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Studia Romanistica Beliana

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lemmi o radici a breve distanza l’apparente, involontaria antiretorica di chi, non controllando<br />

adeguatamente l’espressione, reca cacofonico fastidio a chi legge o ascolta («tanto grosso, di<br />

quelli grossolani, che era una confusione tanto era grosso»; «elli si misse un dì in uno cerchio<br />

degli altri frati, e disse: “O voi, fuste voi stamane alla predica del mio fratello, che disse così<br />

nobile cosa?”. Costoro li dissero: “O che disse?”. “Oh! elli disse le più nobili cose che voi<br />

udiste mai”. “Ma dicci di quello che elli disse”. E elli: “Disse le più nobili cose di cielo, più<br />

che tu l’udisti. Elli disse… doh, perché non vi veniste voi? che mai non credo che elli dicesse<br />

le più nobili cose!”. “Doh, dicci di quello che elli disse”».); 2) la disadorna limitatezza del<br />

vocabolario squadernato, quasi una deficitaria basicità al servizio dell’ossessione della<br />

ripetizione: il ventaglio delle possibilità, oltre a quella decina di termini che sono stati<br />

seminati lungo tutto il percorso (predica e cosa, grosso e sottile, nobile e alto, dire, udire e<br />

intendere; e relativi, eventuali omoradicali), non ha granché da offrire al lettore.<br />

Sembrerebbe apparentemente sopravvivere qualcosa della drammatizzazione narrativa<br />

assimilata dalle prediche cristiane già durante la tarda latinità ed esemplata sulla diatriba e<br />

sulla «declamazione scolastica filosofico-morale» (Auerbach 1958/1983 2 : 36). In quelle<br />

prediche la resa scenica che ne derivava era in realtà funzionale a un preciso disegno retorico<br />

in cui le credenze e opinioni altrui costituivano domande alle quali il predicatore forniva,<br />

prontamente, le giuste risposte (ibid.), mentre nell’esempio fornito il dialogo è, per così dire,<br />

reso obbligato dalla tradizione e dalla natura stessa del genere sfruttato allo scopo: il racconto<br />

aneddotico. Faremmo un buco nell’acqua, d’altronde, se tentassimo di avvicinare troppo le<br />

prediche bernardiniane anche solo a quelle di un Sant’Agostino (per non parlare di un<br />

Raterio), con la loro ordinata mescolanza di tratti grammaticali alti e bassi e l’asservimento<br />

della superficiale linearità sintattica a una studiatissima retorica, dissimulata a fini didattici, i<br />

cui schemi sonori e le cui architetture testuali non si limitano a soddisfare i palati più fini ma<br />

cospirano a facilitare la memorizzazione del messaggio da parte dell’ascoltatore ignaro, a<br />

rispondere alle aspettative di quello appena più consapevole:<br />

Al tempo di Agostino, intorno al 400, l’espressione incolta o semicolta della letteratura<br />

cristiana primitiva, non greca o non latina e quindi sgradevole per orecchie antiche, aveva<br />

cessato da tempo di prevalere. In oriente e anche in occidente c’era stata una fusione o un<br />

adattamento. La predica cristiana si serviva della tradizione retorica che aveva dominato<br />

nel mondo antico; essa parlava nelle forme alle quali gli ascoltatori erano abituati; infatti<br />

quasi tutti ritenevano che ascoltare orazioni significasse innanzi tutto goderne il suono<br />

armonioso; anche nell’Africa punica, dove gli ascoltatori per conto loro non parlavano<br />

affatto un latino puro. Ciò non diminuiva il piacere di un bel discorso: che era diventato<br />

generale. Gli ascoltatori applaudivano e approvavano rumorosamente quando<br />

apprezzavano particolarmente nella predica una figura retorica; come attestano i famosi<br />

predicatori dell’oriente, per esempio Giovanni Crisostomo, come pure, in Occidente, lo<br />

stesso Agostino. Noi sentiamo le figure retoriche come qualche cosa di artistico, colto,<br />

raffinato; esse lo sono, ma si fondano sul più generale gusto dell’armonia e della<br />

sentenziosità; e, d’altra parte, ciò che in una determinata epoca è arte raffinata, alcune<br />

generazioni dopo può essere diventato una convenzione comunissima 5 .<br />

Troveremmo comunque qualcosa, nelle prediche di Bernardino, della raffinata propensione<br />

di Agostino (prima di sposare il cristianesimo, aveva insegnato magistralmente l’arte retorica)<br />

per isocolie e antitesi, il suo particolare gusto del chiasmo e delle strutture ternarie, il<br />

martellamento sonoro con cui allitterazioni e assonanze, anafore ed epifore, clausole “rimanti”<br />

o ritmicamente equivalenti rimbombano nella sua prosa (cfr. Auerbach 1958/1983 2 : 33 sgg.).<br />

E se tutto questo sembra andar contro la notissima affermazione dell’Ipponense che è meglio<br />

patire i rimproveri dei grammatici anziché rischiare di non essere compresi dalla gente<br />

5 Auerbach (1958/1983 2 : 36 sg.).<br />

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