse attenuato la<br />

drasticità di alcune misure e gradualmente adeguato alle nuove esigenze la<br />

comunicazione con i fedeli. Le strategie discorsive della predicazione e l’insegnamento<br />

catechetico, pur uniformandosi a direttive unitarie, si differenziarono da area ad area e da<br />

contesto a contesto, cercando sempre di adattarsi all’uditorio cui ci si rivolgeva 2 .<br />

E comunque, «nonostante il divieto di tradurre la Bibbia e i testi liturgici», la Chiesa posttridentina<br />

«dispiegò, attraverso la predicazione e la catechesi, un’azione di tale intensità da<br />

forgiare forme di vita profonde, con ricadute sensibili anche sulla lingua» (Librandi 2006:<br />

115); non diversamente da quanto quella pre-tridentina, in parte, anche dopo lo spartiacque<br />

2 Librandi (2006: 116 sg.).<br />

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