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Pisano, Lo strano caso del signor Mesina - Sardegna Cultura

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non l’ha avuta, ha tuttavia seguito una sorta di terapia<br />

preventiva, una cura che gli imponeva di mantenere<br />

una certa distanza di sicurezza dagli altri, carcerieri e<br />

carcerati.<br />

Per via dei suoi nove tentativi di evasione oltre che di<br />

condanne senza fine, è stato in quasi tutti i penitenziari<br />

italiani: dall’Asinara (dove c’era un direttore che dormiva<br />

tenendo un fucile accanto al letto) al manicomio criminale<br />

di Montelupo fiorentino, dalle Nuove di Torino<br />

al braccio speciale di Viterbo, dal carcere di massima sicurezza<br />

di Trani a Regina Coeli. Potrebbe scrivere una<br />

rabbrividente guida Michelin <strong>del</strong>le prigioni italiane.<br />

«Non hanno segreti per me. La peggiore è certamente<br />

quella di Buoncammino a Cagliari. Ma non scherzano<br />

neppure a Volterra, Porto Azzurro. Ho trascorso interi<br />

mesi in celle scavate dieci metri sotto terra, sotto il livello<br />

<strong>del</strong> mare. Tane dove sui muri cresce l’erba e tu sei costretto<br />

a vivere come un animale. Devi muoverti in continuazione<br />

per non morire di freddo, per evitare che l’umidità<br />

ti trasformi in un invalido. Condizioni di vita impossibili».<br />

Per “anni ventinove e giorni sette” <strong>Mesina</strong> accetta<br />

che queste siano le sue prigioni e rifiuta qualunque tipo<br />

di collaborazione. Nel marzo <strong>del</strong> ’90, quando il Tribunale<br />

di Sorveglianza di Torino gli nega la libertà condizionale,<br />

sa bene che il primo requisito per ottenerla è il<br />

cosiddetto “ravvedimento”. Pur sapendo quanto gli<br />

può costare una sparata <strong>del</strong> genere, dichiara di sentirsi<br />

quello di sempre, non rinnega affatto il passato. Il suo<br />

comportamento, che “evidenzia un graduale e totale ripristino<br />

<strong>del</strong> rispetto <strong>del</strong>le regole penitenziarie” è dettato<br />

solo in parte dal bisogno di tornare libero. Ha certa-<br />

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mente un suo peso l’età che incalza, la stanchezza, il desiderio<br />

di rivedere la madre. Al presidente <strong>del</strong> Tribunale<br />

che gli chiede incuriosito se ha beni di proprietà, risponde<br />

sicuro: «Non ho niente. Quelli che avevo, me li<br />

hanno sequestrati». Sequestrati, ha detto sequestrati?<br />

Per un attimo gli viene da ridere, avrebbe dovuto adoperare<br />

un altro verbo. Poi torna sulle sue e, a proposito<br />

di ravvedimento, fa presente: «Certo, è chiaro che non<br />

ripeterò gli sbagli che ho commesso. Badi però che se<br />

non mi fossi trovato in certe circostanze, non avrei fatto<br />

quel che ho fatto. I miei sono reati di sopravvivenza».<br />

Come vuole il rito, a quel punto il presidente <strong>del</strong> Tribunale<br />

domanda qual è il parere <strong>del</strong> <strong>signor</strong> procuratore generale.<br />

Il <strong>signor</strong> procuratore generale si alza lentamente<br />

dalla poltroncina di panno rosso, guarda dritto negli occhi<br />

l’imputato e annuncia: «Contrario. Siamo contrari<br />

alla concessione <strong>del</strong>la libertà condizionale».<br />

E <strong>Mesina</strong> resta in carcere ancora per un anno, a meditare<br />

sulle parole pronunciate quella mattina nell’aulafrigorifero<br />

<strong>del</strong> Tribunale di Torino. Forse avrebbe potuto<br />

essere un po’ più disponibile. Certo, non dichiararsi<br />

pentito ma insomma. <strong>Lo</strong> spiritello <strong>del</strong> duro a oltranza<br />

gli ha suggerito in aula parole di cui, più tardi, ha forse il<br />

coraggio di pentirsi solo con se stesso. Quando nessuno<br />

lo vede e lo sente, quando nessuno può immaginare che<br />

il balente <strong>Mesina</strong> sa essere anche un uomo disperato,<br />

aggrappato alla vita. Ma queste sono cose che non si<br />

debbono dire in giro, ne risentirebbe eccessivamente la<br />

figura <strong>del</strong> detenuto che non vuole compromettersi.<br />

Neanche con una dichiarazione di fede che, dopotutto,<br />

è soltanto una formula di rito; inutile ed effimera, vale<br />

giusto il tempo di recitarla quasi a memoria. «Sì, <strong>signor</strong><br />

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