Pisano, Lo strano caso del signor Mesina - Sardegna Cultura
Pisano, Lo strano caso del signor Mesina - Sardegna Cultura
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sala colloqui. Passano cinque-sei minuti, sufficienti a<br />
pensare che in un posto così un claustrofobico diventerebbe<br />
pazzo in un lampo. Arriva il comandante <strong>del</strong>la<br />
polizia penitenziaria. Cortese, sardo (come buona parte<br />
dei suoi colleghi), esordisce precisando che «<strong>Mesina</strong><br />
è come se non ci fosse: tranquillo, calmo calmo, mai<br />
che ci abbia dato noia». Prima cancellata, enorme. Il<br />
comandante preme un pulsante e inizia l’operazione di<br />
apertura alla moviola. Si finisce in un grande stanzone<br />
cieco, soffitti alti e unica via d’uscita un altro cancello<br />
che si trova dalla parte opposta, proprio di fronte.<br />
«Ancora un po’ di pazienza e siamo dentro il penitenziario»,<br />
avverte la guardia.<br />
Finora, dunque, si è trattato di attraversare sbarramenti<br />
preventivi. Nello stanzone senza finestre c’è un<br />
passaggio obbligato per i visitatori, un metal-detector<br />
dove (per evitare di perder tempo) si transita senza<br />
chiavi, senza monete, senza zaino, senza occhiali, senza<br />
un grammo di metallo. Altrimenti un fischio e un lampeggiante<br />
blu danno l’allarme.<br />
Nudi o quasi alla meta, dopo questa sorta di checkup<br />
che spinge verso un nuovo cancello. Movimentazione<br />
automatica. Oltre la porta, un immenso cortile grigio<br />
addolcito da alcune aiuole. Il braccio dove sta <strong>Mesina</strong> è<br />
in un caseggiato sulla sinistra, primo piano. Per arrivarci,<br />
bisogna fare una sosta operativa davanti a un ingresso<br />
sbarrato e attendere l’arrivo di un secondino che pesca<br />
con sicurezza da un cassetto di legno, appeso al<br />
braccio come un borsone, la chiave giusta.<br />
Le chiavi, di proporzioni medievali, sono decine: come<br />
fa a individuare in un secondo proprio quella che<br />
serve? Due rampe di scale si affacciano su un androne<br />
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chiuso da un’inferriata che rimanda ad altri androni, altre<br />
inferriate. Chissà se finiranno mai.<br />
Nella sala-colloqui, dove l’amministrazione carceraria<br />
mette a disposizione seggiole da camping e tavolino<br />
in plastica da picnic, arrivano i rumori sordi di<br />
chiavi che girano nelle serrature e il sinistro concerto<br />
di apertura-chiusura gabbie. La porta ha uno spioncino<br />
che consente la vigilanza in via permanente, l’ambiente<br />
– un’aula scolastica anni ’50 con la tinta lucida a<br />
mezzo muro, per non sporcare l’imbiancatura – è tutta<br />
un rimbombo. Per riuscire a capirsi, occorre parlare<br />
forte, scandire bene le parole. Graziano, che ha perduto<br />
il leggendario udito di gioventù (quello che gli segnalava<br />
a distanza l’avvicinarsi di un carabiniere), tiene<br />
la testa piegata e l’interlocutore vicino: solo così riesce<br />
a sentire senza eccessivo sforzo: «Sordo, io? Mannò, è<br />
che in questa stanza c’è l’eco». Vero, ma è altrettanto<br />
vero che i timpani hanno perduto quei sensori divenuti<br />
vitali durante la lunga stagione da latitante.<br />
Quarant’anni di prigione hanno fatto di <strong>Mesina</strong> un<br />
esperto di questioni carcerarie, un involontario storico<br />
<strong>del</strong>l’antropologia detentiva, un professore <strong>del</strong>la materia.<br />
Che scardina fin nei suoi più sacri principi: «Io dico, e<br />
posso dimostrarlo, che nessun penitenziario riuscirà a<br />
recuperare nessuno. Nessuno di nessuno si può salvare.<br />
Quella <strong>del</strong>la rieducazione è una balla, anzi una beffa.<br />
Chi rieduca chi? Ognuno gestisce se stesso e la propria<br />
vita. Quando ce la fa, se ce la fa». Assicura che il vero<br />
problema è reggere, stare a galla. Ci vuole tempo, molto<br />
tempo, per educarsi alla vita tra le sbarre, imparare ad<br />
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