IL DIBATTITO - LietoColle
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«CON TUTTE LE DITA RECISE CADUTE»:<br />
UN APPUNTO SU DI ME E QUATTRO APPUNTI SU PORTA E ALTRI POETI<br />
1<br />
/io/<br />
Quelli che seguono sono solo appunti senza pretesa di coerenza, quasi note di diario, ed è proprio<br />
sfogliando uno dei miei vecchi quaderni, che ho potuto ricostruire e datare il mio primo incontro<br />
con Antonio Porta. L‟anno è il 1994. La scena è quella della mia adolescenza. Le distese di campi<br />
coltivati alternate da ceramiche della pianura emiliana. Il torpore dei paesini della provincia, brutti<br />
di una bruttezza ancora più dolorosa perché inconsapevole. Un ragazzo di sedici anni, interessato<br />
alla poesia, cresciuto in uno di questi paesi atroci, non ha davvero molte possibilità di incontrare<br />
interlocutori capaci di dargli consigli. Con la mia prima raccoltina di versi, rimasta poi<br />
fortunatamente inedita, mi presento dunque all‟ufficio dell‟unica persona che – nella mia (ora<br />
lancinante) ingenuità – mi sembrava poter rappresentare un‟autorità in materia di libri: la<br />
bibliotecaria del paese. Può sembrare l‟inizio di una storia patetica, eppure, proprio tra le quattro<br />
mura di quell‟ufficio ho sentito per la prima volta il nome di Antonio Porta. La bibliotecaria, infatti,<br />
che non era poi così sprovveduta, era stata un‟amica di questo «famoso poeta milanese» (disse così)<br />
che io ancora non conoscevo. Se un improvviso attacco di cuore non lo avesse portato via pochi<br />
anni prima, mi confessò, mi avrebbe indirizzato a lui. A distanza di quindici anni, ora che mi<br />
sembra di conoscerlo come se avessimo dialogato a lungo, so che Porta le avrebbe davvero lette<br />
quelle poesie e che mi avrebbe di certo scritto una lettera gentile, facendomi notare le ingenuità e<br />
consigliandomi qualche buon libro. La lettera non ci fu, eppure proprio quel nome – Antonio Porta<br />
– è forse una delle ragioni per cui, ancora oggi, continuo a scrivere e a occuparmi di poesia. È<br />
proprio partendo da Porta che ho iniziato a leggere, in un angolo di quella biblioteca di provincia,<br />
l‟antologia de I Novissimi e credo che la mia percezione di quei poeti, a tutt‟oggi, derivi dalla prima<br />
lettura à rebours di quel volume: una lettura che viola – nella pratica – l‟impostazione voluta da<br />
Alfredo Giuliani. Porta, infatti, nelle intenzioni del curatore, chiudeva l‟antologia, e la chiudeva con<br />
un testo, Aprire, che – come ha notato recentemente Sanguineti in occasione del convegno<br />
bolognese Antonio Porta: il progetto infinito – produce una sorta di «allegoria critica», che nega,<br />
concettualmente, la fine del libro, il suo chiudersi. Chiudendosi con Aprire, I Novissimi si fa opera<br />
meta-testualmente aperta. L‟ultima parola di quel volume è – e non a caso – “porta”, una porta<br />
aperta sul retro e da cui sono entrato – o sgattaiolato – per poi scoprire gli altri autori antologizzati.<br />
Non furono però solo I Novissimi ad aprirsi per me con Porta, ma la curiosità per un tipo di poesia<br />
molto diversa da quella che ero abituato a leggere e che identificavo con un termine oggi molto<br />
vago ma all‟epoca sufficientemente evocativo: sperimentale.<br />
Negli anni successivi lessi tutto quello che potevo, riempii molte lacune poetiche del mio<br />
Novecento, che si limitava ai grandi nomi italiani ed europei, e in un certo senso – per dirla con<br />
Montale – “attraversai” un secolo, almeno sulle pagine. Quando uscì il mio primo libercolo di<br />
poesia per le Edizioni L‟Obliquo, un piccolo ma attento editore verso cui m‟indirizzò Marco<br />
Belpoliti, la mia scrittura era trasformata, anche grazie alla lettura fulminante di Zanzotto, che per<br />
quel libretto si produsse in un curioso editing telefonico, intervenendo su un testo che gli avevo<br />
dedicato. Mi suggerì di tagliare il verso finale e di aggiungere – come titolo – un «bell‟asterisco»<br />
che «rende bene il senso d‟impronunciabilità del male che viene nominato». E così feci.<br />
A rileggerlo ora, quel libretto del ‟98, non mi sembra poi tanto male per un ventenne, pur immerso<br />
nel «coro di citazioni»(1) di un Novecento spettrale e incenerito. Non mi sono così stupito di<br />
trovarci anche lo spettro, o meglio, la traccia sindonica di Antonio Porta, in particolare<br />
nell‟immagine ossessiva delle dita tagliate che ricorre nell‟ultima parte, una serie di testi intitolata<br />
MAIUSCOLE (da dirsi in piedi):<br />
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