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Anton Giulio Majano. Il regista dei due mondi

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nell’intervista riportata nel libro). Oltre che naïf gli sceneggiati di <strong>Majano</strong><br />

erano un po’ lenti, ma se qualcuno glielo faceva notare era capace<br />

di rispondere: «E allora David Lean?». C’erano in lui un Matarazzo e un<br />

David Lean, ma non oso immaginare un Breve incontro diretto da <strong>Majano</strong>,<br />

magari con Alberto Lupo al posto di Trevor Howard. È possibile distinguere<br />

nei suoi lavori anche una vena sperimentale, soprattutto nei<br />

Figli di Medea, una specie di finto reality dove la trasmissione viene interrotta<br />

per annunciare che Enrico Maria Salerno è impazzito e ha rapito<br />

suo figlio. (<strong>Il</strong> precedente era La guerra <strong>dei</strong> <strong>mondi</strong> radiofonica di Orson<br />

Welles).<br />

Poi appunto ci sono gli sceneggiati, con la loro parte di “fumettismo”<br />

che faceva storcere la bocca ai letterati, non solo da noi . Mi raccontò <strong>Majano</strong><br />

che al bar della BBC un dirigente gli si rivolse in questi termini:<br />

«Quale nuovo crimine contro la letteratura inglese sta preparando Signor<br />

<strong>Majano</strong>?». E lui: «Un grosso crimine, Vanity Fair». L’inglese ci restò di<br />

sasso perché loro non avevano ancora pensato di portare Thackeray in tv.<br />

Parlando di teleromanzi, Gerosa mette in risalto gli aspetti più personali<br />

dello stile di <strong>Majano</strong>. Per esempio è convinto che nel suo modo di usare lo<br />

zoom ci sia qualcosa di proustiano (francamente non me ne ero accorto).<br />

<strong>Il</strong> prolifico <strong>regista</strong> trovava anche il tempo per scrivere racconti e romanzi.<br />

Ne conosco uno, Tre addii, del 1987, un giallo ambientato nel<br />

mondo della televisione, che diventerà anni dopo una fiction targata Mediaset.<br />

Mi colpì che ogni personaggio fosse caratterizzato dalla sua automobile,<br />

la vecchia Porsche del direttore della fotografia, la 126 della<br />

aiuto costumista, l’Alfa 164 verde oliva del commissario (del resto la<br />

passione per i motori era tipica di quella generazione: Risi, <strong>Anton</strong>ioni,<br />

Maselli, e chissà quanti altri). E poi dietro al <strong>regista</strong> c’era l’uomo, che ho<br />

conosciuto negli anni del tramonto, pieno di amarezza perché gli mancava<br />

il magico giocattolo che aveva fatto funzionare così bene: («Sono<br />

quattro anni che non faccio niente. Sono ridotto a lavorare di notte. Non<br />

vedo l’ora di chiudere gli occhi perché lavoro sognando: faccio le carrellate,<br />

i primi piani...»).<br />

Ora, anche grazie a questo libro, lo possiamo immaginare in altre età<br />

della vita. Ufficiale di cavalleria in Africa, che viene decorato da Rommel,<br />

a Napoli nel ’45 nella redazione di Radio Italia Libera, con Ghirelli,<br />

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