GlobalizzazioneQualche riflessione sulle turbolenze dell’euro forte e sulla proposta della cappatura nera pro LazioSe il dollaro si sgonfia che accade in Sardegna?Il mal di pancia della “filiera” del latte ovinoDopo quattro anni di super dollaro,risvegliarsi e costatare undeprezzamento di quasi il 30 percento, per di più nell’arco di pochi mesi,è stato certamente traumatico per il compartolattiero caseario sardo.Come noto, circa il 60 per cento dellaproduzione di formaggi e ricotte di latteovino è composta dal pecorino romano.Questo prodotto per oltre due terzi èesportato negli Stati Uniti, in sostanzapiù del 40 per cento dell’intera produzionecasearia.Se questi sono i numeri del comparto,si capisce facilmente perché il livello dicambio euro/dollaro è così importante ene influenza marcatamente l’andamentoeconomico. Con un dollaro forte il prezzodei formaggi, ma soprattutto il prezzodel pecorino romano, sale. Viceversa conil dollaro debole.Anche il mercato del latte, che è moltoconcorrenziale, riflette questo andamento.Il costo dei formaggi dipende per oltreil 70 per cento dal prezzo del latte, è quindinella logica delle cose, oltre che nellenormali leggi di mercato, che sul prezzodel latte, e quindi sul settore primario, siriflettano maggiormente i benefici o i guaidel rapporto fra le monete. Si capisconole accese “lamentazioni” degli allevatorima, se dal formaggio si ricava poco, pocosi può pagare il latte.Il problema e le lamentele sono da porsisu un piano diverso. Occorre uscire daquesta logica di mercato che vede benpochi margini di manovra. Partendo dallaconstatazione che oggi operiamo in unsettore certamente maturo, dove i marginidi profitto sono bassi, bisogna porsi inun’ottica d’innovazione e cambiamentoper andare dove da qualche tempo ilcomparto mondiale si muove. Spostarele produzioni verso formaggi più “facili”da mangiare, che incontrino l’ormaiconsolidato nuovo stile di vita che richiedemaggiorente prodotti freschi emeno calorici. Non che si parta dall’annozero, negli ultimi trent’anni in Sardegnaun po’ di diversicazione produttiva si èfatta, i formaggi da tavola sono una realtàconsolidata. Però certamente non è sufficiente,se il pecorino romano continua adessere preponderante sul totale della produzionecasearia, questo è un fattore che,alla luce delle cicliche crisi del comparto,va ridimensionato.Il “romano”, artefice della nascita e dellosviluppo dell’industria casearia in Sardegna,deve le sue recenti performance, intermini di quantità prodotte, (triplicatenegli ultimi trent’anni) alle restituzioniall’export. Le restituzioni, nate per compensarele misure protezionistiche deipaesi in cui si esportano le merci, sonodiventate vere e proprie incentivazioniall’export raggiungendo negli anni ottantaquasi il 50% del prezzo di venditadel formaggio. In queste condizioni sicapisce l’incremento della produzione,e quindi delle vendite, che però sonoaumentate nel settore dei prodotti a bassoprezzo. Come tutte le forzature, questisistemi che drogano il mercato, devono,prima o poi, fare i conti con la realtà chenon può mantenerli sine die. Oggi, conle restituzioni al 7/8 per cento del prezzofinale di vendita e con il dollaro a 1,15euro (1680 lire) la remunerazione delromano è molto bassa senza possibilità didifesa. Negli Stati Uniti, gran parte dellevendite e indirizzata all’uso industrialedove il consumo non è del prodotto talquale ma come ingrediente e dove quindirisulta difficile far valere i marchi e lecertificazioni Dop o Iso.Per tornare alle responsabilità e allelamentele, è quindi sul piano della diversificazioneproduttiva che, a mio avvisova affrontato il problema del crollo delprezzo del latte. Prescindendo da qualsiasiconsiderazione etica, che pure è datener presente, su un piano più strettamentemercantile, il settore della trasformazionedel latte, le industrie casearie,si devono rendere conto che il prezzodella matteria prima va salvaguardato.Considerarlo unicamente in relazioneal prezzo di vendita dei formaggi e nonpreoccuparsene se il rapporto è corretto,prescindendo da una sua eventuale nonsufficiente remunerazione, è una gravemiopia. Il mestiere di allevatore nelsettore ovino e notoriamente disagiato,soffre di un endemico sotto dimensionamentodelle aziende, con una mediadi non più di duecento capi, e i giovanispesso non gradiscono questo mestiere.Se non ci si pone l’obiettivo di un’adeguataremunerazione del latte, e moltoprobabile che le quantità di latte ovino(oggi circa 300 milioni di litri l’anno)diminuiranno sensibilmente. Va da séche anche il settore della trasformazionesubirà un ridimensionamento con tutto ilcorollario di crisi e tensioni che un’ipotesidi questo tipo comporta.8luglio agosto 2003
