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Melchiorre Cesarotti e le trasformazioni del paesaggio ... - OpenstarTs

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Le citazioni petrarchesche sono evidentissime anche per chi, pur non essendo un<br />

devoto di Petrarca, ne conosca anche in parte la raccolta.<br />

Tuttavia, non pare sufficiente la giustificazione apposta in nota dall’autore,<br />

che dichiara pudico (augurandosi peraltro la riconoscenza dei <strong>le</strong>ttori) «d’aver fatto<br />

in guisa, che il Petrarca medesimo sia quello che fa l’elogio al Petrarca [poiché]<br />

niun’altro sti<strong>le</strong> avrebbe potuto adeguare quella insigne e<strong>le</strong>ganza, <strong>del</strong>icatezza, e<br />

unzione di sentimento, ch’è tutta di Lui». 16<br />

uesta spiegazione sembra rimanere, tutto sommato, alla superficie di una<br />

visione interiore <strong>del</strong> <strong>paesaggio</strong>, di una percezione che, senza nemmeno accorgersene,<br />

sacrifica l’immagine concreta, tangibi<strong>le</strong>, all’immagine trasmessa dalla<br />

<strong>le</strong>tteratura.<br />

Nei Colli Euganei Arquà parla sì con voce e labbra petrarchesche, ma, con questa<br />

voce e queste labbra, il piccolo borgo non descrive certo se stesso.<br />

Gli sti<strong>le</strong>mi riecheggiati e tessuti insieme da Barbieri appartengono infatti a<br />

liriche composte, in massima parte, quando il poeta d’Arezzo non risiedeva in<br />

terra veneta; inoltre, è in ogni modo molto diffici<strong>le</strong> riconoscere alla penna di Petrarca,<br />

incline alla sublimità <strong>del</strong>la generalizzazione e alla soavità <strong>del</strong>l’indistinto,<br />

il tratto di un’oggettiva esattezza rappresentativa.<br />

Gli sti<strong>le</strong>mi recuperati da Barbieri appartengono ad alcune tra <strong>le</strong> liriche più famose<br />

e struggenti, nell’alone melodico di indefinitezza che <strong>le</strong> contraddistingue,<br />

dei Rerum Vulgarium Fragmenta (i sonetti 61, 90, 159, 192, 279, 303, e la canzone<br />

126): sono quindi sti<strong>le</strong>mi che sfumano <strong>le</strong> linee di Arquà in pura onda evocativa.<br />

Ta<strong>le</strong> indefinitezza (che rischia di corrispondere all’illiceità <strong>del</strong> reimpiego di<br />

questi sti<strong>le</strong>mi nella descrizione di un luogo per cui non furono nemmeno lontanamente<br />

concepiti) non suscita peraltro nessun dubbio o esitazione in Barbieri.<br />

Il fatto che l’ «erbetta verde e i fior di color mil<strong>le</strong>», che <strong>le</strong> «frondi erbe ombre<br />

antri onde aure soavi» da lui convocati a dare voce ad Arquà non siano mai appartenuti,<br />

nell’intenzione di Petrarca, ad Arquà (<strong>del</strong> resto, potrebbero appartenere a<br />

16 Su questa forma di lode nei confronti di Petrarca (a suo dire insolita, ma graziosa), si pronuncia<br />

con favore Bettinelli, che però include nel giudizio comp<strong>le</strong>ssivamente positivo tributato ai<br />

Colli Euganei l’aggiunta di una riserva: imputa infatti a Barbieri la scorrettezza di aver descritto,<br />

nel passo che segue i versi dedicati a rievocare la figura di Petrarca, la casa <strong>del</strong> poeta ad Arquà<br />

come una dimora in rovina, degradata a causa <strong>del</strong>la trascuratezza dei contemporanei (cfr., per<br />

la missiva inviata da Bettinelli, V. zaCCaria, Sui poemetti giovanili <strong>del</strong>l’abate Giuseppe Barbieri con<br />

<strong>le</strong>ttere inedite di <strong>Cesarotti</strong> Barbieri e Bettinelli, cit., pp. 289-291). In effetti, la ragione sta per lo più<br />

dalla parte di Bettinelli, poiché già in quegli anni lo stato di conservazione <strong>del</strong>la dimora petrarchesca<br />

non versava esattamente nel<strong>le</strong> condizioni di incuria biasimate da Barbieri; un’analoga<br />

deformazione in negativo, tesa a sottolineare il disfacimento di quello che avrebbe dovuto essere<br />

il sacro monumento di una gloria naziona<strong>le</strong>, compare peraltro nella famosa <strong>le</strong>ttera <strong>del</strong>l’Ortis<br />

in cui Foscolo descrive la ‘gita’ compiuta ad Arquà da Jacopo insieme a Teresa: stigmatizzare<br />

gli Italiani per la mancanza <strong>del</strong><strong>le</strong> attenzioni che dovrebbero dispiegare intorno a quella che<br />

fu l’ultima abitazione di Petrarca non solo accentua l’intensità patetica <strong>del</strong>la rappresentazione<br />

(rispondendo anche al gusto per la poesia <strong>del</strong><strong>le</strong> rovine diffusa in Europa sulla fine <strong>del</strong> Settecento),<br />

ma anche, soprattutto nel romanzo foscoliano, va<strong>le</strong> a conferma <strong>del</strong>la genera<strong>le</strong> insipienza<br />

<strong>del</strong>la patria. ua<strong>le</strong> recente contributo sull’argomento, si veda l’articolo di a. ColoMbo, Fra segno<br />

<strong>le</strong>tterario e simbolo ideologico: Ugo Foscolo e <strong>le</strong> rovine <strong>del</strong>la casa <strong>del</strong> Petrarca, in «Studi e prob<strong>le</strong>mi di<br />

critica testua<strong>le</strong>», 71, 2005, pp. 189-213.<br />

una terra di <strong>le</strong>tteratura<br />

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