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Matrimonio napoletano (1993) Matrimonio napoletano (1995)
Visti i rapporti sempre più difficili tra Israele e Palestina credo
sia molto difficile arrivare ad una soluzione pacifica.
Come sei riuscito a conciliare il dovere di cronaca con l’etica?
Mi sono sempre domandato se fosse giusto immortalare la sofferenza
altrui, ma credo che molto dipenda da come la rappresenti.
Prima di scattare una foto, ho sempre dialogato con le
persone per far accettare la mia presenza. Attraverso il racconto
di momenti drammatici si arriva alla mente e al cuore della gente,
si riescono a suscitare emozioni e a far riflettere. È stato importante
per me anche imparare a non portarmi appresso i fantasmi
della guerra, a non rimanere psicologicamente invischiato.
Secondo te, quali sono oggi le esigenze del fotogiornalismo?
Le esigenze di questo genere fotografico oggi sono molto cambiate,
le storie da raccontare sarebbero tante ma il rischio è di
fare una copia della notizia televisiva. Ho sempre desiderato essere
presente nei luoghi di guerra per capire la verità degli eventi
e per raccontare storie attraverso le immagini scattate sul posto.
Sei passato dalle foto di guerra ai reportage sulla camorra
o sul Palio di Siena: cosa ti ha spinto ad esplorare ambiti
così diversi?
È vero, negli anni mi sono cimentato in vari temi, ma le fotografie
di guerra in Palestina e in Afghanistan sono quelle
che mi hanno dato di più. Alcuni reportage sono nati dalla
casualità, altri dalla necessità di saperne di più su di un determinato
argomento. Bisogna avere una buona dose di curiosità
e la capacità di saper leggere e raccontare le cose
che accadono.
Che consigli daresti oggi ad un fotoreporter di guerra?
Quando scattiamo una fotografia trasmettiamo il nostro carattere
e, pur essendo una visione parziale della realtà, si
emettono giudizi dei quali siamo responsabili. Per questa ragione
bisogna sempre lavorare con onestà intellettuale e avere
la capacità di entrare nelle situazioni, di farsi accettare sul
fronte di guerra. Non ho mai presentato foto cruente per rispetto
della persona fotografata e dell’essere umano in generale.
Quanto incide nei tuoi scatti la capacità progettuale e
quanto conta invece l’istinto?
Le mie fotografie, per quanto basate su di un progetto, non
sono mai state riflessive. È stato quasi sempre l’istinto a guidarmi
e a permettermi di catturare l’attimo. Non mi interessa
la perfezione dell’inquadratura, ma una composizione chiara
e leggibile; degli aspetti estetici mi occupo solo in fase di editing.
Vorrei continuare a raccontare la realtà senza mistificazioni,
ma non è sempre possibile visto che oggi mi occupo di
una fotografia con finalità più commerciali.
FRANCESCO CITO
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