A ben vedere, anche a ragionare egoisticamente,la strada da seguire nonpuò che essere quella che da sempre inSardegna ha connotato il nostro settoree cioè la propensione alla vendita fuoridel mercato regionale con prodotti dibuona qualità. Il che ha consentito agliallevatori, per prima cosa, la possibilitàdi poter trovare un mercato di vendita dellatte, e, considerata la crescita e lo sviluppoin Sardegna di tutto il comparto, ad unprezzo mediamente soddisfacente.Il latte ovino, nel mare magnum delleproduzioni lattiere, e certamente una nicchiaproduttiva. Ha delle caratteristichepeculiari che consentono di valorizzarei formaggi. I Francesi, e non solo per ilroquefort sono un esempio da seguire.Non è facile orientarsi su queste per noinuove produzioni, ma ormai le difficoltàstoriche che hanno bloccato questo tipodi sviluppo sono superabili e superate.A cominciare dalla stagionalità, che puòessere eliminata, dalle nuove tecnologie,dalla conservazione dei prodotti, dallabuona, anche se non ancora perfetta,qualità del latte e dai sistemi distributiviche ormai diminuiscono il grave handicapstorico dell’isolamento. Non stoparlando di “cose”semplici da realizzare,per molti caseifici esiste un problema didimensioni, per tutti esiste un problemaculturale di approccio con nuovi tipi diprodotti per i quali occorre un’esperienzadiversa da quella storica della produzionecasearia sarda. Per i formaggi freschi, ilrigore produttivo, in relazione alla curadell’igiene e del mantenimento della“catena del freddo”, il confezionamentoun’adeguata distribuzione, sono elementiindispensabili. Questo è però il terrenosul quale nel prossimo futuro si dovrannoconfrontare le industrie di trasformazionedel latte ovino in Sardegna. È una sfidadalla quale dipenderà l’evoluzione o ilridimensionamento della filiera.Se il ministro ci “ prova”Giustamente è stata accolta con grandescalpore in Sardegna, la notizia dellamodifica del disciplinare di produzionedel pecorino romano. Da tempo esisteun contenzioso tra gli industriali laziali equelli sardi sulla richiesta dei produttoriLaziali di differenziare il loro formaggio.Sono noti, e possiamo anche capirnele ragioni, i tentativi di valorizzare leproduzioni del Lazio chiamando il loropecorino “genuino” facendo le forme piùgrandi etc.Ciò che non si può accettare e che, saltandotutte le procedure, senza preventivamenteaccordarsi con il Consorziodi tutela, che pure era stato convocato aRoma per arrivare ad un accordo, si decidaunilateralmente di avallare una modificaal disciplinare gravemente dannosaper i produttori sardi. Il contenuto dellamodifica riguarda una particolare formadi confezionamento che prevede il rivestimentoesterno del formaggio con unaprotezione di colore scuro, la cappatura,che oltre ad una funzione di protezione loidentifica come prodotto più stagionato equindi più pregiato. La produzione Lazialeè venduta in buona parte con questaconfezione ma, dato che, dell’intera quotadi pecorino marchiato e controllato dalGlobalizzazioneConsorzio di Tutela, non più del 5-6%è quella riferibile ai Laziali, si può bencapire che per dare un vantaggio a unaparte dei produttori si penalizza ben dipiù l’altra, i produttori Sardi.Il pecorino romano ha questo nomeperché nasce nel Lazio e deriva da unantico formaggio che faceva parte della“razione”degli antichi legionari romani.Fin dalla fine dell’ottocento però gli stessiproduttori Laziali spostarono in Sardegnaparte delle produzioni. Nel Lazio infattiscarseggiava la materia prima ed inoltrefu impedito di stagionare i formaggi all’internodella città di Roma dove eranoubicate la maggior parte delle “caciare”cioè delle cantine di salatura e stagionatura.Fu quindi normale nel 1953 con laconvenzione di Stresa, che riconosceva etutelava i prodotti tipici, individuare qualiuniche zone di produzione il Lazio, laSardegna e la provincia di Grosseto.Questi sono i dati storici e da qui chenasce, in modo inconfutabile, la paridignità che i sardi reclamano per il pecorinoromano prodotto in Sardegna.Se a questo aggiungiamo che ormai nelLazio le pecore sono in gran parte di razzaSarda, il disciplinare di produzione,ormai tutelato a livello comunitario conil riconoscimento della denominazioned’origine protetta, è unico, non si capisceperché gli industriali del Lazio devonoavere un particolare privilegio. Non pareil caso, come si potrebbe leggere fra lerighe di questo provvedimento, che gliindustriali del Lazio vadano “protetti”come “specie in via d’estinzione”. Gliindustriali sardi sono riusciti, in diversidecenni, a conquistare il mercato e lohanno fatto ad armi pari, magari favoritidalla maggior propensione alla pastoriziadella nostra regione, ma senza barare,cosa che invece sembra vogliano fare,grazie a un ministro compiacente, i colleghi“continentali. Né ci sembra degnadi replica la motivazione che essendo laSardegna in obiettivo uno abbia vantaggicommerciali di, addirittura, due € il chilo,perché quest’agevolazione non attienecertamente alla commercializzazione.Per concludere, se si vuole tornare al tavolodelle trattative credo che, in quellasede, si possa riconoscere volontariamente,e non perché dovuta, una qualcheforma di distinzione che consenta aiproduttori Laziali di avere un vantaggiocommerciale. Ma se si dovesse insisteresulle attuali posizioni, credo che non sipossa subire una simile prevaricazionee si dovrà andare verso un contenziosopresso gli organi comunitari.Giommaria Pinnaluglio agosto 2003 9