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A piccoli passi - percorso di riflessioni - Ofelon

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RICCARDO SABELLOTTI<br />

A PICCOLI PASSI<br />

PERCORSO DI RIFLESSIONI<br />

O<br />

www.ofelon.org<br />

GIACINTO SABELLOTTI<br />

• lotta fra rivali; il caso più classico è dato dai maschi che si battono per<br />

il possesso delle femmine, in cui lo scopo non è la morte, ma la<br />

sottomissione dell’avversario (che potrebbe essere anche un membro<br />

del proprio branco e magari un parente stretto).<br />

Nella prima forma, un predatore, se vuole nutrirsi, non può evitare <strong>di</strong><br />

uccidere la propria preda e per la preda, d’altro canto, nessuna <strong>di</strong>fesa è troppo<br />

rischiosa, visto il pericolo che corre; nella seconda forma, invece, l’uccisione<br />

dell’avversario non solo non è necessaria, ma se si tratta <strong>di</strong> un membro del<br />

proprio gruppo sarebbe ad<strong>di</strong>rittura dannosa; è inoltre evidente che anche per il<br />

soccombente risulta conveniente ritirarsi prima <strong>di</strong> farsi veramente male o<br />

rischiare <strong>di</strong> essere ucciso.<br />

L’insegnamento che ancora una volta dobbiamo trarre dalla natura è il<br />

seguente: nella lotta fra rivali lo scontro, anche violentissimo, è una prova <strong>di</strong><br />

forza e non un attentato alla vita dell’avversario, il quale in genere ne esce un<br />

po’ malconcio, ma vivo. Si noti inoltre che in natura spesso sono presenti<br />

precisi rituali <strong>di</strong> minaccia per evitare, quando possibile, lo scontro fisico.<br />

Nelle comunità umane <strong>di</strong> tutti i tipi, comprese quelle tribali, ritroviamo<br />

queste due forme <strong>di</strong> lotta: le prede vengono uccise senza pietà come fanno tutti<br />

i predatori e le loro spoglie vengono <strong>di</strong>vise fra i cacciatori e le loro famiglie,<br />

mentre all’interno della comunità non mancano scontri anche molto violenti,<br />

però regolati da precisi rituali, nei quali si evita <strong>di</strong> uccidere l’avversario.<br />

Se ora consideriamo una guerra, è subito evidente che i due schieramenti<br />

combattono fra loro non come rivali in amore o avversari sportivi, ma come se<br />

appartenessero a specie <strong>di</strong>fferenti; in guerra si combatte per uccidere oppure si<br />

verrà inevitabilmente uccisi. Le popolazioni cannibali ad<strong>di</strong>rittura mangiavano i<br />

loro avversari sconfitti, <strong>di</strong>videndone i resti come si usa con le prede animali; in<br />

casi meno estremi, gli sconfitti venivano comunque spogliati dei vestiti, delle<br />

armi e <strong>di</strong> tutto ciò che potesse avere un valore; uno stesso atteggiamento<br />

predatorio si riscontra poi durante i saccheggi ai villaggi o alle città nemiche.<br />

Numerosi dunque sono gli atteggiamenti che in<strong>di</strong>cano che il rapporto con<br />

il nemico è del tipo uomo-animale (intendendo per animale sia una preda che<br />

un predatore) e non uomo-uomo.<br />

Continuando a <strong>di</strong>mostrare come la guerra sia un fenomeno tipicamente<br />

umano, in cui si riscontrano tutte le strategie evolutive e culturali, sorge però un<br />

problema: come è possibile che l’uomo, selezionato da milioni <strong>di</strong> anni <strong>di</strong><br />

evoluzione naturale per vivere socievolmente in comunità, abbia combattuto e<br />

continui a combattere tante sanguinosissime guerre fratricide? La risposta va<br />

cercata nella natura della cultura umana e nelle <strong>di</strong>fferenti vie attraverso le quali<br />

si esprime. Per trascinare un popolo in guerra è necessario sviluppare un<br />

sistema che inibisca i suoi naturali istinti sociali; il sistema più semplice, da<br />

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