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Al ristorante Checco il carrettiere a Roma, Gianni Miná con (da sinistra) Gabriel García Márquez, Sergio Leone, Mohammad Alì e Robert De Niro
Se dovesse descrivere il suo “cibo della memoria” quale ricorda
con più emozione?
Oltre alle polpette di melanzane, il tortino di alici. Io sono nato
a Torino, ma da due genitori che avevano salde radici siciliane.
Mia madre, quando ero triste, mi faceva il tortino di
alici. Era così buono e consolatorio che ho smesso di mangiarlo,
anche se ne ho trovati di squisiti, perché nessuno aveva
il profumo di “quei” tortini di alici.
Ha un ricordo in particolare legato al cibo condiviso con gli
amici o con qualcuno dei personaggi che ha intervistato?
Uno su tutti, la condivisione del cibo in un campo profughi del
Chiapas, insieme a Rigoberta Menchù, Premio Nobel per la
pace 1992. L’avevo voluta seguire in questo viaggio tra la sua
gente perché mi ero appassionato alla sua storia e ci ho voluto
imbastire un documentario. Al seguito, come produttore,
avevo Loredana, la mia assistente che poi è diventata mia
moglie. Lì conobbi la miseria nera che non ha nulla a che fare
con la povertà che noi conosciamo. Questa gente, che non
aveva neanche gli occhi per piangere, volle condividere con
noi il proprio cibo, una brodaglia scura dove ogni tanto emergevano
zampe di gallina. Ma venne in soccorso mia moglie,
che aveva nascosto nei sacchi a pelo scatolette di tonno e
parmigiano per le emergenze. Lei e la troupe mangiarono bevendo
Pepsi Cola perché non si poteva bere neanche l’acqua.
Io non ce la feci.
Ha anche altre passioni?
No. La mia unica vera passione è stato il mio lavoro e gli ho
dedicato tutta la mia vita sacrificando, a volte, i miei affetti.
A febbraio del prossimo anno, prima di passare in TV,
sui canali Rai, uscirà nelle sale cinematografiche il documentario
intitolato Gianni Minà, una vita da giornalista.
Si segnalano inoltre altri due progetti editoriali di
prossima uscita: Bibbia del pugilato e Tutto Fidel Castro.
GIANNI MINÀ
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